Copertina
Autore Georges Simenon
Titolo Luci nella notte
EdizioneAdelphi, Milano, 2005, Biblioteca 469 , pag. 170, cop.fle., dim. 140x220x14 mm , Isbn 978-88-459-1949-7
OriginaleFeux rouges [1953]
TraduttoreMarco Bevilacqua
LettoreAngela Razzini, 2005
Classe narrativa francese , gialli
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Pagina 9

Lui lo chiamava entrare nel tunnel. Era un'espressione sua, di cui si serviva solo nella sua testa e non usava con nessuno, meno che mai con la moglie. Sapeva esattamente cosa voleva dire, in che cosa consisteva trovarsi nel tunnel, ma curiosamente quando c'era dentro si rifiutava di ammetterlo, salvo di tanto in tanto, solo per qualche istante e sempre troppo tardi. Aveva provato spesso, a posteriori, a individuare il momento preciso in cui accadeva, ma senza riuscirci.

Quel giorno, per esempio, aveva cominciato il week-end del Labor Day di ottimo umore. Come altre volte, del resto. Era già successo anche che un fine settimana iniziato benissimo andasse a finire male. Ma non c'era alcun motivo perché fosse inevitabile.

Era uscito dall'ufficio di Madison Avenue alle cinque e tre minuti dopo si era incontrato con sua moglie nei solito bar della Quarantacinquesima Strada; lei era arrivata prima e senza aspettarlo aveva ordinato un martini. Nel locale le luci erano basse e pochi i clienti abituali. In realtà non vide facce conosciute perché quel venerdì, ancora più degli altri, la gente si precipitava a prendere treni e automobili per andarsene al mare o in campagna. Nel giro di un'ora New York si sarebbe svuotata e nei quartieri ormai silenziosi sarebbero rimasti soltanto uomini in maniche di camicia e donne senza calze sedute davanti alla porta di casa.

Non pioveva ancora. Fin dal mattino, e già da tre giorni, il cielo era coperto e l'aria così pregna di umidità che si poteva fissare il sole giallo pallido come attraverso un vetro smerigliato. Ora il servizio meteorologico annunciava temporali locali e prometteva una notte più fresca.

«Stanco?».

«Non troppo».

D'estate, quando i bambini erano al campeggio, si ritrovavano tutte le sere alla stessa ora, sempre sugli stessi sgabelli; Louis si limitava a dare loro una strizzata d'occhio e li serviva senza aspettare che ordinassero. Non sentivano il bisogno di parlarsi subito. Uno dei due porgeva all'altro una sigaretta. Talvolta Nancy spingeva verso di lui la ciotola delle noccioline, altre volte era lui a passarle le olive, e lo sguardo di entrambi si posava distrattamente sul piccolo quadrante bluastro del televisore appeso in alto, in un angolo del locale. Immagini in movimento. Una voce commentava una partita di baseball, oppure una cantante si esibiva. Non aveva importanza.

«Avrai il tempo di farti una doccia prima di partire».

Era il suo modo di occuparsi di lui. Non dimenticava mai di chiedergli se era stanco, guardandolo come si guarda un bambino che sta covando una malattia o è di salute cagionevole. A Steve dava fastidio. Sapeva di non avere un bell'aspetto a quell'ora, con la camicia incollata addosso, la barba che cominciava a spuntare e sulla pelle inumidita dal caldo sembrava anche più scura. E Nancy doveva già aver notato gli aloni di sudore sotto le ascelle.

Ma la cosa che lo irritava di più era il fatto che lei fosse fresca come quando era uscita di casa la mattina, senza una piega di troppo sul tailleur leggermente inamidato: nessuno, vedendola, avrebbe immaginato che avesse trascorso la giornata in ufficio; la si poteva scambiare per una di quelle donne che si alzano alle quattro del pomeriggio e compaiono solo all'ora dell'aperitivo.

Louis chiese:

«Andate a prendere i bambini?».

Steve assenti.

«Nel New Hampshire?».

«Maine».

Quanti genitori, a New York e dintorni, si sarebbero messi in strada quella sera per andare a prelevare i figli in un campeggio del Nord? Centomila? Duecentomila? Forse di più. Sicuramente da qualche parte sul giornale davano la cifra esatta. Al conto andavano poi aggiunti i ragazzini che avevano trascorso l'estate da una nonna o da una zia, in campagna o al mare. Lo stesso rito ovunque, da un oceano all'altro, dalla frontiera canadese a quella con il Messico.

Sullo schermo del televisore un tizio in maniche di camicia, con un paio di occhiali dalla spessa montatura di tartaruga che sembrava fargli caldo, annunciava con tetra enfasi:

«Il National Safety Council prevede che questa sera sulle strade ci saranno tra i quaranta e i quarantacinque milioni di automobili e stima che, entro lunedì sera perderanno la vita a causa di incidenti stradali circa quattrocentotrentacinque oersone».

E, prima di essere sostituito dalla pubblicità di una birra, concludeva, lugubre:

«Cercate di non essere tra questi. Guidate con prudenza».

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«Ti spiace guardare la strada?».

«Ma sicuro, guarderò la strada, guiderò con calma e con prudenza, così non rischieremo di uscire dai binari. Capisci di quali binari sto parlando?».

Di colpo quel che aveva detto gli sembrò acutissimo, di una verità lampante. Anzi, quasi una scoperta: ecco che cosa non andava in Nancy, il fatto che seguiva i binari, senza mai un pizzico di fantasia.

«Non capisci?».

«Devo proprio?».

«Cosa? Sapere che cosa ne penso io? Dio mio, forse potrebbe aiutarti a fare uno sforzo per capire gli altri e rendergli la vita più sopportabile. A me, soprattutto. Ma dubito che questo ti interessi».

«Non mi lasceresti guidare?».

«Certo che no. Se per un istante, anziché pensare solo a te stessa ed essere sempre convinta di avere ragione, ti guardassi una buona volta allo specchio e ti chiedessi...».

Si sforzava faticosamente di esprimere quello che provava, quello che era sicuro di aver provato ogni giorno della sua vita da undici anni a quella parte, da che erano sposati.

Non era la prima volta che gli succedeva, ma ora era convinto di aver fatto una scoperta che gli avrebbe consentito di spiegare tutto. Nancy avrebbe ben dovuto capire un giorno o l'altro, no? E quel giorno forse si sarebbe decisa a trattarlo finalmente da uomo.

«Che cosa c'è di più stupido di un treno che segue sempre lo stesso percorso, gli stessi binari all'infinito? Be', poco fa, sulla parkway, mi sembrava di essere un treno. Le altre macchine si fermavano dove capitava e ne scendevano uomini che non dovevano chiedere il permesso a nessuno per andarsi a bere una birra!».

«Hai bevuto una birra?».

Esitò, preferì essere sincero.

«No».

«Un martini?».

«Sì».

«Doppio?».

Essere costretto a rispondere lo mandava in bestia.

«Sì».

«E prima?» insistette Nancy come sempre.

«Prima quando?».

«Prima di partire».

«Non capisco».

«Che cos'hai bevuto quando sei andato a fare benzina?».

Questa volta mentì.

«Niente».

«Ah!».

«Non mi credi?».

«Se è così, il martini doppio ti ha fatto più effetto del solito».

«Pensi che sia ubriaco?».

«In ogni caso parli come quando hai bevuto».

«Dico stupidaggini?».

«Non so se sono stupidaggini, ma mi detesti».

«Perché non vuoi capire?».

«Capire che cosa?».

«Che non ti detesto, che anzi ti amo, che sarei assolutamente felice con te se tu accettassi di trattarmi come un uomo».

«Lasciandoti bere in tutti i bar che incontriamo?».

«Lo vedi!».

«Vedo cosa?».

«Scegli le frasi più umilianti. Fai apposta a presentare le cose in modo meschino. Sono forse un ubriacone?»

«No di certo. Non avrei mai sposato un ubriacone».

«Bevo spesso?».

«Di rado».

«Neanche una volta al mese. Forse una volta ogni tre mesi».

«Allora che cosa ti succede?».

«Non mi succederebbe niente se tu non mi guardassi come l'ultimo dei reietti. E se una sera ho voglia di evadere un poco dalla solita vita...».

«Ti pesa?».

«Non ho detto questo... Prendi Dick, per esempio... Non c'è sera che non vada a dormire senza essere più o meno alticcio... Eppure tu lo consideri un tipo interessante, e anche quando ha bevuto con lui fai grandi discorsi...».

«Prima di tutto non è mio marito».

«E poi?».

«Abbiamo un camion davanti».

«L'ho visto».

«Sta' zitto un momento. Tra poco arriviamo a un incrocio e vorrei riuscire a leggere cosa c'è scritto sui cartelli».

«Ti secca parlare di Dick?».

«No».

«Sei pentita di non aver sposato lui al posto mio?».

«No».

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Pagina 67

Ancor prima di aprire gli occhi si rese conto con stupore della propria immobilità. Non ricordava la corsa in auto né aveva idea di dove si trovava, ma un vago istinto gli suggeriva che c'era qualcosa di anormale, perfino di minaccioso in quella condizione.

Si mosse leggermente e sentì un dolore acuto alla nuca; gli pareva di avere migliaia di aghi conficcati nella carne; pensò di essere ferito, il che spiegava la sensazione di pesantezza alla testa.

Contemporaneamente, attraverso le palpebre ancora chiuse percepì il chiarore del sole.

Avrebbe giurato di non aver dormito e, poiché non aveva mai perso coscienza del monotono rollio della macchina, a maggior ragione non riusciva a capire quel vuoto di memoria.

Ora però il movimento era cessato. Era certo di essere ferito o malato e aveva paura di accertarsene, perché di sicuro non sarebbe stato piacevole, quindi cercava di rimandare il momento in cui avrebbe affrontato la realtà, sforzandosi di sprofondare ancora nel torpore.

Ci era quasi riuscito, e stava già riaffondando nell'incoscienza, quando udì il suono di un clacson, vicinissimo e acuto come non ricordava di aver mai sentito, e un'auto sfrecciò lacerando l'aria. Subito dopo fu la volta di un camion, da cui penzolava una catena che saltando sull'asfalto produceva un rumore di campanelli.

Gli parve perfino di sentire delle campane vere in lontananza e, più vicini, il cinguettio degli uccelli e il fischio di un merlo; ma doveva essere un'allucinazione, così come l'azzurro irreale del cielo su cui si stagliavano due piccole nuvole scintillanti.

Ma anche l'odore del mare e dei pini era un'allucinazione? E quel saltellare nell'erba che a lui sembrò quello di uno scoiattolo?

Cominciò a tastarsi attorno, ma, anziché il soffice tappeto erboso che si aspettava, la sua mano riconobbe il logoro tessuto dei sedili dell'auto.

Come per sfida aprì gli occhi di colpo e fu abbagliato dalla luce del mattino più splendente che avesse mai visto.

Fra un'auto e l'altra, che passando producevano una ventata d'aria fresca, il silenzio era rotto solo dal canto degli uccelli. Steve si stupì che lo scoiattolo ci fosse davvero: ora se ne stava sul tronco color bronzo di un pino, a mezz'altezza, e lo osservava con un paio di occhietti tondi e curiosi.

L'umidità del terreno evaporava per via di un caldo da giornata estiva e salendo faceva tremolare l'aria; la luce gli penetrava così a fondo negli occhi che per un attimo ebbe un senso di vertigine, mentre risentiva in bocca il retrogusto nauseante del whisky.

Si trovava in macchina, da solo, e non sul sedile del passeggero, ma al posto di guida. La strada, ampia, liscia, imponente, sembrava costruita per una marcia trionfale, con tre corsie per senso di marcia delimitate da strisce bianche e, su entrambi i lati, boschi di pini a perdita d'occhio; verso destra l'azzurro del cielo diventava color madreperla: poco lontano da lì, l'orlo spumeggiante del mare doveva infrangersi sulla spiaggia.

Quando provò a raddrizzare il suo corpo indolenzito, lo stesso dolore di prima lo attanagliò alla nuca dalla parte del finestrino aperto; non ebbe bisogno di tastarsi la pelle con la mano per sapere di non essere ferito. Aveva semplicemente preso freddo. La camicia era ancora intrisa dell'umidità della notte. Tirò fuori una sigaretta dalla tasca e la accese, ma aveva un sapore disgustoso, e lui fu lì lì per gettarla. Continuò a fumare solo perché tenerla fra le labbra, aspirare e mandare fuori il fumo con i gesti di sempre gli dava la sensazione di essere tornato alla vita.

Per uscire aspettò l'intervallo fra un'auto e l'altra. Adesso le macchine si succedevano a un ritmo regolare, ben diverso da quello del giorno precedente, a New York, e anche da quello della notte appena passata. Qui erano quasi tutte targate Massachusetts, e a bordo c'erano persone vestite di colori chiari, gli uomini in camicie variopinte, le donne in pantaloncini, alcune in costume da bagno. Notò sui tetti sacche da golf e canoe.

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