Copertina
Autore Ettore Siniscalchi
Titolo Zapatero
SottotitoloUn socialismo gentile
Edizionemanifestolibri, Roma, 2007, Contemporanea , pag. 272, cop.fle., dim. 14,4x21x1,7 cm , Isbn 978-88-7285-462-4
PrefazioneWalter Veltroni
LettoreFlo Bertelli, 2007
Classe politica , paesi: Spagna , biografie , destra-sinistra
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Indice

 Prefazione                                           7
 di Walter Veltroni

 Introduzione                                         9

 1. Via dall'Iraq                                    15


 2. Un giovane spagnolo dalla fine della             31
    dittatura alla parabola di Felipe

    - La Costituzione democratica
    - La scalata nel partito
    - La fine dell'era González

 3. La corsa per la segreteria                       53

    - Dalla sconfitta al crollo
    - Rinnovarsi o perire
    - La Campagna per la segreteria
    - Nueva vía
    - Un modo di fare politica
    - Motivazioni della vittoria
    - Una questione generazionale

 4. Il Pp di Aznar e il Psoe di Zapatero             73

    - Dal 2000 alla seconda Guerra del Golfo
    - La costruzione del Psoe di Zapatero e
      la maggioranza assoluta del Pp
    - Il secondo governo Aznar e
      il richiamo della foresta
    - L'affondamento della Prestige e lo schianto
      dello Yak 42: l'efficienza del governo alla
      prova dei disastri
    - La Guerra dell'Iraq

 5. Verso le elezioni: una campagna elettorale       95

    lunga un anno
    - Addio "opposizione tranquilla"
    - Le elezioni catalane
    - La campagna per le politiche
    - La Spagna al voto tra incertezze e cambiamenti

 6. Le bombe e il voto                              107

    - 12 Marzo
    - ΏQuien ha sido?
    - 13 marzo
    - 14 marzo
    - Genesi di un voto

 7. Il socialismo ciudadano                         129

    – Le politiche del lavoro
      (Teoria e prassi di governo)

 8. La Espaρa plural                                143

    – I Nazionalismi spagnoli
    - L'inavvertito declino delle nazioni
    – Come può uno scoglio arginare il mare?
      Successi e fallimenti delle politiche
      linguistiche nell'esempio catalano
    - La politica nazionalista di Aznar
    - Zapatero e la questione territoriale
    - La resistenza nel Psoe

 9. L'ultimo conflitto armato d'Europa              165

    – Breve storia dell'Eta
    - Socialismo o nazionalismo?
    – Il processo di pace in embrione
    - La storia di Ramón, di sua moglie Pilar e
      di Kandido, un terrorista che un tempo era
      un bambino
    – Contro il negoziato

10. Il governo e la Chiesa                          189

    – La Chiesa nella società
    - La Chiesa manifestante
    – I cattolici si dividono sulle riforme e
      sul ruolo della Chiesa
    – Il dialogo tra il governo e la Chiesa e
      la riforma del finanziamento

11. La violenza machista                            213

    – La discriminazione salariale

12. Radio, televisioni e giornali                   223

    – La politica fatta dalla stampa:
      la guerra tra i giornali di destra
    – El Mando, La Cope e le «verità nascoste»
      dell'11 M
    – La riforma di Rtve e il drastico piano
      di risanamento

13. La politica estera                              249


14. Due riforme. Educazione e matrimonio civile     261

    – Ley Orgánica de Educación
    - Il nuovo matrimonio


 

 

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Pagina 9

INTRODUZIONE



Quando, la sera del 14 marzo 2004, la vittoria elettorale era ormai sicura e Zapatero uscì dalla sede del Psoe per fare un breve discorso, dalla folla che si era accalcata nella stretta calle Ferraz un gruppo di ragazzi gli urlò – quasi un'intimazione – «‘No nos falle!», «Non deluderci!».

Due anni e mezzo dopo, in un'inchiesta d'opinione svolta fra i cittadini europei, Zapatero è stato valutato come il leader politico che sta compiendo meglio il suo lavoro, seguito da Angela Merkel e Tony Blair.

A quei ragazzi Zapatero rispose chiudendo il suo intervento con la frase «Ve lo assicuro, il potere non mi cambierà».

Cosa non deve cambiare, in cosa Zapatero è diverso?

José Luis Rodriguez Zapatero è diventato presidente del governo spagnolo a tre giorni dal sanguinario attentato col quale il terrorismo integralista islamico ha fatto irruzione nel territorio europeo. La Spagna era il centro del mondo in quei giorni.

Le sue decisioni politiche hanno fatto molto parlare e hanno avuto effetti immediati sulla politica internazionale e sulla vita degli spagnoli. Di colpo, tutti si sono accorti di lui. Θ diventato il fatto nuovo della politica europea.

Eppure era un outsider. Quando, quattro anni prima, divenne segretario del Psoe, molti spagnoli neanche lo conoscevano.

Il percorso politico di Zapatero è stato rapido e travolgente ma non casuale, la sua carriera nel Psoe discreta e fulminante. Iscrittosi a diciotto anni, dopo pochi mesi dirige la federazione giovanile leonese, a ventisei diviene il più giovane deputato del congresso, a ventotto segretario della federazione di León, a trentanove segretario nazionale. Fino alla fine degli anni '90 resta una figura di secondo piano del partito. Con la sua capacità di limare i conflitti, ideologici e personali, fra i compagni di partito si fa strada fino a conquistare la segreteria nazionale, mantenendola per quattro anni, imponendo la sua linea politica, ma soprattutto il suo stile. Riportando, infine, il Psoe al governo del paese.

Zapatero ha fatto il suo percorso politico in un contesto di crisi della politica e del socialismo spagnoli, riuscendo a dare risposte tutt'altro che strumentali.

Alla crisi della politica non ha risposto con l'antipolitica ma con la passione politica e la ridefinizione di confini etici ai quali l'agire politico deve rifarsi.

Alla crisi del socialismo spagnolo — macchiato dagli scandali e flagellato da guerre intestine, in crisi di credibilità e di progetto — ha risposto recuperandone i temi ideali ma coniugandoli con la mutata realtà del mondo contemporaneo: l'accettazione dell'economia liberale, la globalizzazíone, l'accento sui diritti individuali al posto di quelli collettivi o di classe.

Soprattutto, ha proposto il suo modo di fare politica: la passione, il rispetto delle idee, la visione della politica come indispensabile luogo di mediazione e sintesi dei diversi interessi, l'impronta etica dell'agire politico quotidiano.

Riuscendo a comunicare un'immagine diversa dagli altri politici, pur essendo egli parte del ceto politico; diventando un modello di diversità che rispondesse alle richieste della cittadinanza, in primo luogo ai delusi della sinistra che ingrossavano le fila degli astensionisti, ma che potesse essere accolto anche dai moderati di centro.

In Italia su Zapatero si sono schierati politici e commentatori, creando un buffo fenomeno: quello degli zapateristi e degli antizapateristi.

Il ritiro delle truppe dall'Iraq, la riforma del matrimonio civile, la riforma della scuola, sono state usate di volta in volta per gridare alla crociata anticattolica, per esaltare il campione dei diritti civili, per stigmatizzare la resa al terrorismo internazionale.

Dal centrodestra è utilizzato per rappresentare l'estremismo della sinistra al governo. Nel centrosinistra è per alcuni un faro, per altri una spina.

Θ evidente come anche nell'opinione pubblica ci sia interesse per l'uomo e la vicenda politica. C'è molta curiosità assieme a sentimenti contrastanti di simpatia e rifiuto. La domanda principale che ci si pone è se Zapatero possa costituire un modello per la sinistra italiana.

Io ritengo che tale domanda non sia corretta, perché le esperienze politiche rispondono alle condizioni determinate dal contesto nel quale si formano. Nondimeno, è in atto una riflessione profonda nella sinistra europea e la politica di Zapatero pone numerose questioni con le quali confrontarsi.

L'approccio della politica italiana — come anche dell'informazione — è, però, strumentale, funzionale alle polemiche politiche interne. Quando si guarda a Zapatero, non si guarda a un'esperienza politica. Zapatero è un simbolo. Utilizzabile in senso negativo o positivo, da destra e da sinistra, senza riferimenti concreti alla reale esperienza politica che rappresenta.

Se il ragionamento venisse fatto con più onestà intellettuale, le riflessioni sarebbero molto diverse, come anche i giudizi. E, probabilmente, sorprendenti.

Zapatero ha ritirato le truppe dall'Iraq, ritiene il ricorso alla guerra una sconfitta, ma non è un pacifista e mantiene il contingente afgano. Lo sviluppo dello stato sociale è uno dei pilastri della politica del suo governo ma ritiene che i diritti individuali siano preminenti su quelli collettivi. Considera chiuso lo scontro tra dirigismo statale e economia liberale in favore della seconda ma è orgogliosamente socialista. Ha iniziato un piano di abbandono della produzione di energia nucleare ma non è un ecologista. Θ moderato in economia ma radicale sui diritti individuali.

Il rapporto con la chiesa spagnola, il "matrimonio gay", la politica territoriale, sono elaborazioni che affrontano tematiche specifiche della Spagna, che rispondono a domande e sollecitazioni della società spagnola.

Zapatero ha elaborato una politica sulla base di una riflessione su temi importanti. I limiti della socialdemocrazia, il libero mercato, la questione dei diritti, i cambiamenti sociali della rivoluzione tecnologica, la globalizzazione; quali sono i conflitti di oggi, quali i problemi delle società contemporanee, come si governano; come si combattono le sperequazioni e le disuguaglianze; cosa è la cittadinanza, cosa lo Stato, cosa la nazione; il conflitto di genere, le nuove figure sociali. Quella di Zapatero è una riflessione politica sul mondo contemporaneo. Un percorso in atto: un'idea della politica che ha portato a una proposta politica ai cittadini, che l'hanno accolta. E adesso è un governo che guida un paese per il quale ha un progetto, che fa delle leggi, che ha degli obiettivi.

Questo libro vuole raccontare il percorso politico di Zapatero nel contesto spagnolo. Narrando gli avvenimenti che hanno segnato la Spagna nel suo percorso verso el Cambio, illustrando alcuni dei grandi temi politici e sociali con cui la Spagna di oggi si deve confrontare e analizzando come vengono affrontati nella pratica di governo. Descrivendo, infine, cosa sia il Socialismo ciudadano, quel "Socialismo dei cittadini" che per Zapatero deve ridisegnare obiettivi e pratiche della sinistra nel mondo globalizzato.

Il libro è, quindi, in parte una biografia dell'uomo politico e in parte un racconto della Spagna recente, con finestre aperte su quei passaggi storici ai quali mi sembrava necessario almeno accennare per rendere meglio comprensibili i fatti di oggi. Un racconto per forza di cose incompleto. Molti temi sono rimasti fuori ma la ricerca non era quella della completezza bensì della rappresentatività delle questioni, scelte per la loro rilevanza e per la capacità di comunicare il senso delle scelte politiche nella Spagna odierna.

Quello che questo lavoro si propone, in definitiva, è di fare un racconto della "Spagna di Zapatero" che consenta ai lettori di avere più elementi per compiere una riflessione, nella loro autonomia di giudizio.

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VIA DALL'IRAQ



La Sala delle Colonne della Moncloa, il complesso di palazzine nel verde che ospita la residenza del presidente del governo e la sede dell'esecutivo, è gremita di giornalisti. Θ domenica 18 aprile e la mattina prima José Luis Rodríguez Zapatero aveva giurato davanti al re, prendendo possesso della carica.

L'ufficio stampa ha convocato i giornalisti alle sei del pomeriggio, per una «importante dichiarazione» del presidente, senza aggiungere altro.

Ben prima dell'ora convenuta la sala, sita nell'edificio dove si tiene il Consiglio dei ministri, è colma di giornalisti, curiosi di vedere il neo presidente al suo debutto.

L'arredo è sobrio: una grande bandiera spagnola sullo sfondo, nessun tavolo e solo un'asta a sorreggere un microfono. Malgrado il mistero sull'oggetto della prima comunicazione presidenziale, nessuno si aspetta che si tratti di qualcosa di veramente importante. Anche se, durante la mezz'ora di ritardo che si va accumulando, comincia a circolare la voce che l'appuntamento possa riguardare la guerra irachena.

Tra i giornalisti si comincia a speculare sul fatto che Zapatero abbia trovato l'uovo di Colombo: la difficile formula per coniugare la promessa di ritirare le truppe una volta vinte le elezioni con la necessaria dimostrazione di "realismo politico", ovvero un sostanziale rinnovo dell'impegno delle truppe spagnole.

Quando Zapatero entra nella sala da un'entrata laterale, seguito dalla vice presidente Maria Teresa Fernàndez de La Vega, dal ministro della difesa José Bono e dal capo di Stato maggiore della Difesa, l'ammiraglio Antonio Moreno Barberà, i giornalisti capiscono che, effettivamente, si sarebbe parlato di Iraq. Nessuno però immagina quello che di lì a poco sarebbe stato comunicato.

Zapatero si guarda intorno, sembra concentrarsi brevemente, come per scacciare la tensione. In mano ha due fogli stampati, poi con voce solenne comincia a leggerne il testo, andando subito al sodo:

«Stamattina, appena il ministro della Difesa ha giurato per il suo incarico, gli ho dato ordine di disporre quanto necessario affinché le truppe spagnole di stanza in Iraq ritornino a casa, nel minor tempo e nella maggior sicurezza possibile».

Θ una vera bomba. Zapatero è presidente da appena ventiquattro ore e nessuno immaginava che la sua prima decisione politica sarebbe stata di tale portata.

Nel mese passato dalla vittoria elettorale i commentatori avevano fatto diverse ipotesi su come si sarebbe comportato rispetto alla questione irachena, perlopiù speculando sulle modalità attraverso le quali avrebbe fatto in modo di non adempiere a quella che, coronando una dura e intransigente opposizione all'avventura militare spagnola a fianco degli Stati Uniti, era divenuta la principale promessa elettorale, fatta poco dopo lo scoppio della guerra e solennemente riconfermata in febbraio, un mese prima delle elezioni.

Inoltre, apparentemente, non c'era nessuna fretta. Lui stesso si era dato tempo fino al trenta giugno, data in cui scadeva il mandato firmato da Aznar per la missione militare Plus Ultra II e sarebbe dovuto avvenire il passaggio di poteri al Consiglio provvisorio iracheno da parte delle truppe occupanti, come effettivamente avvenne e con due giorni d'anticipo. Oltretutto, ufficialmente, ancora si pensava che fosse possibile che l'Onu si prendesse carico della situazione irachena.

Ma Zapatero dovette giocare d'anticipo, per diversi motivi, in quella che fu tutto, tranne che una decisione improvvisata.

Era stata preceduta, infatti, da un intenso lavoro di raccolta di informazioni, cominciato all'indomani dello scrutinio, e da una fitta attività diplomatica che interessò tutte le nazioni che sarebbero state coinvolte dalla decisione spagnola.

Malgrado ciò, il segreto è mantenuto fino all'ultimo: solo pochi membri del governo e dell'entourage politico di Zapatero ne sono a conoscenza.

Vale la pena di ripercorrere il cammino diplomatico che ha preceduto la comunicazione ufficiale del ritiro, lungo il quale l'esecutivo ha maturato la decisione di anticiparne i tempi.

Su consiglio di Felipe González, Zapatero si preoccupa di avvertire gli alleati di Aznar nella guerra irachena ai quali il neo presidente aveva già avuto modo di comunicare le sue intenzioni, del cambio di rotta che si profila. Gli americani, prima di tutto, poi Tony Blair, l'europeo militarmente più coinvolto e, come Zapatero, membro dell'Internazionale socialista. E Berlusconi, di cui González conosce da tempo il grande potere mediatico, da quando era presidente del governo e il nostro esportava in Spagna la sua esperienza di imprenditore televisivo e cominciavano le trasmissioni di Tele Cinco. Poi, naturalmente, francesi e tedeschi, i principali oppositori all'avventura di Bush, in nome di quella che Donald Rumsfeld chiamò, non senza disprezzo, la "vecchia Europa".

Il cinque aprile Bono viaggia a Washington, dove si incontra col segretario della Difesa del governo degli Stati Uniti, Donald Rumsfeld. Zapatero impone grande discrezione e il viaggio viene camuffato come una visita turistica della famiglia Bono a New York e nella capitale federale.

L'incontro, organizzato dall'ambasciatore spagnolo e militante del Pp, javier Rupérez, si tiene alla Casa bianca e dura poco più di un'ora. Bono annuncia a Rumsfeld che Zapatero avrebbe adempiuto al suo impegno di ritirare le truppe spagnole entro il 30 giugno se non si fossero compiute le condizioni richieste in campagna elettorale, ovverosia il passaggio dei poteri dalle truppe occupanti all'Onu.

Rumsfeld risponde in maniera diplomatica ma diretta. Manifesta il suo disaccordo con la decisione spagnola ma anche il suo rispetto per l'adempimento di una promessa elettorale. Per poi, sulla questione dei poteri, fugare ogni dubbio:

«Finché occuperò questa poltrona, giammai un comandante non statunitense darà ordini a un soldato degli Stati Uniti», dice perentoriamente.

Senza l'accordo degli Usa, il coinvolgimento dell'Onu in Iraq non costituisce più un'opzione realistica.

Bono lascia Washington convinto che, malgrado il disaccordo sulla questione irachena, sia chiaro che la Spagna continua a essere un paese amico degli Usa. Neanche Zapatero si preoccupa troppo del futuro delle relazioni tra Stati Uniti e Spagna. La tensione sarebbe stata alta, ma anche il primo governo González ebbe difficili rapporti con gli Usa quando volle ridiscutere la presenza delle basi militari americane sul territorio spagnolo, concesse durante la dittatura di Franco. Anzi, in quel caso, la fermezza delle proprie posizioni aumentò presso la Casa bianca il rispetto per l'amministrazione spagnola.

Ma la politica estera di Reagan era altra cosa rispetto a quella di Bush junior e il presidente più amato dagli americani indulgeva meno al rancore, come Zapatero avrebbe presto sperimentato.

Mentre Bono è in "viaggio di piacere" con la famiglia negli Usa, Miguel Angel Moratinos, da ministro degli esteri in pectore, ha il compito di sondare le Nazioni Unite.

Moratinos ha accumulato grande esperienza come inviato speciale dell'Unione Europea per il Medio oriente, è ben conosciuto nelle cancellerie europee ed ai principali attori della scena politica e diplomatica internazionale. Si vede col ministro degli esteri tedesco, Joshka Fischer, e intrattiene una lunga conversazione telefonica con l'inviato speciale di Kofi Annan per l'Iraq, Lajdar Brahimi, in quelle settimane impegnato totalmente nelle mediazioni tra le fazioni del Consiglio provvisorio, da un lato, e tra il Consiglio e le forze occupanti, dall'altro. Entrambi gli confermano che le possibilità che le Nazioni unite subentrino alle truppe di occupazione sono ormai puramente teoriche.

José Bono, tornato dagli Usa, si reca, accompagnato dalla responsabile esteri del Psoe, Trinidad Jiménez, in Inghilterra e in Italia, incontrandosi, il 16 aprile, prima a Londra col ministro della Difesa Geoff Hoon e poi a Roma con Silvio Berlusconi.

Hoon lo riceve in forma ufficiale ma discreta nella sede del ministero e viene messo ufficialmente al corrente della decisione spagnola. Subito trasmette a Bono informazioni dell'intelligence militare britannica riguardo a ripetute riunioni nelle moschee per raccogliere fondi in preparazione di un attentato di grandi dimensioni contro le truppe spagnole. Non si scarta neanche l'ipotesi di eventuali sequestri di persona. Bono gli chiede conto dei segnali che giungono dal Palazzo di vetro, che rendono remota la possibilità che l'Onu possa prendersi carico della situazione irachena e gli chiede della disponibilità britannica ad appoggiare logisticamente il ritiro delle truppe. Hoon conferma le analisi di Bono e gli assicura l'appoggio richiesto per facilitare il ritiro dei 1300 militari spagnoli.

L'incontro con Berlusconi costituisce un'esperienza inattesa. Bono e la Jiménez vengono accolti all'aeroporto da due emissari della presidenza del Consiglio e il dialogo avviene davanti a una tavola imbandita per un'ottima cena italiana. Θ un incontro cordiale ma non ha il crisma dell'ufficialità e i due non sono preparati allo stile del ticoon italiano. Anzi, le battute e le barzellette con le quali il loro ospite intende metterli a loro agio creando un'aria di familiarità, creano qualche stupore. Del resto non sono mica venuti in gita di piacere. Inoltre l'Italia è nel pieno della crisi degli ostaggi, con l'uccisione di Quattrocchi annunciata due giorni prima dai terroristi, e ci si poteva attendere un clima di ben altra gravità. Quando i discorsi si fanno più seri, Berlusconi ritiene di dover giustificare l'asse tra Italia, Spagna e Regno Unito. E lo fa motivandola con la condizione periferica dei tre paesi nella geografia europea. Inoltre il capo del governo italiano sottolinea come il suo impegno nell'avventura militare derivi da una precisa richiesta di George W. Bush, alla quale si sentiva in obbligo di rispondere positivamente perché gli Stati uniti avevano ripetutamente aiutato l'Italia negli ultimi cinquant'anni. Berlusconi si dimostra comunque rispettoso della decisione di ritirare le truppe. Ma non riesce a nascondere una certa preoccupazione per l'isolamento che la decisione spagnola, che anticipa il successivo avvicinamento a Germania e Francia, avrebbe comportato per l'Italia nel contesto europeo. L'incontro si conclude con l'impegno italiano a facilitare il ritiro delle truppe spagnole.

Di fatto, quando Zapatero annuncia il ritiro, Berlusconi tiene un basso profilo e non dà rilevanza all'accaduto, parlando di «posizione risaputa» e sottolineando come egli risulti così «l'alleato più vicino agli Usa nell'Europa continentale».

Il compito di commentare politicamente il ritiro spagnolo viene lasciato al responsabile esteri di Forza Italia, Dario Rivolta.

«Le odierne dichiarazioni del premier spagnolo confermano la miopia della strategia politica del nuovo governo ispanico (Sic)». «Cedere ad un vile ricatto terroristico», prosegue Rivolta, «è oggi deleterio per gli Stati della coalizione, Spagna compresa, che con questa mossa dimostra agli attentatori dello scorso 11 marzo di essere riusciti ad influenzare la politica estera spagnola».

Sullo stesso tono, le dichiarazioni degli alleati di governo.

Follini parla di «otto settembre dell'occidente», mentre per il vice presidente del Senato, Roberto Calderoli, «quello che appare è che Zapatero ha conquistato il potere grazie agli attentati in Spagna dei terroristi islamici e che oggi, con il ritiro delle truppe spagnole, sembra restituire la cortesia». Concludendo che «gli elettori devono quindi sapere che votando a sinistra si va sempre di più verso l'islam e i suoi fanatismi e si rinnegano le radici cristiane del mondo occidentale».

Per il presidente della commissione Esteri, Gustavo Selva, «con la sua unilaterale e precipitosa decisione» Zapatero sceglie la ragione del suo partito «"socialista operaio", mettendo in secondo piano il suo ruolo di statista». Ignazio La Russa, dal canto suo, afferma: «Non mi sembra particolarmente coraggioso chiamarsi fuori ancor prima del 30 giugno e, se fossi uno spagnolo, questo comportamento non mi renderebbe particolarmente orgoglioso».

Se gli spagnoli furono orgogliosi o meno della decisione di Zapatero, non si sa. Ma certo la condivisero, come le manifestazioni di giubilo tenutesi in diverse città dopo l'annuncio del ritiro dimostrarono e come venne confermato dal sondaggio del Cis, il Centro di investigaciones sociológicas, del mese di aprile, per il quale il 76,8% dei consultati appoggiava la decisione del ritiro mentre solo il 10% era contrario.

Tornando a Madrid, bisogna sottolineare come, alla decisione finale, abbiano contribuito non poco le perplessità dei militari.

Durante il passaggio dei poteri, nella prima settimana di aprile, Bono riceve dal ministro della Difesa in funzione, Federico Trillo, un rapporto molto duro del generale José Enrique de Ayala, secondo capo della divisione centro-meridionale in Iraq.

Il rapporto, inoltrato al superiore di de Ayala, il generale polacco Mieczyslaw Bieniek, informa circa il contrasto tra i comandi spagnolo e polacco e quello Usa.

De Ayala sottolinea come il ruolo delle forze spagnole non sia quello di una forza offensiva ma quello di contribuire alla ricostruzione e alla stabilizzazione del paese e come fosse impossibile adempiere a questo mandato — e, d'altra parte, mancassero i mezzi per farlo — stante la strategia nordamericana, militarmente offensiva e mancante di ogni volontà collaborativa e di dialogo con gli alleati.

Nel rapporto si fa l'esempio specifico delle discrepanze tra americani da un lato e spagnoli e polacchi dall'altro, nell'ambito dell'offensiva contro gli sciiti del clerico radicale Muqtada al Sadr, nella capitale spirituale sciita, Najaf.

Il comando militare Usa ordinò operazioni militari su larga scala contro gli uomini di al Sadr, la chiusura del suo giornale e l'arresto del suo luogotenente Mustafà al Yakubi. Polacchi e spagnoli, che avevano un distaccamento di duecento uomini a Najaf, impegnati in un'azione conciliatrice che li esponeva a molti rischi, non vennero interpellati né messi al corrente dell'inizio delle operazioni, altrimenti le avrebbero sconsigliate, anche prevedendo il rischio di una rivolta sciita, che poi puntualmente avvenne.

I comandi militari si trovarono davanti per primi a quello che nessuno riusciva a credere: la mancanza di qualsiasi strategia politica americana per il dopoguerra. Sul tavolo c'erano risposte solo militari. Nessuno aveva pensato a cosa fare della classe dirigente, compromessa sì col regime ma indispensabile per mandare avanti il paese. A come riattivare i servizi, la distribuzione dell'energia elettrica, la raccolta dei rifiuti. La decisione di mettere fuori legge il partito Baat, per molti fu già un errore quando era possibile invece dare un ruolo a coloro che, latitante il Raìs — ma già si sapeva che la catena di comando era spezzata e che la "resistenza" irachena era autonoma e non più diretta dal vecchio potere — volevano giocare le loro carte per arrivare al potere. Ma la decisione di epurare tutti i suoi membri dagli incarichi pubblici rese evidente come gli Usa non avessero nessuna soluzione politica per il dopo-Saddam e i militari sul campo videro il prefigurarsi del "pantano iracheno". Quel conflitto senza fine che, quattro anni dopo, conta ogni giorno le sue decine di morti.


La decisione di Zapatero, anche se l'incedere degli eventi determina la necessità di accelerarne alcuni passaggi, è frutto di una convinzione politica, espressa e confermata da tempo. Convinzione che viene lungamente meditata alla luce delle verifiche e dell'analisi sulla possibile evoluzione degli scenari iracheni e internazionali. Ed è una decisione sulla quale, malgrado il rispetto delle convenzioni diplomatiche e la volontà di improntare alla maggiore correttezza possibile i rapporti con gli altri paesi coinvolti nel ritiro delle truppe, viene mantenuto il più assoluto riserbo.

Nell' equipe di Zapatero, oltre a Bono, al ministro degli esteri Miguel Angel Moratinos, a Trinidad Jiménez, alla de la Vega, che non conosce però i dettagli delle missioni di Bono, e al capo della comunicazione della presidenza, Miguel Barroso, nessuno viene messo al corrente della decisione in corso, a parte la risaputa volontà espressa da Zapatero di tener fede al suo impegno con gli elettori.

Come già accennato, anzi, sulla stampa si moltiplicano le ipotesi su quale via d'uscita avrebbe imboccato Zapatero, come avrebbe fatto a tornare sui suoi passi, in nome di una ragion di Stato che avrebbe prevalso sul rifiuto etico della guerra irachena e sul giudizio riguardo al ruolo e alle conseguenze che questa aveva nel peggioramento delle tensioni internazionali e della situazione mediorientale.

Che Zapatero ritenga che si debba essere conseguenti alla convinzione che la Spagna debba tornare nel seno della politica estera europea e che, quindi, le truppe vadano ritirate, lo sanno alcuni importanti membri socialisti, come il portavoce in parlamento Alfredo Pérez Rubalcaba, il capo di gabinetto di Zapatero, José Serrano e il segretario organizzativo del Psoe José Bianco, ma non sono al corrente di quanto sta accadendo.

Vengono aggiornati in una riunione che si tiene alla Moncloa il 17 aprile, lo stesso giorno del giuramento di Zapatero.

In quel frangente Bono si presenta con mappe del territorio iracheno e con un piano di ritiro, che era stato richiesto di approntare, in via cautelativa, ai comandi militari spagnoli. Il ministro della Difesa informa tutti dei risultati dei suoi incontri internazionali e esprime il parere che l'annuncio del ritiro vada fatto immediatamente. Secondo Bono, l'alta possibilità di attentati, se non di rapimenti – la notizia dell'assassinio di Quattrocchi era di soli tre giorni prima – avrebbe reso l'annuncio passibile di essere letto come una resa al terrorismo. La certezza che l'Onu non avrebbe giocato alcun ruolo in Iraq a partire dal 30 giugno rendeva poi inutile un dibattito basato sul nulla. Inoltre, il 19 aprile, è prevista una sostituzione di truppe spagnole da parte di soldati freschi: operazione inutile una volta deciso il ritiro. Per Bono, in conclusione, è necessario che la decisione venga resa pubblica immediatamente.

De la Vega e Rubalcaba, invece, ritengono che premettere l'annuncio del ritiro alla celebrazione del Consiglio straordinario dei ministri previsto per il lunedì successivo, per la convocazione delle elezioni europee e per fare le prime nomine, sia politicamente rischioso e possa scoprire il fianco ad accuse di gestione personalistica da parte di Zapatero.

Alla fine Zapatero decide che queste accuse, qualora arrivino, non valgono il rischio che eventi inattesi scombinino il piano o, peggio, rendano politicamente impresentabile il ritiro delle truppe, nel caso avvenga un attentato o una cattura di ostaggi spagnoli, e sceglie di rendere pubblica la comunicazione il giorno successivo.

Poi la discussione affronta il modo nel quale va fatta la comunicazione pubblica. Bono propone una conferenza stampa, con la presenza di diversi capi militari e l'utilizzo di audiovisivi. Per Barroso e Rubalcaba invece è preferibile mantenere un profilo più basso, anche per evitare che possa sembrare che si voglia sfruttare l'immagine dei militari a fini politici. Zapatero si decide per una comunicazione sobria in luogo di un evento condito da supporti mediatici.

A questo punto bisogna solo aspettare che, la mattina seguente, Bono giuri davanti al re. Immediatamente dopo Zapatero lo incarica di riunire i comandi militari e dare l'ordine del ritiro.

Presa la decisione bisogna comunicarla a tutte le istituzioni politiche e amministrative spagnole che devono averla prima dell'annuncio pubblico. Non si può fare prima di domenica, lo stesso giorno dell'annuncio pubblico, per evitare fughe di notizie.

I tempi, quindi, sono eccezionalmente stretti. Bisogna contattare le istituzioni spagnole, in primo luogo le Comunità autonome, e i partiti politici. Poi si deve inoltrare la comunicazione ufficiale, secondo le regole della diplomazia, alle cancellerie internazionali, prima di tutto a quelle coinvolte nel conflitto, e alle istituzioni internazionali.

Zapatero si incarica personalmente di parlare coi capi di Stato e con i principali dirigenti politici nazionali, a cominciare dal segretario del Pp Mariano Rajoy. E, naturalmente, di dare l'annuncio ufficiale agli americani.

Sorprendentemente, alla Casa bianca, Bush si nega. Risulta irreperibile. Evidentemente si rifiuta di ricevere la comunicazione dalla viva voce di Zapatero, che riuscirà a parlare con lui solo lunedì. Θ una tesa telefonata di cinque minuti, nella quale il portavoce della Casa Bianca, Scott McClellan, che fa da interprete, gli riferisce come «il presidente critichi la decisione di annunciare repentinamente l'uscita delle truppe dall'Iraq e sottolinei l'importanza che si valutino con molta cautela azioni future che possano dare false speranza ai terroristi e ai nemici della libertà in Iraq».

Una reazione dura, inusuale tra alleati, anche in presenza di una così marcata differenza di vedute.

Ma, tornando alla domenica mattina, il fatto che Bush non risponda al telefono comporta che Moratinos venga incaricato di comunicare la decisione definitiva a Colin Powell, col quale ha ottimi rapporti, mentre Bono debba parlare con Rumsfeld. Powell, per il quale la decisione non è una sorpresa, dato che Zapatero, durante i funerali di Stato per le vittime delle stragi di Madrid, che si tennero nella cattedrale de la Almudena il 24 marzo, aveva già comunicato a lui e a Blair l'intenzione di ritirare le truppe se l'Onu non fosse subentrato alla "coalizione dei volenterosi", la definisce «corretta ma infelice». Tutto nella norma, mentre è Bono che si trova davanti a una situazione imbarazzante e inattesa

Quando telefona al segretario della Difesa Usa, Rumsfeld, dall'altro capo del filo, a stento contiene l'ira, accusandolo di averlo tradito. La rabbia non deriva dalla decisione spagnola, di cui è al corrente già da tredici giorni, né dal repentino anticipo, ma dal fatto che, prima che a lui, la comunicazione ufficiale è giunta a Powell: Moratinos era arrivato mezz'ora prima di Bono e la cosa era intollerabile per Rumsfeld, visti i pessimi rapporti che intercorrono tra lui e il segretario di Stato.

Mentre Rubalcaba si occupa di dare la comunicazione ai capi dei gruppi parlamentari, la vice presidente Fernàndez de la Vega deve telefonare ai diciassette presidenti delle Comunità autonome. Si presentano però delle difficoltà inattese perché, incredibilmente, al centralino della Moncloa non hanno i numeri di telefono privati di tutti i presidenti delle Comunità, né quelli dei leader nazionalisti – e questo la dice lunga sui rapporti con le "periferie del regno" che avevano caratterizzato il secondo governo Aznar. Reperire tutti i numeri, rivolgendosi alle strutture del Psoe, richiede più tempo del previsto e quella è la causa della mezz'ora di ritardo con cui Zapatero entra nella Sala delle colonne, per dare l'annuncio alla stampa.


L'annuncio suscitò le positive reazioni di quasi tutte le forze politiche spagnole, esclusi il Partido Popular (Pp) di Mariano Rajoy, che la definì una «decisione precipitosa», e la coalizione catalana di centro Convergencia i Uniò (CiU). Secondo il segretario del Pp si trattava di una misura che rendeva «poco affidabile» il governo spagnolo. «Θ poco solidale con 21 milioni di iracheni» e «non costituisce un buon messaggio nella lotta al terrore, rendendo la Spagna più vulnerabile» affermò lo sconfitto avversario di Zapatero. Mentre il portavoce al Congresso di CiU, Josep Duran i Lleida, sospese il giudizio, considerando necessario che il governo desse «motivazioni sufficienti per spiegare il perché della precipitazione» nel ritiro delle truppe.

Commenti entusiastici giunsero da parte dei partiti che appoggiavano Zapatero, Izquierda Unida, il partito nazionalista catalano di sinistra Esquerra Republicana, Coalición Canaria e il Bloque Nacional Gallego, oltre che dal Partito Nazionalista Basco che invece si astenne nel voto per Zapatero.

Zapatero giocò indubbiamente d'anticipo, senza neanche aspettare che si tenesse il primo Consiglio dei ministri del nuovo governo, sorprendendo gli ambienti diplomatici e militari spagnoli. Oltre alle questioni già citate, anche altri motivi influirono sull'accelerazione che Zapatero impresse alla decisione.

Da un lato era in atto un'aumentata pressione da parte statunitense e internazionale affinché Zapatero modificasse la sua posizione, della quale si era fatto portatore anche Javier Solanas, autorevole socialista spagnolo, ex guida politica della Nato e Alto rappresentante per la Politica estera e la Sicurezza dell'Unione europea.

Poi, il deteriorarsi della situazione irachena, con la rivolta sciita in atto, aveva determinato diversi avvisi da parte dei comandi militari circa la possibilità che nuove perdite mortali spagnole si aggiungessero agli otto militari e ai quattro agenti di sicurezza già caduti sul campo. Mentre le piattaforme pacifiste stavano organizzando nuove manifestazioni contro la guerra e per il ritiro delle truppe, i sondaggi d'opinione continuavano a descrivere una Spagna contraria alla permanenza delle truppe – in un sondaggio dell'istituto Opina oltre il 70% degli intervistati, con un 42% anche in caso di scesa in campo delle Nazioni unite, a fronte di un 14% di favorevoli a restare.

Zapatero, del resto, doveva anche guardare alla politica interna e alla dipendenza del suo governo dall'appoggio della maggioranza che lo aveva eletto, portatrice di interessi territoriali e pronta a chiedere contropartite che rischiavano in ogni momento di indebolire l'autonomia del monocolore socialista. In questo modo, assicurandosi un appoggio sempre più alto da parte dell'opinione pubblica, il capo del governo acquistava maggior forza nei confronti degli alleati, proprio al debutto del suo governo.

Poi ci sono da valutare anche gli interessi strategici della Spagna e le sue priorità interne e internazionali.

Il Financial Times, casualmente proprio nel numero in edicola il 18 aprile, segnalava in un'interessante analisi come l'attenzione di Zapatero si sarebbe rivolta al contesto europeo, contraddicendo radicalmente la strategia di Aznar di alleanza con gli Usa e di rottura del fronte europeo, che accrebbe la sua importanza di leader internazionale a scapito, però, del ruolo spagnolo nel contesto internazionale, definito senza pietà dalla testata inglese «irrilevante». L'allargamento dell'Ue, poi, con l'entrata dei nuovi membri, allontanava dalle casse dello Stato spagnolo i flussi finanziari comunitari, rendendo, secondo il quotidiano economico, incerte le prospettive economiche del paese.

Il Financial Times evocava così i numerosi problemi che l'amministrazione Zapatero avrebbe dovuto affrontare. A cominciare dai servizi dove, a fronte del positivo bilancio economico spagnolo, scuole e sanità insufficienti costringono spesso gli spagnoli a rivolgersi, pagando di tasca propria, ad asili nido e assicurazioni privati. Inoltre, lo sviluppo delle infrastrutture e l'incentivazione della ricerca, problemi strategici che Zapatero ha posto al centro della campagna elettorale e sui quali si è impegnato con gli elettori, sono temi per affrontare i quali la Spagna avrebbe avuto bisogno dell'appoggio, anche economico, dell'Unione europea.

Non per niente Moratinos si affrettò ad annunciare la disponibilità della Spagna a discutere le pregiudiziali sulla rappresentanza in seno all'Unione che avevano indotto Aznar a boicottare il varo della Costituzione europea.

Ma la decisione del ritiro immediato delle truppe, oltre che scelta di politica internazionale, è anche e soprattutto una questione etica.

Da una parte c'è l'impegno a rispettare la volontà dell'opinione pubblica, non aprioristicamente, ma sempre quando ci si impegna pubblicamente a farlo chiedendo in cambio il voto degli elettori, come Zapatero stesso spiegò nel discorso che tenne nella Sala delle Colonne:

«Questa decisione [il ritiro delle truppe] risponde, innanzitutto, alla mia volontà di onorare la parola data da più di un anno agli spagnoli. Il governo, sorretto dalla più profonda convinzione democratica, non vuole, non può e non deve agire contro o alle spalle della volontà degli spagnoli. Questo è il suo principale obbligo, come pure il mio principale impegno».

A sorprendere favorevolmente gli spagnoli non fu solo la decisione presa ma anche come venne motivata, in un momento in cui molti spagnoli temevano che le pressioni degli Stati Uniti, o una nuova risoluzione Onu, impedissero il ritiro delle truppe impegnate in una guerra rifiutata con decisione sempre crescente.

Dall'altra parte giocò un ruolo importante il rifiuto di Zapatero della guerra come strumento di risoluzione dei conflitti tra gli stati. Un impulso etico, ancor prima che politico, che lo spinse ad appoggiare le manifestazioni contro la guerra fin dall'inizio, mesi prima dello scoppio del conflitto, il 20 marzo 2003. Una posizione non compresa anche all'interno del suo partito che Zapatero difese sempre, imponendola come scelta politica. E spiegandola in questo modo, durante un intervento alla Camera del 18 febbraio 2003:

«Senza alcun dubbio la mobilitazione della cittadinanza contro la guerra è il fatto più importante accaduto in Spagna e in molte parti del mondo. Una mobilitazione senza precedenti, che nel nostro paese ha rappresentato l'espressione più forte e ampia dalla transizione democratica». C'era, in queste parole, anche la consapevolezza politica che la rassegnazione e l'allontanamento dalla politica rappresentavano la tomba della politica progressista, lasciando il campo alla destra e solo a una sinistra subalterna al pensiero unico, rappresentata da un ceto politico isolato dalla cittadinanza. Partendo dalla scelta etico-politica, compiuta dal Psoe nella sua storia, di «rifiuto radicale della violenza come arma politica», Zapatero spiegò che «la coerenza dei principi ci ha fatto rifiutare la dottrina dell'attacco preventivo, la difesa di un intervento militare non giustificato alla luce dei vigenti principi del diritto internazionale. Una guerra è un fallimento collettivo, è l'ultima risorsa. E, inoltre, uno strumento sproporzionato. Un attacco preventivo significa provocare la perdita di vite umane».

Ma la decisione del ritiro delle truppe dall'Iraq è anche il frutto di un'eccezionale capacità di forzare i tempi della politica, di non aver paura di marcare discontinuità radicali. Θ frutto della capacità, tutta politica, di scegliere un percorso strategico da cui far discendere azioni concrete, senza che livelli di mediazione continui annacquino il senso delle scelte compiute.

Questo complesso di motivazioni profonde e lucidità d'analisi portarono alla scelta di andare via dal pantano della guerra irachena, rispettando le forme della collaborazione internazionale, mantenendo la massima riservatezza nella gestione delle questioni di Stato e affrontando quelle decisioni difficili che non sempre ci si aspetta che vengano portate fino in fondo.

Come probabilmente pensava quella ragazza che, il 15 marzo 2004, il giorno dopo le elezioni, mentre Zapatero si era recato a rendere omaggio alle vittime della stazione di Atocha, gli si avvicinò, per dirgli che in passato aveva votato Pp, «ma non questa volta». Aggiungendo, però, che dubitava che sarebbe stato capace di ritirare le truppe dall'Iraq.

Zapatero le rispose: «Lo farò nel mio primo giorno da presidente del governo».

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IL SOCIALISMO CIUDADANO



La proposta politica di Zapatero contiene un forte richiamo alla tradizione e al pensiero socialista, alla necessità di rinnovarsi ma senza perdere gli ideali. Un richiamo che egli ha inteso dare e al quale ha anche dato un nome: Socialismo ciudadano o Socialismo de los ciudadanos, che noi possiamo tradurre in Socialismo civico o dei cittadini.

Ma il Socialismo dei cittadini appare come un concetto non facilmente afferrabile, stretto tra due immagini opposte: rappresentare uno sforzo teorico per intervenire nel dibattito sulle crisi della socialdemocrazia europea o essere solo una felice invenzione di marketing politico.

Occorre quindi capire cosa sia.

L'idea di partenza è che il sistema di mercato ha vinto. E il crollo del muro di Berlino ha sancito irrevocabilmente la fine del conflitto sul quale il XX secolo si è sviluppato: non esistono più sistemi economici alternativi e il confronto si esprime sul grado, maggiore o minore, di intervento della politica in economia.

Questo passaggio è fondamentalmente condiviso da tutti gli attori politici della sinistra, vengano dalle tradizioni comuniste o socialiste o socialdemocratiche, siano denominati come sinistra radicale o sinistra riformista.

Ma, rispetto all'elaborazione del socialismo liberale, Zapatero vede aprirsi delle possibilità nuove.

Da quando, nel campo liberale, le correnti che riassumiamo sotto il termine di neoliberismo hanno preso il sopravvento, si è creato un vuoto che muta lo scenario nel quale da Bad Godesberg in poi si sono confrontati liberalismo e socialismo. Che faceva dire a Norberto Bobbio: «Il socialismo liberale (o liberai-socialismo) è rimasto sinora o un ideale dottrinale astratto, tanto seducente in teoria quanto difficilmente traducibile in istituzioni, oppure è una delle formule, ma non la sola, che servono a definire quel regime in cui la tutela dell'apparato statale si è estesa dai diritti di libertà ai diritti sociali».

Finora il confronto tra campo liberale e campo socialista si è misurato sui due concetti simbolici di eguaglianza e libertà. Tra libertà (diritti, doveri e iniziativa individuali, Stato regolatore) e uguaglianza (rapporti di classe, lotta per i diritti, Stato come garante della giustizia sociale).

Secondo Zapatero ora è il momento nel quale il socialismo si deve rimpossessare della parola libertà.

In una intervista concessa dopo il suo arrivo alla segreteria lo enuncia chiaramente, quando proprio sul confronto tra eguaglianza e libertà viene interrogato dalla giornalista.

«Il fondamento più profondo della sinistra è il conseguimento della libertà». Alla perplessità dell'interlocutrice, Zapatero risponde dicendo che «l'idea profonda della libertà è stata sequestrata attraverso le epoche dalla destra».

La riflessione di Zapatero è che, ora, il termine libertà non serve più a sostenere la forza di un sistema economico rispetto a un sistema alternativo ma ad affermare l'assoluta libertà del mercato rispetto a tutti gli altri interessi della società — la preminenza del mercato e, in definitiva, la sua irresponsabilità rispetto alle altre istanze dell'umanità. Questo processo lascia libera la sinistra di riappropriarsi del senso più profondo della parola libertà, avendo accettato il sistema di mercato.

Ma quale libertà?

«Se intendiamo la libertà come non dominazione, come l'esigenza che la società e lo Stato impediscano che esista qualsiasi elemento di dominio, questa è un'idea che è sempre stata mossa dai valori della sinistra. La destra la ha trasposta fondamentalmente al campo economico e ne ha fatto una bandiera. Io credo che nella storia dell'umanità, la maggior parte delle sofferenze, delle lotte e delle vite che si sono perse nel cammino sono state motivate non dall'aspirazione all'uguaglianza ma alla libertà».

Per Zapatero l'uguaglianza è una condizione di «diversità non dominata» e questa costituisce un cammino verso il «fine ultimo che e che' la gente possa essere libera».

Il Socialismo ciudadano guarda insomma al republicanesimo, inteso sia nella visione propria di John Pocock e Hannah Arendt che in quella di Philip Pettit e Quentin Skinner.

Nella contrapposizione tra i due tipi di libertà, la positiva — libertà di partecipare in ambito collettivo, di decidere chi governa e di raggiungere l'autonomia per cui le decisioni dei singoli non dipendano da forze esterne — e negativa — la libertà rispetto alla collettività rappresentata dallo Stato, che non può interferire nella vita dei singoli oltre limiti chiari e garantiti dalla legge — Zapatero sceglie la visione, propria del repubblicanesimo. Quella in cui la libertà è quella situazione nella quale nessuno è oggetto di dominazione e di arbitrio, condizione che esige la sottomissione degli uomini e dei governi alla legge e l'uguaglianza dei diritti civili e politici.

[...]

Poi, si tratta di affrontare quei temi imposti alla società dall'offensiva ideologica neoliberale, come la flessibilità, il fatto che la precarietà lavorativa sia qualcosa di connaturato alla nuova economia. Per esempio affermando che la società deve assumere come un suo valore la stabilità del posto di lavoro.

Gli strumenti per farlo sono quelli classici, come l'azione sindacale, ma anche l'elaborazione di un nuovo modello di impresa che sia più impegnato rispetto alla società. Come ottenerlo?

Pochi anni fa nessuno avrebbe immaginato che requisito indispensabile delle imprese sarebbe stata la sostenibilità della produzione, la tutela dell'ambiente, che ora è invece un valore aggiunto dei prodotti da esporre con risalto in etichetta.

Zapatero ritiene che qualcosa di simile debba accadere anche nel modello delle relazioni industriali e che come valore distintivo delle attività di impresa debba esserci anche la stabilità dell'impiego, le condizioni di lavoro, la parità di salario tra uomini e donne.

Si tratta di creare una domanda sociale alla quale le imprese e l'economia debbano adeguarsi. Perché gli azionisti di un'impresa hanno una responsabilità sociale.

Θ indubbio che questo approccio segnala come avvenuto un passaggio profondo nella valutazione non solo della composizione sociale ma della stessa definizione delle componenti sociali. Un passaggio che comporta molti rischi, primo fra tutti la confusione tra cittadino e consumatore, figlia della cultura consumerista (i diritti dei consumatori e gli strumenti per farli rispettare) e della sopravvalutazione della possibilità di incidere dal basso sulle politiche commerciali e industriali e, soprattutto, della riduzione della rappresentanza sociale all'atto del consumo. Rappresenta, quindi, anche un elemento che ci parla della debolezza e della mancanza di autonomia nell'elaborazione della sinistra dai concetti e dalle parole d'ordine del mercato. Non bisogna però neanche prendere troppo sul serio affermazioni che appartengono più alla comunicazione politica che all'analisi teorica, e che servono principalmente a far capire al cittadino che è al centro di un progetto politico. E, soprattutto, bisogna aggiungere la politica, quell'elemento che il modello cittadino-consumatore non comporta e che invece per Zapatero è fondamentale. Zapatero non è stato mai un antipolitico. Non solo è "cresciuto a pane e politica", dentro il partito, percorrendo tutti i gradini della carriera politica. Ma ritiene che la politica sia l'elemento fondamentale che sostanzia una società democratica. Senza la politica – la consapevolezza attiva e la partecipazione dei cittadini – la democrazia è debole.

E questo porta all'altro tema fondamentale che queste riflessioni affrontano: quello della crisi dei partiti, ovvero della crisi della partecipazione politica nelle forme con le quali l'abbiamo fin qui conosciuta. Partecipazione il cui bisogno non è scomparso ma ha trovato nuovi e autonomi spazi nei quali esprimersi.

Il concetto di cittadinanza richiede che questo cittadino consapevole si impegni per l'interesse comune ma questo può avvenire solo se la democrazia è forte e effettiva. Si tratta di recuperare l'idea che gli strumenti e i metodi sono decisivi per la democrazia, non per un discorso morale ma perché le regole sono un grande strumento di democrazia.

Richiede anche una diversa attenzione dei partiti nell'ascoltare la società, non tentare di imporre i temi ma capire quali siano quelli che vengono dal basso.

Perché la cittadinanza attiva – quella che agisce le forme di partecipazione sociale e politica che vanno oltre l'espressione del voto - implica che il concetto di rappresentanza si modifichi, che ci siano maggiori possibilità di controllo dei rappresentanti politici, una minore professionalizzazione della politica, una maggiore apertura dei partiti alla società.

Il Socialismo dei cittadini diventa quindi la chiave per interpretare una visione della politica basata sull'esistenza di un nuovo soggetto politico sul quale si fonda un ripensamento complessivo del pensiero socialista. Una nuova forza sociale che sia motore di un cambiamento. Una chiave teorica, perché la consistenza di questo nuovo soggetto politico va messa alla prova, ma che tocca elaborazioni e strategie politiche del socialismo che non hanno ancora dato risposte all'epoca della globalizzazione, che non siano la terza via di Tony Blair. Per andare oltre questo stallo, che nell'accettazione del libero mercato perde la spinta utopica che ha sostanziato il socialismo nella sua storia, ci vuole un socialismo che rafforzi la radicalità delle sue convinzioni democratiche, che offra un nuovo contratto sociale ai cittadini, che non cessi di affermare che «un altro mondo è possibile».

Tutto questo comporta la fine della pretesa di dare risposte scientifiche alle domande della società. Anzi, secondo Zapatero la politica è appunto questo: opinione e ricerca.

«La politica si occupa di ciò per cui non abbiamo una risposta tecnica o scientifica; la politica è opinione, avanza a tentoni nell'oscurità. Per questo motivo, dato che nessuno può possedere la vera risposta, la politica deve essere democratica, in modo che in ogni caso possa e debba ottenere il maggior appoggio possibile per raggiungere ciò in cui crede. Da qui, la nostra profonda fede nella democrazia, il rifiuto dell'abdicazione alla responsabilità che implica la consegna della stessa politica nelle mani della tecnocrazia o del populismo. Per tutte queste ragioni, la sinistra non può essere "scientifica": deve essere democratica. Noi non abbiamo un'ortodossia da offrire».

Θ interessante quindi vedere come Zapatero spiega il socialismo dei cittadini.

«Il pensiero di Philip Pettit è stato per noi l'espressione ordinata di molte intuizioni e molti valori. In qualche occasione ho affermato che, come avveniva al personaggio di Molière che parlava in prosa senza saperlo, noi eravamo "repubblicani civici" senza saperlo. Anche se Pettit suggerisce, per evitare confusioni, che tutto ciò dobbiamo chiamarlo "cittadinanza". Molta gente ci domanda: e voi chi siete?, come si chiama il vostro progetto?, in che si identifica e in cosa si distingue da altri? Abbiamo convenuto di chiamarlo il "Socialismo dei cittadini"».

[...]

Una delle misure principali della legge è il passaggio automatico a un contratto a tempo indeterminato per quei lavoratori che sono impiegati da almeno trenta mesi nella stessa impresa e hanno avuto due o più contratti temporanei. Si tratta di una misura semplice ma efficace che contrasta l'uso dei contratti temporanei per coprire posti che in realtà sono, nei processi produttivi dell'impresa, stabili ma vengono differentemente contrattualizzati per risparmiare e limitare la possibilità del lavoratore di far valere le proprie ragioni in caso di contrasti col datore di lavoro o lesioni dei propri diritti.

Viene modificato anche il sistema di incentivi per favorire la stipula di contratti a tempo indeterminato e la trasformazione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato, attraverso la riduzione della quota a carico delle imprese per i fondi per la disoccupazione e di garanzia dei salari.

L'accordo prevede l'estensione del sussidio per sei mesi ai disoccupati con più di 45 anni che si siano trovati senza lavoro dopo una prestazione contributiva inferiore ai 12 mesi, oltre alla formazione di un Fondo di garanzia che intervenga qualora la mancata solvibilità delle imprese porti alla mancata corrispondenza degli stipendi ai lavoratori.

In due mesi e mezzo, al 15 settembre 2006, sono stati firmati 414 mila contratti a tempo indeterminato, che corrispondono a un aumento del 48%, rispetto allo stesso periodo del 2005. Nei primi 15 giorni di settembre i contratti a tempo indeterminato sono stati oltre 105 mila, il 12,2% di tutti i nuovi contratti di lavoro firmati nello stesso periodo. Mai negli ultimi 25 anni la percentuale di questo tipo di contratti era stata così alta. Secondo il ministro Jesús Caldera, che ha presentato i dati in occasione della presentazione di una campagna di comunicazione istituzionale per la diffusione dei contratti di lavoro a tempo indeterminato, si tratta di dati importanti perché la crescita dei contratti stabili non è solo in numeri assoluti ma anche in percentuale rispetto agli altri tipi di rapporto di lavoro. Il maggior apporto alla crescita è dato dalla conversione automatica dei contratti, che corrisponde agli obiettivi che il governo si prefiggeva in questa prima fase. Se il tasso di crescita viene confermato si andrà verso una drastica riduzione della quota di contratti temporanei.

La campagna di comunicazione è rivolta all'insieme della società per creare un cambiamento nella cultura del lavoro. Ma il messaggio che il governo dà agli imprenditori è che se intendono fare contratti di lavoro che diventeranno stabili è meglio che lo facciano dal principio, senza passare per lunghi periodi di contrattualizzazione temporanea, dato che gli incentivi del governo sono notevoli: ogni contratto indefinito gode di abbuoni e incentivi che insieme arrivano a 800 euro al mese per tre anni.

Zapatero ha definito «storico» l'accordo, perché passato attraverso la responsabilizzazione delle parti sociali, presentandolo come un modello per affrontare altre questioni economiche e sociali importanti, come la riforma del sistema pensionistico e lo Statuto del lavoratore autonomo. Per il presidente del governo si tratta di un successo dell'insieme della società spagnola, oltre le differenze politiche.

Si capisce bene in cosa costituisca questo modello. Prima di tutto, individuare gli obiettivi politici del governo, in questo caso la riduzione della precarietà lavorativa, diminuendo la percentuale dei contratti temporanei rispetto a quelli a tempo indeterminato. Poi, andando oltre la concertazione, responsabilizzare tutte le parti sociali rispetto al sistema economico spagnolo. Infine, ripagare immediatamente questa assunzione di responsabilità: una volta siglato l'accordo – la sua estensione avviene col supporto di tecnici ministeriali – il ministro competente lo sottoscrive e il testo dell'accordo diviene direttamente un decreto legge che dispiega i suoi effetti nel giro di poche settimane.

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IL GOVERNO E LA CHIESA



L'azione del governo Zapatero ha toccato diverse materie che attengono alla morale cattolica, alle quali la Chiesa ha risposto ingaggiando un duro confronto con l'esecutivo.

Alcune voci, molte in Italia, hanno parlato di "fondamentalismo laicista" e descritto un'aggressione in atto nei confronti della Chiesa. D'altro canto, dure critiche si sono levate nei confronti di un mondo cattolico che usa modi e linguaggi propri della politica più militante, indice manifestazioni di piazza contro il governo, esprime intolleranza e ha, complessivamente, un rapporto conflittuale con la società di cui fa parte.

La questione del rapporto tra la Chiesa spagnola e la società è una delle questioni della Spagna moderna.

La Chiesa, con l'appoggio fondamentale dato alla dittatura franchista, si è posta per quarant'anni da un lato della barricata nella Spagna divisa nella lotta fratricida. Ma si era schierata già prima della rivolta militare e degli assalti che hanno coinvolto i luoghi sacri e portato a stragi di preti e monache. La Chiesa era per il mantenimento dei rapporti di potere esistenti e, mentre il paese era percorso dalle lotte operaie e contadine, la curia appoggiava i latifondisti e gli industriali, l'esercito e la corona, contro le classi subalterne. Contadini e operai si ribellavano, le lotte contro le terribili condizioni di lavoro diventavano tentativi insurrezionali, fallite rivoluzioni. Per il proletariato spagnolo la curia era saldamente schierata accanto ai nemici di classe. Non erano certo solo atei e anarchici, peraltro a loro volta in maggioranza credenti, quelli che assalivano le chiese. Lo scopo non era bruciare gli altari, non erano scontri religiosi e neanche anticattolici. Quella che era in atto era la lotta di classe, nella quale le chiese, come le caserme, rappresentavano le classi dominanti.

Il rapporto non era conflittuale solo con il proletariato. Anche la borghesia liberale spagnola, motore della modernizzazione istituzionale e economica del Paese, che scelse la Repubblica, vide la curia schierarsi al fianco della restaurazione, prima, e dell'insurrezione militare poi. In seno alla classe operaia le contraddizioni riguardo al rapporto con la religione scoppiarono precocemente. Le affinità tra il comunitarismo cristiano, e in tempi più recenti la dottrina sociale della chiesa, e le elaborazioni del socialismo, sono il nucleo della discussione ma il tema profondo è il rapporto tra religione e politica. Che si pose fin da prima dell'avvento della Seconda Repubblica, in un paese che aveva alle spalle decenni di lotte dinastiche, politiche e sociali sanguinose, nelle quali la Chiesa si era sempre schierata, e divisa.

Θ Zapatero, nella prefazione a un libro collettivo dal titolo Tender Puentes. Psoe e mundo cristiano, a ricordare la storia di Vitorino Martín, che viveva a Sestao, in Biscaglia, dove fu uno degli organizzatori degli scioperi, spesso veri tentativi insurrezionali, organizzati dai lavoratori delle miniere e delle fabbriche nelle province basche.

Nel 1931 Martín chiese di aderire al partito, ma venne respinto perché riceveva ogni giorno la comunione. Egli ricorse prima alla commissione esecutiva della Biscaglia, con risultati negativi, poi a quella nazionale. Largo Caballero, allora segretario del partito, scrisse una lettera al gruppo socialista di Sestao ricordando, in termini duri, che il partito socialista non aveva mai fatto dichiarazione di ateismo e che le credenze religiose non ostavano all'adesione al socialismo. Martin ebbe la tessera. Quando le truppe franchiste entrarono a Sestao fu il primo sostenitore della Repubblica a essere fucilato dai golpisti.

Molti affiliati del Psoe sono cattolici praticanti, come pure suoi importanti esponenti e milioni dei suoi elettori.

Θ nel congresso clandestino del '67 che viene affrontata definitivamente la questione. Nel documento conclusivo si può leggere: «Non è vero che esista questa scissione manichea tra un mondo ateo e materialista e un mondo religioso e spiritualista. Socialismo e cristianesimo, in quanto religioni di amore verso il prossimo, sono assolutamente conciliabili».

Nella prefazione al libro, Zapatero si chiede:

«Il Psoe non esprime abbastanza, in maniera pubblica e adeguata, il vincolo tra socialismo e cristianesimo? Θ possibile che non lo abbiamo espresso con sufficiente organicità e continuità. Θ mia opinione che si debba fare giustizia, riconoscere il fatto e la qualità dell'impegno di tanti cristiani socialisti, nel passato e nel presente del partito. Θ necessario proiettare in senso storico questa intersezione tra cristianesimo e socialismo».

Zapatero, che dichiara pubblicamente il suo essere agnostico, imprime al partito una visione del rapporto tra socialismo e religione che supera la questione, ormai scontata, dell'affermazione della compatibilità tra cristianesimo e socialismo. Si tratta della consapevolezza che per il Partito socialista, il credo religioso, e in particolare quello cristiano, rappresentano un fatto positivo per un progetto di sinistra. «Questo è il compito da svolgere — scrive Zapatero — sostituire la negazione del valore del sentimento religioso, o l'attitudine all'indifferenza, con un riconoscimento e una valutazione positiva».

Il riferimento è alla socialdemocrazia tedesca, alla formu- la del programma di Bad-Godesberg del 1959. Oltre all'accettazione dell'economia di mercato, in quell'occasione i socialdemocratici tedeschi affermavano espressamente che il socialismo democratico «trova le sue radici nell'etica cristiana, nell'umanesimo e nella filosofia classica».

Zapatero vede nell'impegno del cristiano nella società, nel senso di responsabilità verso la comunità e nell'impegno positivo nella realtà mondana del cristianesimo moderno, una componente fondamentale che lo accomuna al cittadino impegnato e responsabile, consapevole dei suoi diritti come anche dei suoi doveri, che costituisce la base del suo "Socialismo dei cittadini". In particolare, la vicinanza ai più deboli, l'impegno per l'affermazione di una società più giusta e il rifiuto dell'indifferenza, sono gli elementi che accomunano il cristiano impegnato nel mondo al cittadino consapevole che sostituisce il rappresentante di interessi di classe nel confronto continuo che è alla base del funzionamento delle società democratiche.

Secondo Zapatero, il Psoe è un partito laico che vuole e promuove una società laica.

«Il nostro è il partito laico per eccellenza. In un contesto storico determinato questo ha portato a un anticlericalismo probabilmente giustificato ma i tempi sono cambiati. Adesso la laicità non può convertirsi in un argomento per un dogmatismo antireligioso. La difesa del pluralismo non può basarsi sul rifiuto e sull'indifferenza verso la religione. La religione può essere un valido complemento della democrazia e la democrazia è la migliore cornice per l'esercizio della religione».

Lluis Maria Puig, docente di storia presso l'Università Autonoma di Barcellona, senatore e presidente del gruppo socialista nel Consiglio d'Europa, descrive così il rapporto tra religione e democrazia:

«La democrazia significa favorire la libertà di coscienza, l'esercizio della fede e il pluralismo delle religioni. Dal canto suo, la religione, per il suo impegno morale ed etico, per i valori che difende, per il suo senso critico e per la sua espressione culturale, rappresenta un importante complemento della società democratica».

A essere in gioco, nel conflitto in atto tra governo spagnolo e Chiesa, è il primato della religione cattolica. Una questione che ha accompagnato lo sviluppo dell'Europa moderna, che torna d'attualità ora che si procede nella faticosa costruzione dell'Europa politica, come il dibattito sui riferimenti alle radici cristiane, da inserire o meno nel Trattato europeo, ha evidenziato.

«Il credo religioso – scrive Zapatero – non è alieno alla sfera pubblica. Θ un fatto privato, dunque è una opzione personale la scelta di un credo o l'assenza di questa scelta. Con la democrazia sono finiti i tempi dell'imposizione religiosa. Ciò nonostante, in quanto fatto condiviso da un'ampia parte della cittadinanza, con indubbi effetti sulla vita quotidiana, nei riferimenti etici come nel comportamento politico, la religione va affrontata come un fatto pubblico. Un fatto che si deve esaminare partendo dai valori costituzionali. In questo senso devono essere appoggiate quelle forme religiose che contribuiscono a uno sviluppo della cittadinanza democratica e di una società giusta. Al contrario, devono essere combattute le forme fondamentaliste che attentano alla libertà della persona e alla tolleranza che deve caratterizzare la vita democratica. La rilevanza pubblica del cristianesimo, per i socialisti, si radica nella sua capacità di inculcare nella coscienza umana valori comuni che hanno anche costituito, da secoli, l'obiettivo della lotta sociale della sinistra».

Il problema è che uno stato laico è necessariamente "relativista", senza che questo voglia dire ostile, né indifferente riguardo alla religione cattolica. Θ l'apertura alla pari dignità con le altre religioni, proprio nel cortile di casa, che è difficile da affrontare per la Chiesa, non solo quella spagnola. In parte, anche il timore di perdere dei privilegi.

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LA VIOLENZA MACHISTA




                                        Malo, malo, malo eres
                               no se daρa quien se quiere, no
                                     Tonto, tonto, tonto eres
                         no te pienses mejor que las mujeres.

                               (Cattivo, cattivo, cattivo sei
                              non si fa male a chi si ama, no
                                      Scemo, scemo, scemo sei
                           non crederti migliore delle donne)



Queste parole sono tratte dal testo di una canzone di una giovane e brava artista spagnola, Bebe. Cresciuta a pane e musica ora è una cantante di successo, interprete aggressiva in grado di tenere il centro della scena e di calamitare l'attenzione del pubblico, di conquistare le classifiche di vendita e di riempire le sale coi suoi concerti.

Le sue canzoni hanno un successo internazionale e anche in Italia questo pezzo è molto diffuso e canticchiato da tanti che, probabilmente, non hanno fatto caso al suo contenuto.

Malo è una canzone in cui una donna parla del suo uomo, giovane, bello e violento. Dei maltrattamenti e delle botte, della stanchezza di lei, del precoce sfiorire della loro giovinezza, del timore che i bambini vengano svegliati dalle sue urla, della voglia di ribellarsi a questa violenza.

Perché una canzone pop, anziché di amori delusi o travolgenti, deve parlare di violenza domestica? E perché diventa un successo travolgente di vendite?

Tra il 2000 e il 2006, 600 donne sono morte, vittime della violenza di genere. Si tratta, in media, di una donna uccisa ogni tre giorni. Di queste circa il 75% sono state uccise dai loro partner (coniugi, compagni o fidanzati) o ex-partner.

Il numero degli omicidi è di 87 nel 2000, 74 nel 2001, 83 nei 2002, 102 nel 2005, 106 nel 2004, 80 nel 2005 e 72 nei primi nove mesi del 2006.

Cosa fa di una questione sociale un argomento all'ordine del giorno, un fatto su cui le persone si vogliono esprimere, che suscita una voglia urgente di cambiare?

La violenza sulle donne è, in Spagna, uno di questi temi. Percepita come un'emergenza sociale e come il frutto del conflitto di genere in atto in una società nella quale le donne sono sempre più coinvolte nella sfera pubblica e non più relegate nell'ambito della famiglia.

E tutto è accaduto molto in fretta. Nella corsa alla modernità la Spagna ha creato un abisso di valori e di esperienze tra le generazioni. Le madri delle giovani donne che adesso hanno posti di responsabilità nella vita pubblica spagnola vivevano in una società nella quale non potevano viaggiare all'estero senza il permesso del marito, non potevano aprire un conto bancario senza la sua autorizzazione e la legge prevedeva ancora il delitto d'onore. Per il codice penale franchista l'adulterio femminile era un delitto. Uccidere la moglie che era stata con un altro uomo, o perché non era vergine al momento del matrimonio, non era un omicidio ma «uxoricidio per cause d'onore». Gli studenti di diritto apprendevano che uccidere la moglie non era un assassinio ma una forma attenuata di omicidio: un uomo che uccide sua moglie non è socialmente pericoloso e merita un trattamento penale attenuato in considerazione della lesione all'onore subita. Tutto questo fino a meno di trenta anni fa.

Se quello della violenza sulle donne è un tema che mette alla prova la società lo è perché le donne lo hanno imposto come tale.

Manifestazioni e cortei, iniziative pubbliche, associazioni che producono attività di aiuto alle donne che hanno subito violenza, che creano reti di solidarietà.

Quando una donna viene uccisa, nei luoghi della violenza vengono organizzate proteste che riescono a coinvolgere la cittadinanza, accada nei quartieri delle grandi città o in piccoli paesi. E nei piccoli centri fa veramente impressione vedere dieci donne stazionare silenziose davanti al portone di una casa dove è stata uccisa una donna, riuscire a mobilitare la cittadinanza e trascinarsi dietro decine di persone e poi centinaia, che chiedono di smettere di uccidere e di picchiare le donne, che chiedono alle istituzioni di non abbandonarle. Poi ci sono le associazioni di residenti e i comitati di quartiere, i collettivi femministi e i centri per anziani, le associazioni di vecinos, tutto il vastissimo mondo associativo locale spagnolo - non necessariamente politicizzato, anzi in massima parte non politicizzato – che si mobilita e fa mobilitare.

Una pressione continua che ha imposto il tema alla politica, al mondo dell'informazione e ai cosiddetti opinion maker.

Ma soprattutto segnala la consapevolezza diffusa dell'esistenza del problema e di quali siano i suoi termini.

Secondo un'indagine del Centro de Investigaciones Sociológicas, presentata nell'aprile 2004, il 56% degli spagnoli riteneva che i maltrattamenti verso le donne fossero aumentati nei cinque anni precedenti, l'87% che il governo dovesse impegnarsi incisivamente per sradicare il problema, perché, secondo il 90% delle risposte, la violenza domestica in Spagna «è molto o abbastanza estesa». Sempre secondo le risposte all'inchiesta, nell'ambito della violenza domestica la gravità maggiore va attribuita alle aggressioni fisiche, seguite dalla violenza sessuale, poi da quella psicologica, dalle restrizioni della libertà e infine dalle minacce verbali.

Zapatero ha fatto della parità di genere un asse della sua offerta politica. I diritti delle donne sono al centro della sua idea di Socialismo civico. Un tema che non fa parte solo del programma di governo ma che è componente fondamentale del lavoro che Zapatero ha fatto dentro il Psoe. Quando, diventato segretario, andava nei meeting di partito e spiegava la sua idea di socialismo parlava anche della donna. E a un certo punto cominciava a cercare lo sguardo degli uomini e esortava a condividere la fatica delle loro compagne, a capire il loro impegno quotidiano, a dividere i lavori di casa. I sessantenni facevano una faccia eloquente, non potevano credere che il segretario del partito li esortasse a rassettare la casa, ma le compagne capivano che le donne erano nel suo pensiero politico qualcosa di più di un capitolo obbligato che nei discorsi viene diligentemente messo tra il capoverso sull'ecologia e quello sui giovani. Violenza, sfruttamento e discriminazione sono misura della qualità civica di una democrazia che non può dirsi compiuta finché non affronta la questione della parità dei diritti e della violenza sulle donne, in quanto sintomi di un conflitto di genere che la politica non può permettersi di non inserire nella sua agenda. Se il conflitto di genere, in quanto fenomeno sociale profondo in atto, non può essere risolto, devono però essere approntate politiche che intervengano sulle sue manifestazioni sociali, facilitino l'acceso al mondo del lavoro in condizioni di parità, intervengano sulle discriminazioni e contrastino il fenomeno della violenza di genere.

Il governo che Zapatero presentò fu il governo della parità di genere, delle otto donne ministro su sedici, vetrina politica, certo, ma anche segno che le parole non erano solo tali e potevano diventare pratica politica. La sua vice presidente politica, Maria Teresa Fernández de la Vega, è la persona chiamata a sostenere la parte più dura del lavoro del governo, gestire il confronto politico quotidiano, affrontare lo scontro, rispondere alle polemiche, attaccare gli avversari. Ma, attorno all'esecutivo e nel partito, la strategia di promozione delle donne è la stessa.

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