Copertina
Autore Rebecca Skloot
Titolo La vita immortale di Henrietta Lacks
EdizioneAdelphi, Milano, 2011, La collana dei casi 89 , pag. 428, ill., cop.fle.sov., dim. 14x22x3 cm , Isbn 978-88-459-2614-3
OriginaleThe Immortal Life of Henrietta Lacks [2010]
TraduttoreLuigi Civalleri
LettoreCorrado Leonardo, 2012
Classe narrativa statunitense , biografie , storia della tecnica , biologia , medicina , copyright-copyleft , paesi: USA
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Indice


    Due parole su questo libro                           11


    LA VITA IMMORTALE DI HENRIETTA LACKS

    PROLOGO. La donna della fotografia                   15
    Parla Deborah                                        23


    PARTE PRIMA. VITA

 1. L'esame                                              27
 2. Clover                                               32
 3. Diagnosi e cura                                      42
 4. Nascita di HeLa                                      50
 5. «'Sta cosa nera mi sta entrando dentro dappertutto»  59
 6. «C'è una signora al telefono»                        67
 7. Nascita e morte di una coltura cellulare             75
 8. «Un triste spettacolo»                               83
 9. Turner Station                                       88
10. Dall'altro lato dei binari                           99
11. «I dolori li mandava il diavolo in persona»         106


    PARTE SECONDA. MORTE

12. Il temporale                                        113
13. La fabbrica di HeLa                                 118
14. Helen Lane                                          131
15. «Eri troppo giovane per ricordartela»               136
16. «Staranno vicini per l'eternità»                    145
17. Illegale, immorale e riprovevole                    155
18. «Il più bizzarro tra gli ibridi»                    166
19. «Nel momento più critico su questa terra»           174
20. La bomba HeLa                                       182
21. I dottori della notte                               188
22. «La fama così ampiamente meritata»                  201


    PARTE TERZA. IMMORTALITÀ

23. «È ancora viva»                                     211
24. «Il minimo che possono fare»                        224
25. «Chi vi ha detto di vendere la mia milza?»          232
26. Invasione della privacy                             241
27. Il segreto dell'immortalità                         247
28. Dopo Londra                                         254
29. Il paese delle Henriette                            269
30. Zakariyya                                           278
31. HeLa, dea della morte                               288
32. «Quella è tutta mia madre»                          298
33. L'ospedale dei negri matti                          308
34. Le cartelle cliniche                                320
35. Lavarsi l'anima                                     327
36. Corpi celesti                                       336
37. «Niente da aver paura»                              339
38. La lunga strada verso Clover                        347

    Cosa fanno oggi                                     353
    Postfazione                                         356

    Note                                                373
    Ringraziamenti                                      399
    Elenco dei protagonisti                             409
    Indice analitico                                    413


 

 

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Pagina 15

PROLOGO
LA DONNA DELLA FOTOGRAFIA



Ho appesa alla parete una vecchia foto, con un angolo strappato, tenuta insieme dal nastro adesivo. Raffigura una donna che non ho mai conosciuto. Guarda dritto nell'obiettivo e sorride, le mani sui fianchi fasciati dal vestito della festa, stirato a puntino. Le labbra sono dipinte di rosso vivo. È la fine degli anni Quaranta, e la donna non ha nemmeno trent'anni. La pelle è liscia e ambrata, gli occhi allegri e ancora pieni di gioventù. Non sa che dentro di lei sta crescendo il cancro, un tumore che di lì a poco renderà orfani cinque bambini e cambierà la storia della medicina. Una scritta sotto la foto la identifica come «Henrietta Lacks, o Helen Lane, o Helen Larson».

Nessuno sa chi abbia scattato la foto, eppure circola in centinaia di copie, stampata su riviste scientifiche e testi universitari, riprodotta in rete, appesa alle pareti dei laboratori. In genere la si identifica come Helen Lane; spesso però la donna non ha un nome, ma solo una sigla: HeLa, il codice attribuito alle prime cellule umane immortali. Sono le sue cellule, prelevate dalla sua cervice uterina poco prima che morisse.

Il suo vero nome è Henrietta Lacks.

Per anni l'ho fissata in quella foto, chiedendomi che cosa facesse nella vita, dove fossero i suoi figli e cosa avrebbe pensato delle sue cellule immortali, che da anni circolano per i laboratori di mezzo mondo, impacchettate, vendute e comprate a miliardi. Ho provato a mettermi nei suoi panni: che cosa avrei provato sapendo che una parte di me è stata spedita nello spazio per scoprire gli effetti dell'assenza di gravità sui tessuti umani? o che le mie cellule sono servite a compiere scoperte mediche tra le più importanti della storia, come il vaccino contro la polio, la chemioterapia, la clonazione, la mappatura genetica, la fecondazione in vitro? Sono quasi certa che lei, come quasi tutti noi, sarebbe stata sconvolta nell'apprendere che ci sono milioni di miliardi di sue cellule nei laboratori del mondo, molte più di quante ne contenesse il suo corpo da viva, e ancora continuano a crescere.

Non c'è modo di sapere con precisione quante siano le cellule di Henrietta oggi. Un ricercatore ha stimato il loro peso complessivo in più di cinquanta milioni di tonnellate; e visto che una cellula non pesa quasi niente, il numero risultante è davvero inconcepibile. Secondo i calcoli di un altro studioso, mettendo in fila tutte le HeLa mai esistite si avrebbe un nastro di centosettemila chilometri, quasi tre volte la circonferenza terrestre. Il tutto nato da una donna che nel fiore degli anni era poco più alta di un metro e mezzo.

Ho sentito parlare per la prima volta di HeLa e di Henrietta nel 1988, trentasette anni dopo la sua morte. Avevo sedici anni e seguivo una lezione di biologia in un corso di recupero. Il professor Donald Defler, un ometto con pochi capelli simile a uno gnomo, andava su e giù per l'aula mostrando diapositive con un proiettore. A un certo punto comparvero sulla parete che fungeva da schermo due illustrazioni che avrebbero dovuto rappresentare la riproduzione cellulare, ma che a me sembravano solo un caotico e colorato miscuglio di frecce, quadrati, circoletti e parole senza senso, come «attivazione della proteinchinasi MPF».

Ero stata bocciata al primo anno delle superiori per via delle troppe assenze. Mi avevano trasferito in una scuola molto alternativa dove al posto delle scienze si studiavano i sogni, così dovevo frequentare il corso di recupero di Defler per sperare di passare gli esami delle scuole superiori. Ecco perché a sedici anni me ne stavo in quell'aula ad anfiteatro ad ascoltare uno che mi parlava di mitosi e proteinchinasi. Non ci capivo nulla.

«Dobbiamo imparare a memoria tutti i nomi in queste figure?» gridò un ragazzo.

Defler rispose di sì, che li avrebbe chiesti all'esame, ma di non preoccuparsi dei dettagli per il momento. L'importante era capire che le cellule erano davvero qualcosa di speciale. Ce ne sono circa centomila miliardi nel nostro corpo, e sono tanto piccole che potrebbero stare a migliaia dentro il punto che chiude questa frase. Sono i costituenti dei tessuti (muscoli, ossa, sangue, ecc.), che a loro volta formano tutti i nostri organi.

Al microscopio una cellula sembra un uovo al tegamino. Il bianco è rappresentato dal citoplasma, fatto di acqua e proteine che servono da carburante, mentre il tuorlo è il nucleo, dove sono contenute le informazioni genetiche che ci rendono quello che siamo. Il citoplasma brulica di attività come le strade di New York: tantissime molecole corrono qua e là a trasportare enzimi e zuccheri, mentre altre si occupano di fare entrare e uscire dalla cellula, a seconda del bisogno, acqua, ossigeno e nutrienti vari. Nel citoplasma ci sono anche delle fabbriche che lavorano senza sosta a produrre zuccheri, grassi, proteine ed energia, necessari per far andare avanti la baracca e soprattutto a nutrire il nucleo, che è il centro di comando. In ogni nucleo si trova una copia precisa del nostro intero genoma, il codice che dice alle cellule quanto devono crescere, quando devono dividersi e in generale come devono fare il loro lavoro, che si tratti di regolare il battito cardiaco o mettere il cervello in condizione di capire quanto sta scritto su questa pagina.

Sempre passeggiando su e giù, Defler ci spiegò la mitosi, il processo di divisione cellulare grazie al quale gli embrioni diventano bambini, le ferite guariscono e il sangue perso viene rimpiazzato. Il tutto, disse, era affascinante come un balletto dalla coreografia perfetta.

Ma basta un errorino in un qualsiasi passo del processo di divisione, continuò Defler, ed ecco che le cellule iniziano a crescere in modo incontrollato. È sufficiente che un solo enzima non faccia il suo dovere, che una sola proteina non si attivi, per dare inizio a un processo canceroso. La mitosi impazzisce e il tumore si diffonde.

«Abbiamo scoperto come stanno le cose studiando le colture cellulari» disse Defler. Fece un mezzo sorriso e si voltò verso la lavagna, dove scrisse a caratteri cubitali HENRIETTA LACKS.

Henrietta, ci raccontò, era scomparsa nel 1951 a causa di un tumore molto aggressivo alla cervice uterina. Poco prima che morisse, un medico prelevò dei campioni del suo tessuto canceroso e li mise a coltura in una capsula di Petri. Erano anni che gli scienziati cercavano di far sopravvivere le cellule umane fuori dal corpo, ma senza successo. Quelle di Henrietta, però, iniziarono subito a riprodursi, creando una nuova generazione nel giro di ventiquattr'ore, e da allora non hanno mai smesso di crescere. Sono le prime cellule umane immortali coltivate in laboratorio.

«Le cellule di questa donna hanno vissuto fuori del suo corpo più a lungo di quanto abbiano vissuto dentro di lei» disse Defler. Bastava entrare in un qualunque laboratorio dove fossero presenti colture cellulari e aprire i refrigeratori per imbattersi con grande probabilità in milioni, se non miliardi, di cellule della Lacks conservate in qualche provetta ghiacciata.

Queste colture hanno avuto un ruolo in mille ricerche: la scoperta delle cause del cancro e dei possibili modi per fermarlo; la sintesi di farmaci contro l'herpes, la leucemia, l'influenza, l'emofilia e il morbo di Parkinson; studi vari sulla digestione del lattosio, sulle malattie a trasmissione sessuale, sull'appendicite, sulla longevità, sull'accoppiamento delle zanzare e sugli effetti deleteri delle scorie tossiche. Cromosomi e proteine di HeLa sono stati analizzati con tale precisione che oggi se ne conosce ogni dettaglio. Queste cellule sono diventate come le cavie e i topolini: carne da cannone nei laboratori di tutto il mondo.

«HeLa è stata una delle scoperte più importanti in campo medico negli ultimi cent'anni» sostenne Defler. Poi aggiunse con tono neutro, quasi pensando ad alta voce: «Era nera, questa donna». Cancellò il suo nome con un gesto veloce e si pulì le mani dal gesso. La lezione era finita.

Mentre i miei compagni uscivano dall'aula rimasi un attimo a pensare a lei. Tutto qui? Fine della storia?

Raggiunsi Defler nel suo studio.

«Di dov'era la Lacks?» gli chiesi. «Aveva figli? Sapeva quanto fossero importanti le sue cellule?».

«Vorrei poterti dare una risposta, ma nessuno ne sa nulla» rispose.

Tornata a casa, mi gettai sul letto con il testo di biologia e mi misi a scorrere l'indice analitico. Dalla voce «coltura cellulare» risalii a un passo del testo dove in un breve inciso si parlava di lei:

Le cellule cancerose in coltura possono continuare a dividersi all'infinito, se rifornite sempre di sostanze nutrienti, e per questo si dice siano «immortali». Un esempio eclatante è dato da un linea cellulare ancora attiva nata nel 1951 (è la cosiddetta linea HeLa, così chiamata perché ha avuto origine dal tessuto tumorale prelevato da una donna di nome Henrietta Lacks).

Tutto qui. Cercai nell'enciclopedia di casa e nel dizionario, ma di Henrietta non si faceva cenno.

Riuscii a diplomarmi e mi iscrissi a biologia. In tutti i corsi saltavano fuori le cellule HeLa: istologia, neurologia, patologia. Ne usai un po' in prima persona, per un'esercitazione di laboratorio relativa alla comunicazione cellulare. Ma dopo Defler, nessuno dei miei professori fece più il nome di Henrietta.

A metà degli anni Novanta iniziai a usare il computer per navigare in rete. Mi misi a cercare informazioni su di lei, ottenendo però solo frammenti contraddittori. In gran parte dei siti consultati c'era scritto che il suo nome era Helen Lane; per alcuni era morta negli anni Trenta, per altri nei Quaranta, Cinquanta o addirittura Sessanta. Chi diceva fosse stata colpita da un tumore alle ovaie, chi al seno, chi alla cervice uterina.

Alla fine, su certe riviste degli anni Settanta riuscii a trovare qualche articolo che parlava di lei. «Ebony» riportava le parole del marito di Henrietta: «Ricordo solo che aveva questa brutta malattia e che subito dopo morta il medico mi chiamò nel suo studio per chiedermi il permesso di prendere un campione di non so cosa. Dissi di no». Per «Jet» la famiglia Lacks si era molto arrabbiata dopo aver scoperto che le cellule di Henrietta, menzionate in molti articoli di ricerca, si vendevano a venticinque dollari a confezione senza che nessuno di loro ne sapesse nulla: «Dentro di loro cresceva la terribile sensazione di essere stati sfruttati, dalla stampa e dalla scienza tutta».

Gli articoli erano corredati da foto dei Lacks: il figlio maggiore di Henrietta seduto a tavola nella sua casa di Baltimora, mentre sfoglia un manuale di genetica; il secondo figlio in uniforme, che sorride con un bimbo in braccio. Ma una mi colpì più di tutte: si vedeva Deborah, la figlia di Henrietta, circondata da famigliari sorridenti e dagli occhi vivaci che la stringevano in un abbraccio; lei però non sorrideva. Era lì, in primo piano, e sembrava sola, come se fosse stata aggiunta alla foto in un secondo momento. All'epoca aveva ventisei anni ed era bella, con i capelli castani tagliati corti e gli occhi da gatta. Ma lo sguardo era duro, serio. Nella didascalia della foto si diceva che la famiglia Lacks aveva appena saputo delle cellule immortali di Henrietta, all'epoca scomparsa da venticinque anni.

Secondo quegli articoli, i medici avevano iniziato a far ricerche sui figli di Henrietta, senza però che nessuno sapesse di cosa si trattava. I Lacks dicevano che gli scienziati volevano sapere se loro avessero lo stesso cancro che aveva ucciso la madre, ma secondo i giornalisti le ricerche tentavano di ricostruire la storia genetica della famiglia per capire l'origine di HeLa. Un articolo citava Lawrence, un altro dei figli, che voleva sapere se anche lui sarebbe vissuto per sempre come le cellule della mamma. Una sola voce non si era aggiunta al coro famigliare: quella di Deborah.

Nel frattempo avevo preso la laurea di primo livello ed ero passata a studiare giornalismo. Mi ero fissata sulla storia di Henrietta, che mi sarebbe piaciuto poter raccontare un giorno. Ero anche arrivata al punto di chiamare il servizio di ricerca numeri telefonici a Baltimora, per rintracciare il marito di Henrietta, David; ma non c'era nessuno con quel nome sull'elenco. Avrei voluto scrivere un libro che fosse una doppia biografia, che raccontasse la vita delle cellule e della donna da cui erano state prelevate, una donna in carne e ossa, figlia, moglie e madre.

Allora non l'avrei mai immaginato, ma quella telefonata fu l'inizio di un'avventura decennale, che mi avrebbe portato a frequentare ospedali, laboratori e vecchi manicomi. Avrei incontrato nel corso delle mie ricerche premi Nobel e commessi di drogheria, criminali incalliti e maghi della truffa. Avrei cercato di sbrogliare la matassa delle delicate questioni di carattere etico che nascono quando si fa uso di tessuti umani nella ricerca scientifica. Sarei stata accusata di essere una spia e sbattuta contro un muro, in senso sia fisico sia metaforico. Mi sarei anche trovata coinvolta come protagonista in una cerimonia che aveva tutta l'aria di un esorcismo. Alla fine sarei riuscita a incontrare Deborah, che si sarebbe poi dimostrata una donna tra le più forti e tenaci che io abbia mai conosciuto. Ci ha unito un legame profondo, nato lentamente, quasi senza che ce ne accorgessimo. Lei è diventata un personaggio della mia storia, e io uno della sua.

I nostri mondi non avrebbero potuto essere più dissimili. Io sono cresciuta nel Nordovest degli Stati Uniti in una famiglia bianca, per metà di ceppo ebreo newyorkese e per metà di protestanti del Midwest, e non ho avuto un'educazione religiosa. Deborah era una donna nera del Sud imbevuta di cristianesimo. La religione per me è sempre stata quasi un fastidio, qualcosa di cui non volevo parlare. Deborah e la sua famiglia, invece, confidavano nel potere della preghiera e avevano credenze spirituali sconfinanti quasi nel voodoo. Lei era cresciuta in una zona tra le più povere e a più alto tasso di criminalità del Paese, io in un tranquillo quartiere abitato dalla classe media, quasi esclusivamente bianca (nella scuola superiore che ho frequentato c'erano due soli studenti neri). Io sono una giornalista scientifica che ha sempre liquidato il soprannaturale come «sciocchezze da stregoni», mentre Deborah era convinta che lo spirito della madre dimorasse ancora nelle sue cellule e intervenisse nella vita di chi ne incrociasse il cammino. Me compresa.

«Altrimenti come spieghi che il tuo prof di scienze sapeva il suo vero nome e tutti gli altri invece la chiamavano Helen Lane?» mi disse un giorno Deborah. «Era lei che voleva attirare la tua attenzione». Sua madre, a sentir lei, è entrata più volte nelle mie faccende. Mi sono sposata mentre lavoravo a questo libro: Henrietta voleva che qualcuno si prendesse cura di me. Poi ho divorziato: Henrietta aveva deciso che il matrimonio mi distraeva dal libro. Un redattore insisteva perché togliessi dal testo le storie personali dei Lacks: coinvolto in un misterioso incidente. Ecco quel che succede quando fai incavolare Henrietta, diceva Deborah.

I Lacks mi hanno fatto riflettere a fondo sulle mie convinzioni riguardo alla fede, al giornalismo e alle questioni razziali. Il libro è il risultato finale di questo processo. Non è solo la storia di HeLa, ma di Henrietta, della sua famiglia (soprattutto di Deborah) e di quanto si siano sforzati per fare i conti con quelle cellule e con la scienza che le ha rese immortali.

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Pagina 23

PARLA DEBORAH



Quando la gente me lo chiede – e sono sempre lì a fare domande, non riesco mai a mollarli – io dico che sì, mia madre si chiamava Henrietta Lacks, è morta nel 1951, al John Hopkins hanno preso le sue cellule e 'ste cellule sono ancora vive, si moltiplicano, crescono e se non si tengono nel congelatore se ne vanno dappertutto. Gli scienziati la chiamano HeLa, e lei è in tutto il mondo, negli ospedali, nei computer, in internet, dappertutto.

Tutte le volte che vado da un dottore per i controlli dico che HeLa era mia madre. Loro sono tutti entusiasti, e mi dicono che le sue cellule hanno aiutato a fare le mie medicine per la pressione e le mie pillole per la depressione, e che tutte queste scoperte importanti della scienza sono successe grazie a lei. Ma non mi spiegano mai niente, solo cose del tipo sua madre è andata sulla luna, è stata nelle bombe nucleari, ha fabbricato il vaccino della polio. Davvero non so come ha fatto tutto questo, ma in un certo senso sono contenta, perché significa che sta aiutando un mucchio di gente. Penso che le farebbe piacere.

Però ho sempre pensato: che strano, se le cellule di nostra madre hanno fatto tanto per la medicina, com'è che la sua famiglia non può permettersi le visite mediche? Non ha proprio senso. C'è gente che ha fatto un sacco di soldi grazie alla mamma e noi non sapevamo neppure che le prendevano le cellule, e oggi non vediamo un centesimo. Prima mi arrabbiavo così tanto se ci pensavo, mi faceva star male, e dovevo prendere delle pillole. Ma adesso non ho più la forza di lottare. Voglio solo sapere chi era mia madre.

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Pagina 27

1
L'ESAME
(1951)



Il 29 gennaio 1951, David Lacks era seduto al volante della sua vecchia Buick e guardava la pioggia cadere. La macchina era parcheggiata davanti al Johns Hopkins Hospital, sotto una quercia maestosa. David si era portato dietro tre dei suoi figli, due dei quali ancora in fasce, e aspettava. Sua moglie Henrietta, poco prima, era uscita dall'auto e, riparandosi la testa con il colletto del soprabito, era entrata di corsa nell'edificio, passando davanti alla porta del bagno riservato ai colored, l'unico che le era concesso usare. Là dove un tempo c'era l'ingresso principale dell'ospedale, sotto un elegante tetto a cupola rivestito di rame, una statua marmorea di Cristo alta tre metri accoglieva a braccia aperte i visitatori. Di solito, prima di una visita medica nessuno dei famigliari di Henrietta mancava di sostare davanti a Gesù per deporre un mazzetto di fiori, dire una preghiera e accarezzargli l'alluce, come scongiuro. Ma quel giorno Henrietta non si fermò.

Entrò senza esitazione nella sala d'attesa della clinica ginecologica, uno stanzone semivuoto con qualche lunga fila di panche che sembravano banchi di chiesa.

«Ho un nodo nella pancia» disse all'accettazione. «Il dottore mi deve vedere».

Da più di un anno, ormai, Henrietta confidava alle amiche più care di non sentirsi bene. Una sera dopo cena si mise a sedere sul letto con le cugine Margaret e Sadie e disse loro: «Ho come un nodo dentro».

«Un che?» chiese Sadie.

«Un nodo. Mi fa male da morire. E quando il mio uomo vuole stare con me, Gesù santo che dolori».

Al principio, disse, pensava che i dolori nel rapporto fossero dovuti al parto recente: Deborah, l'ultima figlia, era nata poche settimane prima. Oppure che fosse colpa di David e del suo sangue cattivo, quella malattia che aveva preso dalle donnacce e che i dottori allora curavano con iniezioni di penicillina e farmaci a base di mercurio.

Henrietta afferrò, una dopo l'altra, le mani delle cugine e le posò sul suo grembo, proprio come aveva fatto quando Deborah aveva iniziato a scalciare.

«Sentite niente?».

Le due donne premettero più volte le dita sulla pancia.

«Non so,» disse Sadie «forse sei rimasta incinta fuori dall'utero, sai che a volte succede, no?».

«Non sono incinta un bel niente, è un nodo».

«Hennie, devi farti controllare. E se è una brutta malattia?» disse Sadie.

Ma Henrietta non andò dal medico e le cugine non raccontarono a nessuno che cosa avevano sentito quel giorno. Allora non si parlava apertamente di cancro o altri malanni, e Sadie era convinta che la cugina non volesse farsi visitare per paura che le asportassero l'utero e di non poter più avere bambini.

Circa una settimana dopo, a ventinove anni appena, Henrietta scoprì di essere incinta del quinto figlio, Joe. Sadie e Margaret le dissero che la causa dei dolori doveva essere quella, ma lei non ne era per niente convinta.

«Era prima che arrivasse il bambino, è qualcos'altro».

Nei mesi seguenti nessuno parlò più di nodi nella pancia, e David fu tenuto all'oscuro di tutto. Finché un giorno, quattro mesi e mezzo dopo la nascita di Joe, Henrietta andò al bagno e si trovò sporca di sangue in un giorno in cui proprio non era previsto.

Chiusa a chiave la porta per proteggersi dalle intrusioni, riempì la vasca di acqua calda e si immerse. Allargò le gambe e si infilò con cautela un dito nella vagina, per esplorare la cervice. E lì trovò quello che in qualche modo si aspettava: una massa dura e tondeggiante, in profondità. Sembrava che qualcuno le avesse infilato una biglia subito alla sinistra della bocca dell'utero.

Henrietta uscì dalla vasca, si asciugò e si vestì. Poi chiamò il marito e gli disse: «È meglio che mi porti dal dottore, perdo sangue e non sono i miei giorni».

Il medico del paese la visitò, vide la massa e pensò che fosse una lesione da sifilide. Le fece il test apposito, che però risultò negativo. Era meglio farsi vedere da uno specialista al Johns Hopkins.

L'ospedale era all'epoca uno dei migliori del Paese. Fondato nel 1889 come ente benefico per la cura dei poveri, si estendeva per circa cinque ettari nella zona orientale di Baltimora, là dove un tempo c'erano un manicomio e un cimitero. I reparti pubblici erano sempre pieni di pazienti, quasi tutta gente di colore, che non potevano permettersi di pagare le cure. Distava una trentina di chilometri dalla casa dei Lacks, ma David aveva portato la moglie fin lì non perché entrambi lo preferissero ad altri ospedali, ma perché era l'unico grande centro nel raggio di molti chilometri che accettasse pazienti neri. Erano gli anni della segregazione razziale e delle cosiddette «leggi Jim Crow», e non era raro che gli ospedali riservati ai bianchi respingessero i neri che si presentavano al pronto soccorso, anche se ciò significava lasciarli morire nel parcheggio. Pure al Johns Hopkins, comunque, bianchi e neri erano tenuti ben separati. Per i colored c'erano reparti apposta, tutto era doppio, anche le fontanelle dell'acqua.

L'infermiera chiamò Henrietta nella sala d'attesa e la condusse nella zona visite riservata ai neri. L'ambulatorio era una stanza fra tante, tutte in fila e separate da pareti di vetro, in modo che il personale potesse controllarle con un solo sguardo. Henrietta si spogliò, indossò un camicione bianco inamidato e si sdraiò su un lettino di legno, in attesa del ginecologo. Quel giorno era di turno il dottor Howard Jones, un uomo magro dai capelli grigi, con un vocione profondo addolcito appena dall'accento del Sud. Henrietta gli raccontò della massa che aveva trovato. Prima di visitarla, il medico diede un'occhiata alla cartella clinica, che descriveva in sintesi una vita di malanni non curati:

Scolarità: prima o seconda media. Casalinga, cinque figli. Difficoltà alla respirazione fin dall'infanzia, numerose infezioni cavo orofaringeo e setto nasale deviato. Consigliato intervento correttivo, la paziente si è rifiutata. Crisi odontalgiche non trattate per cinque anni, conseguenti estrazioni multiple. Ambiente famigliare senza problemi, unica preoccupazione la figlia maggiore epilettica, che non parla. Consumo molto modesto di alcol. Mai viaggiato. Paziente ben nutrita, cooperativa. Altri sei fratelli e sorelle vivi, tre deceduti: incidente d'auto, cuore reumatico, avvelenamento. Sanguinamento vaginale e nelle urine durante le ultime due gravidanze, richiesto test per l'anemia falciforme, la paziente si è rifiutata. Conosce il marito dall'età di 15 anni, rapporti sessuali non graditi. Affetta da neurosifilide asintomatica, ha interrotto le cure perché sosteneva di stare bene. Due mesi prima della visita, dopo il quinto parto, lamentato copioso sangue nelle urine. Segni di attività cellulare anomala nella cervice. Il medico curante ha richiesto una visita specialistica, la paziente ha disdetto l'appuntamento. Un mese prima della visita, la paziente è risultata positiva alla gonorrea. Paziente richiamata in clinica per trattamento. Nessuna risposta.

Tutti quei rifiuti e quelle visite saltate si spiegavano facilmente. Per Henrietta entrare al Johns Hopkins voleva dire essere trasportata in una terra straniera di cui non parlava la lingua. Sapeva tutto sul raccolto del tabacco, sapeva macellare il maiale, ma cose come «cervice» e «biopsia» non aveva idea di dove venissero. Leggeva e scriveva a malapena e non aveva mai studiato scienze a scuola. Come quasi tutti gli altri pazienti neri, andava al Johns Hopkins solo in caso di estrema necessità.

Il dottor Jones la ascoltò mentre gli raccontava del dolore al ventre e del sangue. Nel referto della visita scrisse poi: «Sostiene di sapere che c'è qualcosa che non va al collo dell'utero. Alla richiesta di spiegazioni, risponde che aveva sentito una massa. Non capisco che cosa intenda, tranne che forse ha palpato da sola la zona in questione».

Sdraiata sul lettino, i piedi ben saldi nelle staffe, Henrietta durante la visita fissava il soffitto. E proprio come aveva predetto, Jones trovò la massa nel punto preciso da lei indicato. Nella cartella è descritta come un grumo duro e irregolare, grande quanto una moneta da cinque centesimi, posizionata «a ore quattro» nella bocca dell'utero. Nella sua carriera il dottore aveva visto migliaia di lesioni cancerose alla cervice, ma mai come quella: l'aspetto era traslucido, il colore viola profondo («sembrava gelatina all'uva» disse poi) e bastava un lieve tocco per provocare il sanguinamento. Prelevò un piccolo campione e lo spedì al laboratorio di anatomia patologica, situato nello stesso edificio. Poi disse a Henrietta che poteva rivestirsi e andare a casa.

Nelle note che Jones dettò subito dopo all'assistente si legge: «La cosa interessante è che la paziente è stata qui il 19 settembre 1950 per un parto regolare. Non sono indicate anomalie in quella data, né all'epoca della visita di controllo dopo sei settimane».

Eppure eccola lì, solo tre mesi dopo, con un tumore in pieno sviluppo. Delle due l'una: o era sfuggito ai medici durante l'ultima visita, il che sembrava a tutti impossibile, o era cresciuto a velocità spaventosa.

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NASCITA E MORTE
DI UNA COLTURA CELLULARE
(1951)



Il 10 aprile 1951, tre settimane dopo il primo trattamento in radioterapia di Henrietta, George Gey fu ospite della televisione locale WAAM di Baltimora, in una trasmissione speciale dedicata al suo lavoro. Con un solenne sottofondo musicale, l'annunciatore lo presentò così al pubblico: «Questa sera scopriremo perché gli scienziati sono convinti che il cancro si possa debellare».

Stacco della telecamera su Gey, dietro a un tavolo e circondato da fotografie di cellule. Il volto affilato e attraente, naso aquilino, un paio di occhiali bifocali dalla montatura in plastica nera, e due balletti alla Charlie Chaplin. Sedeva rigido, con la schiena perfettamente dritta, un impeccabile completo di tweed, con tanto di fazzoletto bianco nel taschino, i capelli impomatati. Lo sguardo vagava tra un punto imprecisato dello studio e la macchina da presa, le dita tamburellavano sul tavolo, il volto non sembrava tradire alcuna emozione.

«Le cellule normali che costituiscono il nostro corpo» iniziò con voce un po' troppo alta e impostata «sono minuscole, tanto che la capocchia di uno spillo ne potrebbe contenere cinquemila. Ancora ci sfugge come una cellula normale diventi a un certo punto cancerosa».

Aiutandosi con le fotografie e una lunga bacchetta di legno, fornì al pubblico qualche nozione di base sulla struttura delle cellule e sui meccanismi del cancro. Mostrò quindi dei filmati in cui le cellule si muovevano sullo schermo, estendendo le loro membrane per esplorare nuove aree. A un certo punto lo zoom si concentrava su una singola cellula, apparentemente ferma e dalla forma regolare, la quale a un tratto iniziava a tremolare e poi ad agitarsi con foga, esplodendo infine per dar vita a cinque cellule cancerose.

Nel corso del programma, Gey mostrò anche un campione: «Ora vi farò vedere una bottiglia in cui abbiamo fatto crescere grandi quantità di cellule tumorali». Tirò fuori da sotto il tavolo un recipiente di vetro della capacità di mezzo litro, con ogni probabilità pieno di cellule di Henrietta. Lo agitò di fronte al pubblico, spiegando come il suo laboratorio stesse utilizzando quel materiale: «È del tutto possibile che ricerche di base come le nostre portino a scoprire come colpire le cellule tumorali e magari distruggerle completamente».

Per vincere questa battaglia, Gey nel frattempo aveva iniziato a spedire campioni di cellule di Henrietta ai colleghi che ne avevano bisogno. Il trasporto postale di materiale biologico vivo oggi è una pratica comune, ma allora non era fattibile. Per ovviare alle difficoltà logistiche, Gey ne spediva per via aerea delle piccole quantità, con il liquido di coltura sufficiente per mantenerle in vita per qualche ora. A volte chiedeva a piloti o hostess di tenere le provette nel taschino, in modo che il contatto con il corpo le mantenesse a una temperatura simile a quella dell'incubatrice. Quando le cellule erano obbligate a viaggiare in stiva, per evitare che si danneggiassero le infilava in blocchi di ghiaccio in cui aveva praticato dei buchi, che poi racchiudeva in scatole di cartone piene di segatura. Poco prima che il campione partisse, Gey avvertiva i destinatari che stava per compiersi la «metastasi», in modo che fossero pronti a ricevere il pacco all'aeroporto e portarlo di corsa in laboratorio. Quando tutto andava per il verso giusto, le cellule arrivavano vive; altrimenti, si ricominciava da capo e si preparava un'altra spedizione.

Le HeLa arrivarono in Texas e in India, a New York e ad Amsterdam, e in molti altri posti. Chi riceveva un campione in genere lo faceva girare ai colleghi, creando così un effetto a catena che portò le cellule di Henrietta fino alle montagne del Cile, nelle bisacce dei muli da soma. Da parte sua Gey continuava a volare da un capo all'altro del mondo per insegnare le sue tecniche di coltura cellulare, e in queste occasioni non mancava di portare un po' di provette nel taschino. Viceversa, i colleghi che arrivavano in visita al laboratorio di Gey ripartivano quasi sempre con uno o due campioni di HeLa. Nelle lettere di quel periodo, le cellule sono a volte chiamate «le mie preziose piccine».

Quelle piccole cose erano «preziose» perché rendevano possibili esperimenti che i ricercatori non avrebbero potuto eseguire senza materiale biologico umano vivente. Le cellule di Henrietta furono tagliuzzate, irraggiate, esposte agli effetti di innumerevoli tossine e agenti patogeni, bombardate con farmaci nella speranza di trovarne uno che uccidesse le maligne e risparmiasse le sane. Le HeLa furono iniettate in topi a cui erano state azzerate le difese immunitarie, che dunque venivano colpiti da tumori molto simili a quello originale di Henrietta. Se nel corso dell'esperimento le cellule morivano, poco male: bastava andare nella dispensa HeLa, che si rinnovava in eterno, prenderne un altro po' e ripartire dall'inizio.

Nonostante la diffusione della nuova coltura e il fiorire di ricerche che ne seguirono, la notizia della nascita di HeLa, questa straordinaria linea cellulare che prometteva meraviglie nella cura del cancro, non si diffuse troppo. Durante quell'unica trasmissione televisiva, Gey non fece il nome di Henrietta né raccontò la storia di quelle cellule. Ma anche se il grande pubblico ne fosse stato informato, con ogni probabilità l'attenzione sarebbe stata scarsa. Erano anni che la stampa parlava delle colture cellulari e della loro promessa di curare ogni malattia e rendere l'uomo immortale; però nel 1951 pochi ormai ci credevano. La tecnica in questione non sembrava più un miracolo della medicina, quanto una stregoneria uscita dritta dritta da una spaventevole storia di fantascienza.

Tutto era iniziato il 17 gennaio 1912, quando il chirurgo francese Alexis Carrel, che all'epoca lavorava al Rockefeller Institute, disse di aver creato un «cuore di pollo immortale».

I primi tentativi di far crescere in laboratorio delle cellule viventi risalivano a fine Ottocento, ma nessuno era mai riuscito a farle sopravvivere a lungo. Molti studiosi, di conseguenza, ritenevano che mantenere in vita un tessuto al di fuori del corpo fosse impossibile. Carrel si mise di impegno per dimostrare il contrario. A trentanove anni aveva inventato una tecnica affidabile di sutura vascolare, che aveva utilizzato per compiere il primo by-pass coronarico e porre le basi per i futuri trapianti. Per raggiungere l'obiettivo di far crescere interi organi in vitro, aveva riempito il suo laboratorio di polmoni, fegati, reni e altri tessuti che si faceva arrivare per corriere. Quando come primo passo prelevò un frammento del cuore di un pollo e lo mise in coltura, in mezzo allo stupore generale vide che la cosa funzionava: quelle cellule cardiache continuavano a contrarsi come se fossero state ancora dentro l'organismo.

Qualche mese dopo questa scoperta, Carrel vinse il premio Nobel per la medicina, grazie alle sue ricerche sulle suture vascolari e sui trapianti. E diventò subito famoso. Il prestigioso riconoscimento non c'entrava nulla con la storia del cuore di pollo, ma la stampa ci si buttò a pesce, fece una sintesi tra la coltura cellulare e i trapianti, e dall'oggi al domani il chirurgo francese fu presentato come lo scopritore dell'eterna giovinezza. Sui giornali di tutto il mondo non era raro trovare titoli come:

IL NUOVO MIRACOLO DI CARREL:
FORSE È POSSIBILE NON INVECCHIARE!
LA SCIENZA COSTRUISCE UN CUORE DI POLLO IMMORTALE
LA MORTE È DAVVERO INEVITABILE?

I colleghi di Carrel erano convinti che la coltura cellulare fosse una delle massime scoperte scientifiche del secolo. Ci fu chi sostenne che tale tecnica avrebbe svelato ogni sorta di segreti, dall'alimentazione umana al sesso, «dalla musica di Bach ai versi di Milton al genio di Michelangelo». Carrel divenne una specie di messia. La stampa ribattezzò il suo mezzo di coltura cellulare un «elisir di eterna giovinezza»: chi vi si fosse bagnato sarebbe vissuto per sempre.

Il nostro eroe, però, non era molto interessato a migliorare la vita delle masse. Credeva nell'eugenetica: per lui, i trapianti d'organo e le tecniche di prolungamento della vita erano destinati solo alla conservazione dei bianchi di razza superiore, che correvano il rischio di essere contaminati da creature meno intelligenti, come i neri, i poveri e gli analfabeti. I sogni di immortalità erano riservati a chi ne era degno, mentre gli altri meritavano la morte o la sterilizzazione coatta. Qualche anno più tardi avrebbe approvato le «soluzioni energiche» adottate in tal senso da Hitler.

Le eccentriche abitudini di Carrel lo rendevano ancora di più un beniamino della stampa. Questo francese tracagnotto dalla parlantina sciolta e dagli occhi di colore diverso (uno azzurro e uno marrone) raramente si mostrava in pubblico senza la sua cuffia da chirurgo. Poiché riteneva, sbagliando, che la luce uccidesse le cellule, teneva il suo laboratorio sempre al buio. Era una specie di raduno del Ku Klux Klan in negativo: tecnici e ricercatori lavoravano coperti da tuniche e cappucci neri, con due sole fessure per gli occhi, seduti su sedie nere accanto a tavoli neri in un stanza dipinta di nero dal pavimento al soffitto. L'unica debole luce proveniva da un piccolo lucernario polveroso.

Carrel aveva tendenze misticheggianti e credeva alla telepatia e alla preveggenza. Era convinto che gli esseri umani potessero vivere per secoli e secoli rimanendo in uno stato di sospensione inanimata. Trasformò casa sua in un luogo di culto, iniziò a tenere lezioni sui miracoli e a rilasciare interviste in cui sosteneva che il suo sogno era diventare il dittatore di uno stato sudamericano. I colleghi presero le distanze e lo bollarono come «antiscientifico», ma una buona fetta dell'America bianca era d'accordo con lui e lo riteneva un genio, una guida spirituale.

Il «Reader's Digest» pubblicò una serie di articoli in cui Carrel sosteneva cose del tipo: «Una moglie troppo sensuale non deve costringere il marito ad avere rapporti», perché il sesso svuota il cervello. Nel suo best-seller L'uomo, questo sconosciuto propose di rettificare un «errore» nella costituzione americana, là dove sosteneva che tutti gli uomini avevano gli stessi diritti: «Il debole di mente e l'uomo di genio non devono essere uguali di fronte alla legge ... I cretini, gli sciocchi, gli incapaci di attenzione e concentrazione non hanno diritto ad accedere agli studi superiori».

Il libro vendette più di due milioni di copie e fu tradotto in venti lingue. Alle sue conferenze pubbliche partecipavano grandi folle, che a volte dovevano essere tenute a bada dalla polizia. Carrel riempiva le sale oltre ogni limite.

Nel frattempo, la stampa continuava a ossessionare i lettori con la storia del cuore di pollo immortale. Ogni primo dell'anno, il «New York World Telegram» ricordava al francese di tenere d'occhio le sue cellule. Il 17 gennaio si ripeteva la cerimonia degli auguri: Carrel e i suoi collaboratori schierati in laboratorio con le loro vesti nere cantavano «Buon compleanno» alle cellule, e qualche giornale o rivista ne parlava:

LE CELLULE DEL CUORE DI POLLO COMPIONO DIECI ANNI...
QUATTORDICI ANNI... VENT'ANNI...

Puntualmente, l'articolo di turno ricordava che quelle cellule stavano per cambiare la storia della medicina. Ma niente di quanto promesso si avverava, mentre le uscite pubbliche di Carrel si facevano sempre più folli.

A un certo punto dichiarò che «le cellule si moltiplicheranno fino a raggiungere un volume maggiore del sistema solare». Secondo quanto riportato dal «Literary Digest», se srotolate avrebbero potuto coprire già l'intera superficie terrestre; un foglio popolare inglese scrisse che erano sufficienti «per comporre un gallo in grado di attraversare l'Atlantico in un sol passo, [un uccello] così mostruoso che avrebbe potuto appollaiarsi sul mondo intero, facendo sembrare la Terra nulla più di un posatoio». Alcuni libri di successo iniziarono a mettere in guardia il pubblico sui pericoli delle colture cellulari: uno sosteneva che presto il settanta per cento dei bambini sarebbero stati «coltivati»; un altro paventava la nascita di «negri giganti» e rospi con due teste.

Ma il sintomo del panico che ormai queste faccende suscitavano negli americani fu dato da un episodio di Lights Out, un radiodramma horror degli anni Trenta il cui protagonista, il fantomatico dottor Alberts, crea in laboratorio un cuore di pollo immortale. Presto questo tessuto sfugge al controllo degli scienziati e si spande per le strade della città, come in Blob, distruggendo l'intero Paese in due settimane.

Nel mondo reale, il cuore di pollo non se la passava così bene. Anzi, alla fine si scoprì che le cellule progenitrici erano con ogni probabilità morte presto. Qualche anno dopo la morte di Carrel, avvenuta mentre era in attesa di essere processato per collaborazionismo con i nazisti, un suo collega di nome Leonard Hayflick cercò di vederci chiaro. Nessuno era mai riuscito a replicare i risultati del francese, e il tessuto in questione sembrava violare un principio fondamentale della biologia: le cellule normali si dividono un numero di volte finito e poi muoiono naturalmente. Hayflick giunse alla conclusione che il campione originale di Carrel era morto subito dopo esser stato posto in coltura; il «nutrimento» che lui chiamava «succo di embrione», proveniente da tessuti vivi triturati, in realtà conteneva cellule fresche che ravvivavano il tutto. Se ciò fosse fatto inavvertitamente o per dolo, non è dato sapere. Uno degli ex collaboratori di Carrel confermò i sospetti di Hayflick, ma nessuno poté verificare dal vivo la sua teoria, perché due anni dopo la morte del francese le famose cellule cardiache immortali furono gettate via senza troppe cerimonie.

A ogni modo, quando nel 1951 le cellule di Henrietta iniziarono a dividersi nel laboratorio di Gey (solo cinque anni dopo la strombazzata «morte» del cuore di pollo di Carrel), l'immagine pubblica delle colture cellulari «immortali» era del tutto compromessa: dietro, si intravedevano razzismo e pratiche da scienziati pazzi, tra nazismo e filtri magici. C'era poco da rallegrarsi, e infatti nessuno si accorse della novità.

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«UN TRISTE SPETTACOLO»
(1951)



Ai primi di giugno, Henrietta raccontò più volte ai medici curanti che si sentiva il cancro muovere dentro, ma questi non trovarono nulla di alterato nei suoi esami. Nella cartella clinica si legge: «La paziente dice di stare abbastanza bene, ma lamenta un continuo e non meglio precisato fastidio al basso addome ... Nessun segno di recidiva. Si consiglia visita di controllo tra un mese».

Non ci sono indizi del fatto che Henrietta abbia contestato la diagnosi: come quasi tutti i malati del tempo, credeva ciecamente alle parole dei medici. Negli anni Cinquanta, la «menzogna pietosa» era pratica corrente. Molto spesso i dottori tenevano nascoste informazioni di vitale importanza ai loro pazienti, a cui in certi casi non veniva nemmeno fornita una diagnosi precisa. Era opinione comune che fosse meglio non confondere il non esperto con termini che avrebbero potuto spaventarlo, come per l'appunto «cancro». I dottori sapevano il da farsi e ai pazienti conveniva seguire le loro indicazioni.

Questo era soprattutto vero per i neri ricoverati a spese della sanità pubblica. Ricordiamo che nel 1951 a Baltimora erano in pieno vigore le leggi sulla segregazione razziale. Un nero non doveva permettersi di mettere in dubbio il parere professionale di un bianco, che oltretutto forniva la sua prestazione gratis. Per la gente di colore, all'epoca essere curati era già un successo.

Non sapremo mai se l'atteggiamento dei medici nei confronti di Henrietta sarebbe stato diverso se lei fosse stata bianca, e se sì in quale misura. A sentire il dottor Jones, le furono rivolte le stesse cure di ogni altra paziente: la biopsia, il trattamento con le barrette di radio e la radioterapia erano procedure standard di quegli anni. Ma a giudicare da un buon numero di ricerche in proposito, sembra che in media i neri fossero ricoverati e venissero sottoposti a terapie in fase più avanzata della malattia rispetto ai bianchi. E una volta in ospedale, pare ricevessero meno farmaci per combattere il dolore e avessero un tasso di mortalità più alto.

Gli unici documenti inoppugnabili sono le cartelle cliniche di Henrietta. Poche settimane dopo la visita in cui il medico di turno non le aveva trovato nulla di strano, la donna tornò al Johns Hopkins perché il «fastidio» che lamentava la volta precedente si era trasformato in «dolore» diffuso. Ma la diagnosi anche quella volta non cambiò: «Nessun segno di recidiva. Si consiglia visita di controllo tra un mese».

Una ventina di giorni dopo, il dolore addominale era sempre intenso e Henrietta aveva grandi difficoltà a urinare. Anche camminare le era diventato penoso. Tornò ancora all'ospedale, dove un medico posizionò un catetere per svuotarle la vescica e la rimandò a casa. Si rifece vedere dopo tre giorni, lamentando dolori sempre più forti. Questa volta la palpazione dell'addome evidenziò una «massa dura come pietra», che dalla radiografia risultò attaccata alla parete pelvica, in posizione tale da comprimere fortemente l'uretra. Il medico di turno chiamò a consulto il dottor Jones e altri colleghi che in passato si erano occupati di Henrietta. Tutti la visitarono ed esaminarono le lastre. «Inoperabile» fu il loro verdetto unanime. Poche settimane dopo una diagnosi favorevole, nella cartella clinica si trova scritto: «La paziente appare cronicizzata. Il dolore è evidente». La rispedirono a casa dicendole di rimanere a letto.

Così Sadie raccontava gli ultimi giorni di Henrietta: «Hennie non si è spenta, come si dice in questi casi. La faccia, il corpo erano sempre quelli. Ho visto gente a letto con il cancro e avevano davvero una brutta cera, ma lei no. Lo capivi solo se la guardavi negli occhi. Gli occhi dicevano che aveva ancora poco da vivere».


Fino ad allora, solo Sadie, Margaret e Day erano a conoscenza della malattia di Henrietta. Tutti gli altri appresero la notizia all'improvviso, da un giorno all'altro. I lamenti della donna, che pregava il Signore di aiutarla, si sentivano a un isolato di distanza. Tutti i cugini di ritorno dai turni a Sparrows Point non potevano fare a meno di sentirla.

La settimana successiva, Day portò in macchina la moglie al Johns Hopkins per una radiografia. L'esame rivelò che vari tumori duri come pietre avevano invaso il suo corpo: uno nell'utero, due nei reni e un altro nell'uretra. Dopo un solo mese dall'ultima diagnosi favorevole, i toni della cartella clinica si fecero ben diversi: «La rapida estensione del tumore rende la prognosi infausta. [L'unica possibilità] è un nuovo ciclo di radioterapia, con l'obiettivo minimo di ridurre il dolore».

Henrietta ormai non era più in grado di fare i pochi passi da casa alla macchina, ma in qualche modo Day o un cugino riuscivano a portarla in ospedale tutti i giorni per la terapia. Pare che nessuno si rendesse conto della situazione: non credevano che fosse alla fine, ma solo che i dottori stessero provando un altro tipo di cura.

La dose di radiazioni a cui veniva sottoposta la donna aumentava di giorno in giorno. I medici speravano in questo modo di ridurre i tumori e diminuire il dolore, conducendola così a una morte meno straziante. L'unico risultato fu che la pelle dell'addome diventò sempre più nera e le sue sofferenze aumentarono.

L'8 agosto, una settimana dopo il suo trentunesimo compleanno, Henrietta arrivò al Johns Hopkins e disse che voleva restarci. Il medico di turno scrisse: «La paziente lamenta da tempo forti dolori e sembra obiettivamente in cattive condizioni. Poiché vive lontano dall'ospedale e deve fare molta strada ogni giorno, sarebbe meglio ricoverarla e far sì che riceva cure più assidue».

Henrietta passò all'accettazione, dove un'infermiera le prelevò del sangue, lo trasferì in una sacca con l'etichetta colored e lo mise in frigo, nel caso alla donna servisse in seguito una trasfusione. Un altro medico la fece sdraiare su un lettino ginecologico e le prelevò un campione di tessuto dalla cervice. La richiesta di nuove cellule veniva da George Gey, che voleva provare a far crescere in coltura anche queste, nella speranza che proliferassero come le prime. Ma il tumore aveva ormai intossicato l'organismo di Henrietta, il cui sistema di filtraggio non era più in grado di smaltire le scorie. Le nuove cellule contaminate morirono subito.

Nei primi giorni di ricovero, Day portava i figli tutti i giorni a far visita alla madre. Ma quando veniva l'ora di ripartire, Henrietta si disperava, piangendo e lamentandosi per ore. Le infermiere dissero allora al marito che era meglio non far entrare i bambini, perché la paziente ne risentiva troppo. Da quel giorno, Day si limitò a parcheggiare la Buick su Wolfe Street, sotto la finestra della moglie, sempre alla stessa ora, e a sedere su un praticello con i bambini. Henrietta si tirava su a fatica e con il volto premuto sul vetro guardava i figli giocare. Ben presto, però, anche alzarsi dal letto le divenne impossibile.

I medici curanti le provarono tutte per alleviarle le sofferenze. «Il Demerol non sembra avere alcun effetto sul dolore» si legge nella cartella clinica. Nemmeno la morfina aveva effetto: «Anche questa terapia non funziona». Il Dromoran (un oppioide), invece, sembrava «funzionare bene». Ma anche quel farmaco cessò presto il suo effetto, al punto che un medico tentò la mossa disperata di iniettarle alcol puro nella spina dorsale. «Le iniezioni non hanno alcuna efficacia» fu il verdetto.

Ogni giorno una nuova metastasi sembrava spuntare da qualche parte, compresi linfonodi, ossa pelviche e grandi labbra. La febbre era costante, e arrivava fino a quarantun gradi. La radioterapia fu sospesa dallo staff medico, che a leggere le annotazioni in cartella clinica sembrava sconfitto dalla malattia tanto quanto la paziente: «Henrietta è un triste spettacolo ... Lamenti continui ... Soffre di nausee costanti e dice che non è in grado di trattenere il cibo ... La paziente è prostrata ... agitata ... a mio giudizio stiamo facendo tutto il possibile per lei».

Non ci sono testimonianze scritte del fatto che George Gey abbia visitato Henrietta in ospedale o le abbia fatto sapere in qualche modo cosa fosse successo alle sue cellule. E tutti i protagonisti della vicenda che ho intervistato sostengono che i due non si sono mai incontrati. O meglio, quasi tutti tranne Laure Aurelian, una microbiologa che lavorava con Gey al Johns Hopkins.

«Non potrò mai dimenticarlo» mi disse. «George mi raccontò che si era avvicinato al letto di Henrietta e le aveva sussurrato: "Le tue cellule ti renderanno immortale". Le spiegò che quel campione avrebbe salvato innumerevoli vite. Lei sorrise. E gli disse che era felice di sapere che tutto quel dolore sarebbe servito a qualcosa».

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Nei primi tempi, la produzione di HeLa da parte del Tuskegee Institute era destinata esclusivamente ai centri antipolio. Ma quando fu chiaro a tutti che non si correva il rischio di rimanere senza materia prima, i campioni furono messi a disposizione di chi li chiedeva, per dieci dollari al pezzo più spese di spedizione via aerea. Le cellule di Henrietta finirono presto in mano a chiunque fosse interessato a scoprire come le cellule umane reagissero in un certo ambiente, o se esposte a sostanze chimiche o proteine specifiche. Erano cancerose, certo, ma avevano molte caratteristiche in comune con quelle sane: sintetizzavano proteine e comunicavano tra loro normalmente, si dividevano, producevano energia, esprimevano e regolavano geni, erano soggette a infezioni. Tutto ciò le rendeva il mezzo ideale per studiare in coltura una grande varietà di soggetti, tra cui batteri, ormoni, proteine e, in special modo, virus.

I virus si riproducono iniettando frammenti del loro materiale genetico dentro una cellula viva, in modo da riprogrammarla (per così dire) e far sì che la cellula attaccata si metta a produrre altri virus. In questo caso dunque, e in molti altri, il fatto che le HeLa fossero maligne le rendeva più utili delle cellule sane, perché crescendo più in fretta erano in grado di fornire risultati in poco tempo. Erano l'equivalente dei muli: infaticabili, poco costose, adattabili a ogni ambiente.

Anche la tempistica non avrebbe potuto essere migliore. Nei primi anni Cinquanta le ricerche sui virus sembravano promettere bene, e così le cellule di Henrietta furono infettate, nei laboratori della nazione, con ogni sorta di patogeno (herpes, morbillo, parotite, vaiolo aviare, encefalite equina e così via), per studiarne le modalità di infezione e diffusione.

Grazie a HeLa, dunque, la virologia uscì dallo stadio embrionale. Ma non era che l'inizio. Negli anni immediatamente successivi alla morte di Henrietta, gli scienziati di tutto il mondo usarono le sue cellule per compiere importanti scoperte in rapida successione. Tanto per cominciare, un gruppo di ricerca inventò un modo per congelare le cellule senza danneggiarle o farle mutare. Ciò rese possibile spedire i campioni in giro per il globo, perché all'epoca esistevano già metodi standard per il trasporto di cibi congelati (e di sperma per la fecondazione del bestiame). E rese anche possibile per i ricercatori la conservazione delle cellule in frigo tra un esperimento e l'altro, senza preoccuparsi di nutrirle costantemente o mantenerle in ambiente sterile. Ma l'aspetto più interessante della faccenda era il potere osservare le cellule in vari stadi di sviluppo.

Il congelamento è analogo al tasto di «pausa»: la divisione cellulare si arresta, il metabolismo si ferma e così via. E per premere «play» e far ripartire il sistema basta scongelare in modo acconcio. Così divenne possibile tenere a lungo le cellule in vari stadi di vita, per confrontare ad esempio come reagivano a un certo farmaco una, due e sei settimane dopo la somministrazione. Oppure si poteva studiare meglio il processo di invecchiamento cellulare. E si pensava anche che grazie al congelamento istantaneo si sarebbe potuto vedere il momento preciso in cui una cellula diventava maligna, un fenomeno allora definito «trasformazione spontanea».

Questo fu solo il primo di una serie straordinaria di progressi nel campo delle tecniche di coltura cellulare, tutti resi possibili da HeLa. Forse il più importante fu la standardizzazione di un'area di ricerca rimasta fino ad allora piuttosto artigianale. Gey e colleghi si lamentavano non solo di tutto il tempo perso a produrre i mezzi di coltura e a cercare di tenere in vita le cellule, ma soprattutto del fatto che ogni gruppo di lavoro usava ingredienti, ricette e tecniche diverse, ignote ai più, il che rendeva quasi impossibile replicare gli esperimenti da un laboratorio all'altro. E rifare un esperimento è il sale della scienza: una scoperta non è considerata valida se i colleghi di chi l'ha fatta non riescono a riprodurla tal quale in un altro posto. Senza l'uso di materiali e metodi standard, il settore delle colture cellulari rischiava di languire.

Insieme ad alcuni colleghi, Gey aveva già messo in piedi un comitato con il compito di «semplificare e rendere uniformi le tecniche di coltura». Essi erano riusciti a convincere due aziende attive nel neonato settore delle forniture di materiale biologico (Microbiological Associates e Difco Laboratories) a iniziare la produzione e la commercializzazione degli ingredienti appositi, dopo aver tenuto corsi di aggiornamento per i tecnici delle ditte in questione. Questo non risolveva il problema, però, perché una volta acquistati i materiali, i ricercatori di diversi laboratori continuavano a usare ricette diverse.

La standardizzazione fu possibile solo dopo una serie di eventi, primo dei quali fu la produzione in massa a Tuskegee. Poco dopo, Harry Eagle, ricercatore dell'NIH, usò un campione di HeLa per provare l'efficacia di un mezzo di coltura standard di facile produzione e trasporto, che poteva essere spedito già pronto all'uso. Infine, Gey e molti altri colleghi verificarono, sempre grazie a HeLa, quali tipi di contenitori e materiali fossero meno tossici per le cellule.

Solo allora, e per la prima volta, tutti i ricercatori del mondo furono in grado di lavorare con lo stesso tipo di cellule, coltivate nello stesso mezzo e negli stessi recipienti, usando materiali che potevano acquistare e farsi spedire direttamente in laboratorio. Ben presto fu anche possibile utilizzare i primi cloni di cellule umane, risultato lungamente atteso a cui si lavorava da anni.

Oggi, quando sentiamo la parola clone immaginiamo scienziati che creano un animale vivo tutto intero – come la celebre pecora Dolly – a partire dal DNA di un genitore. Ma il primo passo per la clonazione di interi animali era la clonazione di singole cellule. E le prime furono quelle di Henrietta.

Per capire perché la clonazione cellulare era così importante bisogna sapere due cose. In primo luogo, le HeLa non si svilupparono da un' unica cellula di Henrietta, ma da un frammento di tessuto tumorale, che era un raggruppamento di cellule. Secondariamente, spesso le cellule si comportano in modo diverso anche se provengono tutte dallo stesso campione: magari qualcuna cresce più in fretta, qualcun'altra è più sensibile al poliovirus o è più resistente a un certo antibiotico, e così via. I cloni cellulari, cioè linee che discendono direttamente da un'unica progenitrice, sono importanti perché permettono di studiare queste caratteristiche individuali. Quando un gruppo di ricerca in Colorado riuscì per primo a produrre cellule monoclonali, il mondo della ricerca ebbe a disposizione non solo HeLa ma anche i suoi cloni, a centinaia e presto a migliaia.

Le tecniche di coltura cellulare e di clonazione sviluppate grazie a HeLa furono strumenti importanti per ulteriori scoperte in tutti quei settori in cui era richiesta la capacità di lavorare su singole cellule, come ad esempio nel campo delle staminali, della clonazione di interi organismi e della fecondazione in vitro. Nel frattempo HeLa si imponeva come standard in quasi tutti i laboratori e veniva utilizzata per ricerche importanti in una disciplina neonata: la genetica umana.

I cromosomi sono fili di DNA che contengono l'intero patrimonio genetico di un individuo. A lungo si è ritenuto che dentro le nostre cellule ce ne fossero quarantotto, anche se era impossibile contarli con precisione, perché tendono a raggomitolarsi. Nel 1953, un ricercatore texano mise per sbaglio un certa sostanza a contatto con una coltura cellulare, dove erano presenti anche le HeLa. Felice errore: il liquido fece gonfiare e distendere i cromosomi, che per la prima volta si mostrarono chiaramente all'osservazione microscopica. Quella scoperta fortuita innescò una catena di eventi che portò due ricercatori, uno in Spagna e uno in Svezia, a scoprire che le cellule umane contengono di norma quarantasei cromosomi.

Nota la configurazione negli individui sani, fu possibile iniziare a studiare le anomalie e a diagnosticare varie malattie ereditarie. Ben presto si identificarono le cause delle principali patologie: ad esempio, si scoprì che gli individui con la sindrome di Down avevano un cromosoma in più (una copia extra del numero 21); che la sindrome di Klinefelter era dovuta a un cromosoma sessuale aggiuntivo; che quella di Turner, invece, alla sua mancanza completa o parziale.

I progressi della ricerca fecero crescere la domanda per HeLa, tanto che il centro di Tuskegee non riusciva più a star dietro alle richieste. Il proprietario della Microbiological Associates, un ex militare di nome Samuel Reader, era digiuno di scienza, ma il suo socio in affari Monroe Vincent era ferrato in materia e capì subito il potenziale economico del commercio di cellule. Molti laboratori ne avevano bisogno, ma pochi avevano le competenze, le strutture e il tempo di far crescere grandi quantità di colture: le avrebbero volentieri comprate. Fu così che Reader e Vincent, usando HeLa come rampa di lancio, misero in piedi il primo business privato per la produzione e la distribuzione di cellule umane.

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Ma Southam non era il medico curante di quella gente, né l'intento era quello di non dare loro brutte notizie relative alla loro salute. L'omissione rispondeva a un suo preciso interesse: i soggetti avrebbero potuto rifiutarsi di partecipare all'esperimento se avessero saputo che cosa gli veniva iniettato. Con ogni probabilità si sarebbe andati avanti così per anni se il 5 luglio 1963 Southam non avesse preso accordi con Emanuel Mandel, direttore sanitario del Jewish Chronic Disease Hospital di Brooklyn, per usare i pazienti dell'ospedale per le sue ricerche.

Mandel chiese ai medici del suo reparto di selezionare ventidue pazienti a cui iniettare le cellule tumorali. Ma quando gli disse che non avrebbero dovuto rivelare il contenuto delle siringhe, tre giovani dottori ebrei si rifiutarono: non avrebbero mai condotto ricerche su soggetti che non avevano fornito esplicito consenso. Sapevano bene quello che i medici nazisti avevano fatto agli internati ebrei nei campi di concentramento, e sapevano anche di Norimberga.


Sedici anni prima, il 20 agosto 1947, a Norimberga, un tribunale di guerra a guida americana aveva condannato all'impiccagione sette medici nazisti, colpevoli di aver condotto ricerche su ebrei senza il loro consenso – cose indicibili, come cucire insieme i gemelli per creare dei siamesi o squartare la gente viva per studiare il funzionamento degli organi.

A margine del processo, la corte stabilì un codice etico in dieci punti oggi noto come Codice di Norimberga, con l'obiettivo di regolamentare a livello internazionale gli studi medici sull'uomo. Il primo punto recita: «Il consenso volontario del soggetto umano è assolutamente essenziale». Era un principio rivoluzionario. Il giuramento di Ippocrate, scritto nel quarto secolo avanti Cristo, non prevedeva il consenso del paziente. L'American Medical Association aveva pubblicato nel 1910 un regolamento per la protezione degli animali di laboratorio, ma prima di Norimberga non esistevano norme simili per gli esseri umani.

Il Codice, però, come altri che seguirono, non aveva valore di legge; si trattava in pratica di una serie di raccomandazioni. Non era materia di insegnamento obbligatorio nelle facoltà di medicina e molti ricercatori americani, Southam compreso, sostenevano di non esserne a conoscenza. Chi ne aveva sentito parlare spesso lo liquidava come «il codice antinazista», qualcosa pensato per barbare dittature, non per i medici d'America.

Quando Southam iniziò i suoi esperimenti con HeLa nel 1954, non esisteva un ente deputato al controllo formale delle attività di ricerca. Fin dai primi anni del secolo erano state proposte leggi a livello sia locale sia federale con l'obiettivo di regolamentare la sperimentazione sull'uomo, ma si erano scontrate ogni volta con le proteste di medici e ricercatori. Le proposte venivano invariabilmente bocciate: i politici non volevano essere accusati di interferire con il progresso della scienza. Nel frattempo altri Paesi, tra cui paradossalmente la Prussia, avevano regolato la materia in vario modo già a partire dal 1891.

Negli Stati Uniti l'unico modo per far rispettare le norme etiche era il ricorso al tribunale civile. In quella sede, gli avvocati potevano invocare il Codice di Norimberga come precedente per stabilire se un ricercatore avesse violato i limiti dell'etica professionale. Ma per una causa di questo tipo ci volevano soldi e conoscenze tecniche, e soprattutto la certezza di esser stati utilizzati per qualche ricerca a propria insaputa.

La locuzione «consenso informato» comparve per la prima volta in documenti ufficiali nel 1957, durante una causa civile intentata da un ex paziente di nome Martin Salgo. Era stato anestetizzato per sottoporsi a quello che credeva essere un intervento di routine e si era svegliato paralizzato in modo irreversibile dalla vita in giù. Il dottore non aveva fatto parola dei possibili rischi. Il giudice gli diede ragione con questa motivazione: «Un medico viola i suoi obblighi nei confronti del paziente e si rende colpevole se omette informazioni necessarie perché il paziente possa esprimere in piena coscienza il suo consenso al trattamento proposto». Dunque era necessaria «la completa esposizione dei fatti necessari alla formazione di un consenso informato».

Tutto ciò si applicava soprattutto al rapporto tra il medico e il paziente: non si faceva praticamente menzione di casi come quello di Southam, in cui i soggetti coinvolti nella ricerca non erano in cura dal ricercatore. E sarebbero passati molti anni prima che si iniziasse a dibattere se il consenso informato si potesse applicare a casi come quello di Henrietta, dove il «soggetto» era un frammento di tessuto non più attaccato al resto dell'individuo.

Per i tre medici che si erano rifiutati di prender parte alla ricerca di Southam, iniettare cellule tumorali a un individuo senza il suo consenso era un'evidente violazione dei più elementari diritti umani, nonché del Codice di Norimberga. Mandel non la pensava così e si limitò a sostituire i tre ribelli con un tirocinante. Il 27 agosto 1963 i tre dottori rassegnarono le dimissioni con una lettera in cui parlavano di ricerche contrarie all'etica. Oltre che a Mandel, ne spedirono una copia almeno a un giornalista. Ricevuta la lettera, Mandel convocò uno dei medici nel suo ufficio e lo accusò di «ipersensibilità» per via dell'origine ebraica.

Un membro del consiglio di amministrazione dell'ospedale, un avvocato di nome William Hyman, era di tutt'altro avviso, e quando fu informato della vicenda chiese una copia delle cartelle cliniche di tutti i pazienti coinvolti nello studio, che gli fu rifiutata. Per coincidenza, proprio in quei giorni comparve sul «New York Times» un trafiletto intitolato La Svezia sanziona un oncologo. Vi era narrata la storia di un certo Bertil Björklund, ricercatore che aveva somministrato per endovena a se stesso e ai suoi pazienti vari vaccini preparati con cellule HeLa. Ne aveva ordinato tali quantità che nel laboratorio di Gey si diceva scherzosamente che avrebbe potuto riempire una piscina, o anche un lago, con quelle cellule e immergerci i pazienti per renderli immuni. Le iniezioni di HeLa costarono a Björklund il licenziamento, e Hyman auspicava una conclusione analoga anche nel caso di Southam. Dunque, nel dicembre 1963 chiese al tribunale di obbligare l'ospedale a fornirgli tutta la documentazione clinica relativa alla ricerca in questione.

Per Hyman gli studi di Southam erano paragonabili agli esperimenti nazisti.

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Nel 1960 alcuni scienziati francesi avevano scoperto che le cellule in coltura, se infettate da certi virus, in alcuni casi si agglomeravano fino a fondersi. Nella fusione il materiale genetico delle due cellule parenti si combinava in modo analogo a quel che avviene nell'incontro tra cellula uovo e spermatozoo. Il processo fu battezzato fusione somatica, ma c'era chi lo chiamava «sesso tra cellule». È una fusione molto diversa rispetto a quella tra cellule germinali. Le somatiche sono cellule che costituiscono il grosso del nostro corpo e formano ad esempio la pelle e gli organi; la loro unione produce cellule figlie nel giro di poche ore e, cosa della massima importanza, può essere interamente controllata in laboratorio.

In senso lato, gli esseri umani sono le peggiori cavie possibili. Siamo in media sessualmente promiscui, cioè ci accoppiamo con chi ci piace e non siamo molto entusiasti all'idea di riprodurci seguendo le indicazioni di uno scienziato. Inoltre, contrariamente a quanto avviene per piante e topolini, ci mettiamo una vita a generare prole a sufficienza per avere dati significativi. A partire dalla metà dell'Ottocento, gli studi genetici si erano basati sull'incrocio controllato di piante e animali (un pisello dalla pelle liscia con uno dalla pelle rugosa, un topo marrone con uno bianco e così via) per verificare quali tratti passassero da una generazione all'altra, e in che modo. La genetica umana, ovviamente, non si poteva trattare allo stesso modo. La fusione somatica risolse il problema: i ricercatori potevano combinare cellule di vario tipo con le caratteristiche desiderate e studiare come venivano trasmesse.

Nel 1965 i britannici Henry Harris e John Watkins fecero un importante passo in avanti: fusero delle HeLa con cellule di topo, creando il primo ibrido umano-animale che conteneva tanto DNA di Henrietta quanto del topo. In questo modo fu possibile fare ricerche mirate sull'espressione genetica, nel senso che ora vedremo.

Oltre a produrre l'ibrido con il topo, Harris fuse le HeLa con cellule di pollo che non erano più in grado di riprodursi. Sperava che qualcosa dentro alle HeLa fosse in grado di riattivare le cellule animali, e la sua intuizione lo premiò: fu proprio così. I meccanismi erano ancora oscuri, ma la scoperta mostrò al mondo che le cellule erano capaci di regolare i geni. E se si fosse trovato il modo di «spegnere» i geni difettosi, che portavano a malattie, si sarebbe aperta la strada verso le terapie genetiche.

Poco dopo gli esperimenti di Harris con le cellule di pollo, due ricercatori della New York University scoprirono che gli ibridi uomo-topo con il passare del tempo perdevano i cromosomi umani e ritornavano ad avere solo cromosomi di topo. Questo fenomeno fu sfruttato per una prima mappatura genetica delle cellule umane: bastava osservare di quale enzima cessasse la produzione quando un cromosoma se ne andava, per concludere che il gene che regolava l'enzima in questione stesse proprio su quel cromosoma.

Molti laboratori europei e nordamericani si misero a fondere cellule su cellule per stabilire quali tratti genetici corrispondessero a specifici cromosomi, creando così il precursore della mappa del genoma umano oggi a nostra disposizione. Gli ibridi furono usati, fra l'altro, per creare i primi anticorpi monoclonali, speciali proteine in seguito utilizzate per produrre farmaci antitumorali come l'Herceptin, e per scoprire quali tipi di sangue fossero compatibili, così da aumentare la sicurezza delle trasfusioni. Inoltre furono impiegati per studiare il ruolo del sistema immunitario nei trapianti d'organo. Questi studi provarono che i DNA di due individui non imparentati, addirittura appartenenti a specie diverse, erano in grado di sopravvivere all'interno delle cellule senza che si innescassero meccanismi di rifiuto, il che voleva dire che la causa del rigetto degli organi trapiantati doveva essere esterna alle cellule.

Mentre gli scienziati erano tutti contenti di avere a disposizione i nuovi ibridi, l'opinione pubblica del mondo anglosassone fu percorsa da brividi quando nei media si susseguirono titoli a sensazione:

CELLULE DI UOMO-ANIMALE COSTRUITE IN LABORATORIO
IL PROSSIMO PASSO? GLI UOMINI-ALBERO
LA SCIENZA CREA NUOVI MOSTRI

Il londinese «Times» scrisse che le cellule HeLa-topo erano «il più bizzarro tra gli ibridi mai visti dentro o fuori i laboratori». In un editoriale del «Washington Post» si leggeva: «Non possiamo permetterci di costruire artificialmente gli uomini-topo». La ricerca in questione era definita «spaventosa»; gli scienziati avrebbero dovuto lasciar perdere le cellule umane e «tornare ai loro cari lieviti e funghi». A corredo dell'articolo c'era la caricatura di un mostro metà uomo e metà topo, dotato di una lunga coda squamosa; un'altra vignetta mostrava una donna-ippopotamo che leggeva il giornale alla fermata del bus. Sulla stampa inglese gli ibridi erano deplorati come «un attacco alla vita» e Harris descritto come il classico scienziato pazzo. Il quale Harris non fece nulla per migliorare le cose: intervistato in un documentario della BBC, disse che era in grado di fondere le cellule uovo di uomini e scimmie antropomorfe per creare un nuovo ibrido. Lo scandalo fu enorme.

Harris e Watkins scrissero lettere su lettere ai giornali per lamentarsi. Erano stati citati fuori contesto e le loro ricerche spettacolarizzate per «darne una rappresentazione errata, distorcere la realtà e creare il panico». L'opinione pubblica poteva star tranquilla: stavano solo producendo nuove cellule, non «centauri». Ma fu tutto inutile. Un sondaggio mostrò che le nuove scoperte erano considerate quasi universalmente negative, inutili e pericolose, un esempio di «uomini che vogliono sostituirsi a Dio». E la cattiva stampa sulle colture cellulari non cessò, anzi.

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«CHI VI HA DETTO
DI VENDERE LA MIA MILZA?»
(1976-1988)



Nel 1976, anno in cui Mike Rogers pubblicava il suo articolo su «Rolling Stone» e la famiglia Lacks scopriva la compravendita di cellule di Henrietta, il signor John Moore lavorava come topografo presso il grande oleodotto dell'Alaska. Era un lavoro massacrante da dodici ore al giorno, sette giorni su sette, che lo stava letteralmente ammazzando: aveva gengive sanguinanti, il ventre gonfio e piaghe un po' dappertutto. A trentun anni scoprì di essere affetto da leucemia a cellule capellute, una rara e letale forma di tumore che porta la milza a riempirsi di cellule maligne trasportate dal flusso sanguigno, gonfiandola come un palloncino.

Il medico curante di Moore gli fissò una visita con David Golde, luminare dell'oncologia alla UCLA, secondo il quale la sola cura possibile era l'asportazione della milza. Moore firmò il modulo di consenso, con cui tra l'altro autorizzava l'ospedale a «smaltire tramite cremazione tessuti o membra rimossi chirurgicamente». L'intervento fu effettuato da Golde stesso. Una milza normale pesa non più di duecentocinquanta grammi: la sua era di dieci chili.

Dopo l'operazione, Moore si trasferì a Seattle, si mise a commerciare in ostriche e andò avanti con la sua vita. Periodicamente, dal 1976 al 1983, doveva tornare a Los Angeles per gli esami di controllo presso la clinica di Golde. In un primo tempo questi viaggi non gli pesavano, ma dopo anni di voli su e giù si chiese: visto che i dottori si limitano a prelevarmi campioni di midollo, sangue e seme, perché non posso fare la stessa cosa in un ospedale di Seattle? Quando comunicò a Golde che preferiva essere seguito da un medico vicino a casa, il luminare si offrì di rimborsargli i biglietti aerei e di ospitarlo in un albergo di lusso, il Beverly Wilshire. A Moore sembrò uno strano regalo, ma non ebbe motivo di sospettare fino a un giorno del 1983, sette anni dopo l'operazione, quando un'infermiera gli porse un nuovo modulo per il consenso:

Cedo/Non cedo volontariamente all'Università della California tutti i diritti che io, o i miei eredi, potrebbero vantare su ogni linea cellulare o altro prodotto potenzialmente ricavabile da sangue e/o midollo osseo prelevato dalla mia persona.

Quella prima volta Moore scelse l'opzione «Cedo». Anni dopo, in un'intervista a «Discover», disse: «Non volevo far agitare le acque. In quella situazione pensi: magari se rifiuto questo tizio non mi cura più e muoio, o sto male».

Moore però intuiva che Golde non era stato del tutto onesto; durante la visita successiva, prima di firmare lo stesso modulo chiese al medico se i test di controllo post-terapia che stava eseguendo avessero un qualche valore commerciale. Secondo Moore, Golde gli disse di no, ma lui non si fidò e scelse l'opzione «Non cedo».

Dopo la visita, andò a trovare i suoi genitori che vivevano poco distante dalla clinica. Entrò in casa che il telefono squillava: era Golde, che aveva già chiamato due volte. Deve essersi confuso, disse, ha scelto l'opzione sbagliata sul modulo, potrebbe per favore tornare a correggerlo?

«Non mi sentivo in grado di contraddirlo,» Moore raccontò molti anni più tardi a un giornalista «quindi risposi "Accidenti dottore, non so come ho fatto a sbagliare". Però gli dissi anche che stavo ripartendo per Seattle e non potevo ripassare da lui».

Pochi giorni dopo il modulo apparve nella buca delle lettere di Moore, accompagnato da un biglietto che diceva «Faccia un cerchio attorno a "Cedo"». Ma lui non obbedì. Passarono altre settimane e ricevette una lettera di Golde in cui gli si intimava di non creare altri problemi e di firmare.

A quel punto l'uomo si rivolse a un avvocato, che scoprì che Golde nei sette anni successivi all'intervento aveva lavorato allo sviluppo e commercializzazione di una linea cellulare chiamata Mo.

Dice sempre Moore in un'altra intervista: «Fu disumano scoprire di essere diventato solo Mo, addirittura di essere chiamato Mo nelle cartelle cliniche: "Oggi visita a Mo". D'un tratto non ero più l'uomo che Golde trattava in modo così amichevole, ma Mo, la linea cellulare, il pezzo di carne».

Qualche settimana prima di consegnare a Moore il nuovo modulo per il consenso, e dopo anni di «visite di controllo», Golde fece domanda di brevetto per le cellule Mo e le varie preziose proteine da loro prodotte. All'epoca il medico non aveva ancora venduto i diritti di sfruttamento, ma secondo la denuncia di Moore stava trattando con un'industria biotech, che dietro una contropartita di azioni e denaro per un valore di tre milioni e mezzo di dollari avrebbe ottenuto i diritti di «sfruttamento commerciale» e «investigazione scientifica» sulla linea Mo. Il valore di mercato di questi prodotti era allora stimato in tre miliardi di dollari.


La materia viva non era considerata brevettabile a norma di legge fino a pochi anni prima del caso Moore, precisamente al 1980, quando la Corte Suprema si pronunciò a favore di Ananda Mohan Chakrabarty, un ricercatore della General Electric che grazie all'ingegneria genetica aveva creato un batterio in grado di smaltire il petrolio e rendersi utile nell'opera di bonifica dopo i disastri ecologici. Quando fece domanda per un brevetto, questo gli fu negato con la motivazione che un organismo vivente non poteva essere definito un'invenzione. I legali di Chakrabarty sostenevano che, poiché i batteri comuni non sono in grado di smaltire il petrolio, quelli prodotti dal loro cliente non erano «naturali» ma esistevano solo in virtù dell'«ingegno umano».

La vittoria di Chakrabarty aprì la strada alla possibilità di brevettare altro materiale vivente, tra cui animali geneticamente modificati e linee cellulari che non si manifestavano naturalmente al di fuori dell'organismo da cui erano state prelevate. E per brevettare una linea cellulare non era necessario il permesso o il consenso informato del «donatore».

Gli scienziati sono concordi nell'affermare che le cellule di John Moore erano eccezionali, tra le poche che avesse davvero senso brevettare. Producevano infatti una serie di preziose proteine, utilizzabili dall'industria farmaceutica per curare infezioni e tumori. Erano anche portatrici del raro virus HTLV, lontano parente dell'HIV, che si sperava potesse portare al vaccino in grado di debellare l'AIDS. Per questi motivi, molte società erano pronte a pagare somme colossali di denaro pur di avere l'opportunità di lavorarci sopra. Se Moore avesse saputo tutto questo prima che Golde brevettasse le sue cellule, avrebbe potuto trattare direttamente con l'industria farmaceutica e strappare un lucroso contratto.

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IL SEGRETO DELL'IMMORTALITÀ
(1984-1995)



Più di trent'anni dopo la morte di Henrietta, le ricerche effettuate su HeLa riuscirono finalmente a chiarire come il suo cancro si fosse generato e perché le sue cellule non morissero mai. Nel 1984 Harald zur Hausen, virologo tedesco, scoprì un nuovo ceppo di un virus a trasmissione sessuale detto papilloma virus umano o HPV (acronimo di Human Papilloma Virus); ipotizzò anche che questa varietà, detta HPV-18, fosse responsabile del cancro della cervice uterina, assieme al ceppo HPV-16 che aveva scoperto l'anno prima. Le HeLa del suo laboratorio risultavano positive all'HPV-18, ma per essere sicuro che non fosse avvenuta una contaminazione virale in coltura, zur Hausen chiese al Johns Hopkins un frammento del materiale bioptico originale. Questo campione non solo risultò positivo al virus, ma dimostrò che Henrietta era stata infettata da varie copie di HPV-18, di sicuro uno dei ceppi più virulenti in circolazione.

Oggi sappiamo che esistono più di cento tipi di HPV, tredici dei quali possono causare tumori al collo dell'utero, all'ano, alla bocca e al pene. Si stima che circa il novanta per cento degli adulti sessualmente attivi venga in contatto con almeno un ceppo del virus nel corso della sua vita. Negli anni Ottanta, grazie a HeLa e altre linee cellulari, l'infezione da HPV fu studiata a fondo e se ne capì il legame con il cancro. Il virus in questione inserisce il suo DNA nel nucleo della cellula ospite, obbligandola a sintetizzare proteine che innescano il processo tumorale. Si scoprì anche che bastava bloccare la replicazione di HPV per arrestare la formazione di cellule cancerose nel collo dell'utero. Tutti questi risultati portarono al vaccino contro l'HPV e valsero a zur Hausen il premio Nobel.

Alla fine i ricercatori scoprirono in che modo era iniziato il cancro di Henrietta. Una copia di HPV aveva inserito il suo DNA nel braccio lungo del cromosoma 11 e disattivato in pratica la proteina p53, preposta alla soppressione dei tumori. Quello che gli scienziati non hanno ancora capito è perché questo evento produsse cellule dalla virulenza così spaventosa, sia dentro sia fuori del suo corpo, soprattutto tenuto conto del fatto che le cellule tumorali della cervice uterina sono tra le più difficili da coltivare.

Quando intervistai Howard Jones, cinquant'anni dopo la sua diagnosi, aveva da poco superato i novanta; nella sua lunga vita aveva visto migliaia di tumori al collo dell'utero, ma quando gli chiesi se ricordava quello di Henrietta si mise a ridere: «E come potrei dimenticare quel tumore, era diverso da tutti gli altri».

Dei molti scienziati che ho contattato, nessuno ha saputo spiegarmi perché le cellule di Henrietta fossero così vigorose, mentre la maggior parte delle altre moriva subito se posta in coltura. Oggi è possibile rendere immortale una cellula, esponendola a determinati virus o sostanze chimiche, ma ben poche cellule sono diventate immortali da sole, come fecero quelle di Henrietta.

I membri della sua famiglia avevano in proposito le loro teorie. La sorella Gladys non la perdonò mai di essersi trasferita a Baltimora, lasciandola sola ad accudire il padre anziano. Per Gladys il cancro era la punizione divina per la sua azione. Anche suo figlio Gary credeva che le malattie fossero un segno dell'ira divina – la punizione perché Adamo aveva mangiato la mela offertagli da Eva. Per Coolie era tutta colpa degli spiriti maligni. E la cugina Sadie non sapeva cosa pensare.

«Ossignore» mi disse una volta Sadie. «Quando ho saputo di quelle cellule mi sono detta, forse è stata una brutta bestia che le è entrata dentro. Mi sono spaventata, perché io e lei eravamo sempre insieme. Però non abbiamo mai fatto il bagno in quell'acqua schifosa a Turner Station come facevano gli altri, non andavamo alla spiaggia, per niente, e non giravamo mai senza mutande o cose del genere, quindi non so come ha fatto la bestia a entrare dentro Hennie. Ma è andata così. Una roba viva le è entrata dentro. Lei è morta, e la bestia continua a vivere. Mi ha fatto pensare a cose strane, tipo che magari è venuta dallo spazio, è caduta sulla terra e lei ci è passata sopra».

Sadie rideva mentre mi parlava, ben sapendo che tutto questo suonava bizzarro. «Ma è una cosa che mi è passata per la testa» continuò. «Non sto dicendo bugie. In questi casi pensi a tante cose, no? Altrimenti come si spiegano le cellule che crescono in quel modo?».


Le ricerche con le cellule HeLa sono durate decenni, e ogni decennio ha avuto i suoi momenti cruciali. Negli anni Ottanta la correlazione tra HPV e il cancro al collo dell'utero fu solo uno tra i tanti. Agli inizi dell'epidemia di AIDS, un gruppo di scienziati (tra cui il biologo molecolare Richard Axel, che avrebbe poi vinto il premio Nobel) provarono a infettare le cellule di Henrietta con il virus HIV. Normalmente l'HIV si propaga solo per contatto con sangue e altri fluidi organici, ma Axel aveva inserito nelle HeLa uno specifico frammento di DNA prelevato dalle cellule sanguigne, e quindi anch'esse potevano venire infettate dal virus. Questa tecnica permise ai ricercatori di scoprire quand'è che il virus può infettare una cellula: un passo importante per approfondire la conoscenza del virus e forse riuscire a fermarlo.

Queste ricerche attirarono l'attenzione di Jeremy Rifkin, scrittore e militante ecopacifista, in prima fila nel dibattito sempre più astioso sulle manipolazioni genetiche: ma gli scienziati potevano modificare il DNA? Come molti altri, era dell'avviso che esse fossero in ogni caso pericolose, anche se eseguite in un ambiente controllato, perché avrebbero potuto portare a mutazioni genetiche e alla produzione di creature ingegnerizzate, fino ai «bambini su misura». Poiché all'epoca non esistevano leggi che proibissero tali procedure, Rifkin, che faceva cause a ripetizione, sperava di mettere i bastoni fra le ruote approfittando di ogni possibile appiglio offerto dalla legislazione esistente.

Nel 1987 citò in giudizio Axel in un tribunale federale sostenendo che le sue ricerche violavano una legge del 1975, il National Environmental Policy Act, in quanto non era provato che fossero innocue per l'ambiente. Era noto a tutti, scrisse Rifkin, che HeLa era una linea «particolarmente aggressiva e contagiosa» in grado di contaminare altre colture. Una volta infettate dall'HIV, continuava Rifkin, queste cellule avrebbero potuto a loro volta infettare altre cellule ed esporre i ricercatori nei laboratori di tutto il mondo al rischio di contagio, «aumentando il numero delle potenziali vittime e portando a una pericolosa disseminazione del genoma del virus dell'AIDS».

Axel rispose spiegando che le cellule non erano in grado di riprodursi fuori dall'ambiente controllato della coltura, e che tra contaminazione di colture e infezione da HIV c'era una differenza colossale. Nell'articolo che «Science» dedicò alla vicenda si legge: «Lo stesso Rifkin ammette che, presi nel loro complesso, questi eventi fanno pensare alla trama di un film horror di serie B, piuttosto che a ciò che accade quotidianamente nei laboratori di ricerca biomedica del Paese». Alla fine la denuncia fu respinta, Axel continuò a usare HeLa per i suoi studi sull'HIV e le fosche previsioni di Rifkin non si avverarono.

Nel frattempo, però, due scienziati avevano avanzato un'ipotesi su quelle cellule che sembrava assai più fantascientifica di quanto Rifkin potesse immaginare: secondo loro, le HeLa non erano più cellule umane.

Le cellule che crescono in coltura cambiano di continuo, e lo stesso avviene nel nostro corpo. I mutamenti passano alla generazione successiva grazie alla divisione cellulare, un processo che a sua volta può causare altri cambiamenti casuali. Insomma, si evolvono, come gli esseri umani.

Tutto questo era accaduto anche alle cellule di Henrietta. Le quali avevano trasmesso le mutazioni alle cellule figlie e così via, creando nuove famiglie di HeLa diverse tra loro come possono esserlo i cugini di secondo, terzo, quarto grado, ecc., anche se hanno un antenato comune.

All'inizio degli anni Novanta, le cellule generate da quel pezzettino della cervice uterina di Henrietta che Mary aveva preparato nel laboratorio di Gey erano innumerevoli, e tutte insieme pesavano parecchie tonnellate. Erano comunque etichettate come HeLa, ma presentavano varie differenze tra loro e rispetto alla capostipite. In considerazione di ciò Leigh Van Valen, esperto di biologia dell'evoluzione dell'Università di Chicago, scrisse: «Sosterremo seriamente l'ipotesi che [le cellule HeLa] siano diventate una specie separata».

Van Valen precisò la sua idea qualche anno dopo: «Le HeLa si stanno evolvendo per conto loro, ed è appunto il fatto di avere una evoluzione separata che consente di delimitare le specie». Poiché Hela era già il nome di una specie di granchi, propose che le nuove specie di cellule HeLa venissero chiamate Helacyton gartleri, che combinava HeLa con cyton (greco per «cellula») e aggiungeva gartleri in onore di Stanley Gartler, colui che aveva lanciato la «bomba HeLa» venticinque anni prima.

Nessuno fece obiezioni alla proposta, ma nessuno intraprese azioni concrete per portarla avanti, così le cellule di Henrietta continuarono a essere classificate come cellule umane. Ancora oggi, però, per alcuni scienziati sarebbe scorretto dire che le HeLa sono legate da parentela con la donna che le ha fornite, perché il loro DNA si è nel frattempo differenziato.

Robert Stevenson, uno degli scienziati che più si spese nel corso della carriera per mettere ordine nel caos della contaminazione, si mise a ridere quando gli chiesi la sua opinione in materia. «È incredibile» mi disse. «Ai ricercatori non piace pensare alle HeLa come a frammenti di Henrietta, perché è più semplice lavorare in laboratorio senza associare al materiale che hai di fronte l'essere umano che l'ha fornito. Ma se oggi potessimo prendere un campione di tessuto dal corpo di Henrietta e ne ricavassimo l'impronta genetica, vedremmo che quel DNA è sovrapponibile al DNA delle HeLa.


Negli stessi anni in cui Van Valen ipotizzava che HeLa non fosse più parte del genere umano, altri ricercatori iniziarono a chiedersi se nelle cellule di Henrietta non fosse per caso nascosta la chiave per allungare la nostra vita, forse fino all'immortalità. E i giornali ritornarono a parlare della fonte dell'eterna giovinezza.

All'inizio del secolo il cuore di pollo di Carrel sembrava aver dimostrato che le cellule umane hanno il potenziale per diventare immortali. Ma quelle normali, non cancerose, non crescono all'infinito, né in coltura né all'interno del nostro organismo. Si è scoperto infatti che possono dividersi solo un numero finito di volte prima di cessare il processo di duplicazione e quindi morire. Tale numero è detto «limite di Hayflick», in onore di Leonard Hayflick, il quale nel 1961 dimostrò che le cellule normali si fermano dopo circa cinquanta duplicazioni.

Accolto inizialmente con scetticismo o aperta ostilità, l'articolo originale di Hayflick divenne presto uno dei più citati nel settore. Era come una rivelazione: per anni gli scienziati avevano cercato di produrre linee immortali usando cellule normali e non maligne, ma non ci erano mai riusciti. Pensavano che il problema fosse di natura tecnica, mentre si trattava di una semplice questione di longevità: la vita massima di una cellula era predeterminata. Solo dopo l'assalto di un virus o una mutazione genetica le cellule erano potenzialmente immortali.

Le ricerche su HeLa avevano mostrato che le cellule tumorali erano in grado di dividersi all'infinito. Non poteva essere, allora, che il cancro fosse causato da un errore nel meccanismo di arresto della replicazione una volta raggiunto il limite di Hayflick? Si sapeva anche che nel DNA esisteva una sequenza detta telomero, posta alla fine di ciascun cromosoma, che si accorciava un pochino dopo ogni duplicazione. Un cellula normale passa la sua vita a dividersi e ogni volta perde un tratto dei telomeri, fino a quando questi non sono quasi spariti; a quel punto si ferma e comincia il processo di morte cellulare. Tutto ciò avviene anche in funzione della nostra età biologica: più invecchiamo, più corti sono i nostri telomeri e dunque minore è il numero di volte che una cellula può dividersi prima di morire.

All'inizio degli anni Novanta, un ricercatore di Yale scoprì grazie a HeLa che nelle cellule cancerose umane è presente un enzima detto telomerasi che è proprio addetto alla ricostruzione dei telomeri. La sua esistenza era in grado di spiegare perché HeLa fosse immortale: tutte le volte che quel pezzo di DNA al fondo dei cromosomi sta per finire, la telomerasi rimette indietro l'orologio e fa sì che le cellule di Henrietta non invecchino e non muoiano mai. Questa caratteristica, e il vigore con cui si replicavano, permetteva alle HeLa di soppiantare le altre colture con cui venivano in contatto: semplicemente, vivevano molto più a lungo di tutte le altre che incontravano sul loro cammino.

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«QUELLA È TUTTA MIA MADRE»
(2001)



Deborah era pronta al primo incontro con le cellule della madre, suo padre no. Day aveva più volte espresso il desiderio di vederle prima di morire, ma aveva ormai ottantacinque anni ed entrava e usciva dagli ospedali per vari problemi di cuore e di ipertensione; gli era anche stata amputata una gamba a causa del diabete. Neanche Sonny poteva venire, per via del lavoro, e Lawrence diceva che non era interessato a vedere le cellule, ma solo a ricevere denaro dal Johns Hopkins; doveva parlare con un avvocato per far causa a quella «multinazionale da miliardi di dollari».

Fu così che l'11 maggio 2001 diedi appuntamento solo a Deborah e Zakariyya: ci saremmo trovati davanti alla statua di Gesù all'ingresso e da lì saremmo entrati a vedere le cellule di Henrietta. Quella stessa mattina, Deborah mi aveva chiamato per avvertirmi che Lawrence era convinto io fossi pagata dall'ospedale per estorcere informazioni sulla famiglia. Le aveva telefonato più volte per avvertirla che sarebbe venuto a prendersi tutto il materiale che lei aveva raccolto sulla madre, così Deborah chiuse tutto nel suo studiolo portandosi la chiave dietro. Mi disse anche: «Se lo senti non dirgli dove sei, e non andare a casa sua senza di me».

La statua di Gesù era sempre lì, nello stesso punto in cui Henrietta veniva a pregare cinquant'anni prima. Posizionata sotto una cupola imponente, era alta più di tre metri. Gli occhi senza pupille fissavano dritti davanti a sé e le braccia, drappeggiate in una tunica di pietra, erano allargate come in un grande abbraccio. Ai suoi piedi i passanti gettavano monetine e fiori: un mazzolino di margherite appassite, una rosa freschissima con tutte le sue spine, un'altra di stoffa coperta di rugiada artificiale. La statua aveva un aspetto grigiastro e opaco, tranne il piede destro che era di un bianco luccicante, perché negli anni innumerevoli mani l'avevano sfregato come gesto scaramantico.

Deborah e Zakariyya non erano ancora arrivati, così mi appoggiai a una parete a osservare il passaggio. Un dottore in camice verde si inginocchiò davanti alla statua per pregare, mentre molti suoi colleghi le sfioravano di corsa il piede passandoci davanti, senza fermarsi. Pazienti e visitatori scrivevano pensieri e preghiere in alcuni grandi registri posti su dei leggii di legno accanto alla statua. Ne lessi qualcuno: «Padre Celeste, fammi parlare un'ultima volta con Eddie, se questa è la Tua volontà». «Ti prego, aiuta i miei figli a superare le dipendenze». «Ti chiedo di farci trovare un lavoro a me e mio marito». «Signore grazie per avermi dato un'altra possibilità».

Mi avvicinai alla statua, sentendo l'eco dei miei tacchi sul pavimento di marmo, e appoggiai una mano sull'alluce. Era il gesto più simile a una preghiera che avessi mai compiuto. D'improvviso mi trovai Deborah a pochi centimetri, che mi bisbigliava nell'orecchio: «Spero che Lui ci stia vicino oggi».

Le risposi che lo speravo anch'io.

Chiuse gli occhi e si mise a pregare. A quel punto Zakariyya spuntò dietro di noi e scoppiò in una gran risata.

«Non può fare più niente per aiutarti ormai!» gridò. Aveva messo su peso dall'ultima volta, e i pantaloni grigi pesanti e la spessa giaccavento blu che indossava lo facevano sembrare ancora più grosso. Le stanghette di plastica nera degli occhiali gli stringevano le tempie a tal punto da aver scavato due profondi solchi nella pelle, ma non aveva soldi per comprarne un paio nuovo.

Mi guardò e disse: «Mia sorella, questa qui, è matta, perché non vuole dei soldi da quelle cellule».

Deborah alzò gli occhi al cielo e gli diede una bastonata sulla gamba. «Comportati bene o non ti faccio entrare».

Zakariyya smise di ridere e ci seguì in silenzio fino all'edificio dove si trovava il laboratorio di Lengauer. Dopo qualche minuto di attesa nell'ingresso, Christoph ci venne incontro con un sorriso e la mano tesa. Aveva sui trentacinque anni, una zazzera di capelli castani, un paio di jeans molto vissuti e una camicia blu a scacchi. Strinse la mano a Deborah e a me e poi la porse a Zakariyya, che però non si mosse.

«Bene!» disse Christoph guardando negli occhi Deborah. «Non deve essere facile per voi entrare in un laboratorio al Johns Hopkins dopo tutto quello che, avete passato. Sono davvero felice che siate qui». Il suo accento austriaco doveva sembrare buffo a Deborah, che mi fece una smorfia mentre l'altro era girato a chiamare l'ascensore. «Pensavo di iniziare dal congelatore, così prima vi mostro dove teniamo le cellule di vostra madre, e poi le andiamo a vedere dal vivo con il microscopio».

«Magnifico» rispose tranquilla Deborah, con il tono di chi fa cose del genere ogni giorno. Dentro l'ascensore si strinse al fratello; una mano era appoggiata al bastone, l'altra teneva stretto il suo vocabolario spiegazzato. Arrivati al piano, seguimmo Christoph in fila indiana per uno stretto corridoio, le cui pareti e il soffitto vibravano. L'ambiente era pervaso da un rumore sordo simile a quello di un ventilatore, che aumentava di intensità man mano che procedevamo. «È il sistema di aspirazione» gridò Christoph. «Serve per portar via le sostanze chimiche e le cellule che vagano in giro, così non le respiriamo».

Aprì poi la porta del suo laboratorio con il gesto di un presentatore da circo e ci fece entrare. «Questo è il luogo dove conserviamo le cellule» disse, cercando di farsi sentire sopra un rumore assordante. Gli apparecchi acustici dei due fratelli si misero a fischiare, tanto che Zakariyya se lo strappò irritato dall'orecchio. Deborah regolò il volume del suo e ci seguì in un'altra stanza, le cui pareti erano interamente coperte da congelatori bianchi, uno sopra l'altro, che producevano lo stesso rumore di una batteria di lavatrici industriali. Mi lanciò un'occhiata eloquente e spaventata.

Christoph tirò una maniglia e la porta di uno dei congelatori si aprì con un sibilo. Una nuvola di fumo bianco invase all'istante la stanza. Deborah cacciò un urlo e si nascose dietro Zakariyya, che rimase impassibile con le mani in tasca.

«Non c'è da aver paura» gridò il ricercatore. «Non è pericoloso, è solo dovuto al freddo. Qui dentro non ci sono i meno venti del congelatore di casa, ma meno ottanta. Ecco perché esce il fumo quando li apriamo». Fece cenno a Deborah di avvicinarsi.

«È pieno di cellule sue» le disse.

La donna si staccò titubante dal fratello e fece un passettino avanti, fino a che una folata gelida le arrivò in volto. Davanti a lei c'erano migliaia di provette di plastica tutte uguali, lunghe due centimetri e mezzo e piene di un liquido rosso.

«Oddio» disse con aria stupefatta. «Non ci posso credere. Quella è tutta mia madre». Zakariyya osservava senza dire parola.

Christoph allungò una mano e prese una provetta dal congelatore. La mostrò a Deborah facendole vedere le lettere H-e-L-a sull'etichetta. «Qui dentro ci sono milioni di cellule,» disse «forse miliardi. Si conservano all'infinito. Le possiamo lasciare qui cinquant'anni, cento anni, forse di più; poi basta scongelarle e riprendono a crescere».

Si mise ad agitare la provetta e raccontò di tutte le precauzioni che dovevano essere prese nei confronti delle cellule HeLa. «Abbiamo una stanza apposita per loro. È importante, perché se si contaminano con un qualsiasi agente non si possono più utilizzare. E viceversa, bisogna stare molto attenti che le HeLa non contaminino le altre colture».

«È quello che è successo in Russia, vero?» disse Deborah.

Christoph la guardò stupefatto e sorrise: «Sì, proprio così. Sono contento che lei conosca queste cose». Spiegò poi come si erano svolti i fatti e disse: «Le cellule di sua madre hanno provocato danni per milioni di dollari. C'è della giustizia poetica in tutto questo, no?».

«Si stava solo vendicando con gli scienziati perché non avevano raccontato nulla a noi di famiglia» replicò Deborah. «Meglio non fare arrabbiare Henrietta, perché ti fa mordere il culo da HeLa!».

Scoppiò una risata generale.

Christoph infilò di nuovo il braccio nel congelatore, prese un'altra provetta e la porse a Deborah, con un'espressione commossa. La donna rimase immobile, stupefatta, a fissare quella mano tesa; poi afferrò la provetta e si mise a strofinarla forte tra i palmi, come se si stesse scaldando in una giornata d'inverno.

«È fredda» disse, e si mise a soffiarle sopra, tenendola tra le mani chiuse a coppa. Christoph ci chiese di seguirlo all'incubatrice, dove le avrebbe riscaldate, ma Deborah non si muoveva. Mentre gli altri si allontanavano, portò la provetta a sfiorare le labbra.

«Sei famosa» le disse in un sussurro. «Solo che nessuno lo sa».


Christoph ci condusse in un piccolo laboratorio pieno zeppo di microscopi e contenitori misteriosi, con etichette del tipo BIORISCHIO o DNA. Mostrandoci le cappe aspiranti sopra i tavoli, ci disse: «Vogliamo evitare che il cancro se ne vada in giro, quindi abbiamo questi macchinari che risucchiano l'aria e la portano verso il sistema di filtraggio, che cattura e uccide le cellule vagabonde».

Spiegò poi come era fatto il mezzo di coltura e come si trasferivano le cellule dal congelatore all'incubatrice. «Alla fine del processo le mettiamo in queste grandi bottiglie là in fondo» disse, indicando uno scaffale pieno di contenitori da quattro litri. «E poi iniziamo gli esperimenti. Ad esempio, prendiamo una nuova medicina per il cancro, la versiamo lì dentro e stiamo a vedere cosa succede». Raccontò anche come si eseguivano i test di tossicità sulle cellule, sugli animali e sugli esseri umani. Deborah e Zakariyya annuivano in silenzio.

Poi Christoph si inginocchiò davanti a un'incubatrice, aprì lo sportello e ne estrasse una capsula di Petri con una coltura di HeLa. «Le cellule sono piccole, davvero molto piccole» disse. «Ecco perché adesso le metto sotto il microscopio, così ve le faccio vedere». Accese qualche interruttore, infilò la capsula nel tavolino portaoggetti e ci chiese di osservare un piccolo monitor collegato allo strumento. D'improvviso divenne fosforescente, e a Deborah mancò il fiato.

«Che bel colore!».

Christoph, piegato sul microscopio, mise a fuoco il campo. Sullo schermo apparve un indistinto chiarore verdognolo, simile alla superficie dell'acqua di uno stagno.

«Con questo ingrandimento non si vede molto» spiegò il ricercatore. «È un'immagine che dice poco: le cellule sono così piccole che ci vuole un microscopio ancora più potente». Girò una manopola per aumentare l'ingrandimento, fino a che il tappeto verdolino si trasformò in un reticolo di cellule chiaramente distinguibili, a centinaia, ognuna con una massa scura al centro.

«Ooooh» disse Deborah con un soffio di voce. «Eccole qui». Si avvicinò allo schermo e passò il dito su quelle immagini.

Christoph le mostrò il contorno di una di quelle scatolette. «Ecco una cellula. Sembra un triangolo con un cerchio in mezzo, vede?».

Poi prese un foglio e iniziò a spiegare per una mezz'ora buona, con l'aiuto di disegni e schemi, la biologia di base delle cellule. Deborah faceva domande su domande, e anche Zakariyya aumentò il volume dell'apparecchio acustico e si avvicinò agli altri due.

«Tutti parlano di cellula e di DNA» disse a un certo punto lei. «Ma io non ho ben capito la differenza. Cos'è una e cos'è l'altro?».

Christoph rispose con evidente piacere: «Ah, ecco, il DNA è quel che c'è dentro alla cellula. Dentro il nucleo, se potessi ingrandire ancora, vedremmo un oggetto fatto più o meno così». Disegnò un lungo serpentello sul foglio. «Ci sono quarantasei pezzi di DNA fatti come questo dentro il nucleo delle nostre cellule. Si chiamano cromosomi. Nella foto che le ho spedito si vedono, sono quelli con il colore più acceso».

«Ah! Mio fratello l'ha appesa a casa sua, vicino alle foto della mamma e di nostra sorella» disse Deborah rivolta a Zakariyya.

L'uomo abbassò lo sguardo a terra e fece cenno di sì; gli angoli della bocca sembrarono piegarsi in un sorriso impercettibile.

«Nel DNA sono contenute tutte le informazioni che rendevano Henrietta esattamente la persona che era» continuò Christoph. «Vostra madre era alta o bassa?».

«Bassa».

«E aveva i capelli scuri, giusto?».

Accennammo di sì tutti insieme.

«Ecco, queste caratteristiche erano scritte nel suo DNA. E così pure il cancro, che però veniva da un errore del DNA».

La paura si dipinse sul volto di Deborah. Aveva sentito dire troppe volte che aveva ereditato una parte del DNA della madre dentro le sue cellule, e ora il discorso stava prendendo una piega che non le piaceva.

«Sono errori che capitano quando l'organismo viene esposto a certe sostanze chimiche o alle radiazioni» proseguì Christoph. «Ma nel caso di vostra madre il problema fu causato dall'HPV, il virus del papilloma. La buona notizia è che i figli non ereditano questi errori del DNA dai genitori, perché avvengono dopo, quando si è esposti al virus».

«Vuol dire che noi non abbiamo dentro la cosa che ha fatto crescere le sue cellule per sempre?» chiese Deborah. Christoph scosse la testa. «E me lo viene a dire adesso!» gridò la donna. «Dio ti ringrazio, ero tanto preoccupata».

Poi indicò una cellula sullo schermo che sembrava più lunga delle altre. «Questo è il cancro, vero? E le altre sono normali?».

«In realtà le HeLa sono tutte cancerose» rispose Christoph.

«Un momento» disse Deborah. «Vuol dire che nessuna delle cellule normali di nostra madre è ancora viva? Sono rimaste solo quelle del cancro?».

«Proprio così».

«Questa è bella! E io che ho sempre pensato che le cellule normali di mamma fossero vive!».

Christoph si chinò nuovamente sul microscopio e si mise a passare in rapida rassegna la coltura, finché non gli scappò un gridolino. «Guardate qui! La vedete quella cellula?». Ci indicò un punto al centro dello schermo. «Notate che il nucleo è bello grosso e sembra che qualcuno l'abbia pizzicato nel mezzo? È perché si sta dividendo, proprio sotto il nostro naso! Da una cellula ne nascono due, entrambe con il DNA di vostra madre».

«Dio abbia pietà di noi» disse con un filo di voce Deborah, coprendosi la bocca con una mano.

Christoph parlava del processo di divisione cellulare, ma la donna non lo stava a sentire. Era là ipnotizzata di fronte a una cellula di sua madre che stava raddoppiando davanti ai suoi occhi, come era accaduto quando Henrietta era un embrione nel ventre materno.

I due fratelli guardavano lo schermo con l'aria di chi era caduto in trance, a bocca aperta. Non avevano mai visto la madre così viva, in un certo senso, da quando erano in fasce.

Dopo un lungo silenzio, Zakariyya parlò.

«Se quelle sono le cellule di nostra madre, perché non sono nere come era lei?».

«Le cellule al microscopio non hanno colore» gli spiegò Christoph. «Sono tutte indistinte, e noi dobbiamo colorarle con delle sostanze speciali. Non si può capire come è fatta la pelle di una persona guardando il colore delle sue cellule». Poi lo invitò ad avvicinarsi. «Vuole guardarle direttamente al microscopio? Si vedono meglio».

Christoph spiegò ai fratelli come usare lo strumento: «Guardi qui... si tolga gli occhiali... ora giri questa manopola finché non sono a fuoco». Dopo qualche manovra, Deborah trovò il punto giusto: in quel momento, dentro a quel microscopio, vide un oceano di cellule, tutte di sua madre, dipinte di un etereo verde fluorescente.

«Sono bellissime» mormorò. Continuò a osservarle a lungo in silenzio; poi disse, senza staccarsi dall'oculare: «Dio mio, non avrei mai sognato di vedere mia madre al microscopio, non pensavo che sarebbe successo».

«Già, il Johns Hopkins ha combinato un bel casino, credo» disse Christoph.

Deborah alzò di scatto la testa, incredula. Uno scienziato, che oltretutto lavorava lì dentro, ammetteva l'errore. Tornò a chinarsi sulle cellule e disse: «Il John Hopkin è una scuola dove si insegnano tante cose, ed è importante. Ma questa qui è mia madre. Sembra che nessuno lo capisca».

«È vero» ribatté Christoph. «Nei libri di scienza si parla sempre e solo di HeLa, in tutte le salse. Qualcuno forse sa che dietro a quella sigla c'è una persona, ma nessuno sa chi era quella persona. Ed è una storia così importante».

Deborah stava per abbracciarlo. «È incredibile» disse scuotendo la testa e guardandolo come se fosse un miraggio.

Di punto in bianco, Zakariyya si mise a gridare qualcosa a proposito di George Gey, ma la sorella gli pestò l'alluce con il bastone, strozzandogli le parole in gola.

«Mio fratello è molto arrabbiato per tutto quello che è successo» disse Deborah. «Sto cercando di calmarlo. A volte esplode, ma ci sta provando anche lui».

«Ha tutto il diritto di essere arrabbiato» disse Christoph. Poi prese il catalogo che utilizzava per i rifornimenti di HeLa. C'era un lungo elenco di vari tipi di cloni, disponibili a partire da 167 dollari a provetta.

«Dovreste prenderli voi» disse Christoph rivolto ai due fratelli.

«Ma va'» rispose Deborah ridendo. «E cosa me ne faccio di una scatola con le cellule di mia madre?».

«No, intendo i soldi. Almeno una parte».

«Ah». Era senza parole. «Ecco. Lo sa, quando la gente sente parlare di HeLa la prima cosa che mi dice è: "Dovreste essere milionari!"».

Christoph fece un cenno di assenso. «Tutto è partito da lei, dalle sue cellule. Quando un giorno avremo la cura per il cancro, sarà in gran parte per merito suo».

«Amen» rispose Deborah. Poi, senza traccia di rabbia nella voce, disse: «Ci sarà sempre qualcuno che fa un sacco di soldi con quelle cellule, e non ci possiamo fare nulla. Ma a noi non ci verrà in tasca niente».

Per Christoph era davvero ingiusto. Le cellule di valore biologico dovrebbero essere trattate come il petrolio, disse. Se scopri il petrolio nel tuo campo non diventa automaticamente tuo, ma ti spetta una percentuale dei guadagni. «Nessuno sa come affrontare la questione delle cellule, anche oggi. E quando vostra madre si è ammalata, i dottori facevano quello che volevano e i pazienti non chiedevano spiegazioni. Oggi invece vogliono essere informati».

«Amen» ripeté Deborah.

Christoph lasciò il suo numero di cellulare e disse che potevano chiamarlo quando volevano, se avevano altre domande sulle cellule della loro madre. Mentre ci accompagnava all'ascensore, Zakariyya gli mise una mano sulla schiena e lo ringraziò. Fuori dell'ospedale, fece lo stesso con me prima di andare a prendere il bus per tornare a casa.

Io e Deborah rimanemmo in silenzio a osservarlo mentre si allontanava. Poi lei mi abbracciò e mi disse: «Ragazza mia, hai appena assistito a un miracolo».

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È illegale vendere organi o tessuti umani a scopo di trapianto o altra procedura clinica, ma è perfettamente legale richiedere un corrispettivo in denaro per un campione che è stato raccolto e lavorato. L'industria di settore non fornisce cifre precise, ma secondo alcune stime un corpo umano può fruttare dai diecimila ai quasi centocinquantamila dollari. È rarissimo, però, che le cellule di uno di noi valgano milioni come quelle di John Moore. Al contrario: come un singolo topo o moscerino della frutta non è di grande aiuto alla ricerca, così una linea cellulare o un campione di tessuto umani non hanno grande valore in sé, ma solo in quanto parte di una collezione più vasta di tipi.

Oggi le aziende che forniscono materiali biologici vanno da piccole imprese familiari a colossi come Ardais, che dà un sacco di soldi (non è dato sapere quanto) al Beth Israel Deaconess Medical Center, al Duke University Medical Center e a molti altri ospedali per avere l'esclusiva sui tessuti prelevati ai loro pazienti.

«C'è un aspetto che non possiamo ignorare, ed è chi ci guadagna e come viene usato il denaro» dice la Clayton. «Non sono sicura di cosa sia meglio fare, ma trovo strano che tutti prendano soldi tranne la gente che dà la materia prima».

Sono state avanzate varie ipotesi da esperti del settore per ricompensare i donatori: un sistema simile al Servizio sanitario nazionale in cui ogni donazione dà diritto a livelli crescenti di remunerazione; un sistema di deduzioni fiscali; un sistema di «diritti d'autore» simile a quello utilizzato per i musicisti i cui brani sono suonati alla radio; l'obbligo di destinare una percentuale dei guadagni a istituzioni senza fini di lucro, o di reinvestire tutti i profitti solo ed esclusivamente nella ricerca.

Dalle due parti della barricata ci si preoccupa che la compensazione monetaria ai pazienti possa portare alla nascita di donatori-profittatori che bloccano il progresso scientifico chiedendo cifre folli o pretendendo denaro anche se i loro tessuti sono utilizzati per ricerche senza fini commerciali. Ma nella maggioranza dei casi, i donatori che hanno fatto causa finora non erano affatto interessati ai profitti. Come molti difensori del diritto di proprietà dei tessuti, essi si preoccupano anzitutto che le scoperte fatte con le loro cellule siano effettivamente messe a disposizione del pubblico e di altri ricercatori. In effetti molti gruppi organizzati di pazienti hanno creato proprie banche biologiche, in modo da controllare l'utilizzo dei tessuti e gli eventuali brevetti che ne derivino. Un donna in particolare è diventata titolare di un brevetto relativo al gene che regola una certa malattia, scoperto nei campioni prelevati ai suoi figli, il che le dà il diritto di decidere quali ricerche si possano compiere e chi lo possa eventualmente sfruttare.

I brevetti sui geni, e come questo diritto di proprietà potrebbe intralciare il progresso scientifico, sono il punto che desta le maggiori preoccupazioni nei dibattiti sul diritto di disporre del materiale biologico umano. Fino al 2005, anno per cui sono disponibili le statistiche più aggiornate, il governo degli Stati Uniti ha concesso brevetti sul venti per cento circa dei geni umani conosciuti, tra cui quelli responsabili per l'Alzheimer, l'asma, il cancro al colon e al seno – quest'ultimo forse è il caso più noto. Ciò significa che le aziende farmaceutiche, i ricercatori e le università titolari di quei diritti possono controllare il tipo di studi fatti su tali geni e decidere il prezzo dei test diagnostici e delle relative terapie. E c'è chi fa valere i suoi diritti in modo molto aggressivo. La Myriad Genetics, titolare del brevetto sui geni BRCA1 e BRCA2, responsabili della maggioranza dei casi di tumore ereditario al seno e alle ovaie, chiede tremila dollari a test. L'azienda è stata accusata di creazione di monopolio, perché nessun altro concorrente è in grado di offrire quel prodotto e nessun ricercatore può sviluppare un test più economico senza il permesso della Myriad, se non vuole vedersi inondato da lettere di avvocati che gli intimano di fermarsi, pena conseguenze legali.

Nel maggio 2009 la American Civil Liberties Union, un gruppo di pazienti oncologici e varie associazioni professionali in rappresentanza di oltre centocinquantamila ricercatori hanno fatto causa alla Myriad Genetics e al suo brevetto sul gene del cancro al seno. Tra le varie accuse mosse dagli scienziati vi era quella secondo cui la pratica di brevettare i geni aveva ostacolato le loro ricerche, ed essi intendevano mettervi fine. Il fatto che si costituissero come parte in causa tanti scienziati, molti dei quali appartenenti a istituzioni prestigiose, fa vacillare l'obiezione comune per cui un verdetto contrario ai brevetti sui prodotti biologici interferirebbe con il progresso della ricerca.


Lori Andrews, avvocato che ha patrocinato gratuitamente quasi tutte le più importanti cause in materia (tra cui quest'ultima), sostiene che molti ricercatori hanno intralciato il progresso della scienza esattamente come i tribunali temevano che avrebbero fatto i donatori di tessuto. «È paradossale» mi ha detto. «Nel caso di Moore ci si è preoccupati di questo: se concediamo a un individuo i diritti di proprietà sul materiale biologico ciò rallenterà il progresso, perché l'individuo in questione potrebbe negare l'accesso ai suoi tessuti o volere molto denaro in cambio. Ma è successo il contrario: ora sono i ricercatori ad avere in mano questo potere». Secondo la Andrews, e un giudice della Corte Suprema che ha espresso un'opinione «di minoranza» (dissenting opinion), quella sentenza non ha fermato la commercializzazione della scienza, ma ha semplicemente tolto di mezzo gli scomodi pazienti e incoraggiato gli scienziati a rendere i tessuti pura merce di scambio. In molti sottolineano il fatto che in questa situazione i ricercatori sono meno propensi a condividere materiali e risultati; e c'è chi si preoccupa che possa anche interferire con la prestazione di cure ai malati.

Qualche dato sembra dare loro ragione. Secondo un'inchiesta, il 53 per cento dei laboratori ha smesso di eseguire o di produrre test genetici per non infrangere qualche brevetto, e il 67 per cento dei ricercatori riteneva che i brevetti fossero di ostacolo alla ricerca medica. A causa delle alte tariffe, una istituzione accademica spende venticinquemila dollari per un brevetto di sola ricerca su un gene come quello che governa una comune malattia del sangue, l'emocromatosi ereditaria, e fino a duecentocinquantamila se il brevetto comprende l'utilizzo commerciale. A conti fatti, sottoporre a test una sola persona per tutte le malattie genetiche note costerebbe tra i 46,4 (per gli enti non profit) e i 464 milioni di dollari (per le aziende).

Il dibattito sulla commercializzazione del materiale biologico umano ci riporta a un punto fondamentale: che ci piaccia o meno, viviamo in una società dominata dal mercato, e la scienza non si sottrae a questa logica. Baruch Blumberg, il premio Nobel che utilizzò gli anticorpi ottenuti da Ted Slavin per le sue ricerche sull'epatite B, mi ha detto: «La nostra opinione sulla questione dipende dalla nostra opinione sul capitalismo». Nel complesso, Blumberg pensa che la commercializzazione sia una buona cosa: altrimenti chi ci fornirebbe le medicine e i test diagnostici di cui abbiamo bisogno? Certo c'è il rovescio della medaglia: «È innegabile che ciò abbia avuto conseguenze sulla scienza» dice. «Ha cambiato lo spirito della ricerca». Dove un tempo l'informazione circolava liberamente, ora ci sono le barriere dei brevetti e dei diritti di proprietà. «Gli scienziati sono diventati imprenditori. Il che ha fatto del bene all'economia e ha creato incentivi alla ricerca. Ma ha anche causato problemi, come la segretezza e le liti per i diritti di sfruttamento».

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