Copertina
Autore Josef Škvoreckný
Titolo Il racconto dell'ingegnere delle anime umane
SottotitoloEntertainment su vecchi temi: la vita, le donne, il destino, i sogni, la classe operaia, le spie, l'amore e la morte
EdizioneFandango, Roma, 2010, Mine vaganti 40 , pag. 968, cop.fle., dim. 14,4x21x4,7 cm , Isbn 978-88-6044-120-1
OriginalePríbeh inzenýra lidských duší [1977]
CuratoreGiuseppe Dierna
TraduttoreGiuseppe Dierna, Letizia Kostner
LettoreFlo Bertelli, 2010
Classe narrativa ceca
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Indice


   PARTE PRIMA

1. Poe                               11

2. Hawthorne                        107

3. Twain                            215

4. Crane                            353


   PARTE SECONDA

5. Fitzgerald                       465

6. Conrad                           607

7. Lovecraft                        799


7. Note del curatore                943


 

 

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Pagina 11

1. Poe



Erano i cieli come fredda cenere,
eran le foglie accartocciate e secche,
eran le foglie vizze e inaridite,
era... in quel solingo ottobre...

                                      Ulalume



L'intero àmbito del pensiero e del sentimento,
ma pur sempre in relazione organica
con un ridicolo tema di valzer.

                                Aldous Huxley




Caro Dan,

in'apertura della mia lettera accetta un cordiale saluto e un caro ricordo. Sono quì alle terme di Karlsbad già da una settimana e sto bene. Sono alle terme per l'azione Rainard Haidrich. È un azione che riguarda gli operai dove prima ci andavano solo i ricchi ora ci possono andare pure gli operai. Si mangia 4 v. al giorno la colazzione pane con miele artificiale o marmellata il pranzo dove cé la carne 3 v. la settimana lo spuntino col te e i panini la domenica focaccia dolce e la cena poi abbondante come di mezzogiorno. È un azione del Reikprotektor Rainard Haidrich per gli operai. Prima di azioni per gli operai come questa non ce n'erano. A me mi ha scelto il betribslaiter Schilink che il dottor Sélich gli aveva detto che c'ho le macchie ai polmoni e così per non pigliarmi la tisi loro mi hanno inserito nell'azione Rainard Haidrich per gli operai. Sto bene. Tu lavori sempre alla Messerschmit? Io dall'azione Rainard Haidrich in fabbrica non ci torno più dato che mi sono presentato spontaneo per andare nel Reich che lì ci servono le persone con la qualifica e pagano di più dove si fatica la notte. Ti scriverò di nuovo dal Reich stammi bene anche tu peccato proprio che non ti possono inserire pure a te nell'azione Rainard Haidrich dato che è un azione per gli operai ma magari a te ti ci inserirebbero pure visto che adesso lavori alla fabbrica quì è proprio molto bello. In conclusione della mia lettera accetta un cordiale saluto non mi scrivere più quì dato che tra giorni 6 parto per il Reich da lì ti mando l'indirizzo perciò scrivimi. In conclusione della mia lettera accetta un cordiale saluto e un caro ricordo!

Il tuo amico Lojza


*



Al di là della finestra, che è alta e stretta (una gotica fettuccia di vetro), la gelida bufera canadese mescola due diversi biancori: la neve sfarinata, che come polvere si spande dalle nuvole nerastre su in alto, e il pulviscolo di neve che la bufera solleva dalla pianura che da Mississauga si stende fin verso sud, verso il lago Ontario. La neve sfarinata turbina nel bianco deserto dove non c'è nulla, giusto un paio di alberelli spogli e anneriti. Il college sorge in mezzo a un paesaggio selvatico. Ci si attende che nel giro di qualche anno la città di Mississauga cresca e il college acquisti di conseguenza dintorni più variopinti. Per il momento, però, si trova in mezzo al deserto, a due miglia e mezzo dal più vicino development di casette monofamiliari. Queste ultime, però, non sono più identiche una all'altra: dai tempi di George F. Babbitt qualche cosa qui l'hanno imparata. E forse a insegnargliela è stata la letteratura. Di family house ce ne sono di almeno quattro tipi, che si alternano a intervalli irregolari, per cui l'intero development fa l'effetto di un paesino svizzero abbozzato da un pittore con una marcata tendenza alla stilizzazione. Davvero bello a guardarsi.

Solo che io non lo vedo; appare al massimo al mio sguardo interiore, mentre i miei pensieri vagano. Coi miei occhi reali vedo il bianco, gelido, tempestoso deserto canadese. Con la vista interiore mi capita spesso di vedere in questo modo molte delle splendide cose intraviste coi miei propri occhi in questa terra di città senza passato. Lo skyline dei grattacieli di Toronto, tanto per dirne una: neri, bianchi e tutti ricoperti di specchi dorati. Hanno la sommità conficcata dentro nuvole brumose, s'illuminano come scacchiere dorate nel chiarore serale della prateria, mentre alle loro spalle il sole tramonta, grande come Giove e rosso come il rosso-rubino anilinico, e tutto questo con sullo sfondo il firmamento verde del tramonto. E Dio solo lo sa perché proprio verde. Forse per il fatto che è in Canada. Confronto questo panorama con il panorama praghese col Castello e mi sembra più bello ma, ad essere obiettivi, è quasi identico. La terra è bella ovunque. È più bella lì dove uno sta bene, e uno sta bene li dove non rimanda più nulla al futuro, perché non ne ha bisogno e perché di futuro, poi, non ne rimane più tanto. È lì dove uno ha perso ogni paura, perché non c'è più nulla da temere, né a livello generale – loro, in effetti, hanno un partito anche qui, ma al momento il partito non ha il potere – né a livello personale: qui non ci sono critici letterari cechi, non si compilano classifiche di scrittori in ordine di grandezza. I miei romanzi, pubblicati qui dalla botteguccia della signora Santnerová, vengono semplicemente letti, ma senza essere quasi mai recensiti: manca chi potrebbe farlo. Quei due o tre riconoscenti recensori dilettanti che ne scrivono sulle riviste pubblicate in esilio, schiacciati in mezzo alle inserzioni dei veglioni di Carnevale e dei magazzini in valuta straniera Tuzex, s'intendono al massimo di lettura, non di letteratura. Certo, a Saskatchewan vive il professor Koupelna, al quale i grandi magazzini Passer di Chicago, vendita per corrispondenza, nel pacco con la confettura fatta in casa e il prosciutto di Praga infilano di tanto in tanto anche un libro come omaggio. Il libro risveglia nel professor Koupelna un istinto selvaggio, spingendolo a ritenersi uno spirito critico. Dopo di che spedisce un attacco da pubblicare sul trimestrale della Società per le scienze e le arti, ma per fortuna lui attacca dall'alto di una cultura talmente elevata che il suo assalto fa desistere dalla lettura la maggior parte dei membri della Società delle scienze. La sua cultura ha, inoltre, lacune troppo grosse, per cui su quelli che non riesce a far desistere non sortisce alcun effetto.

Sto bene. Sto maledettamente, pericolosamente bene in questo deserto.

Sheila Ellwood, un'irlandese del Burnham Lake Settlement, meravigliosamente rossiccia e dissolutamente lentigginosa, farfuglia alle mie spalle una relazione sul Gordon Pym. Vuole togliersi il pensiero, mentre io, al contrario, desidero invece che lei parli il più a lungo possibile, per non essere poi costretto a parlare a lungo io. Ovviamente so bene da dove l'ha copiata. Un minimo di standard accademico lei però ce l'ha: non l'ha ricopiata dai suntini delle Coles Notes, ma dal validissimo volume del professor Quinn, e ha copiato con cura, senza tralasciare proprio nulla. Malgrado io non glielo abbia richiesto (ma in Quinn lo si ritrova), eccola infatti impegnata a confrontare Gordon Pym e Moby Dick. "Le frasi introduttive sono praticamente identiche: 'Mi chiamo Arthur Gordon Pym' e 'Chiamatemi Ismaele'. Entrambi parlano della città di Nantucket. In entrambi i romanzi alcuni dei personaggi si occupano di significati nascosti: Pym e Peters del significato dei geroglifici incisi sulle rocce sull'isola di Ts..." E ti pareva! Ha inciampato in una parola che comincia, alla maniera slava, con un gruppo consonantico. "...Tsalal. L'equipaggio del Pequod, invece, si interessa al significato del doblone d'oro che Achab ha inchiodato all'albero della nave. All'inizio della storia Pym e Augustus per poco non scompaiono in mare... Ismaele visita la cappella del baleniere e studia le targhe commemorative dei marinai scomparsi in mare..." Fisso i vortici bianchi al di là della finestra e, piacevolmente al caldo, so bene quanto siano gelidi in maniera quasi disumana. Si ode il lieve ululare del vento, e dentro di me, nel mio orecchio interiore, risuonano i versi russi che ho recitato ieri ai cuccioli della prateria. Temo che Poe li annoi, in televisione si vedono horror ben più orrorifici, e io cerco come posso di renderlo più vivace ai loro occhi. Ho quindi recitato loro dei versi russi. Anche perché avevo di nuovo ceduto alla stupida ma forse indistruttibile tendenza a spiegare l'inesplicabile. Irena Svensson, una ragazza dal volto piacevolmente sprezzante (è una forma di autodifesa), si è alzata e ha dichiarato che Il corvo è solo insulso kitsch sentimentale. Lo ha fatto per vendetta: aveva notato che mi si incrina la voce (non posso farci nulla: sono un sentimentale) ogni volta che leggo i versi ... if, within the distant Aidenn, | It shall clasp a sainted maiden whom the angels call..., e aveva pensato così di vendicarsi – in maniera furba e pubblica – per il fatto che il semestre scorso, nel privato del mio studio, l'avevo torturata sadicamente per quasi due ore e mezza. Quella volta avevo indossato la maschera del professore e, come un capataz, le avevo posto la domanda a cui non v'è risposta: "Ma com'è possibile? Perché l'ha fatto?", senza però – naturalmente – informare il rettore del suo plagio. Al termine di quelle due ore crudeli le avevo poi benignamente concesso di scrivere un nuovo paper, ovviamente per la mattina successiva, in tal modo assicurandole una piacevole serata. Sono del tutto incapace di fare alcunché di male a qualsiasi ragazza di nome Irena. È un'inibizione che risale ad anni lontani. Irena Svensson aveva dunque scritto un nuovo paper e aveva pensato di avermi abbindolato. Ma le era andata male. Nel primo paper aveva sottovalutato la mia erudizione professorale, nel secondo non aveva messo in conto la legge ceca per cui se qualcosa comincia ad andarti storto... Il suo elaborato l'aveva acquistato alla Term Papers, Inc., e quegli imbroglioni le avevano rifilato lo stesso paper venduto due anni prima alla graziosa cinese Joan Pak Wong, che quella volta era andata da loro indirettamente dietro mio consiglio: dovevo infatti ricevere in qualche modo da quella fanciulla di Trinidad almeno un paper in cui ogni due parole non ce ne fosse una sbagliata e non vi comparissero misteri orientali del tipo: "Questo romanzo è un romanzo. È una grande opera, essendo in forma di libro". In caso contrario non avrei potuto farla passare sentendomi poi ancora a posto con la coscienza. Perché, poi, la mia coscienza non fosse a posto, questo non saprei proprio dirlo. Forse anche quella volta si era trattato piuttosto di sadismo giacché, dopo i professori, i paper non li controlla più nessuno. Peraltro, se li avessero controllati, ci saremmo trovati entrambi, io e Joan Pak Wong, nello stesso pasticcio: l'opera acquistata surclassava così smaccatamente le sue precedenti affermazioni da cartone animato che la differenza si sarebbe potuta spiegare soltanto con una lobotomia. Per farla breve: l'anonimo scrivano della Term Papers, Inc. aveva rifilato a Irena Svensson lo stesso paper già una volta rifilato alla bambola delle Indie Occidentali, per cui Irena si era seduta in studio da me per la seconda volta, e io, per la seconda volta con indosso la maschera del professore, l'avevo tormentata, questa volta per quasi tre ore di fila, finché in lacrime non aveva confessato. Era stato un godimento vedere quel volto sprezzante, con la fiera bocca da giovane donna sofisticata, sciogliersi all'improvviso teneramente per trasformarsi nel viso di una ragazzina insicura di Oshawa, Ontario. Mi ero detto tuttavia: ma dov'è finito il suo istinto femminile? Ma non lo vede, questa ragazza svedese, odorosa di deodorante e lavanda, che mai e poi mai farei la spia su di lei col rettore?

Non si trattava, però, in lei tanto di carenza d'istinto, quanto di carenza di un'esperienza simile alla mia. Non poteva infatti sapere che, quand'anche non si fosse chiamata Irena, la vita mi aveva ormai immunizzato dall'idea di comunicare qualsivoglia tipo di colpa a qualsivoglia tipo di autorità. Un'inibizione, la mia, impenetrabile come una cortina di ferro. Ho vissuto troppo a lungo in una terra dove persino la più pura delle verità, se comunicata, si trasforma in menzogna sulla base delle leggi – in Occidente ben poco conosciute – del marxismo-leninismo.

Per cui quella volta avevo ordinato a Irena Svensson di prendere carta e penna. Lei aveva preso quindi una biro Parker d'argento e il proprio assurdo blocco canadese coi fogli a righe, ed era stata poi costretta per altre due ore a penare davanti ai miei occhi per riuscire a mettere insieme un paper sul tema "La funzione dei colori nella Lettera scarlatta di Hawthorne". Sudava così tanto che, attraverso la barriera della lavanda, riusciva ugualmente a penetrare un debole profumo di palestra femminile e, a furia di rosicchiare la Parker, l'inchiostro indelebile le si era rovesciato in bocca, per cui poi per due settimane era venuta a lezione con le labbra che sembrava la morta Ligeia.

Ed io avevo dunque ceduto alla sciocca inclinazione a far quadrare il cerchio, alla folle aspirazione di mostrare all'irrazionalissima Irena e ai figli della prateria dell'Edenvale College che – come afferma Hemingway – se una cosa è ben scritta può avere molti significati, e avevo quindi portato a lezione Esenin-Vol'pin.

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Pagina 26

Dovrei davvero pensare ad averci una storia con Irena Svensson. Manifesta tutti i sintomi dell'attesa. Certo che potrebbe essere mia figlia, ma in fondo io qui sono circondato dall'aureola dell'uomo che ha passato la propria vita sotto il giogo delle dittature poliziesche e che durante la guerra ha fatto parte della resistenza antinazista. Quando mi ci pavoneggio davanti alle ragazzine di Chitagooga e delle Yellow Pants, sto furbescamente attento a non dire resistence group, bensì guerrilla group: è questa l'espressione che loro conoscono meglio, e l'associano alle bombe. Quest'uomo interessante ha inoltre esercitato il mestiere di scrittore, nelle dittature poliziesche così rischioso. Gli hanno giustiziato il suo migliore amico: logicamente faccio del compagno Hubert Stein il mio migliore amico, sebbene lui non mi abbia mai avuto troppo in simpatia. Ma la storia della sua esecuzione è la pura (o meglio: la sporca) verità, a cui quel pizzico di fantasia in più non guasta. Infine, quest'uomo è stato mandato in esilio lontano dalla sua patria dall'arrivo dei carri armati sovietici, dal punto di vista fisico i suoi quarantotto anni se li porta bene e ha i capelli ondulati in maniera naturale, con striature argentee che – grazie al dry look – scintillano del più interessante dull shine.

Dovrei dunque smetterla di esitare con Irena Svensson. Secondo la pubblica opinione, le ragazze canadesi di oggi sono facilmente disposte a tutto. Non che io lo sappia per esperienza diretta: per il momento, a soddisfare appieno i miei bisogni in tal senso c'è Margitka. Ma da quando ho parlato con Larry MacAlear, ho cominciato a nutrire qualche dubbio su tale loro disponibilità. Larry si era infatti ritrovato per sbaglio a un corso per matricole, dove una serie di promesse del mondo accademico aveva difficoltà già solo a pronunciare la parola ratiocination, mentre Larry per divertirsi leggeva Finnegans Wake. Mi si era piantato nello studio e aveva cominciato a parlarne. Io non potevo certo dirgli che a me Finnegans Wake mi annoia, cambiavo quindi ogni volta discorso, passando da Joyce alle compagne di corso di Larry. Larry era un tipo barbuto, ben piazzato, i capelli pettinati come Cristo, rosso, con dei perfetti jeans strappati che facevano intravedere, sul sedere, i jockey shorts, per cui aveva un suo sex appeal. "Non è che sia proprio così tutta rose e fiori come si racconta", aveva detto. "Solo che quello che si racconta è più newsworthy, you know. Di fatto, però, la maggior parte di loro si tiene ben stretta la propria..." – e con l'assoluta naturalezza della sua disinibita generazione, per indicare l'organo genitale femminile aveva utilizzato la nota parolina di quattro lettere. Per quanto riguarda la lingua, qui non esistono davvero inibizioni, e sono convinto che neanche Irena Svensson si sarebbe tirata indietro di fronte a quella parola. Se si fosse dovuti invece giungere alla manipolazione fisica di quella parte del corpo di quattro lettere, allora... – "...perché a quasi tutte interessa soprattutto ottenere il loro bel titolo accademico. Sa a quale mi riferisco?" "M.A. Dottoressa in lettere?", avevo azzardato, perché – nonostante i criteri estremamente democratici dell'Edenvale College – la maggior parte delle ragazze non aveva certo l'aria di poter aspirare a un qualche dottorato. "M.R.S.", aveva dichiarato il barbuto, ammiccando furbescamente. Sulle prime non avevo capito bene a cosa si riferisse. Ma era stata solo questione di un attimo. Poi c'ero arrivato. Pur non nutrendo alcuna particolare fiducia (lo conosciamo bene il Women's Lib), sapevo però che tutti i movimenti radicali fanno un baccano spropositato rispetto al numero reale dei loro adepti. Ovvio, era il titolo di Mrs.

Per cui, chissà. Ma un pensierino dovrei incominciare a farcelo. Lei mi osserva in continuazione coi suoi occhi splendidamente scoloriti di Kiruna, dove pare che un tempo avesse un nonno proprietario di miniere di ferro, in quella città dal sole di mezzanotte. E come doveva rifrangersi bene in quelle pupille di tenero acciaio, sui capelli biondi. A differenza dei salici piangenti della maggioranza uniforme, lei li porta sempre accuratamente e costosamente arricciati. Non alza mai la mano per farsi interrogare. Quando la chiamo, risponde dando l'impressione di avere realmente letto i libri da me assegnati, e di essere stata persino a sgobbare sui volumi di critica. La sua bocca è sempre sprezzante, ma non denigra più E.A.P. Di recente ha addirittura partecipato alla discussione (in via del tutto eccezionale, aveva alzato la mano da sola), osservando che Poe era un eccellente artista visivo, e con ciò – aveva dichiarato – non intendo certo riferirmi alle sue descrizioni romanticheggianti di interni immaginari, bensì alle sue realistiche percezioni visive. Come esempio aveva riportato la descrizione dell'esplosione del Jane Guy sull'isola di Tsalal. L'ho lodata, riflettendo se per caso non avesse addirittura una sensibilità davvero letteraria, quasi da scrittrice... magari quest'anno i suoi paper se li scrive davvero da sola, io per lo meno non mi ricordavo alcuna analisi di quella scena in nessuno dei libri degli specialisti. Dipenderà forse dal fatto che, quanto alla loro lettura, non è che io sia proprio tra i più eruditi, ma mentre più tardi mi stavo dirigendo verso casa attraverso il deserto bianco, grigio e nero di Edenvale, incontro alle torri scintillanti del downtown di Toronto, all'improvviso mi era venuto in mente che quella scena l'avevo elogiata io stesso l'anno passato al corso per le matricole. Ma se anche, in tal modo, veniva ridimensionata l'intelligenza letteraria di Irena, nella stessa misura ne guadagnava in interesse la sua persona.

Solo che ora non è più tanto facile. Un tempo mi accendevo facilmente di passione, e mi consumavo con un certo piacere. Oggi non è più possibile. E a prendersi buona cura della mia salute c'è Margitka.

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Pagina 54

Dagli Skočdopole c'era arrivato un quarto d'ora dopo di me e aveva fatto a Prema la stessa identica domanda che gli avevo posto io per primo. Dopo essersi assicurato che si era trattato di un lavoro da solista, aveva estratto dalla borsa da ginecologo la sua roba e si era messo a pulire il disastro. Prema aveva alternato un'intera gamma di smorfie delle più diverse, e quella parolaccia l'aveva ripetuta all'incirca cinque volte.

Dopo di che il dottore aveva tirato fuori il modulo, a entrambi ben noto, col quale in fabbrica si comunicava l'inabilità al lavoro dell'operaio, e si era messo a pensare.

"Posso darti giusto tre giorni. Altrimenti dovresti sottoporti al controllo, e a quel punto sarebbero un po' troppe le persone al corrente."

"Capisco", aveva detto Prema con tono da cospiratore. "Tre giorni bastano."

"Questo non dirlo", aveva ribattuto il dottor Labský. "Ti verrà la febbre, ma c'è poco da fare. Devi resistere."

"Non abbia paura, dottore."

Il dottor Labský lo aveva fissato a lungo.

"Io non ho paura", aveva detto. "Un dottore, come ostaggio, loro non lo prendono. Dei dottori ne hanno bisogno. Ma ci avevi riflettuto, ragazzo, a quello che stavi facendo?"

Il volto di Prema si era per un breve istante incupito. "Certo", aveva detto, ma non sembrava che lo pensasse davvero.

"E quanti pensi che ne arresteranno, eh?"

Prema taceva.

"Quindici? Venti? Cinquanta?"

Alla fine ne avevano arrestati quarantotto. Tra loro anche mio padre, lui però era sopravvissuto.

Prema continuava a non rispondere.

"E quanti di loro torneranno?"

Dieci. Questo, naturalmente, noi non lo sapevamo ancora.

Così fui iniziato alla relatività delle azioni umane.

"C'è la guerra, no?", aveva infine brontolato Prema. "E anche se sono tutti dei pisciasotto, allora... beh, che almeno qualcuno faccia qualcosa."

Il dottor Labský gli aveva nuovamente lanciato quella sua lunga occhiata.

"Pensi forse di essere un eroe?"

"Questo no", si era affrettato a rispondere Prema. "Ma c'è la guerra. Ai tedeschi gliela dobbiamo..."

"Se tu fossi un eroe, allora prenderesti e andresti a denunciarti. Così salveresti tutte quelle vite innocenti, neanche so quante, che ci andranno di mezzo."

Il dottor Labský si era alzato.

"Meglio, però, che tu non lo faccia. Ti caverebbero fuori a botte il nome di chi ti ha medicato, perché si accorgerebbero che si tratta di un lavoro da professionisti. Per cui, un nuovo impacco ogni tre ore. Vengo a darti un'occhiata domani. Addio."

Aveva chiuso la borsa da ginecologo, sulla porta si era lievemente chinato per non farsi un bernoccolo, ed era sparito.

Eravamo rimasti seduti in silenzio, e ci sentivamo entrambi in imbarazzo.

"Porca zozza", aveva detto Prema dopo un po'. "A questo non ci avevo proprio pensato. Credi che abbia ragione?"

"Sì. Non ci crederebbe davvero nessuno che ti sei medicato da solo."

"Ma no", aveva ribattuto Prema irritato. "Quando dice che ho fatto una sciocchezza. Che non ne valeva la pena. Non ci avevo proprio pensato che adesso ci può schiattare chissà quanta gente."

"Ma se l'hai detto tu stesso! C'è la guerra."

"Solo che quelli prendono gente innocente. E qualcuno magari lo fucilano pure."

"Innocenti, sì, ma cacasotto. Coi cacasotto la guerra non si vince di certo."

Nel fare quell'affermazione mi ero sentito un eroe. Non sospettavo minimamente quanto avrei rimpianto di non essermene rimasto magari tra i cacasotto, sì, ma almeno innocenti.

Prema si era messo a riflettere intensamente. Non sudava più. Gli oli rinfrescanti avevano avuto un effetto benefico. Ma le guance pallide e flosce del volto mongolico di Prema erano andate in fiamme, certo per via della febbre che già cominciava a salire.

"Potrei sparire", disse, "e scrivere alla Gestapo una lettera di confessione."

"In quel caso li arresterebbero per vendetta. Sempre, poi, che non ti acciuffino. Lo sai bene che durante le rappresaglie per l'attentato a Heydrich hanno minacciato di far fuori una persona su tre fino a che non si trovava il responsabile."

"È così", disse Prema dopo un po', leggermente confuso. "Potrei spararmi e poi scrivere la lettera. Cioè, al contrario."

"Ma non hai neanche nulla per farlo."

"E invece sì."

Questo non me l'aveva mai detto. Mi era presa la gelosia. Mio padre prima della guerra una pistola ce l'aveva, ma all'arrivo dei tedeschi l'aveva nascosta da qualche parte e poi nei giorni della rivoluzione non era più riuscito a trovarla. Tutto il tempo della rivoluzione l'aveva passato nella vana ricerca di quella pistola. Per cui io ero disarmato.

"Non fare lo stupido", avevo detto. "Quelli ne approfittano comunque lo stesso per fare i conti con la gente con cui li vogliono fare. E non fa alcuna differenza se ti costituisci o no. E se ti costituisci, poi ci sarà solo uno che non sia un cacasotto in meno."

E così, con un sofisma, avevo allora risolto a Prema l'eterno dilemma dell'eroismo umano. O almeno ero andato in soccorso del suo istinto di sopravvivenza, istinto di cui risultano provvisti anche gli eroi. A casa tornai solo a buio fatto e, nonostante le previste rappresaglie e le ecatombi di innocenti, mi confortava la sensazione di essere parte di un complotto alquanto efficiente che mostrava tutti i segni dell'avventura e magari anche dell'eroismo, sempre che non si trattasse solo di sconsideratezza giovanile.

Suonai il campanello e venne ad aprirmi mia madre in lacrime.

Le rappresaglie erano già iniziate.

E proprio a cominciare da casa nostra.

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Pagina 92

"Dan, io per un uomo così farei proprio tutto tutto! Lui però doveva far fuori anche il crucco che stava lì di guardia."

"Quello se lo faranno fuori loro stessi", avevo detto. Nad'a si era fermata perplessa.

"Cioè, pensi che per questo loro pigliano e lo fucilano?"

"Chiaro. Si doveva essere addormentato o roba simile. Farsi saltare in aria il deposito in pieno giorno!"

Di fronte alla prospettiva della fucilazione, la sete di sangue di Nad'a si era calmata.

"Lo vedi", aveva dichiarato e, senza neanche accorgersi di quello che diceva, aveva aggiunto: "Doveva farlo fuori. Gli sarebbe andata meglio".

"A chi?"

"Ma alla sentinella, no?"

"Ti fa pena?"

"Ma che ti viene in mente, Dan!", aveva protestato in maniera ben poco convincente, dando uno sguardo in giro per la cucina. "Non c'avete mica dell'orzo?"

Servizievole ero balzato in piedi, avevo messo sul fornello il bricco in cui mia madre preparava il caffè, e da un nascondiglio della credenza avevo estratto una riserva di caffè Meinl di prima della guerra. Nad'a si era alzata dallo sgabelletto, si era avvicinata alla credenza e si era messa ad esaminare le tazzine.

"Belle!", aveva detto. "Pure le nostre sono belle, erano di mia nonna, ma come queste qui non ne abbiamo."

Ne avevo presa una, era un servizio da tè, e avevo mostrato a Nad'a le meraviglie dell'arte ceramica. Guardando nella tazzina controluce, sul fondo appariva il volto di una bella geisha, come fosse una fotografia. L'effetto era prodotto solo e unicamente da strati di porcellana bianca di spessore diverso, non si trattava di un disegno. Nad'a aveva reagito in una maniera che non mi aspettavo.

"E chi è?"

Dio sa perché avevo detto:

"Reba Silbernglová".

"Chi?"

"È una ragazza. Hanno nascosto quelle cose qui da noi finché c'è la guerra."

Aveva voltato su di me gli occhi di fuoco, facendosi estremamente seria. Dopo di che aveva gettato un'altra occhiata all'interno della tazzina.

"È proprio bella. Ma sembra una giapponese."

"Beh... è che lei è ebrea. Anche gli ebrei, in fondo, sono di razza orientale."

"È... la tua ragazza?"

Ero giovane, assetato di sesso, nella mia vita non avevo un tubo a cui pensare. Mi lusingava il fatto che una bellezza tutta pelle e ossa di Cerná Hora mi collegasse eroticamente a una prostituta di Tokyo.

"Beh... sì. Cioè, lo era. L'hanno portata a Terezín."

Nuovamente si erano voltati verso di me due occhi fiammeggianti come la morte. Non sapevo davvero un tubo.

"Dan, guarda che a te quelli lì te l'ammazzano. Come hanno fatto con mio padre."

Non avevo replicato nulla.

"Tu la devi vendicare!"

Terribili, ardenti occhi neri. Ero imbarazzato.

"Anch'io a nostro padre lo vendicherò. Ancora non so come. Da noi i ragazzi c'hanno una loro organizzazione, ma le ragazze mica ce le vogliono. Perciò mi dovrò inventare qualcosa da sola."

"Ma se non sai neanche se è morto."

"Sì che lo è. Io lo so. Me lo sento, Dan. E poi non ne abbiamo più notizie, manco so io quand'è stata l'ultima volta. È morto. Me lo sogno la notte."

"Eh sì", avevo sospirato io, carezzando per un istante la possibilità di convincere Prema a prenderla con noi, visto che in genere i partigiani di Cerná Hora le ragazze non le prendevano. Ma neanche Prema l'avrebbe voluta; lui era un fermo avversario delle ragazze, e non solo nell'attività di cospirazione. E poi in quel modo Nad'a sarebbe venuta a sapere che era stato lui a far saltare in aria il deposito di benzina, e avrebbe trovato il proprio eroe. Stando alle sue stesse parole, per lui avrebbe fatto tutto. Avevo perciò scartato l'idea e avevo detto: "Qualcosa c'inventeremo".

Nad'a si era rimessa a contemplare la tazzina. Il caffè cominciava a bollire. Avevo tolto il bricco dal fuoco e avevo inondato del profumo degli anni d'anteguerra il presunto ritratto di Rébina Silbernáglová.

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Pagina 215

3. Twain



...nel mio cuore cade una lacrima, la quale sa bene
che il mare è più grande della terra,
ma in fondo al mio cuore d'un tratto rivive,
dimenticata da tempo, da mezzo secolo morta,
una ragazza semplice...

                                         Vladímir Holan



La tragedia è semplice mentre la commedia è complessa,
perché tocca la vita umana in molti più punti di quanto
non faccia la tragedia.

                                        Madame de Staël




Vicky protesta. Prende Lo straniero misterioso alla lettera. La vita non è tutto un sogno, un povero pensiero, un pensiero inutile, un pensiero senza casa, che vaga sperduto nel vuoto dell eternità. La vita ha un suo senso. Viviamo. Non siamo dei semplici pensieri. Sheila le chiede quale senso abbia la vita. W.W. Bellissimmo accorre in aiuto di Vicky: ha senso in se stessa! Viviamo per la vita. Ma in cosa consiste il senso di questo vivere per la vita? vuol sapere Sheila. La scura indiana Jenny Razadharamithana, che capita nel mio corso solo alquanto di rado, dice qualcosa in un inglese che non riesco a comprendere (e che, in aula, credo nessuno comprenda). Qualcosa come che la vita è un numero. Non so. Segue una pausa di riflessione, o forse solo di perplessità, è quindi Wendy a chiedere la parola e ad affermare che il senso della vita è nel fare qualcosa che ci piace. Vicky è d'accordo, e anche Bellissimmo. Sheila obietta che per guadagnarsi da vivere la maggior parte delle persone è costretta a fare cose che, in generale, non gli piacciono affatto. Nuova pausa, interrotta dal rugbista Higgins. Dice che c'è una cosa che non capisce. Twain sostiene: non esiste altro che il pensiero. Ma chi è che pensa quel pensiero? chiede, lusingato dalla propria stessa logica. Lascio scorrere il tempo, mi diverto, non intervengo nella discussione dei figli della prateria, consento al tempo di scorrere, invece di sudarmelo, quel tempo che mi viene pagato così profumatamente, invece di guidare quei figlioletti fuori dal sempiterno labirinto della gioventù. Della gioventù occidentale, mi correggo dentro di me. Nel mondo ad Est, insegnanti strettamente sorvegliati non consentono loro di errare... e dove mai li avrei condotti se fossi stato un insegnante ad Est?

Indago con la memoria sui miei anni adolescenziali. L'intensità con cui si cerca qualcosa che – ovviamente – nessuno riesce mai a trovare, dal momento che non esiste, dev'essere certo la stessa in tutte le epoche e in tutti i sistemi politici. Per fortuna la questione cessa presto di interessare la maggior parte delle persone. Ma se vivessi ad Est...

Interviene Hakim e mi sostituisce nel ruolo di insegnante ad Est. È necessario trasformare il sistema sociale per far sì che ciascuno, in base alle proprie capacità, possa fare ciò che gli piace.

La cosa, però, non tappa la bocca alla pragmatica Sheila. "Ok", dice. "Ma una volta che ciascuno farà quello che gli piace, dov'è il senso della vita?"

In aula purtroppo non c'è nessuno che sia religioso.

"La vita in se stessa!", ripete Bellissimmo con aria di sfida. "Vivere con pienezza... con pienezza e..."

"E in maniera utile", aggiunge Vicky.

Dovrei forse alzarmi? E dire: contribuendo con tutte le nostre forze ad organizzare il mondo in maniera razionale? Affinché il mondo non sia solo una pittoresca giungla come l'America, ma un ordine pittoresco come... come... boh, non lo so mica come che cosa. Come una finestra gotica? Sulle finestre gotiche vengono rappresentati per la maggior parte martiri di santi. O magari come le Spartachiadi? Ma chi le conosce le sensazioni vere di quegli juniores alle prese con un cerchio? Magari gli scappa di andare in bagno. Questa cosa qui, però, magari gliela dovrei dire davvero. Riorganizzare il mondo per riuscire ad eliminare, per quanto possibile...

Perché non gliela dico?

Smetto di ascoltare la discussione, apro il libro. A caso. Un po' ci credo ai segni, così come ci credeva Nad'a Jirousková. A caso poggio il dito sulle righe a stampa:

"Poi le si avvicinò uno Straniero... e le chiese se quanto aveva confessato fosse vero, e lei rispose di no... Lei si avvicinò quindi ancora di più alle fiamme e protese le mani per scaldarle, mentre i fiocchi di neve cadevano, soffici e silenziosi, sulla sua testa grigia, rendendola sempre più bianca. Ora la folla si stava radunando attorno alla pira e un uovo, lanciato da qualcuno, la colpì in un occhio, si ruppe e le colò giù per il viso. A quella vista la gente scoppiò a ridere. Una volta raccontai a Satana di quella vecchia condannata, ma la cosa non lo colpì".

Marx aveva ragione, come sempre. L'uomo non riesce, nella teoria, a oltrepassare quel limite che non riesce a superare nella vita. Questi limiti io in tutta la mia vita non sono mai riuscito a superarli, e mi hanno sempre fatto imbestialire. Per cui non sono certo io quello che potrà spiegarlo a questi figli della prateria. Che sia Hakim a farlo.

Non sono uno che abbia del mondo una visione di tipo scientifico.

Magari, se fossi rimasto in quella nazione lì in Europa, avrei forse cercato di evitare domande come quella posta da Sheila Ellwood. E avrei cercato magari di celebrare quello che in quel paese è ancora possibile celebrare: le domeniche nella casetta di campagna, le ministorie d'amore libere dai maxidrammi. Forse avrei anche scritto in quella stessa maniera. Non si smette mai di avere voglia di vivere, Sheila o non Sheila. Dal quadro generale avrei poi eliminato tutto ciò che, in quel paese, viene richiesto di eliminare, e tutto ciò che io stesso non avrei voluto che ci fosse. Sempre che la seconda cosa fosse stata possibile. La gente mi avrebbe letto, magari sarei pure piaciuto, perché un tempo, in un'altra epoca meno ortodossa, ero riuscito a dar corpo alle loro sensazioni di tipo non scientifico. E mi sarebbero rimasti fedeli anche se ormai mi ero ammansito. In fondo, quella visione scientifica del mondo mi ha insegnato a rimanere in bilico sull'orlo del consentito e poi, pur con tutti i tagli possibili, qualcosa della vita ci sarebbe pur sempre rimasto lì dentro. Qualcosa di quelle sensazioni di tipo non scientifico. Libagioni offerte agli dei della scienza. In quella terra la gente sa perdonare. Talvolta avrei forse avuto anche la piacevole sensazione di essere utile. Per quei bei momenti che ho elargito agli altri. E avrei forse cercato di evitare tutti quei temi che non possono venire affrontati con tagli e omissioni.

Solo che, dal mio cervello, io quelle cose lì non le posso eliminare. Solo dalle pagine.

E poi, di tanto in tanto, dopo quei libri frutto di un utile gioco condotto tenendo i piedi per terra, dopo quei bei cari libriccini di puro svago, avrei dovuto invece mettere insieme un libro fatto di tutte quelle omissioni.

Sono però un po' troppo vecchio per scrivere solo per il cassetto. E avrei anche paura. È stata la paura a cacciarmi via da quella terra. La sana paura del patibolo. E dei suoi più sofisticati, più sottili e non più così sanguinolenti derivati.

Il corvo avanza con serietà al di là della finestra. Seguo il suo pellegrinare zompettante sulla neve bianca della pianura di Edenvale, alla ricerca del senso della vita.

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Pagina 231

Caro Dán!

Una volta, dopo che la guerra era finita, mi avevi prestato un Tuo manoscritto. Lo avevo considerato un altro dei Tuoi cinici scherzi e non l'avevo preso sul serio. S'intitolava Introduzione alla teoria della fine. All'epoca T'interessavi di paleontologia e avevi scoperto l'ipotesi di un tale Dollo: credo che Tu la chiamassi iperspecializzazione. Si trattava del mistero legato all'estinzione delle specie. A quel che mi ricordo, Dollo sosteneva che l'estinzione almeno di alcune specie poteva essere spiegata in maniera paradossale come un successo, magari un po' eccessivo, nella lotta per la sopravvivenza del più capace. In taluni animali si verifica infatti uno sviluppo massiccio di caratteristiche anatomiche che, sulle prime, conferiscono loro un qualche vantaggio: i brontosauri, che sono degli erbivori, raggiungono dimensioni tali che i carnivori - relativamente piccoli — non riescono a sopraffarli. La tigre macharoidus sviluppa zanne massicce che penetrano persino la pelle dei dinoteri. Solo che talvolta succede qualche pasticcio e lo sviluppo di alcune caratteristiche vantaggiose per la specie non si arresta al punto ottimale. I brontosauri crescono sempre più, le zanne dei macharoidi si allungano. La crescita continua ad absurdum fino al punto che, a detta di Dollo, "si generano animali incapaci di vivere, che alla fine si estinguono". Alle tigri macharoidus, lunghe quattro metri, le zanne sbarrano le fauci, per cui alla fine riescono a nutrirsi solo di topi. I brontosauri raggiungono dimensioni gigantesche e il cervello, grande quanto quello di un gatto, non ce la fa a controllare l'intero corpo, si genera quindi un secondo cervello, nella regione del bacino, e i due cervelli non riescono poi a coordinarsi tra loro. I brontosauri muoiono di schizofrenia anatomica.

Fin qui Dollo. Tu, vecchio cinico, la sua teoria l'avevi ovviamente applicata agli esseri umani. Nella sua lotta per la vita, l'uomo ha intrapreso la stessa identica strada dei macharoidi o dei brontosauri. Il cervello gli è aumentato. Nella lotta per la sopravvivenza la cosa gli ha procurato indubbi vantaggi. Solo che neanche qui lo sviluppo si è arrestato al punto ottimale. La capacità razionale cresce, quella emotiva e volitiva rimane invece invariata. Grazie a un'ipertrofia della componente razionale del cervello, la realtà si complica ed entra in conflitti sempre più irresolubili col sentimento e con la volontà. Si generano individui incapaci di azione, azione che può essere provocata solo da un'intelligenza di tipo strumentale, non già da un'intelligenza riflessiva: individui incapaci di vivere. E questi aumentano sempre più. Oggi costituiscono ormai intere classi o, detto meglio, interi strati sociali. Quando questa iperspecializzazione avrà colpito l'intero genere umano, l'homo sapiens si estinguerà.

Ti conosco, Dán, e so che non lo pensavi per davvero. Eppure forse qui sei giunto sulle tracce della malattia di cui dovevano essere certo a conoscenza anche Marx ed Engels. Per fortuna essa non ha finora colpito l'intero genere umano. Solo gli intellettuali come noi.

    Siamo gli uomini vuoti
    Siamo gli uomini impagliati
        Che appoggiano l'un l'altro
    La testa piena di paglia. Ahimè!
    Le nostre voci secche, quando noi
        Insieme mormoriamo
    Sono quiete e senza senso
    Come vento nell'erba rinsecchita
    O come zampe di topo sopra vetri infranti...

Osserva con quanta precisione il tutto è stato colto! Oppure prendi il vecchio Rilke: resterà [...] | a scriver lunghe lettere, a leggere, a vegliare, | e qua e là inquieto per i viali | tra le foglie che turbinano ad errare...

Io ho fatto esattamente la stessa cosa. Per tutta la vita. Ho scritto lettere, ho ascoltato il vento, ho letto poesie. E intanto — e qui sta l'ironia della mia sorte — continuavo a stare fra la gente... gente semplice, non ancora affetta da questa patologica ipertrofia cerebrale... e ciò in situazioni nelle quali la natura umana si manifestava in loro nella maniera più immediata. Non Te ne ho mai scritto né raccontato... ma lo sai Tu cosa significa passare per strada al mattino dopo un bombardamento a tappeto e vedere un bambino che la forza spaventosa dell'onda d'urto ha spiaccicato come una caricatura su un muro semibruciato? Il bassorilievo piatto, ingigantito e sminuzzato della carne sbruciacchiata? E vedere nelle camerate pezzi d'uomini parlare... lo sai bene come... e con le lacrime agli occhi osservare quella terrificante opera d'arte creata dalla guerra... e poi cadere svenuti?

Di fronte a queste cose, io mi sono rifugiato nella poesia. Mentre attraverso i roghi spenti delle strade ci portavano al luogo dell'incendio, io tra gli ululati delle sirene recitavo tra me e me questi versi... Ein Kind steigt aus. Die Mutter schreit. | Die Toten stehen stumm | am Bahnsteig der Vergangenheit. | Der Zug fährt weiter, er jagt durch die Zeit. | Und niemand weiss, warum...

La poesia è stata il mio rifugio. E sempre più ci ho fatto ritorno in questi giorni. E ho trovato questi versi di Neumann: La poesia | questa vana fuga da paesi e genti. È come un rimprovero diretto contro di me personalmente. Circondato da gente viva, sofferente, da gente che lotta, io sono fuggito nei versi. Nelle ultime settimane ho letto Neumann forse per intero. Ho scoperto un poeta che prima un po' disprezzavo. Prima mi sembrava arido, troppo esplicito, propagandistico. Non si tratta però che della superficie, sotto la quale si cela una grande saggezza:

Amo tutte le cose da semplici rapporti collegate,
e anche le persone amo fatte alla stessa maniera.
Son puri e leggiadri, benché li veda ormai da sempre,
son composti della materia primordiale e sanno di faggina matura.
Con loro senti la certezza, accanto a loro stai al sicuro,
come nella stanza d'un contadino sano ancora come la segale.
Non sono un caleidoscopio di schegge colorate
che ogni volta a ruotarlo la menzogna offre d'una stella diseguale...

Lo so bene, Dán, che in questo momento starai facendo una smorfia col viso e starai pensando che razza di sciocco e di ingenuo che sono. Ma io non posso più continuare lungo la strada di cui scrivevi. Sento che la verità è in questo. Devo riuscire finalmente a bere a questa fonte.

Tuo Jan

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Pagina 607

6. Conrad



È solo il poetico a distruggere la poesia...

                                           Vladimír Holan



Quando la vittoria non toccasse al Tripartito, i più dei
fascisti veri che scampassero al flagello passerebbero al
comunismo, con esso farebbero blocco. Sarebbe allora
varcato il fosso che separa le due rivoluzioni.

                                 Pierre Drieu La Rochelle




Lida, tesoro mio!

Sono indignato, forse non Ti dovrei nemmeno scrivere. Da me meriteresti di ricevere solo lettere d'amore, entrambi però sappiamo che il mondo è una lotta tra opposti, e allora Ti farà forse piacere se Ti scrivo della mia indignazione e del mio odio. Pensa un po'! Il mio migliore amico, Lincoln, del quale Ti avevo tanto parlato, insieme al quale sono cresciuto, la mia anima gemella, lui ha letto Solzenicyn! E non solo: lui gli crede pure! Ha tentato di costringere anche me a leggerlo! E quando gli ho detto che non vedevo proprio perché avrei dovuto occuparmi di una simile porcheria, lui mi ha risposto che così avrei potuto conoscere anche l'altra faccia della verità sul socialismo! Io gli ho detto: Ma perché? E lui non capiva! Gli ho detto: Perché mai dovrei conoscere la cosiddetta verità di cui scrive quel fascista e che, a parte lui, nessuno ha mai visto! A me basta la verità che ho visto coi miei occhi! Io a Praga ci sono stato, ho conosciuto quella splendida città e quella gente felice e allegra nei teatri e nelle birrerie! Io conosco te... e Tu, pur essendoci nata e avendoci vissuto l'intera tua vita, neanche Tu hai mai visto nulla di simile!

Lincoln, cara Lída, mi ha molto deluso. Solo ieri mi sono in parte calmato. Ero passato infatti al ristorante in cui si incontrano i compagni dell'organizzazione cittadina di Toronto, e il compagno Goldstick mi ha fatto leggere un articolo apparso sull'organo ufficiale del partito in America, The Working Man, dove a fare i conti con Solzenicyn, con grande energia e intransigenza, ci ha pensato il compagno Gus Ball. Nel suo articolo ho trovato parole così veritiere che non basteranno neanche dieci Arcipelaghi Gulag per riuscire a confutarle. "Sulle mie mappe geografiche cerco invano un qualche arcipelago Gulag", scrive il compagno Gus Ball. "È tutto un imbroglio! Un arcipelago simile non esiste in nessun luogo al mondo. Ogni cosa è stata inventata e falsata dall'inizio alla fine! Vive solo nella mente traboccante odio di A. Solzenicyn, autore di un libro inutile. Non è necessario cercare l'arcipelago Gulag! È necessario dimenticarlo!"

Questa è la verità! I traditori come Solzenicyn sono però talmente saturi di cattiveria che, se pure non esistesse alcun arcipelago Gulag loro se lo inventerebbero pur di infangare la verità sul mondo del socialismo!

Non avercela perciò con me, Lída carissima, se oggi non scrivo nulla di quanto maggiormente mi piacerebbe scriverTi. Vorrei baciarti, vorrei succhiare i caldi umori del tuo dolce corpo... così come certo anche Tu. Ogni volta che ripenso a come siamo stati insieme a Praga, il centro del mio essere si gonfia della grande forza del mio amore per Te....

Ti bacio dappertutto, dappertutto

Tuo Booker


*



Irena ha versato sulle proprie patatine fritte un denso strato di ketchup e ora passa la bottiglietta a Sheila. Questa la utilizza allo stesso scopo e la passa a Bellissimmo. Bellissimmo pensa prima alle patatine di Vicky, poi alle proprie, e lancia quindi il ketchup dall'altra parte del tavolo a Ted Higgins. Il rituale si ripete; e anche Higgins versa con gesto galante il ketchup sulle patatine di Wendy McFarlan. L'unica a rifiutare la salsa è Jenny Razadharamithan, intenta a consumare anche lei qualcosa di rituale che somiglia però piuttosto a una cravatta al forno. A rifiutarlo è anche Hakim, che guarnisce le proprie patatine di senape, gettandoci sopra un gel verde smeraldo.

Oltre alle patatine fritte, la smagliante, cromata, automatizzata e assolutamente sterilizzata caffetteria di Edenvale offre anche dei triangoli chiamati Fish and Chips (con patatine fritte) e un'acidula mescolanza di carote, piselli, patate e hamburger sminuzzato che risponde al nome di Beef Stew. Al distributore automatico Canteen Canada si possono comprare altri cinque tipi di triangoli chiamati Ham, Ham and Cheese, Tuna, Cornbeefe Chicken Salad Sandwich, e quattro tipi di pane marcatamente artificiale. La smagliante caffettiera a filtro eroga un liquido chiamato coffee che provoca acidità di stomaco e nel quale gli studenti versano una polverina a nome Coffee Master, per tingerlo del colore degli occhi della remota Irena. E dal momento che o non hanno abbastanza soldi (li sperperano nei tre pub di Edenvale per tre bevande: beer, ale e lager, che hanno tutte lo stesso sapore e la stessa soglia di ubriachezza: tre bottigliette), oppure ci tengono a mantenere la linea, il loro lunch consiste giorno dopo giorno in patatine e ketchup. A curare i brufoli ci pensa, per un dollaro e settantacinque, un ointment chiamato Propa P.H. Irena mangia quel lunch uniforme per non differenziarsi. Io forse perché sono un pervertito. Le French Fries col ketchup mi piacciono davvero.

Davanti al banchetto di Edenvale continuiamo il dibattito avviato prima del lunch in aula, dove Bellissimmo ha letto, senza però concluderlo, un paper infinito preparato con cura. Adesso lo finisce a memoria:

"Ciascuna delle tre fermate simboleggia la regressione dell'Io esposto alla realtà della giungla. La giungla è descritta con la stessa terminologia che Freud utilizza per caratterizzare l'Es."

Non so chi capisce quello che dice Bellissimmo, e se qualcuno realmente ci riesca. Ad ogni modo, Hakim insiste nella sua idea che Cuore di tenebra sia una critica sociale all'imperialismo europeo, mentre Irena assume una posizione intermedia: Concordo, dice, col critico Guerard sul fatto che il romanzo sia in primo luogo un viaggio all'interno dell'anima. L'esperienza di Kurtz può essere generalizzata: lui ha accettato la libertà, è dunque diventato un essere umano. Ma non si è reso conto di tutto quello che significa essere un uomo...

Chissà se Hakim reagirà ad una simile profusione di idealismo.

Reagisce.

"Kurtz" dichiara secco "è un comune servo dell'imperialismo. Depreda i negri e allo stesso tempo finge di volerli civilizzare. Quale sia, però, il fine ultimo di tale opera di civilizzazione è poi lo stesso Kurtz a chiarirlo: Sterminate tutti quei bruti!"

Jenny Razadharamithan fa un'osservazione a riguardo. Forse sulle comete e sull'intestino cieco. In tal modo fa tacere per un po' gli studenti, addestrati a rispettare le specificità dei popoli non canadesi. Dopo un minuto di silenzio, interviene Wendy:

"Ma perché è così strano?".

"Cosa è strano?"

"Perché non l'ha scritto in maniera più chiara? In modo che si capisse?"

"Perché era uno scrittore borghese." Giusto, Hakim. E ancora più giusto: "Comprendeva per istinto alcuni dei mali sociali, ma non riusciva a indicare la strada per una loro soluzione".

"E che c'è di male? Non è forse stato un genio dello stile?", si stupisce Wendy.

"Non certo però un geniale pensatore. È riuscito a cogliere l'immagine del colonialismo belga nel suo..."

"E allora perché lì c'è quel russo?"

Cosa?

Un minuto di silenzio.

In quella pausa interviene Wendy:

"I russi non avevano colonie in Africa. O sì?".

La presenza di un russo in una colonia belga nell'Africa ottocentesca è davvero strana. Prima ancora che io possa intervenire, Hakim dichiara:

"Nelle note in fondo al volume c'è scritto: Conrad era consapevole di una certa oscurità... aveva scritto a Garnett: 'Mi ha profondamente commosso il suo eroico sforzo di affrontare la nebulosità di Cuore di tenebra e spiegare qualcosa a cui io stesso avevo cercato di dar forma con gli occhi bendati'. Questo significa che lo stesso Conrad non sapeva bene cosa stava scrivendo!".

Solleva poi la testa e si guarda attorno come offeso:

"Ma che ci fa lì quel RUSSO?".

"Quello? Quello sta forse lì.... per rendere più interessante il tutto."

"È un'indagine sugli istinti dell'animo umano. Gli istinti dell'Io in opposizione all'Es."

Jenny Razadharamithan dice che la macchina da cucire rotola in salita.

Hakim non ha una spiegazione per il russo.

Due minuti di silenzio.

È poi la volta della disorientata Sheila:

"Well, sir... Cosa ne pensa lei?".

Cosa ne penso?

Che le cose stanno in tutt'altra maniera.

"Che le cose stanno in tutt'altra maniera."

Smettono di inzuppare le patatine nel caffè e attendono di sapere quale grande verità apprenderanno questa volta dalla mia bocca. O quale menzogna, per quanto riguarda Hakim.

E cosa apprenderanno? Cosa ne so io? Che ne sapeva Josef Korzenowski? Perché si vantava di non conoscere il russo e i classici russi? Perché in quella storia sugli orrori della foresta c'è un russo?

Con lo sguardo passo in rapida rassegna la galleria dei miei studenti. Costituiscono un campione sociologico – non selezionato da nessuno (dalle capriole del secolo?) – di questa nazione e dell'umano destino. Scivolo da uno all'altro, e con un'accelerazione temporale tento di trovare dentro di me un qualche esito ai loro segreti. Sheila che cerca ostinatamente di comprendere la saggezza effimera di critici più oscuri ancora della nebbia che avvolge Cuore di tenebra. Si sposerà. Una housewife. Qualcosa in lei rimarrà di questi anni faticosi. Bellissimmo, figlio di un manovale napoletano. Non capirà mai neanche La capanna dello zio Tom, ma diventerà uno scaltro avvocato italiano, al padre sfiancato dal lavoro offrirà materia di cui andar fiero, liberando non pochi mafiosi da complicanze legali. Vicky Heatherington, personcina fortunata. Del mistero di Cuore di tenebra non gliene può importare di meno. E poi la stupefatta Wendy, alla quale sono le opere e non i saggi o i paper a toccare il cuore e la mente. Forse un giorno curerà l' artwork per il Catalogo della Simpsons-Sears. Corvi in un négligé femminile. Ted Higgins, l'orgoglioso non-intellettuale che rifiuta a priori ogni spiegazione... lui forse diventerà uno scrittore. Jenny Razadharamithan con il suo sari giallo sparirà tra le essenze del quartiere indiano ad High Park. E Larry Hakim, detentore della chiave universale di un'ideologia facilmente comprensibile? Termino con Nicole. Può forse essere Nicole l'unica fra tutti loro a penetrare più in profondità in Korzenowski? No. Temo che tali sforzi continueranno a interessarla solo fintanto che continuerò ad interessarla io. Solleva su di me i suoi occhi scoloriti e apre bocca:

"Lei diceva che Conrad odiava i russi perché erano responsabili della morte di entrambi i suoi genitori. Forse nel personaggio dell'arlecchino li voleva mettere in ridicolo. Arlecchino – almeno così mi pare – è un personaggio ridicolo".

"Very good", lodo la mia ragazza, e lei ha un fremito, come un cagnolino che abbia ricevuto una piacevole grattatina. "L'arlecchino è davvero la chiave di Cuore di tenebra. In misura marginale il libro è ovviamente anche una critica del colonialismo, e chi vuole può anche vederci una parabola sull'Io sopraffatto dall'Es. Ma soprattutto non è un romanzo. È una profezia."

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