Copertina
Autore Rebecca Solnit
Titolo Storia del camminare
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2002, Sintesi , pag. 370, dim. 145x210x23 mm , Isbn 978-88-424-9377-8
OriginaleWanderlust. A History of Walking [2000]
PrefazioneFranco La Cecla
TraduttoreGabriella Agrati, Maria Letizia Magini
LettoreRenato di Stefano, 2002
Classe storia sociale , sociologia , architettura , critica letteraria , natura , montagna , paesi: USA , paesi: Gran Bretagna
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice

VII      Ringraziamenti
 IX      Prefazione
         di Franco La Cecla

    I.   Il passo dei pensieri

  3 1.   Introduzione.
         Ripercorrere un promontorio
 15 2.   La mente a tre miglia allora
 15 2.1  Architettura pedonale
 18 2.2  La consacrazione del camminare
 25 2.3  Camminare e pensare e camminare
 29 2.4  Il soggetto mancante
 33 3.   Alzarsi e cadere:
         i teorici del bipedismo
 51 4.   L'ascesa verso la grazia:
         qualche pellegrinaggio
 72 5.   Labirinti e Cadillac:
         camminare nel regno del simbolico

    II.  Dal giardino all'incolto

 91 6.   Il sentiero oltre il giardino
 91 6.1  Due viandanti e tre cascate
 95 6.2  Il cammino del giardino
106 6.3  L'invenzione del turismo pittoresco
109 6.4  Fango sulla sottoveste
116 6.5  Fuori del cancello
118 7.   Le gambe di Wikliam Wordsworth
134 8.   Mille miglia di sentimento
         convenzionale:
         la letteratura del camminare
134 8.1  Il puro
141 8.2  Il semplice
143 8.3  Il lontano
152 9.   Monte oscurità e Monte arrivo
170 10.  Di club escursionistici e di guerre
         territoriali
170 10.1 La Sierra Nevada
178 10.2 Le Alpi
183 10.3 Il Peak District e oltre

    III. La vita delle strade

195 11.  Il passeggiatore solitario e la città
224 12.  Parigi, o erborare sull'asfalto
245 13.  Cittadini delle strade:
         feste, processioni e rivoluzioni
265 14.  Camminare dopo la mezzanotte:
         donne, sesso e spazio pubblico

    IV.  Oltre la fine della strada

285 15.  Sisifo aerobico e psiche suburbana
286 15.1 I sobborghi residenziali
294 15.2 La mancanza di corporeità nella vita
         quotidiana
298 15.3 Il treadmill
306 16.  Il camminare come arte
318 17.  Las Vegas, o la distanza più lunga
         tra due punti

335      Note
358      Fonti
361      Indice analitico
 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 1

I. Il passo dei pensieri


1. Introduzione

Ripercorrere un promontorio


Da dove si comincia? I muscoli si tendono. Una gamba è il pilastro che sostiene il corpo eretto tra cielo e terra. L'altra, un pendolo che oscilla da dietro. Il tallone tocca terra. Tutto il peso del corpo rolla in avanti sull'avampiede. L'alluce prende il largo, ed ecco, il peso del corpo, in delicato equilibrio, si sposta di nuovo. Le gambe si danno il cambio. Si parte con un passo, poi un altro e un altro ancora che, sommandosi come lievi colpi su un tamburo, formano un ritmo: il ritmo del camminare. La cosa più ovvia e più oscura del mondo è questo camminare, che si smarrisce così facilmente nella religione, la filosofia, il paesaggio, la politica urbana, l'anatomia, l'allegoria e il crepacuore.

La storia del camminare è una storia non scritta, segreta, i cui frammenti si possono rintracciare con parole semplici in migliaia di passi di libri come anche di canzoni, nelle strade e in quasi tutte le avventure di ciascuno di noi. La storia corporea del camminare è quella dell'evoluzione del bipedismo e dell'anatomia umana. Per la maggior parte del tempo camminare è un atto puramente pratico, il mezzo locomotorio inconsapevole tra due luoghi. Trasformarlo in un'indagine, un rituale, una meditazione, è farne un particolare sottoinsieme del camminare, fisiologicamente simile, ma filosoficamente dissimile, al modo in cui il postino porta la posta e l'impiegato prende il treno. Il che vuol dire che la materia del camminare riguarda, in un certo senso, il modo in cui attribuiamo significati particolari ad atti universali. Come il mangiare o il respirare, così il camminare può essere investito di significati culturali completamente diversi, da quelli erotici a quelli spirituali, da quelli sovversivi a quelli artistici. È qui che questa sua storia comincia a fare parte della storia dell'immaginazione e della cultura, e della storia dei generi di piacere, di libertà e di significato che vengono perseguiti in tempi diversi da differenti tipi di camminate e di camminatori. L'immaginazione ha modellato gli spazi che attraversa, e da questi è stata a propria volta modellata. Il camminare ha creato sentieri, strade, rotte commerciali; ha generato concezioni di spazio locali e transcontinentali; ha conformato città, parchi; prodotto mappe, guide, attrezzature e, ancora, una vasta biblioteca di racconti e di poemi che ci parlano di camminate, pellegrinaggi, spedizioni alpinistiche, vagabondaggi, e anche di picnic estivi. I paesaggi, urbani e rurali, sono gestatori di racconti, e i racconti ci riportano ai luoghi di questa storia.

Questa storia del camminare è una storia amatoriale, proprio come un atto amatoriale è andare a piedi. Per usare una sua metafora, essa invade e percorre campi altrui - l'anatomia, l'antropologia, l'architettura, il giardinaggio, la geografia, la storia politica e culturale, la letteratura, la sessualità, gli studi religiosi - e nel suo lungo tragitto non si arresta in alcuno di essi. Perché, se un campo di competenza puo essere immaginato come un terreno reale - un confine esattamente rettangolare dissodato con cura e producente un determinato raccolto - allora la materia del camminare assomiglia al camminare stesso nella sua mancanza di confini. E sebbene la storia del camminare, in quanto appartenente a tutti questi campi e all'esperienza di ciascuno di noi, sia virtualmente infinita, la mia storia del camminare può essere solo parziale, un cammino idiosincratico tracciato attraverso tutti questi campi da un viandante che si guarda attorno e ritorna più volte sui propri passi. Nelle pagine che seguono ho cercato di ricalcare i cammini che hanno condotto la maggior parte di noi nel mio paese, gli Stati Uniti, nel momento attuale; è una storia composta in larga misura su fonti europee, inflessa e sovvertita dalla scala immensamente varia dello spazio americano, dai secoli di adattarnento e di mutazione in questo paese, e dalle altre tradizioni che in tempi recenti si sono incontrate con questi cammini, in modo rilevante le tradizioni asiatiche. La storia del camminare è la storia di ciascuno di noi, e ogni sua versione scritta può solo sperare di indicare alcuni dei sentieri più calpestati nelle vicinanze di chi la scrive, vale a dire che i sentieri che ho tracciato non sono gli unici cammini.

Un giorno di primavera mi sedetti a scrivere del camminare e poi mi rimisi in piedi, perché la scrivania non è un luogo in cui si possa pensare su vasta scala. In un promontorio subito a nord del Golden Gate Bridge, costellato di fortificazioni militari abbandonate, uscii a fare una passeggiata su per una valle e lungo un crinale, e poi giù fino al Pacifico. La primavera era arrivata dopo un inverno insolitamente umido e le colline erano diventate di quel verde sfrenato ed esuberante che dimentico e riscopro ogni anno. Attraverso l'erba novella sporgeva quella dell'anno precedente, che la pioggia aveva scolorito dall'oro estivo al grigio cenere, uno spicchio della tavolozza più tenue del resto dell'anno. Henry David Thoreau, che camminò più vigorosamente di me all'altro capo del continente, scriveva dei suoi dintorni:

Una prospettiva assolutamente nuova rappresenta una grande felicità, che può venire colta in un qualsiasi pomeriggio. Due o tre ore di camminata mi possono condurre nel luogo più straordinario che mi sia mai accaduto di ammirare. Una fattoria isolata, mai vista prima, può avere lo stesso fascino dei domini del Re del Dahomey. Ed effettivamente è possibile scoprire una sorta di armonia tra le risorse di un paesaggio entro un raggio di dieci miglia, o i limiti di una passeggiata pomeridiana, e i settant'anni della vita umana. Né gli uni né gli altri vi diverranno mai troppo familiari.

Queste strade e questi sentieri congiunti formano un circuito di circa sei miglia, che cominciai a percorrere a piedi dieci anni fa per fare svaporare, camminando, l'ansia di un anno difficile. Continuavo a ripercorrere questo itinerario per concedere una tregua al lavoro, ma anche per alimentarlo, perché, in una cultura orientata alla produzione, pensare è generalmente concepito come fare niente, e il fare niente è difficile da fare. La via migliore per realizzarlo è di mascherarlo nel "fare qualcosa", e ciò che più si avvicina al fare niente è il camminare. Camminare in sé è l'atto volontario più vicino ai ritmi involontari del corpo: il respiro e il battito del cuore. Stabilisce un delicato equilibrio tra il lavorare e l'oziare, tra il fare e l'essere. È una fatica fisica che produce nient'altro che pensieri, esperienze, arrivi. Dopo tutti questi anni di camminate per elaborare altre cose, aveva un senso tornare a lavorare vicino a casa - il senso indicato da Thoreau - e lì riflettere sul camminare.

Camminare è, idealmente, uno stato in cui la mente, il corpo e il mondo sono allineati come se fossero tre personaggi che finiscono per dialogare tra loro, tre note che improvvisamente formano un accordo. Camminare ci permette di essere nel nostro corpo e nel mondo senza esserne sopraffatti. Ci lascia liberi di pensare senza perderci totalmente nei pensieri. Non sapevo con precisione se ero troppo in anticipo o troppo in ritardo per il lupino purpureo che in questi promontori può essere così spettacolare, ma le milkmaids (o Stellarie holostee) crescevano sul lato in ombra della strada che portava al sentiero, e mi ricordavano i pendii della mia infanzia che fiorivano per primi ogni anno con un prodigo sbocciare di questi fiori bianchi. Nere farfalle mi svolazzavano attorno, sospinte dal vento e dal battito delle ali, e mi rimandavano a un'altra epoca del mio passato. Muoversi a piedi sembra rendere più facile muoversi nel tempo; la mente vaga dai progetti ai ricordi e alle osservazioni.

Il ritmo del passo genera una specie di ritmo del pensiero, e il tragitto attraverso un paesaggio echeggia o stimola il tragitto attraverso un corso di pensieri. Il che crea tra percorso interno e percorso esterno una strana consonanza che suggerisce come la mente sia essa stessa un paesaggio di generi e che il camminare sia un mezzo per attraversarlo. Un pensiero nuovo somiglia spesso a un aspetto del paesaggio sempre esistito, come se pensare fosse viaggiare invece che fare. Pertanto, un aspetto della storia del camminare è la storia del pensare concretizzata, perché i moti della mente non possono essere tracciati, mentre quelli dei piedi sono riconoscibili. Possiamo immaginare il camminare anche come un'attività visiva, ogni passeggiata un viaggio in cui ci concediamo sufficiente agio per vedere e per riflettere sulle vedute, per assimilare il nuovo al noto. È da qui, forse, che nasce per i pensatori la peculiare utilità del camminare. Le sorprese, gli affrancamenti e le chiarificazioni del viaggio possono talvolta essere spigolati facendo il giro dell'isolato come anche del mondo, viaggiando a piedi vicino e lontano. O forse il camminare dovrebbe essere chiamato movimento, non viaggio, perché si può camminare in cerchio o viaggiare attraverso il mondo immobilizzati su una sedia, e una certa smania di vagabondaggio può essere lenita solo dagli atti del corpo in moto, non già dal movimento dell'automobile, della barca o dell'aeroplano. Potremmo dire che è il movimento, come anche le vedute che scorrono davanti ai nostri occhi, a fare accadere le cose nella nostra mente, ed è questo che rende il camminare ambiguo e infinitamente fertile: è il mezzo e il fine, è il viaggio e la meta.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 11

Il moltiplicarsi delle tecnologie in nome dell'efficienza, consentendo di massimizzare il tempo e lo spazio della produzione e di minimizzare il tempo non strutturato del viaggio tra i due, sta di fatto sradicando il tempo libero. Nuove tecnologie salva tempo rendono più produttiva la gran parte dei lavoratori, ma non più libera in un mondo che sembra muoversi più veloce attorno a loro. Inoltre, la retorica dell'efficienza che circonda tali tecnologie suggerisce che tutto ciò che non può essere quantificato non può nemmeno essere valutato, che l'ampia gamma di piaceri che rientra nella categoria del far niente di particolare, del distrarsi, del fantasticare, del vagabondare e del guardare le vetrine, non è che un vuoto da riempire con qualcosa di più definito, più produttivo o più veloce. Persino nell'itinerario su questo promontorio che non conduce in un alcun luogo utile, su questo cammino che può essere percorso solo per diletto, la gente ha tracciato scorciatoie tra i tornanti, come se l'efficienza fosse un'abitudine di cui non ci si può liberare. L'indeterminatezza di un'escursione senza meta, in cui c'è molto da scoprire, viene sostituita dalla distanza definita più breve da coprire alla maggiore velocità possibile, e anche dalle trasmissioni elettroniche che restringono la necessità del viaggio reale. Facendo parte della categoria dei lavoratori indipendenti, il cui tempo economizzato dalla tecnologia può essere colmato di vagabondaggi e di sogni a occhi aperti, so che queste cose hanno una loro utilità, e io stessa le utilizzo (un camioncino, un computer, un modem), ma temo al tempo stesso la loro falsa urgenza, il richiamo alla velocità, l'istanza che il viaggio sia meno importante dell'arrivo. A me piace camminare perché è lento, e sospetto che la mente, come i piedi, possa lavorare alla velocità di circa tre miglia allora. Se così fosse, allora la vita moderna si muove più rapidamente della velocità del pensiero, o della riflessione.

Il camminare riguarda l'essere all'aperto, in un luogo pubblico, e anche nelle città più antiche lo spazio pubblico è abbandonato ed eroso, eclissato dalle tecnologie e dai servizi che non ci chiedono di uscire di casa, e in molti luoghi è oscurato dalla paura (i luoghi sconosciuti incutono sempre più timore di quelli noti, così che, meno si vaga per la grande città, più essa ci appare allarmante, e là dove vi sono meno passanti, le vie diventano effettivamente più solitarie e pericolose). Intanto, in molte località recenti, lo spazio pubblico non è nemmeno programmato: quello che un tempo era spazio pubblico ora è destinato a dare accoglienza e protezione alle automobili, i centri commerciali sostituiscono le vie principali, le strade non hanno marciapiede; negli edifici si entra dal garage; i municipi non hanno una piazza; e ovunque muri, barriere, cancelli. La paura ha generato uno stile di architettura e di disegno urbano, specialmente nella California meridionale, dove essere un pedone in molte ripartizioni e "comunità" cintate, vuol dire essere una persona sospetta. Contemporaneamente, il terreno rurale e le periferie un tempo invitanti delle piccole città sono stati inghiottiti da lottizzazioni destinate ai pendolari dell'automobile o altrimenti sequestrati. In alcuni luoghi non è più possibile uscire in pubblico, una crisi sia delle epifanie private del passante solitario, sia delle funzioni democratiche dello spazio pubblico. Era a questa frammentazione di vite e di paesaggi che resistevamo tempo fa negli spazi dilatati del deserto che, per l'occasione, diventavano pubblici come piazze urbane.

E quando lo spazio pubblico scompare, altrettanto avviene del corpo visto, secondo la felice espressione di Sono, come mezzo adeguato per portarci in giro. Sono e io parlavamo della scoperta che i nostri dintorni - tra i più temuti della Bay Area - non sono poi così ostili (anche se non tanto sicuri da farci dimenticare del tutto una certa prudenza). Sono stata minacciata e derubata per strada, tempo fa, ma migliaia di volte mi sono imbattuta in amici di passaggio, in una vetrina che esponeva un libro a lungo cercato, in complimenti e saluti dei miei loquaci vicini, in gioielli architettonici, in manifesti per eventi musicali e in ironici commenti politici scritti sui muri e sui pali del telefono, in indovini, nella luna che spuntava tra gli edifici, in brevi visioni di vite e di case altrui, e in alberi di strada chiassosi del cinguettio degli uccelli. L'aleatorio, il non riparato, ci permette di trovare quello che non si sa di cercare, e non si conosce un luogo finché questo non ci sorprende. Muoversi a piedi è un modo per conservare un baluardo contro questa erosione della mente, del corpo, del paesaggio e della città, e ogni persona che cammina è una guardia di pattuglia a protezione dell'ineffabile.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 14

La sorpresa ci venne allora dal serpente, un serpente giarrettiera, così chiamato per le strisce giallognole che gli corrono lungo tutto il corpo nero, un animale minuscolo e affascinante che si contorceva ondeggiando attraverso il sentiero ed entrava poi nel terreno erboso al suo lato. Più che allarmarmi mi rese vigile. Improvvisamente mi scossi dai miei pensieri e notai quello che mi circondava: gli amenti dei salici, lo sciabordio dell'acqua, i disegni frondosi delle ombre sul sentiero. E poi me stessa, che camminavo con l'allineamento che viene solo dopo miglia, il ritmo diagonale sciolto delle braccia che oscillano in sincronia con le gambe in un corpo che si sente allungato e disteso, quasi altrettanto sinuoso quanto quello del serpente. Il mio circuito era quasi concluso, e al suo termine conoscevo il mio soggetto e il modo di affrontarlo che mi era ancora sconosciuto solo sei miglia prima. Vi ero arrivata non in un'improvvisa epifania, ma con graduale certezza, un senso di significato affine a un senso di luogo. Quando ci concediamo ai luoghi, essi ci restituiscono a noi stessi e, più arriviamo a conoscerli, più vi seminiamo l'invisibile messe delle memorie e delle associazioni che saranno lì ad aspettarci quando vi ritorneremo, mentre luoghi nuovi ci offriranno pensieri nuovi e nuove opportunità. Esplorare il mondo è uno dei modi migliori per indagare la mente, e il camminare percorre entrambi i terreni.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 79

La poetessa Marianne Moore ha coniato un'immagine felice: «rospi veri in giardini immaginari»; il labirinto ci offre la possibilità di essere creature reali in uno spazio simbolico. Camminando pensavo a una fiaba infantile, e i libri per bambini che amavo di più erano pieni di personaggi che cadevano dentro i libri, di illustrazioni che diventavano vere, di passeggiate in giardini in cui le statue prendevano vita e la cosa più meravigliosa era che si poteva passare dall'altra parte dello specchio (e incontrare pezzi degli scacchi, fiori e animali vivi e capricciosi). Quei libri facevano pensare che la linea di demarcazione tra la realtà e la rappresentazione non sia netta e che la magia si manifesti quando si attraversa quella linea. In uno spazio come quello del labirinto la linea viene attraversata: si viaggia davvero, ma la destinazione è puramente simbolica. È un registro completamente diverso dal semplice pensiero di un viaggio che si vorrebbe fare o dall'osservazione delle immagini del posto in cui si vorrebbe andare. Perché, in questo contesto, la realtà è solamente ciò che abitiamo con il corpo. Il labirinto è un viaggio simbolico o una mappa della via della salvezza, ma poiché si tratta di una mappa su cui si può camminare realmente, la differenza tra la mappa e il mondo sbiadisce. Se il corpo è il registro della realtà, leggere con i piedi è reale in un modo in cui leggere solo con gli occhi non lo è. E qualche volta la mappa è il territorio.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 81

Come le stazioni della Croce, il labirinto e il dedalo offrono storie in cui possiamo camminare per dimorarvi con il corpo, storie che seguiamo con i piedi come con gli occhi. Si può vedere una somiglianza non solo tra queste due strutture simboliche, ma anche tra ogni percorso e ogni storia. Almeno in parte, la caratteristica che rende le strade, le piste e i sentieri unici in quanto strutture costruite è che un osservatore sedentario non li può percepire immediatamente nella loro interezza. Essi si dipanano nel tempo a mano a mano che li si percorre, esattamente come una storia si dipana a mano a mano che la si ascolta o la si legge, e una curva secca corrisponde a uno scarto nella trama; una salita ripida alla costruzione della suspense fino al panorama che si apre in cima; un bivio all'introduzione di una nuova linea narrativa e l'arrivo alla fine del racconto. Come la scrittura consente la lettura delle parole di chi non c'è, le strade consentono di seguire l'itinerario di chi è assente. Le strade sono racconti di coloro che le hanno percorse prima e seguirle significa seguire persone che non ci sono più (non più santi o dei, ma pastori, cacciatori, ingegneri, emigranti, contadini diretti al mercato o semplici pendolari). Strutture simboliche come i labirinti richiamano l'attenzione sulla natura di tutti i sentieri, di tutti i viaggi.

Questo è ciò che si nasconde dietro il rapporto peculiare che lega il racconto al viaggio, ed è forse per questo che la scrittura narrativa è collegata così strettamente con il camminare. Scrivere significa scavare nella fantasia un sentiero nuovo o indicare configurazioni nuove in un itinerario noto. Leggere vuol dire viaggiare su quello stesso terreno con la guida dell'autore, con il quale si può anche non essere sempre d'accordo o nel quale si può anche non avere fiducia, ma su cui si può contare almeno perché ci porti da qualche parte. Ho spesso desiderato di scrivere le mie frasi su una sola riga che si perda nella distanza in modo che si capisse chiaramente che una frase somiglia a una strada e che leggere vuol dire viaggiare (una volta feci un po' di calcoli e scoprii che se il testo di uno dei miei libri, invece di essere impaginato, fosse stato composto in una sola riga formata da tutte le parole e arrotolato come un filo su un rocchetto, avrebbe coperto uno spazio di quattro miglia). Forse i rotoli cinesi, che bisogna srotolare per poterli leggere, conservano almeno in parte questo senso. Le linee di canto degli aborigeni australiani sono gli esempi più famosi di fusione di paesaggio e narrazione. Le linee di canto sono strumenti di navigazione nel deserto profondo, mentre il paesaggio è un dispositivo mnemonico per ricordare le storie: in altre parole, la storia è la mappa, il paesaggio la narrazione.

Le storie dunque sono viaggi e i viaggi sono storie. È perché immaginiamo la vita come un viaggio che queste camminate simboliche, e in realtà tutte le camminate, hanno tanta risonanza. È difficile immaginare l'opera dell'intelletto e dello spirito, come è difficile immaginare la natura del tempo; per questo tendiamo a metaforizzare tutti gli oggetti intangibili come oggetti fisici collocati nello spazio. In questo modo il nostro rapporto con essi diventa fisico e spaziale: ci muoviamo verso di essi o ci allontaniamo da essi. E se il tempo è diventato spazio, lo scorrere del tempo che costituisce un'esistenza diventa anch'esso un viaggio, che ci si muova molto o poco attraverso lo spazio. Camminare e viaggiare sono diventati metafore cosi centrali del pensiero e della parola che quasi non ce ne accorgiamo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 87

Come l'intelletto e il tempo, la memoria è inimmaginabile senza dimensioni fisiche; immaginarla come un luogo fisico vuol dire inserirla in un paesaggio in cui sono collocati i suoi contenuti, e ciò che ha una collocazione può essere avvicinato.

Questo significa che, se si immagina la memoria come uno spazio reale - una piazza, un teatro, una biblioteca - l'atto del ricordare viene immaginato come un atto reale, cioè un atto fisico: come camminare. Gli studiosi sottolineano sempre in modo particolare il dispositivo del palazzo immaginario, in cui le informazioni sono collocate stanza per stanza, oggetto per oggetto, ma per recuperare le immagini immagazzinate bisognava camminare attraverso le stanze come quando si visita un museo, ricollocando gli oggetti nella coscienza. Ripercorrere lo stesso itinerario può voler dire ripensare gli stessi pensieri, come se in realtà pensieri e idee fossero oggetti collocati in un paesaggio che basta conoscere per poterci viaggiare. In questo modo camminare è leggere, anche quando camminare e leggere sono immaginari, e il paesaggio della memoria diventa un testo stabile quanto quello che si trova in un giardino, in un labirinto o nelle stazioni della Croce. Ma se il libro, in quanto deposito di informazioni, ha messo in ombra il palazzo della memoria, ne ha però conservato in parte il modello. In altre parole, se ci sono passeggiate che somigliano a libri, ci sono anche libri che somigliano a passeggiate e utilizzano l'attività "leggente" del camminare per descrivere un mondo. L'esempio più alto è la Divina commedia di Dante, in cui l'autore, guidato da Virgilio, esplora i tre regni dell'anima dopo la morte. È il resoconto di un viaggio ultraterreno sui generis, che si muove diligentemente tra visioni e personaggi, conservando sempre l'andatura di un giro turistico. La sua geografia è talmente particolareggiata che molte edizioni riportano cartine, tanto che Yates ha avanzato l'ipotesi che, in realtà, il capolavoro fosse un palazzo della memoria sui generis. Come molte altre storie precedenti e successive, è un racconto di viaggio in cui il movimento della narrazione è riecheggiato dal movimento dei personaggi in un paesaggio immaginario.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 156

Come i labirinti e altre strutture edificate, le montagne svolgono la funzione di spazi metaforici e simbolici. Non esiste equivalente geografico più chiaro dell'idea dell'arrivo e del trionfo della vetta più alta oltre la quale non c'è altro luogo in cui andare (anche se nell'Himalaya molti pellegrini girano intorno alle montagne perché credono che salire in vetta sia sacrilego). Dopo avere conquistato il Cervino, Edward Whymper, uno scalatore vittoriano atleticamente molto dotato e mosso da una grande ambizione, disse: «Più in alto non c'è nulla da vedere; sta tutto sotto», con un'efficace mistura di linguaggio letterale e figurato. «In un certo senso, là in cima ci si trova nella condizione di chi ha realizzato tutti i desideri e non ha più nulla cui aspirare». Può darsi anche che il fascino delle ascensioni sulle vette montane sia dovuto a una serie di metafore linguistiche. L'inglese e varie altre lingue associano l'altitudine, l'ascesa e l'altezza al potere, alla virtù e allo stato sociale. Perciò si dice essere sulla cima del mondo o nel punto più elevato nel proprio campo professionale, essere al culmine delle proprie capacità, essere in ascesa; si dice esperienza di punta e l'apice della carriera, ergersi nel mondo e avanzare verso l'alto, per non parlare di arrampicatori sociali, di mobilità verso l'alto, di santi dotati di sentimenti elevati e di bassa plebaglia e, ovviamente, di classi alte e basse. Nella cosmologia cristiana il paradiso è in alto e l'inferno in basso, e Dante rappresenta il Purgatorio come una montagna a forma di cono su cui il poeta si arrampica a fatica fondendo il viaggio spirituale con il viaggio geografico (e la scalata inizia attraverso un passaggio che oggi gli scalatori chiamerebbero camino: «Noi salavam per entro 'l sasso rotto, / e d'ogne lato ne stringea lo stremo, / e piedi e man volea il suol di sotto»). Una camminata in salita attraversa questi territori metafisici; una passeggiata senza meta per la stessa montagna si muove invece attraverso una metafisica del tutto diversa.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 182

Esistevano altre organizzazioni alle quali i giovani potevano aderire: gruppi religiosi e il Movimento protestante giovanile e, dopo il 1909, una versione tedesca dei Boy Scout, mentre i giovani delle classi lavoratrici potevano entrare a far parte dei circoli giovanili comunisti e socialisti. I Boy Scout, come il Wandervogel e tanti altri aspetti della storia del camminare, sollevano un problema: quando camminare si trasforma in marciare? Quasi tutti i circoli escursionistici erano gruppi intesi a celebrare e proteggere l'esperienza individuale e privata; ma alcuni abbracciarono l'autoritarismo. Marciare subordina al gruppo e all'autorità il ritmo proprio dei singoli corpi e ogni gruppo che marcia, marcia verso il militarismo, quando non ci è già arrivato. Il movimento scout nacque dall'adattamento delle idee di Sir Baden-Powell, veterano della guerra dei boeri, e di quelle che lo stesso Baden-Powell plagiò dall'anglo-canadese Ernest Thompson Seton. L'intento di Seton era di introdurre i giovani alla vita all'aria aperta, con un'accentuazione particolare sulle competenze e sui valori dei nativi americani, tanto che qualche volta è stato accusato di avere invece dato vita a un revival pagano tra gli adulti. Baden-Powell conferì all'idea della vita nei boschi una sensibilità più militaresca e conservatrice. Ancora oggi sembra che ciascun gruppo scout abbia il proprio stile: alcuni insegnano tecniche di vita all'aria aperta, altri addestrano i ragazzi come soldatini. Dopo la prima guerra mondiale, il Wandervogel si frantumò, mentre i Boy Scout tedeschi, detti giovani esploratori, si ribellarono ai propri capi adulti e soppiantarono in larga misura il movimento originario.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 192

Ma altri individui hanno condotto battaglie per la conquista degli spazi: sebbene qui abbia parlato soprattutto di spazi selvaggi e rurali, è molto interessante anche lo sviluppo dei parchi urbani quali per esempio il Central Park, un progetto democratico e romantico inteso a offrire le virtù rurali ai cittadini che non dispongono delle risorse necessarie per uscire dalla città. Il corpo non impedito è una questione più complessa. I primi tempi del Sierra Club, quando donne non accompagnate potevano dormire su giacigli di rami di pino e scalare montagne vestite di pantaloni alle caviglie o di gonnelline corte, inducono a ritenere che in California la liberazione della donna - o una forma moderata di essa - ne sia stato un sottoprodotto, dal momento che l'abbigliamento vittoriano imprigionava le donne nel decoro di respiri brevi, piccoli passi, equilibrio precario. Il nudismo delle prime associazioni naturistiche tedesche e austriache suggerisce che per qualcuno andare in collina facesse parte di un progetto più ampio di comunione con la natura, una natura che per definizione comprendeva pure l'erotismo, e anche per chi restava vestito, gli abiti consistevano in calzoncini informali che lasciavano scoperto il corpo. E lo stesso valeva anche per i lavoratori britannici: basta leggere La situazione delle classi lavoratrici in Inghilterra di Engels sugli orrori della vita e delle condizioni di lavoro che deformavano e facevano ammalare il corpo degli operai per capire perché molti furono disposti a lottare per la libertà di camminare a gran passi in spazi aperti e sotto cieli puliti. Il camminare nel paesaggio fu una risposta ai mutamenti della società che rendevano i corpi degli appartenenti alla classe media anacronismi rinserrati nelle case e negli uffici e i corpi degli operai pezzi di macchinari industriali.

Rousseau e Wordsworth, i poeti che stanno all'inizio di questa storia del camminare nel paesaggio, hanno ipotizzato un collegamento tra la liberazione sociale e la passione per la natura (benché, fortunatamente, nessuno dei due avrebbe mai potuto immaginare i Boy Scout, le industrie delle attrezzature per le attività all'aria aperta e altri effetti a lungo termine della cultura del camminare). Le associazioni escursionistiche hanno avvicinato molta gente qualunque all'immagine poetica del camminatore ideale che si muove liberamente nel paesaggio.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 204

Discendenti della stoà e del peripatos greci, le strade porticate attenuano il confine tra dentro e fuori e pagano un tributo architettonico alla vita pedonale che vi si svolge. Rudofsky individua i famosi "portici" di Bologna, la via porticata lunga circa sei chilometri che dalla piazza centrale porta in campagna; la Galleria di Milano, che svolge funzioni meno strettamente commerciali dei centri commerciali esclusivi che l'hanno presa a modello e ne hanno assunto il nome; le stradine tortuose di Perugia; le vie pedonalizzate di Siena; e i portici pubblici sopraelevati di Brisighella. Tratta con appassionato entusiasmo della "passeggiata" serale degli italiani, per la quale molte città chiudono le strade principali al traffico motorizzato, e la contrappone all'ora del cocktail americana. Per gli italiani, scrive, la strada è lo spazio sociale cardine per l'incontro, la discussione, il corteggiamento, l'acquisto e la vendita.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 265

14. Camminare dopo la mezzanotte: donne, sesso e spazio pubblico


Caroline Wyburgh, diciannove anni d'età, "uscì a passeggiare" con un marinaio a Chatham, in Inghilterra. Era il 1870 e già da tempo il passeggio era una componente ufficiale del corteggiamento. Non costava nulla e dava agli innamorati uno spazio semiprivato dove farsi la corte, vuoi un parco, una piazza centrale, un viale cittadino, vuoi anche una strada fuori mano (e quegli aspetti di paesaggio rustico come i vicoli degli innamorati offrivano uno spazio privato in cui osare di più). Forse, nello stesso modo in cui la marcia collettiva afferma e genera la solidarietà di gruppo, l'atto delicato di procedere al ritmo congiunto dei propri passi pone due persone sulla stessa linea in senso sia emotivo sia corporeo; forse, mentre si cammina insieme nella sera, nella strada, nel mondo, per la prima volta ci si sente una coppia. Passeggiare insieme, in quanto modo di fare quel qualcosa che più somiglia al non fare niente, permette di crogiolarsi l'uno nella presenza dell'altra, senza sentirsi obbligati a conversare continuamente o a compiere l'atto ben più impegnativo di evitare di parlarsi. E in Inghilterra l'espressione "uscire insieme" poteva assumere un'implicazione esplicitamente sessuale, ma più sovente rendeva manifesto che si era instaurata una relazione continuativa, qualcosa di simile al "fare coppia fissa" dei giorni nostri. Nel racconto di James Joyce I morti, il marito, avendo appreso che in gioventù la moglie ha avuto un pretendente, le chiede se ami ancora quel ragazzo ormai morto e ne riceve questa devastante risposta: «Facevamo spesso delle passeggiate insieme».

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 285

15. Sisifo aerobico e psiche suburbana


La libertà di camminare vale ben poco se non si ha un luogo dove andare. Camminare ha avuto una sua età dell'oro che, iniziata nel tardo XVIII secolo, si spense, temo, qualche decennio fa. Fu un'età imperfetta, più aurea per alcuni che per altri, eppure eccezionale perché ha creato luoghi appositi e dato valore alla camminata per diporto. Visse il suo apice attorno al giro di boa del XIX secolo, quando nordamericani ed europei si davano appuntamento per uscire insieme tanto per una passeggiata quanto per un aperitivo o un invito a cena; andare a piedi aveva spesso una sua sacralità, era anche uno svago di routine, e fiorivano le associazioni escursionistiche. A quei tempi, le innovazioni urbane del XIX secolo, come i marciapiedi e le fogne, rendevano più vivibile la città non ancora minacciata dalle accelerazioni del secolo successivo, e gli spazi e le attività extraurbane, come i parchi nazionali e l'alpinismo, erano in crescita e nel primo rigoglio. Poiché la storia del camminare si dipana tra le grandi città e le campagne, con occasionali estensioni alle piccole città e a qualche montagna, questo libro ha fin qui indagato la vita pedonale negli spazi urbani e in quelli rurali. Ma se volessimo apporre una pietra tombale sull'età dell'oro del camminare, dovremmo forse incidervi la data del 1970, l'anno in cui l'ufficio del censimento degli Stati Uniti provò che, per la prima volta nella vita di una nazione, la maggior parte degli abitanti era suburbana. I sobborghi residenziali sono deprivati delle glorie naturali e delle gioie civiche degli spazi abitativi di storia più antica, e la suburbanizzazione ha cambiato radicalmente la dimensione e il tessuto della vita quotidiana, quasi sempre in modi ostili al pedone. Questa trasformazione ha influenzato tanto l'ambiente quanto il pensiero. Di norma, oggi gli americani percepiscono, apprezzano e usano a tempo, lo spazio e il proprio corpo con modalità affatto diverse da quelle del passato. La camminata copre ancora lo spazio tra i veicoli e gli edifici e la breve distanza che separa un edificio da un altro, ma è sempre meno un'attività culturale, uno svago, un viaggio o un modo di muoversi; con il declino, viene anche a mancare il rapporto consolidato e profondo che si instaura tra il corpo, il mondo e l'immaginazione. Facendo ricorso a un termine ecologista, sarebbe forse più adeguato pensare al camminare come a una "specie indicatrice" che ha la funzione di tutelare la salute di un ecosistema, dal momento che la compromissione o il decremento delle specie possono rappresentare un segnale d'allarme tempestivo dell'insorgere di un problema sistemico. In tale contesto, il camminare è una specie indicatrice di diversi tipi di libertà e di piaceri: il tempo libero, uno spazio libero e allettante, un corpo non impedito.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 334

Camminare è una delle costellazioni del cielo stellato della cultura umana, una costellazione formata da tre stelle: il corpo, la fantasia e il mondo aperto, e sebbene ciascuna di esse abbia un'esistenza indipendente, sono le linee tracciate tra di esse - tracciate dall'atto del camminare con scopi culturali - a farne una costellazione. Le costellazioni non sono fenomeni naturali, ma imposizioni culturali; le linee tracciate tra le stelle sono come sentieri consumati dall'immaginazione di coloro che li hanno calcati in precedenza. La costellazione chiamata "camminare" ha una storia, la storia percorsa da tutti quei poeti e quei filosofi e quei rivoluzionari, da pedoni distratti, da passeggiatrici, da pellegrini, turisti, escursionisti, alpinisti, ma il suo futuro dipende dal fatto che quei sentieri di collegamento vengano percorsi ancora.

| << |  <  |