Copertina
Autore Rebecca Solnit
Titolo Un paradiso all'inferno
EdizioneFandango, Roma, 2009, Documenti 35 , pag. 500, cop.fle., dim. 16,5x21x2,6 cm , Isbn 978-88-6044-129-4
OriginaleA Paradise Built in Hell [2009]
TraduttoreAndrea Spila, Andrea Grechi, Melani Traini
LettoreDavide Allodi, 2010
Classe sociologia , paesi: USA , citta': New York
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Indice


UN PARADISO ALL'INFERNO
Le straordinarie comunità solidali
dei terremoti e di altri disastri                   5

I
L'ALLEGRA COMPAGNIA DEL NUOVO MILLENNIO:
IL TERREMOTO DI SAN FRANCISCO                      23

II
DA HALIFAX A HOLLYWOOD:
IL GRANDE DIBATTITO                               103

III
CARNEVALE E RIVOLUZIONE:
IL TERREMOTO DI CITTÀ DEL MESSICO                 187

IV
LA CITTÀ TRASFIGURATA:
NEW YORK NEL DOLORE E NELLA GLORIA                251

V
NEW ORLEANS: TERRENI COMUNI E ASSASSINI           315

APPENDICE
L'Aquila solidale di Andrea Spila                 435

Note                                              469


 

 

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Pagina 7

Preludio: cadere insieme


Chi siete voi? Chi siamo noi? In tempi di crisi queste domande sono questioni di vita e di morte. Migliaia di persone sopravvissero all'uragano Katrina perché nipoti o zie, vicini di casa o persone del tutto estranee soccorsero chiunque avesse bisogno di aiuto su tutta la costa del golfo del Messico e grazie al fatto che alcuni proprietari di barche di ogni dimensione, dai centri più vicini e persino da luoghi lontani come il Texas, raggiunsero New Orleans per trarre in salvo quelli in difficoltà. Centinaia di persone morirono invece subito dopo Katrina perché altri, tra cui la polizia, le ronde di volontari, gli alti funzionari del governo e i media, decisero che gli abitanti di New Orleans erano troppo un pericolo per consentire loro di fuggire dalla città in balìa delle acque e delle malattie o per andarli a salvare, persino negli ospedali. Alcune delle persone che tentavano di scappare vennero respinte sotto la minaccia delle armi e alcune vennero uccise. Circolavano voci di stupri e omicidi di massa e di un caos dilagante, voci che si rivelarono poi del tutto infondate, anche se i media nazionali e il capo della polizia di New Orleans diedero loro credito e le diffusero proprio in quei giorni cruciali in cui le persone morivano sui tetti e sulle strade sopraelevate della città, oppure in rifugi e ospedali sovraffollati nel caldo infernale, senza scorte d'acqua potabile, senza cibo, senza farmaci e cure mediche. Furono quelle voci a indurre i soldati e gli altri soccorritori a considerare le vittime come nemici. Le convinzioni contano, anche se ci sono molte persone che agiscono con generosità, più di quanto si creda.

Katrina è stata una versione estrema di ciò che avviene in molti disastri in cui il nostro comportamento dipende da come vediamo la realtà: se crediamo, cioè, che i nostri vicini o i nostri concittadini rappresentino una minaccia peggiore della distruzione causata da un disastro o se riteniamo che siano un bene più prezioso degli oggetti e delle merci che si trovano nelle case e nei negozi intorno a noi. (In questo libro uso la parola cittadino per indicare i membri di una città o di una comunità e non chi possiede legalmente la cittadinanza in una nazione.) Le nostre convinzioni determinano il modo in cui agiamo. Il nostro modo di agire può essere causa di vita o di morte, per noi stessi come per gli altri, così come avviene nella vita di tutti i giorni, ma in modo più esasperato. In occasione dell'uragano Katrina, come avviene per gran parte dei disastri, ci furono anche molti atti di altruismo: i giovani che si impegnarono a fornire acqua, cibo, pannolini e protezione agli estranei che come loro si trovavano in difficoltà; le persone che salvarono i propri vicini o offrirono loro riparo; centinaia di migliaia di volontari che presero la barca – spesso con le armi in mano, ma carichi anche di compassione – per trovare i dispersi tra le acque stagnanti e portarli al sicuro; le duecentomila e più persone che (tramite il sito web HurricaneHousing.org nelle settimane seguenti) si offrirono disponibili ad accogliere gente a loro del tutto estranea, per lo più nelle proprie case, convinte più dalle immagini di sofferenza che dalle voci di comportamenti mostruosi; i tantissimi volontari, decine di migliaia di persone che raggiunsero le coste del golfo del Messico per contribuire alla ricostruzione e al ripristino.

Subito dopo un terremoto, un bombardamento o un uragano gran parte delle persone si dimostrano altruiste e si curano immediatamente di se stesse e di coloro che li circondano, degli estranei e dei vicini così come dei propri cari e degli amici. L'immagine dell'essere umano egoista, che viene preso dal panico o che regredisce allo stato selvaggio, non corrisponde alla realtà: decenni di meticolose ricerche sociologiche sul comportamento umano in occasione di eventi catastrofici, dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale ad alluvioni, trombe d'aria e bufere in ogni parte del mondo lo dimostrano. Ma le convinzioni sono dure da abbattere e spesso il comportamento peggiore dopo una calamità è proprio di chi crede che gli altri si comporteranno in modo selvaggio ed è certo che i propri provvedimenti serviranno a difendersi dalla barbarie. Dopo il terremoto di San Francisco del 1906, così come dopo l'alluvione di New Orleans del 2005, persero la vita tanti innocenti, uccisi da chi credeva o sosteneva che quelle stesse vittime fossero i veri criminali mentre essi erano i protettori dell'ordine destabilizzato. Le convinzioni contano.

"Ancora oggi Caino sta uccidendo suo fratello", proclama una scritta sbiadita su una chiesa nel Lower Ninth Ward di New Orleans, una delle aree più colpite a causa del cedimento degli argini fatti costruire dal governo. Il Libro della Genesi ci presenta, in rapida successione, la creazione dell'universo, l'acquisizione della conoscenza, l'espulsione dal paradiso e l'uccisione di Abele per mano di Caino, una seconda caduta dalla grazia nella gelosia, nella rivalità, nell'alienazione e nella violenza. Quando Dio chiede a Caino dove si trova suo fratello, Caino gli chiede a sua volta: "Sono forse il guardiano di mio fratello?". Si rifiuta di dire ciò che Dio sa già, ossia che il sangue versato di Abele grida dalla terra che lo ha assorbito. E allo stesso tempo solleva una delle domande sociali di tutti i tempi: abbiamo degli obblighi reciproci, siamo tenuti a occuparci gli uni degli altri oppure ogni essere umano è un'isola a sé stante?

La maggior parte delle società tradizionali prevede impegni e legami profondi tra singoli individui, famiglie e gruppi. Il concetto stesso di società si basa sull'idea di reti di affinità e amore e l'individuo isolato è, il più delle volte, un emarginato o un esule. Le moderne società mobili e individualistiche hanno abbandonato alcuni di questi antichi legami ed esitano ad assumerne di nuovi, soprattutto quando si tratta di vincoli espressi attraverso accordi di natura economica, come le misure per gli anziani e le persone vulnerabili, per ridurre povertà e disperazione, ossia per la custodia dei propri fratelli e sorelle. Gli argomenti che vengono portati contro tali misure prendono spesso la forma di affermazioni che riguardano la natura stessa dell'uomo: siamo essenzialmente egoisti e, dal momento che tu non ti occuperai di me, io non posso occuparmi di te. Non ti nutrirò perché devo accumulare cibo per non morire di fame, perché anch'io non posso contare sugli altri. Non solo: mi impossesserò delle tue ricchezze e le aggiungerò alle mie, se credo che il mio benessere sia indipendente dal tuo o contrapposto al tuo, e giustificherò la mia condotta come se fosse una legge della natura. Se non sono il guardiano di mio fratello vuol dire che siamo stati cacciati dal paradiso, un paradiso di solidarietà non corrotte.

Così la vita di tutti i giorni diventa un disastro sociale. A volte un disastro intensifica questo stato di cose e a volte ci offre un sorprendente sollievo, portandoci a scoprire un altro mondo per l'altra parte di noi stessi. Quando tutti gli spartiacque e gli schemi ordinari vengono infranti le persone si fanno avanti – non tutti ma una parte preponderante – per diventare guardiani dei propri fratelli. E questo senso di partecipazione e di legame è fonte di gioia anche in mezzo alla morte, al caos, alla paura e alla perdita. Se fossimo consapevoli di questa realtà e ci credessimo, le nostre convinzioni sulle possibilità che ci si presentano in ogni momento della nostra esistenza potrebbero cambiare. Parliamo di profezie che si auto-avverano ma dimentichiamo che ogni convinzione che mettiamo in pratica crea il mondo a propria immagine. Le convinzioni contano. Così come contano i fatti che le accompagnano. Il sorprendente divariò esistente tra le convinzioni correnti sui comportamenti in caso di disastro e la realtà di tali comportamenti limita le possibilità, e il semplice incrinarsi delle nostre convinzioni può portare a cambiamenti assai più importanti. Pur nel suo orrore, un disastro può a volte rivelarsi una porta per fare ritorno in paradiso, o perlomeno in quel paradiso in cui siamo ciò che speriamo di essere, in cui facciamo il lavoro che amiamo e in cui ognuno di noi è guardiano delle proprie sorelle e dei propri fratelli.

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Pagina 14

Che cosa è questo sentimento che si presenta durante tanti disastri? Dopo il terremoto di Loma Prieta cominciai a pensarci. Dopo l'11 settembre iniziai a comprendere la singolarità di questo fenomeno e allo stesso tempo la sua importanza. Dopo aver incontrato l'uomo di Halifax, il cui volto si illuminava di gioia quando parlava del grande uragano che li aveva colpiti, iniziai a studiarlo. Dopo aver iniziato a scrivere del terremoto del 1906 in occasione del centesimo anniversario del sisma, cominciai ad accorgermi della frequenza con cui questo particolare sentimento si esprime e del suo peso nel trasformare la realtà dei disastri. Dopo che l'uragano Katrina ebbe devastato la costa del golfo del Messico iniziai a comprendere i limiti e le opportunità che accompagnano le calamità. Questo libro racconta quell'emozione, tanto importante quanto sorprendente, e le circostanze che portano alla sua nascita, così come quelle che essa genera. Sono questioni che contano, in un'epoca di catastrofi sempre più numerose e intense. Ma soprattutto contano adesso, in un momento storico in cui si affacciano nuovamente gli interrogativi che riguardano le possibilità sociali e la natura umana nella vita di tutti i giorni, interrogativi che hanno spesso caratterizzato le epoche più turbolente.

Quando chiedo alle persone di raccontarmi i disastri che hanno vissuto, scopro su molti dei loro volti la beatitudine che provano ricordando le storie di tormente di neve in Canada, di nevicate nel Midwest, di blackout newyorchesi, di ondate di caldo opprimenti nell'India meridionale, di incendi nel New-Mexico, del grande terremoto di Città del Messico, di precedenti uragani in Louisiana, del collasso economico in Argentina, di terremoti in California e Messico, e quell'insolito piacere che ha accompagnato queste esperienze. Ciò che mi sorprende è la gioia che colgo sui loro volti. E se invece di parlare ho scambiato con loro una corrispondenza, è la gioia che leggo nelle loro parole a stupirmi. Non dovrebbe essere così, e così non è nella versione che siamo abituati ad ascoltare sulle conseguenze di un disastro, eppure è lì e nasce dalle rovine, dal ghiaccio, dal fuoco, dalle tempeste e dalle inondazioni. La gioia conta perché ci aiuta a misurare desideri altrimenti negletti, il desiderio della vita pubblica e della società civile, il desiderio di inclusione, partecipazione e potere.

I disastri sono fondamentalmente eventi terribili, tragici e dolorosi e, quali che siano gli effetti collaterali e le opportunità positive che producono, non sono auspicabili. Ma allo stesso modo non dobbiamo ignorare quegli effetti collaterali solo perché nascono in un contesto di devastazione. I desideri e le opportunità che vengono risvegliati sono talmente potenti da splendere persino nella rovina, nella carneficina e tra le ceneri. Ciò che accade qui è importante in altre situazioni. E il punto non è quello di apprezzare i disastri: non è loro il merito di creare questi doni, ma sono dei percorsi possibili attraverso i quali i doni si manifestano. I disastri offrono una straordinaria finestra su desideri e possibilità sociali e ciò che si manifesta in occasione di questi eventi conta in altri momenti, nelle situazioni ordinarie così come in quelle extra-ordinarie.

Gran parte dei cambiamenti sociali sono scelti da noi: vogliamo far parte di una cooperativa, crediamo nelle iniziative per migliorare la sicurezza sociale o nell'agricoltura sostenuta dalla comunità locale. Ma il disastro non ci sceglie in base alle nostre preferenze, ci trascina invece nelle emergenze che richiedono un'azione altruista, coraggio e iniziativa per permetterci di sopravvivere o di salvare i vicini, quali che siano le nostre scelte politiche o indipendente da ciò che facciamo per vivere.

Le emozioni positive che nascono in queste circostanze poco promettenti dimostrano che i legami sociali e il lavoro utile sono realtà profondamente desiderate, rapidamente improvvisate e intensamente gratificanti. La struttura stessa della nostra economia e della nostra società impedisce il raggiungimento di questi obiettivi. È una struttura anche ideologica, una filosofia che serve soprattutto gli interessi dei ricchi e dei potenti ma che condiziona la vita di noi tutti e che viene suffragata dal buon senso dai media, nei notiziari come nei film catastrofisti. Le diverse sfaccettature di quest'ideologia hanno preso il nome di individualismo, capitalismo e darwinismo sociale e sono apparse nella filosofia politica di pensatori come Thomas Hobbès e Thomas Malthus, oltre che nelle opere della maggior parte degli economisti tradizionali contemporanei, i quali ritengono che inseguiamo il guadagno personale per motivi razionali e non si preoccupano dei modi in cui un sistema così distorto danneggia molti altri aspetti, necessari alla nostra sopravvivenza e desiderabili per il nostro benessere. I disastri lo dimostrano perché tra i fattori che stabiliscono se vivremo o moriremo ci sono il benessere della collettività che ci circonda e l'equità della nostra società. Abbiamo bisogno di legami ma questi, oltre al senso di partecipazione, di immediatezza e di capacità ci regalano anche la gioia, quella gioia sorprendente e intensa che ho ritrovato nei resoconti di chi è sopravvissuto a un disastro. Questi racconti dimostrano che i cittadini che sarebbero necessari in un qualsiasi paradiso – persone sufficientemente coraggiose, intraprendenti e generose – esistono già. La possibilità del paradiso è sempre sul punto di realizzarsi, proprio per questo sono necessarie forze potenti che tengano a bada quel paradiso. E se il paradiso nasce all'inferno è solo perché, grazie alla sospensione dell'ordine abituale e al fallimento della maggior parte dei sistemi, saremo liberi di vivere e agire in un altro modo.

Questo libro analizza cinque disastri, dal terremoto di San Francisco del 1906 all'uragano e all'alluvione che hanno colpito New Orleans novantanove anni più tardi. Tra queste due catastrofi troviamo l'esplosione di Halifax del 1917, lo straordinario terremoto di Città del Messico che fece un enorme numero di vittime e causò grandi trasformazioni, e i racconti poco noti del modo in cui i comuni cittadini di New York risposero alla calamità che colpì la loro città l'11 settembre 2001. Attorno a questi eventi principali si dipanano le storie del bombardamento nazista di Londra, dei terremoti in Cina e Argentina, dell'incidente alla centrale nucleare di Chernobyl, dell'ondata di caldo che si abbatté su Chicago nel 1995, del terremoto che colpì la città di Managua, in Nicaragua, contribuendo alla caduta di un regime, di un'epidemia di vaiolo a New York e di un'eruzione vulcanica in Islanda. Anche se i peggiori disastri naturali degli ultimi anni hanno avuto luogo in Asia - lo tsunami nell'oceano Indiano nel 2004, il terremoto in Pakistan nel 2005, il terremoto in Cina e il tifone in Birmania nel 2008 - non ho dedicato loro delle pagine. Sono eventi di un'importanza immensa ma la lingua e la distanza, così come la cultura non mi permettono di avvicinarmi e di analizzarli come vorrei.

Da quando il postmodernismo ha impresso una nuova forma al paesaggio intellettuale, è diventato problematico persino utilizzare il termine natura umana, che implica una essenza stabile e universale. Lo studio dei disastri evidenzia come ci siano nature eterogenee e contingenti, ma nel contesto delle calamità quella umana dimostra prevalentemente di essere flessibile, intraprendente, generosa, empatica e coraggiosa. Il linguaggio terapeutico parla quasi esclusivamente del trauma come conseguenza del disastro, alludendo così a un'umanità che è insopportabilmente fragile, a individualità che non agiscono ma che lasciano che altri agiscano per loro, la ricetta più elementare per creare una vittima. I film catastrofisti e i media continuano a ritrarre le persone comuni come individui che si rivelano isterici e pericolosi quando affrontano una calamità. Crediamo a quello che ci raccontano che siamo vittime o bruti invece di affidarci alla nostra esperienza. La maggior parte delle persone conoscono quest'altra natura umana in base al proprio vissuto, anche se non ci sono praticamente conferme di tipo ufficiale o tradizionale. Questo libro racconta la nostra capacità di risorgere dalle rovine, la risposta normale che gli esseri umani esprimono di fronte a un disastro, e il significato che tale rinascita può avere in altri contesti, un argomento che fatica a trovare espressione nella nostra lingua per descrivere chi siamo quando tutto va male.

Ma per comprendere questa rinascita e ciò che la ostacola o la nasconde, ci sono altri due argomenti importanti da tenere presenti. Da una parte il comportamento della minoranza al potere, persone che spesso agiscono in modo selvaggio in occasione di un disastro. Dall'altra le convinzioni e le rappresentazioni mediatiche, le persone che ci offrono uno specchio deformante in cui è praticamente impossibile riconoscere questi paradisi e le nostre possibilità. Le convinzioni contano e, quando le convinzioni dei media e delle élite coincidono, possono portare a una seconda ondata catastrofica, proprio come è accaduto dopo l'uragano Katrina. Questi tre argomenti sono intrecciati tra loro in quasi tutti i disastri e quando scopriamo quello più importante - la fugace apparizione del paradiso siamo in grado di comprendere le forze che oscurano, si oppongono e a volte cancellano del tutto questa possibilità.

Questa alternativa e questo desiderio di società si oppongono alla trama delle storie dominanti negli ultimi decenni. È possibile leggere la storia recente come una storia di privatizzazione non solo dell'economia ma anche della società, una storia in cui il marketing e i media spingono sempre più l'immaginazione verso la vita privata e la soddisfazione individuale, in cui i cittadini vengono etichettati come consumatori, in cui la partecipazione pubblica vacilla trascinando nella sua caduta ogni possibilità di esprimere un proprio potere politico, individualmente o collettivamente, in cui lo stesso linguaggio usato per esprimere le emozioni e le soddisfazioni collettive si inaridisce. Il denaro è assente nella cosiddetta libera associazione mentre media e pubblicità ci incoraggiano ad aver timore gli uni degli altri e a considerare la vita pubblica come qualcosa di pericoloso e fastidioso, a vivere in spazi protetti, a comunicare tramite mezzi elettronici e ad acquisire le informazioni dai media invece che gli uni dagli altri. Eppure, in occasione di un disastro, le persone si riuniscono e anche se qualcuno ha paura di questi raduni considerandoli adunanze sediziose, molti applaudono a esperienze in cui la società civile si avvicina in qualche modo al paradiso. In termini contemporanei, la privatizzazione è soprattutto un termine economico che indica l'affidamento di giurisdizioni, beni, servizi e poteri - ferrovie, diritto all'acqua, mantenimento dell'ordine pubblico, istruzione — al settore privato e ai capricci del mercato. Ma questa privatizzazione economica non si può realizzare senza la privatizzazione del desiderio e dell'immaginazione che ci dice che non siamo guardiani dei nostri simili. I disastri riportano chi li patisce alla vita pubblica e collettiva e in tal modo disfano parte di questa privatizzazione, che è di per sé un disastro più lento e insidioso. In una società in cui la partecipazione, la capacità di agire, l'iniziativa personale e la libertà fossero tutti adeguatamente presenti, un disastro non sarebbe nient'altro che un disastro.

Pochi oggi parlano di paradiso, e quando lo fanno si riferiscono a qualcosa di talmente remoto da risultare impossibile. Le società ideali di cui sentiamo parlare sono per lo più lontane nel tempo o nello spazio o entrambe le cose e trovano posto in qualche società primordiale antecedente alla Caduta o in un regno spirituale nelle remote vastità dell'Himalaya. L'implicazione è che noi, qui e ora, siamo del tutto incapaci di vivere tali ideali. E se invece il paradiso balenasse in mezzo a noi in alcuni momenti, in quelli peggiori? E se riuscissimo ad averne una fugace visione mentre ci troviamo tra le fiamme dell'inferno? Queste brevi apparizioni ci offrono, a differenza delle società lontane nel tempo e nello spazio, uno scorcio di ciò che potremmo essere e di ciò che le nostre società potrebbero diventare. È un paradiso in cui siamo all'altezza della situazione e che ci fa comprendere per contrasto come in altri momenti la maggior parte di noi non riesce a sostenere la vertigine delle possibilità e precipita in una vita individuale senza ambizioni e in una vita sociale senza luce. Oggi molti non sperano neanche più in una società migliore ma la riconoscono quando la incontrano e questa scoperta riesce a illuminare anche un'esperienza che rimane senza nome. Altri la riconoscono, la comprendono e ne fanno qualcosa: così dalle rovine nascono trasformazioni sociali e politiche che durano nel tempo, a volte buone e a volte cattive. La porta dei paradisi potenziali di questa nostra epoca si trova all'inferno.

La parola emergenza viene da emergere, ossia salire alla superficie, il contrario di mergere, ossia immergere, affondare in un liquido. Un'emergenza è una separazione da ciò che ci è familiare, un'improvvisa emersione in una nuova atmosfera, in cui spesso ci viene richiesto di essere all'altezza della situazione. Catastrofe deriva dal greco katà, ossia giù, e streifen, o ribaltamento. Indica uno sconvolgimento delle nostre attese e originariamente si riferiva a un colpo di scena in una trama. Emergere nell'inaspettato non è sempre un'esperienza terribile anche se l'evoluzione di queste parole suggerisce la sfortuna. La parola disastro proviene dal composto latino tra dís, senza o lontano, e aster, stella o pianeta, ossia letteralmente senza stella. Originariamente suggeriva la sfortuna causata da una cattiva stella, proprio come nel classico blues di Albert King Born Under a 8ad Sign.

In alcuni dei disastri del ventesimo secolo — i grandi blackout nella regione nord-orientale degli Stati Uniti nel 1965 e 2003, il terrenoto di Loma Prieta nel 1989 nell'area della baia di San Francisco, l'uragano Katrina nel golfo del Messico nel 2005 — la mancanza di energia elettrica fece svanire l'inquinamento luminoso che nascondeva il cielo notturno. In queste città colpite dal disastro le persone si ritrovarono improvvisamente sotto la volta stellata che possiamo tutt'ora ammirare in alcuni luoghi piccoli e remoti. Nella calda notte del 15 agosto 2003 a New York fu possibile vedere la Via lattea, un prezioso dono celeste che non si poteva ammirare da tanto tempo e che il blackout che colpì il Nord-Est quel pomeriggio restituì agli occhi della gente. Possiamo immaginare che l'attuale ordine sociale sia qualcosa di simile a questa luce artificiale: un altro tipo di potere che non funziona in occasione dei disastri. Al suo posto troviamo il ritorno a una società improvvisata, collaborativa, cooperativa e locale. Per quanto belle siano le stelle di un cielo notturno che finalmente si svela ai nostri occhi, solo pochi di noi saprebbero oggi orientarsi in base a esse. Ma le costellazioni della solidarietà, dell'altruismo e dell'improvvisazione fanno parte della maggior parte di noi e in questi momenti riappaiono. Le persone sanno cosa fare quando c'è un disastro. La perdita di potere, il disastro in senso moderno, è una calamità ma il riapparire di questi antichi paradisi è il suo contrario. Questo è il paradiso a cui possiamo accedere passando per l'inferno.

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Pagina 251

IV
LA CITTÀ TRASFIGURATA:
NEW YORK NEL DOLORE E NELLA GLORIA



Mutuo soccorso nella piazza degli affari


Dimenticate tutto quello che sapete sull'11 settembre 2001, dimenticate al Qaeda, il governo Bush, il terrorismo, i controlli sul traffico aereo, l'Arabia Saudita, l'Afghanistan, l'Islam, il jihad, le crociate e la geopolitica del petrolio. Lasciate per un attimo da parte il modo in cui quegli aerei di linea dirottati e infranti contro due grattacieli nella zona sud di Manhattan hanno provocato una spirale di guerre e provvedimenti legislativi ed erosioni della Carta dei Diritti, e poi prigioni, bombe, torture e la trasformazione del mondo da numerosi e complessi punti di vista. Tutte queste cose sono certamente importanti, come lo sono anche gli aerei che si sono schiantati contro il Pentagono e su quel campo in Pennsylvania, ma mettono in ombra altri aspetti pur notevoli. Tutti questi temi, catalizzando l'attenzione verso cause ed effetti globali, impedirono uno sguardo diretto sulla città in crisi. Alcuni aspetti del disastro assunsero immediatamente una portata internazionale, perché il controllo del traffico aereo degli Stati Uniti interruppe tutti i voli verso e dal Paese, perché Wall Street venne evacuata, con ripercussioni e allarme su tutti i mercati e non solo, perché il mondo si fermò a guardare e analizzare e contemplare lo spettacolo dalla visibilità più globale di tutti i tempi.

Lasciate da parte tutto questo e vedetelo come un disastro locale, come il crollo infuocato di due colossi e la devastazione di sei ettari e mezzo di area densamente popolata, con quella strana nube tossica fatta di architettura, computer, amianto, metalli pesanti e vite umane polverizzate che si propagò per la città, la pioggia di documenti degli uffici che galleggiarono sull'acqua per toccare riva a Brooklyn e nel New jersey, persone in fuga in tutte le direzioni, e poi gli effetti locali dell'interruzione del traffico e del lavoro, le angosce per la salute e gli sforzi per i soccorsi. Solo così potrete vedere quello che i media hanno ampiamente perso di vista nella loro corsa verso i centri del potere e i labirinti politici del Medio Oriente e nell'infinità di luoghi comuni su salvatori e vittime: la straordinaria reazione della gente di quella città.

Quando le torri si accasciarono su se stesse e tutte le persone presenti nelle immediate vicinanze si ritrovarono immerse nel buio totale della nube improvvisa di polvere che le coprì in pochi istanti, molte di esse furono convinte di morire. Eppure anche dopo l'evento più inimmaginabile possibile, anche dopo essere state sommerse da una pioggia di detriti e immerse nell'oscurità in piena mattina, dopo aver visto crollare 220 piani, ciascuno esteso 400 metri quadrati, dopo aver visto coi propri occhi aerei di linea trasformarsi in bombe incendiarie, dopo aver respirato quella terribile polvere asfissiante che avrebbe provocato danni permanenti a così tante di loro, la maggioranza di queste persone si rialzò e cercò di assistere gli altri sulla strada verso la salvezza.

Circa venticinquemila persone si diedero aiuto reciproco nel corso di un'ordinata evacuazione dalle torri senza la quale le vittime sarebbero state ben oltre le 2.603 del bilancio finale (il numero dei morti restò basso anche perché in tanti non erano ancora giunti sul posto di lavoro, sia per l'orario delle collisioni sia per le elezioni cittadine; evacuare il doppio delle persone sarebbe stato di gran lunga più difficile). La grande maggioranza delle vittime fu costituita da persone rimaste intrappolate al di sopra degli incendi, con più di 1300 situate oltre il novantunesimo piano della torre nord. Se i pompieri che marciarono coraggiosamente su per le scale, mentre migliaia di persone si riversavano in direzione contraria, avessero avuto migliori apparecchi di comunicazione radio, il numero delle vittime tra i vigili del fuoco sarebbe stato certamente molto inferiore a 341. Se i responsabili degli edifici avessero ordinato immediatamente l'evacuazione anziché invitare tutti a rientrare nei propri uffici o a restare dov'erano nella torre sud, si sarebbero salvati molti più soccorritori e lavoratori. Chiaramente quello che accadde era senza precedenti, e in un primo momento era impensabile che le strutture potessero collassare.

L'evacuazione dell'intera punta sud di Manhattan divenne urgente quando l'area si fece tossica e caotica e quando ai lavoratori delle torri in fuga si unirono anche residenti, dipendenti degli uffici circostanti, passanti, studenti e altri. Un'armata di imbarcazioni costituitasi spontaneamente realizzò nel giro di poche ore un'evacuazione di gran lunga più ampia della mitica evacuazione di Dunkirk durante la Seconda guerra mondiale, durata dieci giorni (quella avvenne sotto il fuoco nemico, ma le barche di civili che si avvicinarono alla nuvola di polvere che avvolgeva Manhattan sud non potevano sapere se gli attacchi si fossero conclusi con lo schianto dei due aerei). I cittadini presenti in strada aiutarono gli evacuati feriti, sopraffatti, esausti e in difficoltà, con cerchi concentrici di soccorsi che abbracciavano il luogo del disastro. In seguito si formarono spontaneamente punti di raccolta, spacci e catene di approvvigionamento a supporto di coloro che operavano intorno a quello che chiamarono "the Pile" (la montagna di rovine) e che i media avrebbero chiamato "Ground Zero". Molti di quegli operatori, soprattutto all'inizio, erano anche volontari, alcuni di essi specialisti: ingegneri, lavoratori nel settore delle costruzioni, medici, saldatori. Accorsero sul posto anche preti, sacerdoti, rabbini, massaggiatrici, medici e altro personale di assistenza, dando luogo a una delle più grandi convergenze della storia in seguito a un disastro. Alcuni di coloro che arrivarono senza progetti ben precisi si trovarono o inventarono ruoli utili e lavorarono per mesi nei soccorsi. Entrarono in azione numerosi enti non profit, in particolare quelli che lavoravano con musulmani, immigrati e poveri. Nacquero anche alcune nuove organizzazioni. In un primo momento gran parte delle funzioni meno urgenti della città si interruppero e la gente si fermò a contemplare, a piangere i suoi morti, a discutere, consolare, leggere, riunirsi, pregare, guardare e agire, talvolta con grande vigore, altre volte in modo meno efficace, nel suo irresistibile desiderio di dare e di rendersi utile. Ci furono anche razzisti pronti ad attaccare qualsiasi musulmano o arabo e persone che invocarono la guerra, ma rappresentarono una minoranza in questa città, che all'improvviso si fermò a riflettere sull'orrore.

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Il pubblico riconobbe quanto avrebbe dovuto sapere da sempre: che i vigili del fuoco, non solo a New York e non solo quel giorno, si guadagnano da vivere facendo cose pericolose con coraggio e autocontrollo, e che il loro lavoro consiste nello spegnere incendi e nel salvare persone. E nonostante i pompieri fossero trattati come celebrità, venne messo in secondo piano che molti di loro erano stati mandati in mezzo al pericolo senza adeguati strumenti di comunicazione o ordini coerenti. Come ha dichiarato un ex investigatore della polizia che lavorò per la Commissione dedicata all'11 settembre: "Se qualcuno avesse tenuto un elenco di quali piani erano stati perlustrati, la metà di quei pompieri non sarebbe stata necessaria". Mandati su per infinite rampe di scale in quella calda mattinata, con addosso una cinquantina di chili di equipaggiamento e imbacuccati in spesse uniformi protettive, alcuni pompieri ebbero ben presto dolori toracici, alcuni si sdraiarono proni, ansimando per riprendersi e continuare la salita, mentre i lavoratori degli uffici davano loro acqua e continuavano a fuggire senza bisogno del loro aiuto. I loro comandanti avevano già deciso che era impossibile domare gli incendi, dunque non vi era motivo di portarsi addosso manichette antincendio o altre attrezzature (e comunque vi erano manichette antincendio installate a intervalli regolari per tutto l'edificio).

I 343 pompieri che morirono furono coraggiosi e altruisti, e molti di loro aiutarono la gente ad abbandonare gli edifici. Furono certamente vittime del terrorismo, ma anche di un sistema scoordinato, impreparato e male equipaggiato. Considerarono il proprio ruolo con ambivalenza e non si sentirono a loro agio con il modo in cui fu mitizzato. Ruth Sergel, regista di documentari che partecipò al progetto fotografico This Is New York nato in seguito all'11 settembre, riferisce: "Conosco tanti pompieri sconvolti dal fatto che le loro storie.., ecco, avevano raccontato le loro storie nel modo più onesto possibile, e poi le videro rielaborate e presentate come storie di eroi".

I media resero un eroe anche il sindaco di New York City, Rudy Giuliani. Certamente rivestì il ruolo di un eroe da film d'azione camminando senza paura per Lower Manhattan quella mattina, coperto della stessa polvere bianca che ricopriva gli impiegati in fuga dagli uffici, parlando con coraggio e sentimento, intraprendendo azioni decisive quel giorno e in quelli che seguirono, presenziando a infiniti funerali e offrendo la sua vicinanza alle persone in lutto. Da una parte Giuliani sembrava avere avuto, come tantissimi cittadini privati durante ogni disastro, un momento di profonda autotrascendenza. La figura velenosa, egoista, dominata dagli scandali, aveva lasciato il posto a una persona coraggiosa, empatica, inesauribile e onnipresente. Ma ben presto ritornò il vecchio Giuliani e cercò di avanzare di carriera sulla base di questa performance e di liquidare o sopprimere fatti sconvenienti riguardanti quel giorno e le sue decisioni precedenti e successive. Esaltò spesso la propria lungimiranza nella creazione di un Centro operativo per le emergenze, peccato che quel centro avesse sede nell'edificio "7 World Trade Center", che l'11 settembre fu velocemente evacuato. Lo spazio era stato preso in affitto da un proprietario che in seguito divenne uno dei maggiori donatori per la campagna elettorale del sindaco. Anni prima gli stessi consiglieri di Giuliani avevano osteggiato il suo piano di collocare il centro in quello che già allora chiamavano Ground Zero.

Come hanno scritto Wayne Barrett e Dan Collins nel loro libro di inchiesta sull'attività di Giuliani in occasione dell'11/9, "Giuliani, comunque, non diede ascolto a nessuno di questi consigli. Bocciando una struttura comunale già sicura e tecnologicamente avanzata situata al di là del ponte di Brooklyn, insistette su un centro di comando entro una distanza percorribile a piedi dalla City Hall, uno standard ben curioso, velocemente abbandonato dall'amministrazione Bloomberg, che invece collocò il proprio centro a Brooklyn... Giuliani finì per stabilirsi nel 1997 nell'unico bunker mai costruito tra le nuvole, in una sede scossa fin dalle fondamenta quattro anni prima da terroristi che avevano giurato di ritornare. Fu in un colpo solo la decisione più stupida che avesse mai preso e anche quella che lo rese una leggenda. Se il centro si fosse trovato altrove, tutte le drammatiche inquadrature che trasformarono Giuliani ricoperto di fuliggine in un guerriero nomade sarebbero state sostituite da filmati tesi ma scialbi, ripresi in un'anonima sala da conferenza stampa". Come detto più prudentemente dal rapporto della Commissione per l'11 settembre, "alcuni misero in dubbio l'idea di collocare la sede sia così vicino a un obiettivo dei terroristi sia al ventitreesimo piano di un edificio (difficile da raggiungere qualora gli ascensori fossero fuori uso). Non c'era una sede di riserva". Se il centro fosse sopravvissuto per coordinare la risposta, sarebbe sicuramente sopravvissuto anche molto più personale preposto alle emergenze.

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Susan Faludi nel suo libro del 2007 Il sesso del terrore ricostruisce come i media si affrettarono a dipingere il disastro come un trionfo della mascolinità tradizionale e ad attaccare il femminismo. Trovarono persone da intervistare che lasciarono intendere che la nazione era stata attaccata non perché fosse forte (a intervenire negli affari del Medio Oriente, collocare truppe in Arabia Saudita), ma perché debole ed effeminata. L'esperta Camille Paglia disse diverse settimane dopo alla Cnn: "Non credo che la nazione riuscirà ad affrontare e sconfiggere altri paesi in cui la regola della mascolinità è più tradizionale." Faludi sottolinea che sebbene i terroristi fossero estremisti religiosi profondamente misogini, molti nei media furono lieti di dipingere le femministe quasi come complici degli integralisti nell'indebolimento dell'America.

Un articolo del National Review dichiarò che i pari diritti nei corpi armati avevano compromesso "l'efficienza nel combattmento". Il femminismo era "scivolato nell'irrilevanza", scrisse l'editorialista Cathy Young. È meno chiaro in che misura l'opinione pubblica, indipendentemente dai media, fu davvero influenzata da questa retorica retrograda. Alcuni sognavano leader forti, e sia Giuliani che Bush trassero vantaggio da questo desiderio. Altri disprezzavano entrambi: una donna che viveva a uno stabile di distanza dalle torri cadute parlò del "culto omo-erotico di Giuliani nei confronti della morte". Ci furono donne che compirono azioni decisive nei minuti, nelle ore e nei giorni del disastro, e uomini e donne collaborarono fianco a fianco.

Chiaramente in questa lettura dei fatti la mascolinità aveva massimamente senso se la risposta all'attacco e la fonte della salvezza dal disastro era la guerra (perlomeno se mascolinità equivale a belligeranza e militarismo). La reazione rapida di questi leader fu in parte per occultare l'ovvio fatto che per gli attacchi non c'era stata né prevenzione né preparazione, nonostante i tanti avvertimenti al governo Bush e il precedente attacco alle Torri gemelle. Gli attacchi, anche se furono molto localizzati e uccisero tanti cittadini internazionali oltre che americani, furono interpretati quasi universalmente come un attacco alla nazione nel suo complesso, come un atto simbolico ben riuscito. Questa è una delle ragioni per cui l'attenzione si spostò immediatamente dalla risposta così efficace dei cittadini alla questione di come avrebbe risposto la nazione, o meglio il governo. La Commissione per l'11 settembre riassunse con imbarazzo: "I meccanismi esistenti per rispondere agli atti di terrorismo consistevano nei processi e nelle punizioni per gli atti commessi da individui e in sanzioni, rappresaglie, deterrenza o guerra per gli atti commessi da governi ostili. Le azioni di al Qaeda non si collocavano in nessuna delle due categorie. I suoi crimini si trovavano a un livello che si avvicinava agli atti di guerra, ma erano stati commessi da una cospirazione slegata, estesa, nebulosa, senza territori o cittadini o patrimoni che potessero essere facilmente minacciati, sopraffatti o distrutti".

Anche la guerra fu una storia già familiare e nella quale la gente cascò facilmente, un modo di asserire nobiltà, potenza e obiettivi nei confronti di un attacco che disorientava e destabilizzava. Tutti i commenti di William James sul militarismo e sul romanticismo della violenza nel suo "L'equivalente morale della guerra" ebbero qui grande rilievo. La gente desiderava sacrificarsi, unirsi, far parte di qualcosa di più grande. E la guerra era la modalità che conoscevano. Gli arruolamenti per l'esercito videro un'impennata. La guerra al Terrore sembrò una scelta saggia a tanti cittadini che caddero nel conformismo bellico, anche se il terrore non era qualcosa a cui si possa dichiarare guerra, anche se quello che la maggior parte della gente provava prima che il governo iniziasse la sua campagna per inculcare la paura fu praticamente qualunque cosa tranne il terrore: dolore, oltraggio, stordimento, l'urgente necessità di aiutare, empatia, domande, ma non tanto puro terrore. L'esperta di terrorismo Louise Richardson commenta: "In risposta agli attacchi dell'11 settembre, gli americani scelsero di prendere alla lettera il linguaggio di al Qaeda di guerra cosmica e di reagire di conseguenza, piuttosto che rispondere ad al Qaeda in base a una valutazione oggettiva delle sue risorse e delle possibilità delle proprie. Non c'è dubbio che già solo lo spettacolo del crollo delle torri apparve certamente coerente con un'idea di conflitto cosmico. Ma resta il fatto che tremila vittime, in un paese da sempre abituato a più del quintuplo di morti per omicidio ogni anno, avrebbero potuto suscitare una reazione più concentrata e più moderatà".


Trauma e tenacia

Anche il governo federale falli drammaticamente. Diciannove uomini armati solo di taglierini furono in grado di attaccare il centro simbolico della potenza economica americana e di colpire più di tre quarti d'ora dopo il cuore amministrativo del più potente esercito che il mondo avesse mai visto. Sembra che quel giorno l'unica difesa efficace sia stata quella dei passeggeri del volo 93 United: quando il volo fu dirottato e loro costretti nella coda dell'aereo, iniziarono a fare telefonate ai loro partner, ai genitori e agli amministratori delle linee aeree e telefoniche. I parenti dissero loro degli attacchi alle Torri gemelle ed essi conclusero che anche il loro aereo stesse per essere utilizzato come una bomba. Nel poco tempo che ebbero a disposizione raccolsero informazioni, decisero di ostacolare i piani dei terroristi, presero decisioni collettive sulle strategie per riprendere il controllo dell'aereo e in alcuni casi riuscirono a mandare il loro ultimo saluto, sapendo che la morte era ormai quasi inevitabile. Fu un'improvvisazione di collaborazione incredibilmente rapida. Poi misero in atto un attacco ai loro dirottatori che si presume abbia fatto precipitare l'aereo in Pennsylvania anziché permettergli di diventare il quarto missile per attaccare un altro obiettivo sensibile. I media trasformarono il contrattacco in un ennesimo trionfo del machismo, anche se nulla fa pensare che l'assistente di volo di sesso femminile che preparò acqua bollente da gettare sui dirottatori fosse meno coraggiosa, o meno essenziale per quell'impresa rispetto ai passeggeri uomini che comunicarono la loro intenzione di attaccare. L'unica persona di cui si sa per certo che ha lottato contro i dirottatori nella cabina di pilotaggio fu anch'essa una donna, probabilmente un'assistente di volo.

Quasi tre anni dopo, il Washington Post scrisse: "Una scrupolosa ricostruzione della reazione incerta e confusa dei vertici di esercito e aviazione l'11 settembre mette anche in rilievo che i caccia inviati quel giorno non ebbero la possibilità di intercettare alcuno degli aerei di linea dirottati, anche perché furono tutti inviati a intercettare un aereo, l'American Airlines 11, che si era già schiantato contro il World Trade Center". Il Post citò un rapporto che concludeva: "Inoltre i caccia non sarebbero probabilmente stati in grado di impedire l'impatto dell'ultimo aereo, il volo 93 United Airlines, contro la Casa Bianca o il Campidoglio di Washington se non fosse precipitato in Pennsylvania". E prosegue citando il rapporto: "Siamo certi che la nazione abbia un debito di riconoscenza con i passeggeri del volo 93 United, hanno scritto gli autori del rapporto, riferendosi alla probabile insurrezione che impedì i piani dei dirottatori. 'Le loro azioni salvarono le vite di innumerevoli altri cittadini, e potrebbero avere salvato dalla distruzione il Campidoglio o la Casa Bianca'. Queste conclusioni così chiare fanno parte dell'ultima relazione temporanea in corso di pubblicazione da parte dello staff della Commissione nazionale sugli attacchi terroristici contro gli Stati Uniti, che si sta affrettando per completare entro la fine del mese un rapporto finale delle dimensioni di un libro". Un processo decisionale leggermente meno celere di quello dei passeggeri del volo 93 la mattina dell'11 settembre.

Una delle critiche più incisive su quello che accadde quel giorno viene dalla docente di Harvard Elaine Scarry, che ha analizzato i modi in cui l'enorme macchina militare fallì laddove un piccolo gruppo di passeggeri riuscì (nei suoi lavori passati aveva eloquentemente scritto di tortura, aviazione e altri temi). Sollevò la questione dei mezzi di attacco nucleare, di cui si era sempre detto che avrebbero reso il Paese in grado di rispondere entrò pochi minuti, e del modo in cui tale celerità aveva a lungo giustificato procedure amministrative e militari che evitavano il ricorso a processi decisionali più democratici: "Se si ragiona in base agli standard di velocità utilizzati per giustificare la messa da parte delle garanzie costituzionali negli ultimi cinquant'anni, l'11 settembre l'esercito statunitense disponeva di una quantità di tempo abbondantissima per proteggere il Pentagono". La docente sottolinea che trascorsero due ore tra il momento in cui la Faa (Federai Aviation Administration, l'Ente federale per l'aviazione) scoprì che c'erano degli aerei dirottati e l'attacco al Pentagono, quasi un'ora dopo l'attacco alla prima torre. E giunse a conclusioni nettamente anti-istituzionali: "Se si guarda comparativamente all'aereo che colpì il Pentagono e a quello che precipitò in Pennsylvania, essi rivelano due diverse concezioni di difesa nazionale: il primo modello è autoritario, centralizzato, controllato dall'alto; l'altro, operante in un contesto civile, è distribuito ed egalitario. Dovremmo dedurre qualcosa dal fatto che la prima forma di difesa falli e la seconda riuscì? Questo risultato ci obbliga a ripensare le nostre strutture militari e a considerare la possibilità che abbiamo bisogno di una forma di difesa democratica, non gestita dall'alto. Come minimo gli eventi dell'11 settembre pongono in dubbio un'argomentazione centrale impiegata negli ultimi cinquant'anni per legittimare un modello di difesa sempre più centralizzato e autoritario, ossia l'argomentazione della rapidità". La retorica dominante forgiata sulle rovine dell'11 settembre non riconobbe l'enorme potere delle persone disarmate né l'impotenza, a suo confronto, della maggiore potenza militare del mondo e delle istituzioni centralizzate in generale. Come fa notare Quarantelli, le burocrazie non sono brave a improvvisare.

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Immediatamente dopo l'11 settembre vi fu una grande abbonanza di dipendenti pubblici: pompieri, agenti di polizia, dipendenti comunali e volontari in servizio civile accorsero per occuparsi dei sistemi falliti. Furono i cittadini stessi a prendere le decisioni più importanti, dall'evacuazione degli edifici del World Trade Center, nonostante l'invito a non muoversi da parte della Port Authority, fino all'organizzazione di enormi sforzi per i soccorsi. Mentre il Pentagono non fu in grado di agire, i cittadini furono protagonisti di drammatiche azioni sul volo 93, probabilmente grazie alle rapide decisioni e azioni collettive dei passeggeri. Non si trattò solo di un momento di mutuo soccorso e altruismo, ma anche di un momento di democrazia partecipativa nell'agorà di Union Square, nei dispensari, nelle cucine improvvisate e nell'impegno dei volontari in tutta la città. Le persone decisero di fare qualcosa, unite tra di loro, in genere con perfetti sconosciuti, e resero possibile tutto questo. Fu anarchia nel senso di Kropotkin, autodeterminazione piuttosto che caos. Fu anche tipico di quanto accade nei disastri, quando le istituzioni falliscono e la società civile ottiene successi. Fu la dimostrazione che possono esistere sia la volontà sia la capacità di realizzare una società vitale in assenza dell'autorità, almeno per un breve tempo. Una volta recuperata la lucidità, la campagna più urgente del governo Bush fu mirata a riprendersi l'America non dalle mani dei terroristi, ma da quelle dei suoi cittadini. E la campagna riuscì senza dubbio.

Per qualche verso l'11 settembre rappresentò un'anomalia, e il ritornello dopo di esso fu che ogni cosa era cambiata. Per altri versi fu un classico disastro, completo di una società civile rivitalizzata fatta di soccorritori, aiuto reciproco e spazi pubblici di discussione nonché di molte forme di panico dell'élite. Se la popolazione del Messico aveva vinto la gara di potere post-disastro contro il proprio governo, o perlomeno aveva vinto battaglie significative, gli americani persero la maggior parte delle battaglie dopo l'11 settembre ed ebbero invece una società militarizzata con meno diritti e meno privacy. Se tre mesi dopo l'11 settembre, gli argentini avevano saputo trasformare un improvviso disastro economico in un'occasione di rinascita sociale, gli americani persero quest'occasione. L'idillio del paese con le soluzioni proposte dalla Destra era in pieno rigoglio, e militarismo, individualismo e consumismo soffocarono tutte le restanti possibilità. L'Argentina si trovava al termine di un lungo percorso di autoritarismo, repressione e interventi stranieri quando si risollevò. Mancava invece un linguaggio per descrivere, figurarsi per celebrare, ciò che si era sollevato dalle rovine delle Torri gemelle, come mancò una consapevolezza del ruolo che potevano rivestire questo mutuo soccorso, l'altruismo, la collaborazione, l'improvvisazione e l'assunzione di potere decisionale in una società libera di inventare e dirigere se stessa. Si ricorse alla logica bellica per inculcare un patriottismo che era più simile a un'obbedienza deferente. La società civile aveva trionfato nelle ore e nei giorni che seguirono gli attacchi, ma dovette soccombere davanti alle più familiari storie raccontate dal governo e ripetute continuamente dai media. Quattro anni più tardi l'ago della bilancia si sarebbe leggermente spostato.

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V
NEW ORLEANS: TERRENI COMUNI E ASSASSINI



Che differenza farebbe?


Il diluvio e i fucili

All'ultimo momento sua figlia non aveva potuto portarla in macchina ad Atlanta, così Clara Rita Bartholomew, una donna di 61 anni di tempra forte e schietta, si infilò nello sgabuzzino della casa che aveva ereditato dalla sorella per ripararsi dal vento dell'uragano Katrina. Era stata svegliata dall'ululato della bufera alle sei del mattino di quel lunedì 29 agosto 2005. Prima si rifugiò nel bagno, dal quale vide il vento fare a pezzi la casa del vicino, poi in quello sgabuzzino, il posto più sicuro di tutta la casa. Quando la bufera si placò, uscì dallo sgabuzzino, guardò fuori dalla finestra e vide che il livello dell'acqua aveva raggiunto il segnale stradale di stop poco distante. Dentro casa l'acqua era alta una trentina di centimetri, sebbene fosse rialzata rispetto al livello stradale. Abitava nella contea di Saint Bernard, presso la contea di New Orleans, e nella sua zona solo quattro case sarebbero scampate all'inondazione. In quel momento non sapeva ancora che gli argini si erano rotti lungo tutto il Mississippi River Gulf Outlet, il canale che collega New Orleans al golfo del Messico e che serve da scorciatoia per le navi da carico provenienti dal mare, soprannominato Hurricane Highway ("superstrada dell'uragano"), perché forma una sorta di invito per le grosse onde formate dagli uragani. L'acqua cominciò a salirle lungo le gambe e a quel punto aprì il chiavistello delle scale che conducevano alla soffitta.

Giunta lassù, Clara Bartholomew si accorse che la tempesta aveva scoperchiato parte del tetto. E anche lì non era del tutto al riparò dall'acqua. "A quel punto cominciai a gridare e strillare: 'non voglio morire, Gesù salvami, ti prego. Che cosa ho fatto?' E feci appena in tempo a chiudere gli occhi quando una grossa onda... due grosse onde mi vennero addosso e mi ricoprirono completamente; gli spruzzi d'acqua bagnavano i tetti di tutte le altre case, mentre la mia era più in alto... ma alla fine gli spruzzi arrivarono anche da me, e il vento continuava a soffiare, continuava a soffiare. Mi abbassai per toccare l'acqua. Era bella, era bianca e pulita. Ricominciai a gridare e strillare: 'Dio ti prego, non farmi morire, Dio ti prego non farmi morire'. E poi alla fine animali di ogni tipo che non avevo mai visto prima nella mia vita arrivarono in casa. Alla fine riuscii a trovare la forza di guardare in basso. Dentro casa non cera più nessun solaio, nessuna finestra, neanche la porta sul retro. Animali di ogni tipo facevano ogni genere di rumore immaginabile, e io scappavo perché mi camminavano sui piedi. Era orribile. Poi, quando pensavo che tutto fosse finito, l'acqua arrivò di nuovo e si abbatté sul retro della casa, e io pregavo 'Dio, Signore, Signore mio tu sai che io non so nuotare', e poi per circa quattro ore continuò a premere contro le mura e alla fine mi ritrovai sulle scale che portano al tetto e pensai: 'sono stanca, Signore, sono stanca, ma se mi addormento annego'. Poi tornò di nuovo il vento, e alla fine, saranno state all'incirca le tre, si fermò. Due bianchi, un uomo e una donna, furono sommersi di fronte a me, stavano cercando di raggiungere il fiume". In altre parole, stavano cercando di raggiungere le rive più alte che fiancheggiano il Mississippi, dove avrebbero potuto arrampicarsi fuori dall'acqua. Clara Bartholomew li incitò mentre lottavano per non annegare.

"Una grossa onda, un'onda improvvisa arrivò e li travolse. La ragazza strillò. Urlava, urlava e urlava. Intanto il vento continuava a soffiare, mi ricopriva con una specie di pioggerellina sottile. Poi ho visto passare davanti a me un corpo. Mi sono guardata intorno nella soffitta per cercare qualcosa a cui aggrapparmi, e ho visto un grosso e vecchio alligatore che inseguiva il corpo. Raggelai, non riuscivo a fare il minimo movimento, e poi tornò la calma, la pioggia si arrestò. Pensai che il mio vicino fosse anche lui sul tetto della sua casa e così strillai, e all'improvviso arrivarono dei bellissimi gabbiani, e anche dei pellicani. Il mio vicino era a torso nudo, gli uccelli lo beccavano come se fosse carne morta e così imbracciò un fucile da caccia e cominciò a sparare contro di loro. Poi il vento ricominciò a soffiare. Soffiava, soffiava e soffiava. Cominciavo a sentirmi stanca". Trovò la Bibbia della sorella e lesse un salmo. Chiese perdono per i suoi peccati. Vide una bella imbarcazione priva di equipaggio alla deriva e pensò che fosse un segno divino. Aspettava che arrivasse la morte.

Tanta gente aspettò la morte durante l'uragano Katrina e oltre 1600 persone andarono incontro a quel destino. Alcuni stavano così male che non seppero mai cosa accadde loro, oppure morirono non per l'uragano o per l'inondazione ma di sete, insolazione, mancanza di medicine o omicidio, dopo che le acque si furono calmate e il vento si fu placato. È difficile pensare che la signora Bartholomew sia stata fortunata, ma quantomeno è sopravvissuta. Rimase ancora per un po' su quella soffitta semidistrutta e vide passare feretri e cadaveri, bestiame e animali selvatici, vivi e morti. Passò una barca guidata da una giovane coppia di bianchi. "Sentii che la ragazza diceva: 'ho sentito qualcuno, gridare', e lui le rispose: 'no, è solo il rumore dell'acqua che scende'. Lei disse: 'no, spegni il motore'. Quando l'uomo spense il motore, be', potete immaginare cosa feci. Strillai: 'sono Clarita, sono viva'. Quando l'uomo arrivò allo squarcio nella soffitta e mi vide, disse: 'come ha fatto a sopravvivere a quest'inferno?' ".

Clara salì sulla barca e un vicino che era stato tratto in salvo le disse di aver visto degli alligatori che nuotavano nel quartiere inondato, un altro le raccontò che era scappato da un tetto all'altro mentre l'acqua saliva. Passarono di fronte alla casa di cura Santa Rita, i cui proprietari avevano abbandonato i degenti anziani e disabili nella tempesta. Trentacinque di loro morirono annegati nello stabile sommerso dall'acqua. Il suo soccorritore, un dipendente della contea, insieme alla moglie salvò con la sua barca un centinaio di persone, ricorda Clara. Nel corso di quella settimana un esercito di volontari trasbordò decine di migliaia di persone all'asciutto su piccole imbarcazioni. La stessa signora Bartholomew venne portata in una scuola e dormì sul nudo pavimento, quel lunedì notte. Da li fu evacuata all'Astrodome di Houston, in Texas, e quando la incontrai stava cercando di trasformare in una vera casa un appartamento vuoto a San Francisco, aspettando il momento in cui le avrebbero consentito di tornare a sistemare la sua casa. Dovette sopportare qualcosa che va ben oltre l'apocalisse, oltre qualsiasi immaginazione, ma la sua terribile esperienza si svolse tutto sommato in poche tappe. Uno strazio fatto di vento e acqua, un'evacuazione, momenti difficili all'Astrodome e un lungo esilio.

Molta gente nella contea di New Orleans dovette sopportare molto di peggio. Cory Delaney, un ventiquattrenne che abitava in una casa a un solo piano nei sobborghi di New Orleans, andò a cercare rifugio in città nella casa a due piani di sua zia insieme al padre, alla madre disabile e a pochi altri parenti. Da quel momento in poi, tutto precipitò. Le suppellettili al pianterreno cominciarono a riempirsi d'acqua e poi l'acqua cominciò a salire sulle scale. Erano bloccati, e un segnale di richiesta d'aiuto posto sul tetto della casa non servì a nulla. Rimasero senza acqua potabile e videro volare sopra le loro teste, convinti che li avrebbero soccorsi, gli elicotteri che continuavano a fare avanti e indietro, con i fucili puntati dai finestrini. Il terzo giorno, mentre stava costruendo una zattera, arrivò una barca. Aiutò la madre a salire, mentre gli altri parenti issavano la sedia a rotelle. Allo sbarco li attendevano altri uomini armati: un poliziotto con un fucile M16 li esortò a camminare fino alla statale e aspettare un autobus. Alla fermata c'erano circa duemila persone. Gli autobus cominciarono ad arrivare, ma alcuni non si fermavano e altri caricarono le persone più vulnerabili.

Delaney si ritrovò in compagnia di circa 25 persone che cominciarono a comportarsi come un gruppo sociale: tantissime persone colpite da Katrina avrebbero fatto parte di queste comunità improvvisate in cui ci si aiutava reciprocamente e si prendevano decisioni collettivamente. Ma restare seduti sull'asfalto bollente di una sopraelevata, circondati dalle acque che riflettevano il bagliore accecante e nel caldo appiccicoso, era troppo per la sua gracile madre. Arrivò un poliziotto e diede loro dell'acqua, ma il gruppo di poliziotti successivo "uscì dalle macchine impugnando M-16 e AK-47, pronto a sparare a chiunque. Ci dissero di stare indietro, come se fossimo degli evasi. Ci puntarono contro i fucili e ci dissero: 'non verrà nessuno, dovete cavarvela da soli. Cercate di arrivare fino al Superdome'. Così ci mettemmo in cammino spingendo la carrozzina di mia madre, ma nessuno ci aiutò. Ci passavano accanto senza fare nulla, vedevamo gente che passava con le barche e ci scattava fotografie come se fossimo barboni, profughi o qualcosa del genere. Rimanemmo a dormire sulla statale altre due notti. Eravamo davvero frustrati, non sapevamo cosa fare. Dovetti costruire una tenda per riparare mia madre dal sole, perché era disidratata. Non mangiava, e beveva pochissimo. Insomma, se ne stava andando. Così ci mettemmo a pregare, c'era chi si univa a noi per pregare per la mamma". Chiese aiuto, ma senza successo, finché la Guardia nazionale li trasferì a bordo di un camion nel quartiere periferico di Metarie, dove la madre ottenne la priorità per l'evacuazione e fu portata via scomparendo per giorni dalla vista dei familiari. Alla fine il resto della famiglia riuscì a prendere un autobus diretto in Texas. "Finimmo in una specie di campo di concentramento con filo spinato e sentinelle, come se avessimo fatto qualcosa di male." Al momento dell'intervista si trovava in Minnesota, lontanissimo da casa.

Non fu l'unico a ritrovarsi ripetutamente con delle armi puntate contro. Alimentato dal razzismo e dall'immensità della tempesta, il panico dell'élite di cui parlano gli studiosi dei disastri raggiunse livelli eccezionali nei giorni successivi all'uragano Katrina. Ciò produsse un altro disastro, in cui le vittime di Katrina venivano additate come minacce e mostri e la risposta passò dai soccorsi al controllo autoritario, e anche di peggio. Katrina fu una successione di disastri: quello in qualche misura naturale dell'uragano, quello esclusivamente innaturale degli argini crollati che causarono l'allagamento della contea di Saint Bernard e di gran parte di New Orleans, la devastazione sociale dell'omissione o del rifiuto, da parte dei vari livelli di governo, di garantire l'evacuazione o i soccorsi, e infine la sconvolgente calamità costituita dal modo in cui le autorità prima locali e poi statali e federali decisero di trattare le vittime da criminali, trasformando New Orleans in una città-prigione in cui molti venivano tenuti sotto il tiro delle armi e a molti fu impedita l'evacuazione. O vennero uccisi. O ancora, lasciati morire.

Chiaramente, come mi ha fatto notare Kathleen Tierney, Katrina non fu un disastro. Fu una catastrofe, di dimensioni quasi mai viste prima nella storia americana. Un'emergenza è un avvenimento locale: una casa che brucia, un ospedale allagato. Un disastro coinvolge una città o una piccola regione. Dopo il terremoto del 1906 bastava attraversare la baia di San Francisco per trovare riparo, poiché mezza città era rimasta in piedi. Dopo l'11 settembre, non bisognava far altro che evacuare l'area meridionale di Manhattan; il resto dell'isola e gli altri quartieri di New York erano a posto. La sera dell'11 settembre la gente di New York sedeva davanti alla tivù mangiando cibo da asporto mentre guardava New York Under Attack. All'indomani del terremoto di Loma Prieta del 1989, l'energia elettrica fu ripristinata in poco tempo, tanto che anche io, a due passi dal centro di San Francisco, potei guardare i notiziari televisivi sulla distruzione della mia città. Dopo Katrina, l'80% di New Orleans era sott'acqua, tutti i servizi essenziali erano severamente danneggiati o interrotti e venne dichiarato lo stato di calamità naturale in una zona di 233.000 chilometri quadrati della costa meridionale. Le aree più colpite del Mississippi, dell'Alabama e della Louisiana erano devastate fino a diverse miglia nell'entroterra. L'onda di tempesta causata dall'uragano aveva sospinto l'acqua dell'oceano – un muraglione di quasi dieci metri in posti come Biloxi - fino a miglia di distanza dalla costa. Posti come il Lower Ninth Ward rimasero sott'acqua per settimane, e i servizi essenziali furono ripristinati solo a distanza di mesi. Molti posti non torneranno mai com'erano prima del 29 agosto 2005; molte comunità e famiglie allargate furono definitivamente spezzate.

Ma gran parte di ciò che accadde dopo la rottura degli argini si sarebbe potuta evitare. Fu il risultato della paura. Quando Tierney parlava del panico dell'élite – "paura del disordine sociale; paura dei poveri, delle minoranze e degli immigrati; l'ossessione dello sciacallaggio e dei reati contro la proprietà; la disponibilità a ricorrere alla forza letale; e le azioni decise sulla base di voci infondate" – stava parlando poco dopo Katrina, forse il peggior caso di panico dell'élite nella storia degli Stati Uniti. New Orleans era da tempo una città ad alto tasso di criminalità, ma il mito della città popolata da mostri che i mezzi d'informazione e le autorità inventarono all'indomani di Katrina non è mai esistito, tranne che nella loro immaginazione. Quella convinzione devastò le vite di decine di migliaia di persone, le più vulnerabili.

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Sciacallaggio è un termine incendiario e impreciso che varrebbe forse la pena di eliminare dalla nostra lingua. Associa infatti due azioni molto diverse: una potremmo chiamarla furto; l'altra requisizione o esproprio, ossia la raccolta di beni necessari in un'emergenza: pensate ai volontari dell'Esercito della salvezza e ai professionisti benestanti che irrompevano nelle farmacie di San Francisco durante il terremoto del 1906 per prendere i medicinali necessari per i feriti. Un esproprio di questo tipo è una risposta del tutto appropriata a circostanze straordinarie, una scelta di sopravvivenza e aiuto che prevale sulle regole della vita di tutti i giorni. Non c'era quasi nessun negozio aperto nei giorni successivi al passaggio di Katrina, e il denaro non contava più nulla in molti posti; l'unico modo per ottenere beni essenziali era prenderseli.

Peter Berkowitz, un avvocato che stava portando il figlio a iscriversi alla Loyola University, fu vittima di Katrina insieme a migliaia di altri turisti e visitatori della città. Divenne parte di un vasto gruppo di non residenti che si accamparono nei pressi del Riverwalk Mall, un centro commerciale vicino a quel Convention Center che pure diventò prima un enorme rifugio d'emergenza e poi una fonte inesauribile di voci infondate e intrise di paura. In una lettera indirizzata alla madre, che ebbe ampia diffusione sui media, Berkowitz affermò di aver visto poliziotti carichi di borse entrare nel centro commerciale: "Anche noi ci sentimmo autorizzati a entrare. Portammo via da mangiare e da bere, curiosammo in giro per i negozi. Altri turisti si unirono a noi. Prendemmo sedie e tavoli. La polizia aveva 'aperto' Footlocker e altri negozi, così c'erano scarpe e vestiti a disposizione per tutti. Mi aggirai in cerca di biancheria per il letto e di tutto l'occorrente per sistemare al meglio l'accampamento. Ci andavamo più volte al giorno, sistematicamente, portando via cibo e provviste.

Quel gruppo, come altre decine di migliaia di persone, non aveva alcuna idea di quando sarebbero arrivati gli eventuali soccorsi, così rimase intrappolato in una città devastata e abbandonata. I media potevano entrare e uscire liberamente da New Orleans, ma l'evacuazione promessa procedeva inevitabilmente a rilento, e molti erano convinti di essere stati abbandonati a morire o a lottare per sopravvivere sotto nuove regole. Alcuni hanno apparentemente portato via beni non essenziali per la rabbia nei confronti della situazione che stavano vivendo; altri per puro e semplice opportunismo. La maggioranza non aveva tempo per pensare ad altro che sopravvivere e aiutare i più vulnerabili. E per sopravvivere, era necessario ricorrere all'esproprio. Quando dall'emergenza dei primi istanti dell'uragano si passò alla lunga settimana durante la quale la gente rimase intrappolata dentro New Orleans, generi alimentari, acqua, pannolini, medicine e altro ancora cominciarono a scarseggiare e la gente fece scorta svuotando i negozi. I media di sinistra, le persone che si scambiavano immagini via e-mail e anche Soledad O'Brien della Cnn evidenziarono che le fotografie apparse sui giornali o in tivù di afroamericani che portavano via dai negozi generi di prima necessità erano intitolate "sciacallaggio", mentre quelle che ritraevano bianchi nell'atto di compiere le stesse azioni erano presentate come "fare scorte". Il furto di beni non essenziali è raro nella storia dei disastri americana, raro a tal punto che molti studiosi della materia lo considerano uno dei "miti" delle catastrofi. È fuor di dubbio che episodi di questo genere si siano verificati durante Katrina. Ma la prima cosa che va detta in merito a questo tipo di furti è: che importanza ha se qualcuno preleva generi elettronici senza pagare quando ci sono cadaveri di bambini che galleggiano nell'acqua lurida e nonne che muoiono di caldo e disidratazione?

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Gli opinionisti cominciarono ad ammantare di filosofia i loro commenti. Nella lontana Gran Bretagna, l'editorialista politico Timothy Garton Ash si diceva convinto che tutto quel che stava avvenendo era la riprova della validità delle teorie di Hobbes: "La grande lezione di Katrina è che la crosta di civiltà su cui poggiamo i piedi è sempre più sottile. Basta un sussulto per farci precipitare, razzolando e scavando come cani rabbiosi per sopravvivere. Eliminate i beni essenziali della vita organizzata e civile - cibo, alloggio, acqua potabile, minime condizioni di sicurezza personale – e in poche ore si ritorna a uno stato di natura hobbesiano, una guerra di tutti contro tutti. Alcuni di noi, alcune volte, danno prova di eroica solidarietà; la maggior parte, il più delle volte, ingaggia una lotta spietata per la sopravvivenza individuale e genetica. Solo pochi diventano angeli momentanei, la gran parte torna alla condizione di scimmie". Garton Ash si era spinto addirittura a riproporre il vecchio cliché vittoriano della civiltà come strato sottile. Era come se si fosse spezzato un argine e un'immensa ondata di stereotipi letali si stesse abbattendo sulla popolazione già martoriata di New Orleans.

Il 3 settembre, l'editorialista del New York Times Maureen Dowd sintetizzò il punto di vista più comune quando scrisse che New Orleans era "un covo di serpenti dove imperversavano anarchia, morte, saccheggi, stupri, banditi, innocenti in sofferenza, infrastrutture a pezzi, forze di polizie insufficienti, pianificazione governativa criminalmente negligente". A quel punto, stando alle voci, dovevano esserci centinaia di cadaveri di vittime di omicidio ammassati nel Superdome, i racconti di stupri ai danni di minori dilagavano incontrollati e bande armate "razziavano" per le strade della città. C'erano anche voci di cannibalismo. La gente che viveva in quella situazione credeva a molti di quegli orrori, il che amplificava le paure e lo stato di confusione mentale. Anche chi stava lontano ci credeva, e le smentite furono troppo tardive e troppo smorzate.

Al contrario, la diffamazione ai danni di un'intera popolazione non si cancellò all'istante. Molti di coloro che prestarono fede ai titoli sensazionalistici di prima pagina e ai servizi televisivi in primo piano che raccontavano storie di barbarie non si accorsero mai delle smentite. Di recente ho avuto modo di incontrare un accademico inglese che ancora credeva alla versione di Garton Ash e a quella di Maureen Dowd, e giusto pochi giorni fa ho saputo di un esimio professore universitario che dava ancora credito alle storie di atrocità sul Convention Center che aveva sentito raccontare da un poliziotto di New Orleans che aveva abbandonato l'incarico. Un poliziotto che al contrario non l'aveva fatto, il trentenne Dumas Carter, ricordò in seguito che durante quella terrificante settimana il suo superiore era nel panico a causa dell'albergo in cui erano alloggiati i suoi sottoposti: "Il capitano ci diceva: 'ok, dovete andarvene tutti da quell'albergo. Stanno per mettere tutto sottosopra e daranno alle fiamme quel dannato albergo. Stanno per cominciare un gran casino: ammazzeranno un bel po' di gente al Convention Center Boulevard, sarà un massacro'. A quel punto eravamo lì da quattro giorni: cercammo di spiegare al capitano che quella gente era talmente esausta, affamata e assetata che quand'anche avesse voluto ribellarsi non sarebbe riuscita a rovesciare neppure una sedia a sdraio. Non voglio parlar male del mio capitano: stava prendendo decisioni giuste ma basate su informazioni errate".

In una circostanza, Carter fu bersaglio di colpi d'arma da fuoco da uno o più uomini e si dileguò tra la folla assiepata all'interno e nelle immediate adiacenze del Convention Center, che stimò in circa 20 mila persone. Ma i pistoleri erano solo una modestissima percentuale della popolazione del posto, che era per lo più pacifica, esausta e altruistica: "Poi arrivarono gli elicotteri dell'esercito. Volavano sopra la folla, poi si allontanavano di sei o sette isolati e scaricavano cibo e acqua da circa 10-15 metri, un'altezza sufficiente per far scoppiare le scatole di viveri e le bottiglie d'acqua sull'asfalto. Un gruppo di persone, i Good Samaritans (Buoni samaritani), presero i carrelli della spesa dal Convention Center e portarono acqua e cibo. E la gente si radunava come una comunità e distribuiva tutto senza rivolte, risse, niente di tutto questo. E poi questa gente mise insieme uno scatolone di cibo e acqua e ce lo portò. Non l'accettammo. Dicemmo loro: non preoccupatevi di noi, datelo ai bambini e ai vecchi. Ma quella gente cercava proprio noi! Ed erano abbandonati a se stessi senza un goccio d'acqua. Sopravvissero, si fecero forza, cantarono canzoni tutta la notte. Vi rendete conto? Venivano da noi chiedendoci: 'avete l'aria stanca, vi sentite bene?'. È quella la gente che ho giurato di proteggere". E con questo tutti i discorsi su Hobbes possono considerarsi chiusi.

Denise Moore cercò rifugio nel solido edificio multipiano del Memorial Hospital, dove lavorava sua madre, ma rimase talmente sconcertata quando lei e la sua famiglia vennero sloggiati dalla stanza che era stata loro assegnata per far posto a due infermiere bianche, che decise di tornarsene a casa. La sua casa nel frattempo era crollata, così finì al Convention Center. "Eravamo abbandonati a noi stessi. Senza aiuto, senza cibo, senza acqua. Senza le più elementari condizioni igieniche, come se fossimo 'animali', come se fosse perfettamente naturale vivere in quella specie di fogna mostruosa come dei topi. Perché lì c'erano solo e soltanto neri. E poi cominciammo a pensare: 'Ci hanno abbandonati qui a morire, ci uccideranno'. Avevo una visione ricorrente: aprivano una chiusa e un muro d'acqua ci travolgeva, mia nipote e il suo bambino gridavano sprofondando, sempre più lontani da me. E poi il mattino dopo venni a sapere da qualcuno che avrebbero davvero aperto quella chiusa, per cui quando cominciarono a diffondersi le voci che la Guardia nazionale ci avrebbe ucciso, quasi quasi un po' ci credevo. La polizia continuava a passarci accanto ignorandoci come se fossimo invisibili. La Guardia nazionale continuava a puntarci contro le armi... era come se ci volessero provocare, se volessero provocare gente che si vedeva sfilare sotto il naso un camion pieno d'acqua dopo che aveva passato un giorno e una notte a chiedere dell'acqua. E poi non bisogna dimenticare che ci tenevano sempre in fila ad aspettare autobus che non si presentavano mai. Non ho assistito a nessuno stupro, mentre ho visto gente morire. Ho visto un uomo morire, e ho visto morire una ragazza col suo bambino. Ma non ho visto nessun tipo di violenzà".

Le voci erano corrette su un punto: delle bande c'erano, se bande è il termine giusto per descrivere uomini del centro storico della città che crescono insieme per la strada. Denise Moore disse che "si riunivano, verificavano chi di loro possedeva delle armi e decidevano di assicurarsi che nessuna donna fosse oggetto di violenze, perché avevamo sentito parlare di donne stuprate nel Superdome, e che nessuno facesse del male ai bambini. E nessuno di loro faceva del male agli anziani. Erano loro che portavano succhi di frutta ai bambini. Erano loro che portavano vestiti asciutti alla gente che aveva camminato dentro l'acqua. Erano loro che sventagliavano gli anziani, perché era il malessere degli anziani a commuovere quei ragazzi, i ragazzi delle bande. Quello che mi faceva stare più male era vedere quegli anziani inchiodati sulle loro carrozzelle senza poter muovere un passo. Cominciarono a svuotare i negozi tra i viali St. Charles e Napoleon. C'era un emporio Rite-Aid, e uno è portato a pensare che si rubasse qualsiasi cosa, per puro capriccio, perché a quanto dicono in giro New Orleans è diventata ormai una 'città libera', no? E invece prendevano succhi di frutta per i bambini, acqua e birra per gli anziani, cibo, impermeabili, in modo da essere riconoscibili tra la folla. Mi sembravano in gamba, ben organizzati". Denise li paragona a Robin Hood. "Eravamo intrappolati come animali, ma ho assistito a episodi di grande umanità nei posti più inverosimili."

Pur essendo fuor di dubbio che non tutti gli uomini armati erano così altruistici come quelli di cui ci parla Denise Moore, dentro al Convention Center e al Superdome c'era più mutuo soccorso e molto meno darwinismo sociale di quel che i media riferirono e le autorità immaginavano.

L'agenzia di stampa Newhouse News Service scrisse il 26 settembre 2005 che un medico in servizio alla Fema – l'agenzia che non fu capace di prestare i dovuti soccorsi e tenne lontano dalla città una gran quantità di rifornimenti e soccorritori – inviò un autoarticolato frigorifero a nove assi e tre dottori per occuparsi dei cadaveri. Secondo il medico della Fema "erano stati documentati 200 cadaveri nel Superdome". Il conteggio reale fu di soli sei corpi, inclusi quattro decessi per cause naturali e un suicidio. Il dispaccio di Newhouse del 26 settembre 2005 proseguiva concludendo: "La stragrande maggioranza delle presunte atrocità perpetrate dagli evacuati - omicidi di massa, stupri e aggressioni – si è rivelata falsa, o quantomeno non corroborata da alcuna prova, secondo quanto riferito da esponenti chiave dell'apparato militare, poliziesco, medico e civile in grado di conoscere i fatti".


Carichi e pronti all'uso

La guerra in Iraq fece sentire i suoi effetti nella tragedia di Katrina in diversi modi. La presenza dei soldati del governatore Blanco freschi reduci dai campi di battaglia iracheni, armati di M16 carichi e pronti all'uso, implicava che anche New Orleans era zona di guerra e che il compito della Guardia nazionale era quello di riprendere il controllo della città. L' Army Times, l'organo d'informazione dell'esercito, prese alla lettera quella missione in un articolo del 2 settembre intitolato "Avvio delle operazioni di combattimento a New Orleans" che iniziava così: "Sono in corso le operazioni di combattimento per riprendere il controllo di questa città dopo il passaggio dell'uragano Katrina". In altre parole, i cittadini vittime dell'uragano erano il nemico e la città doveva essere riconquistata strappandola alla popolazione. New Orleans non doveva essere soccorsa, ma conquistata. Gli uomini della Blackwater, la compagnia di sicurezza privata che divenne tristemente celebre per i massacri compiuti in Iraq, furono inviati nella zona. Jeremy Scahill scrisse sulla rivista The Nation che i quattro membri della Blackwater con cui ebbe modo di parlare "definirono il loro lavoro a New Orleans: 'Mettere in sicurezza i quartieri abitati' e 'scontrarsi con i criminali'". Riferì inoltre che "portavano tutti armi d'assalto automatiche e pistole fissate con fibbie alle gambe. I loro giubbotti antiproiettile erano pieni di tasche portamunizioni. Alla domanda sotto quale autorità operassero, uno di loro rispose: 'Siamo sotto contratto con il Dipartimento della sicurezza interna'. Poi, indicando uno dei suoi colleghi, disse: 'Il governatore dello stato della Louisiana gli ha anche dato poteri di vice. Possiamo fare arresti e usare la forza letale, se lo giudichiamo necessario'. L'uomo poi esibì il distintivo d'oro delle forze dell'ordine della Louisiana che portava al collo". Alla fine arrivò l'esercito degli Stati Uniti, e le unità della Guardia nazionale addette ad attività non militari, su richiesta di Nagin, rimasero a pattugliare la città anche nel 2007, visto che il tasso di criminalità era ancora elevato e le forze di polizia locali erano ancora nel caos. L'idea che la povera popolazione nera della città avesse l'intenzione di attaccare, o che stesse attaccando, o che fosse sprofondata in qualche genere di vortice impetuoso di animalità, plasmò le risposte del governo e il modo in cui i media raccontarono la tragedia. E trasformò i cittadini in ronde armate. La reale violenza di Katrina merita comunque un capitolo a se stante.

Per molte delle decine di migliaia di persone che rimasero intrappolate a New Orleans per gran parte della settimana, il trauma non fu meramente quello causato dal terribile uragano e dall'inondazione della città, dalle acque in cui galleggiavano i corpi e nuotavano serpenti velenosi, dal caldo opprimente che riempiva di vesciche la pelle e fece molte vittime, dai giorni apocalittici in cui la gente partoriva e moriva su sovrappassi stradali circondata da acque fetide, in cui molti disperavano che qualcuno li avrebbe mai portati via da una città ormai ridotta a un ammasso di macerie umide e melmose, in cui la gente cercava di allontanare da se i bambini in modo che venissero evacuati per primi. Il trauma è stato anche quello di essere abbandonati dai propri simili e dal proprio governo. E oltre a tutto questo, il trauma di essere trattati come animali e nemici nel momento di maggior vulnerabilità.

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