Copertina
Autore Dag Solstad
Titolo Timidezza e dignità
EdizioneIperborea, Milano, 2010, N. 186 , pag. 180, cop.fle., dim. 10x20x1,5 cm , Isbn 978-88-7091-186-2
OriginaleGenanse og verdighet
EdizioneOktober, Oslo, 1994
PrefazioneMassimo Ciaravolo
TraduttoreMassimo Ciaravolo
LettoreDavide Allodi, 2011
Classe narrativa norvegese
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Pagina 9

In effetti era un professore sulla cinquantina leggermente alcolizzato, con una moglie che era lievitata un po' troppo e con cui faceva colazione ogni mattina. Anche la mattina di quel giorno d'autunno, un lunedì, di ottobre, che, mentre appunto sedeva al tavolo della colazione con un lieve mal di testa, ancora non sapeva che fosse destinato a diventare il giorno più decisivo della sua vita. Come ogni mattina, si era accuratamente messo una camicia bianca immacolata, che doveva mitigare quel senso di disagio che non riusciva a non provare per essere costretto a vivere in questi tempi e in queste circostanze. Finì la colazione in silenzio, guardò fuori dalla finestra verso la Jacob Aalls gate, come aveva fatto un infinito numero di volte nel corso degli anni. Si trovava a Oslo, la capitale della Norvegia, dove viveva e lavorava. Era un giorno grigio e pesante, il cielo era plumbeo e attraversato da veli sfilacciati di nuvole nere. Non mi stupirebbe se poi piovesse, pensò, e prese il suo ombrello pieghevole. Lo infilò nella borsa con le pastiglie per il mal di testa e qualche libro. Salutò la moglie in un modo eccessivamente cordiale e in un tono che sembrava sincero, in netto contrasto con la sua espressione irritabile e quella decisamente tirata di lei. Ma era così ogni mattina; con la massima fatica si ricomponeva in quel cordiale «buona giornata», come un gesto nei confronti della donna con cui era vissuto a così stretto contatto per tanti anni e verso cui doveva quindi sentire una profonda comunione; e nonostante ormai, tutto sommato, non riuscisse a provare che residui di quella comunione, gli era indispensabile dimostrare ogni mattina con quell'allegro e spontaneo «buona giornata» che nel fondo del suo animo pensava che nulla fosse cambiato tra loro; e per quanto entrambi sapessero che non corrispondeva affatto alla realtà, lui doveva costringersi, per amor proprio, a elevarsi alle altezze dove quel gesto era possibile, se non altro perché così riceveva in cambio un saluto nello stesso tono spontaneo e sincero che aveva, sulla sua inquietudine, un effetto calmante cui non poteva rinunciare. Andò a piedi fino a scuola, l'Istituto Superiore di Fagerborg, a soli sette, otto minuti da casa. Aveva la testa pesante e si sentiva irritabile per aver bevuto birra e acquavite la sera prima; il giusto di birra e un po' troppa acquavite, pensò. Quel po' troppo che ora gli stringeva la fronte come una catena. Raggiunta la scuola, entrò direttamente nella sala insegnanti, posò la borsa, tirò fuori i libri, prese una pastiglia per il mal di testa, salutò brevemente ma con naturalezza i colleghi che avevano già fatto un'ora di lezione, e si avviò in classe.

Entrato nell'aula, chiuse la porta dietro di sé e andò a sedersi in cattedra, sulla predella davanti alla lavagna che occupava quasi tutta la parete lunga. Lavagna e gesso. Spugna. Venticinque anni di servizio nella scuola. Al suo ingresso gli allievi presero rapidamente posto ai loro banchi. Davanti a lui ventinove diciottenni lo fissarono rispondendo al suo saluto. Si tolsero dalle orecchie gli auricolari e li infilarono in tasca. Lui li pregò di tirare fuori l'edizione scolastica de L'anitra selvatica. Lo colpì ancora una volta l'ostilità che mostravano nei suoi confronti. Facessero pure, lui aveva un compito da svolgere e l'avrebbe svolto fino in fondo. Era da loro come gruppo che percepiva quella massiccia avversione che emanava dai loro corpi. Presi individualmente potevano anche risultare simpatici, ma nell'insieme, disposti come adesso nei loro banchi, costituivano un'ostilità strutturale, rivolta contro di lui e contro tutto ciò che lui rappresentava. Nonostante obbedissero a quel che chiedeva. Tirarono fuori senza protestare l'edizione scolastica de L'anitra selvatica e la posarono sui banchi davanti a sé. Anche lui aveva una copia analoga davanti a sé. L'anitra selvatica di Henrik Ibsen. Questo singolare dramma scritto da Ibsen a cinquantasei anni, nel 1884. Era più di un mese che la classe lo stava studiando e non erano arrivati che a metà del quarto atto – questo si chiama andare a fondo alle cose, pensava. Un soporifero lunedì mattina. Ora di norvegese, addirittura doppia, in una delle classi di maturandi nella Scuola Superiore di Fagerborg. Quel giorno grigio e pesante fuori dalla finestra. Seduto in cattedra, come gli piaceva dire. Gli allievi con nasi e occhi sul libro. Qualcuno era più sdraiato sul banco che non seduto; la cosa lo irritava, ma non doveva farci caso. Parlava, spiegava. A metà del quarto atto. Dove la signora Sørby compare a casa degli Ekdal per annunciare che si sposerà con il grossista Werle, e dove è presente il dottor Relling, inquilino degli Ekdal. E lesse (lui personalmente, senza chiederlo a uno degli allievi; a volte capitava che lo chiedesse per salvare le apparenze, ma preferiva farlo lui): "RELLING (con un leggero tremito alla voce): Ma questo è proprio vero? SIGNORA SØRBY: Sì, caro Relling, è proprio vero." Leggendo, sentì un'insopportabile tensione, perché a un tratto gli sembrò di essere sulle tracce di qualcosa che fino a quel momento non aveva mai notato, commentando L'anitra selvatica.

Da venticinque anni analizzava quel dramma di Henrik Ibsen insieme ai diciottenni dell'ultimo anno di liceo (o scuola superiore), e il dottor Relling gli aveva sempre dato problemi. Non aveva mai del tutto capito che cosa ci stesse a fare nel dramma. Aveva riconosciuto che la sua funzione era di esporre delle verità elementari, nude e crude, sugli altri personaggi, anzi, fondamentalmente sull'intero dramma. Lo aveva visto come una specie di portavoce di Ibsen, senza capire perché fosse necessario. Anzi, aveva pensato che la figura del dottor Relling indebolisse il dramma. Perché mai Ibsen aveva bisogno di un «portavoce»? Il dramma non parlava da sé? aveva pensato. Ma qui, qui c'era qualcosa. Ibsen fa intervenire il suo personaggio secondario, il dottor Relling, e gli fa tremare leggermente la voce (tra parentesi) mentre chiede alla signora Sørby se è proprio vero che sposerà il facoltoso grossista Werle. Per un attimo Ibsen trascina Relling dentro il dramma, che altrimenti non fa che commentare con i suoi sarcasmi. Ora è lì, prigioniero del suo amaro destino di eterno corteggiatore fallito della signora Sørby, durante entrambi i suoi matrimoni, prima con il vecchio dottor Sørby e ora con il grossista Werle. E per un attimo è solo il suo destino, e nient'altro, a essere congelato sulla scena. L'attimo del personaggio secondario. Sia prima che dopo Relling è sempre lo stesso, l'uomo che pronuncia le battute a effetto, una delle quali è rimasta tra le immortali della letteratura norvegese: "Togliete all'uomo comune la sua menzogna vitale, e gli toglierete anche la felicità."

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Questo era il suo modo di insegnare la letteratura della sua lingua madre. Così andava avanti anno dopo anno. Per gli allievi la solita solfa, che in qualcuno poteva forse suscitare qualche curiosità, se non altro di capire perché un adulto con un alto livello di istruzione avesse come occupazione ufficiale quella di stare dietro a una cattedra per chiedere a dei giovani di leggere tutti quei libri, di cui loro né si interessavano particolarmente né capivano granché, almeno non nel modo in cui quell'educatore ufficialmente incaricato glieli proponeva, rivolgendosi a tutti, senza tener conto se quella curiosità, che poteva costituire la prima leva, li sfiorasse o meno, in modo che quei diciannovenni, che in quanto tali avevano ricevuto la più alta istruzione obbligatoria offerta dalla società, più avanti nella vita, nella loro conversazione quotidiana – che nel complesso, nelle sue varie sfumature, sottotoni e sovratoni, forma l'autocoscienza della società – andassero in giro a propinare i loro sentimentalismi privati e le loro insulsaggini su argomenti degni di miglior causa, testimoniando così che anche tra coloro che avevano ricevuto la più alta istruzione del paese c'erano elementi francamente incivili, che non avevano nemmeno abbastanza educazione da nasconderlo, per non dire vergognarsene, aveva pensato, ma era un pensiero di prima che la situazione di oggi gli fosse apparsa così evidente. Aveva preso sul serio il suo insegnamento, l'aspetto di routine gli era spesso pesato, ma non tanto da fargli sembrare ormai privo di senso insegnare la sua lingua madre, e soprattutto la sua letteratura, le sue belle lettere, come le definiva scherzosamente parlando con i suoi colleghi, e questo non tanto per le poche ore in cui gli sembrava di riuscire a mettersi sulle tracce di qualcosa di nuovo nell'opera che in quel momento stava spiegando ai suoi allievi, perché quelle erano le eccezioni, per quanto stimolanti, anzi gioiose, addirittura splendide, voleva dire, e tuttavia non erano quelle che rendevano la sua vita significativa. E tanto più gioiosa quando capitavano ore del genere. Come in quel momento. In quella doppia ora di un giorno carico di pioggia all'inizio di ottobre, nella classe dei maturandi. In quel momento era sulle tracce di qualcosa. Qualcosa con cui Ibsen stava realmente lottando mentre scriveva L'anitra selvatica, anzi, qualcosa che cercava. Partendo dal presupposto che il dottor Relling è l'antagonista di Ibsen e che il dottor Relling ha ragione, o «ragioni». No, ragione. Pregò gli allievi di sfogliare ancora avanti verso la fine del dramma. Lo fecero, automaticamente, controvoglia, senza proteste. Pregò uno degli allievi di leggere dal punto in cui sta scritto «RELLING (va da Gregers e dice): Nessuno me la darà a bere...». L'allievo, un ragazzo lungo e dinoccolato vestito all'ultima moda, incapsulato nella noia più profonda, lesse in modo atono e con tanta indifferenza da non riuscire nemmeno a contraffare la propria voce per infondere un po' di «vita» o di «atmosfera», un po' di «risate e divertimento» tra i compagni, anzi, nemmeno per un attimo cedette alla tentazione di rispondere alla noia con qualche trovata bambinesca, cosa che sarebbe stata naturale e che in passato succedeva spesso, ricordava. No; preferì, come dimostrazione eclatante dell'atteggiamento della sua classe, soffrire in silenzio, nella confortante certezza, anzi fede nel futuro, che fosse solo questione di tempo perché fenomeni estinti ed obsoleti smettessero di apparire come parte della cultura generale con finalità educative, almeno in questo emisfero del globo terrestre. "RELLING (va da Gregers e dice): Nessuno me la darà a bere, il colpo non è partito per caso. GREGERS (che è rimasto in piedi terrorizzato, con tremiti spasmodici): Nessuno potrà sapere come questo fatto tremendo sia avvenuto. RELLING: Il colpo ha bruciato la camicia. Dev'essersi puntata la pistola al petto, e poi ha sparato. GREGERS: Hedvig non è morta invano. Ha visto come il dolore è riuscito a nobilitarlo? RELLING: Sono tutti nobili, quando soffrono ai piedi di un cadavere. Ma quanto pensa che la sua nobiltà durerà? GREGERS: Durerà e crescerà per tutta la vita! RELLING: Entro nove mesi la piccola Hedvig non sarà altro che un bel soggetto da declamazione. GREGERS: Lei osa parlare così di Hjalmar Ekdal! RELLING: Ne riparleremo quando la prima erba sarà cresciuta sulla sua tomba. Allora lo sentirà vomitare versi sul 'cuore paterno immaturamente privato della sua bambina'; lo vedrà rotolarsi nella commozione, autoammirazione e autocommiserazione. Vedrà! GREGERS: Se lei ha ragione e io torto, allora la vita non è degna di essere vissuta." Grazie, disse, e l'allievo interruppe di colpo la sua monotona lettura. Ecco qui, esclamò. Quello che cercavamo. Vedete? Il dottor Relling ha ragione, vedete? E certo che ha ragione, tutti noi ci saremmo potuti pronunciare come lui, ha colto nel segno. E tuttavia il dramma è quello di Gregers Werle. È quello che dice lui che fa strozzare il dramma, disse per un qualche motivo, forse intendeva dire scoppiare o precipitare. Adesso era un po' sorpreso di questo «strozzare» che gli era uscito di bocca. Già, «strozzare», ripeté, perché che cos'è che dice Gregers Werle? Be', dice: Se il dottor Relling ha ragione non si deve sprecare tempo con questa storia; e infatti il dottor Relling ha ragione, e dunque? Be', quello che dice, accidenti, proruppe. Quello che dice Gregers Werle è il dramma! Che cosa non ha fatto Gregers Werle? Ha ucciso Hedvig, l'ha adescata, sedotta con le parole fino a farle compiere quel sacrificio. Hedvig, questa bambina semicieca, adolescente, che con la pistola in mano in un assurdo solaio buio, per compiere un sacrificio, capisce tutt'a un tratto che non è l'anitra selvatica ma se stessa che deve donare a suo padre, su cui ha anche dei dubbi, non è nemmeno sicura che si tratti di suo padre, ma lei è comunque sua figlia fino alla morte, su questo non ha dubbi, dunque: perché l'anitra selvatica quando ha se stessa, se stessa fino alla morte, da poter donare? E quindi lo fa! Il colpo è esploso. Ora lui dovrà pur capire che è suo padre e che lei gli vuole bene. Quale crudeltà sta nel fondo di questo dramma, proruppe. Il fratello maggiore spinge la sorellina alla morte, e dopo ha bisogno di vedere un autentico dolore nel presunto padre, perché altrimenti la vita non vale la pena di essere vissuta. Gregers Werle è scosso, sia dalla propria azione sia dalla possibilità che il dottor Relling abbia ragione. E il dottor Relling ha ragione, ma sono i tremiti di Gregers Werle a essere... a essere... Cercava disperatamente le parole. Ora era sulle tracce, ma non trovava le parole per dirlo. Le aveva sulla punta della lingua, ma non le trovava. Era disperato, non perché, come insegnante, non riuscisse a fornire un'interpretazione de L'anitra selvatica brillante come quella che vedeva con il suo occhio mentale. Pensava che la cosa fosse ampiamente compensata dal fatto che ora gli allievi avevano avuto la rara occasione, anzi, non avrebbe esitato a dire la grande fortuna, di osservare da vicino un adulto lottare con le questioni assolutamente fondamentali del nostro patrimonio culturale, in un modo partecipe ma imperfetto che lo fa farfugliare, sudare, inseguire piste di pensiero fin dove, in quel suo modo incompiuto, è in grado di arrivare; e se questo non era sufficiente a far sì che le narici di almeno qualcuno dei suoi allievi cominciassero ora ad avere sentore di qualcuno dei presupposti sui quali anche le loro vite si sarebbero fondate, anche se non avrebbero mai più riletto questo dramma di Ibsen, avrebbero comunque capito le ragioni per cui questo dramma era presente qui e ora. No, la sua disperazione era dovuta esclusivamente al fatto che non trovava le parole che cercava, che pensava fossero così a portata di mano, ma nel momento in cui doveva afferrarle e pronunciarle non c'erano, se non in un inutile, anzi misero surrogato, che poteva essere in qualche modo simile, ma non corrispondeva affatto a quello che aveva cercato e che pensava anche di avere trovato. Terribile, proruppe, dobbiamo riprendere da capo.

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[...] Ebbero una lunga e istruttiva conversazione con il conducente, esperto di formazioni montuose e tipologie di roccia e depositi vulcanici in quella zona entro un raggio di cento chilometri, prendendo quel punto come il centro del cerchio. Ma quando il tram dovette ripartire, con lo stesso conducente alla guida, dissero addio al loro caro amico e si avventurarono per conto loro tra le vie di ville di quel quartiere. E finirono per non trovare di meglio che perdersi! Le ville erano tutte uguali, e le vie più o meno larghe uguali, e la neve spalata ai lati in mucchi della stessa forma e della stessa altezza lungo tutte le strade, e non essendoci in giro anima viva, non riuscivano a trovare né l'entrata né l'uscita del labirinto in cui si erano persi. Camminarono così per ore, cercando di ritrovare la via di uscita, senza per altro riuscirci, almeno non prima del pomeriggio, quando gli uomini cominciarono a tornare a casa dal lavoro in macchina; allora riuscirono a fermare uno di quegli uomini che tornavano a casa, nel momento in cui si preparava a correre dalla sua automobile in garage alla sua abitazione ben riparata in fondo a una via perfettamente spalata venti metri più in là, e ottennero da quell'uomo un po' diffidente la spiegazione di come trovare la strada per arrivare alla fermata del tram. Ed era anche ora, perché mancano solo sessanta minuti alla discesa libera di St. Anton che trasmettono in cronaca registrata, disse Johan Corneliussen. Ma ce la fecero. Entrarono di corsa al Krolle, che a quel tempo era il ristorante preferito di Johan Corneliussen, cinque minuti prima dell'inizio della discesa. Quel ristorante al seminterrato aveva un televisore. Troneggiava in cima a un armadietto appeso in alto sulla parete. Si sedettero a uno dei tavoli da due, Johan in modo da poter guardare dritto la tv ed Elias di fronte, in modo che doveva girarsi per guardare la stessa tv. La discesa libera di St. Anton. Uno dopo l'altro apparvero sullo schermo, con il casco e l'equipaggiamento da sci, prima di buttarsi giù dalle discese delle (o nelle) Alpi. Heini Messner, Austria. Jean-Claude Killy, Francia. Franz Vogler, Germania Ovest. Leo Lacroix, Francia. Martin Heidegger, Germania. Edmund Husserl, Austria. Elias Canetti, Romania. Allen Ginsberg, Stati Uniti. William Burroughs, Stati Uniti. Antonio Gramsci, Italia. Jean-Paul Sartre, Francia. Ludwig Wittgenstein, Austria. Johan Corneliussen conosceva punti di forza e debolezze di tutti gli sciatori, e segnalava continuamente a Elias che adesso, adesso doveva stare attento, perché li, su quel muro, Jean-Paul Sartre avrebbe avuto dei problemi, mentre guarda adesso l'agilità di Ludwig Wittgenstein in quella lunga parte piatta, e guarda come il rumeno Canetti risparmia decimi di secondo stringendo quella curva, bravo quasi come il francese Jean-Claude Killy. Dopo la libera, la stanchezza piombò su di loro, e cominciarono a gesticolare sui loro vuoti bicchieri di birra, mentre la fame rodeva. Non avevano soldi. Ma Johan Corneliussen conosceva il rimedio. Fece cenno alla cameriera, spiegò la spiacevole situazione in cui lui, il cliente abituale, e il suo caro amico Elias Rulda si erano venuti a trovare, e subito dopo apparvero sul tavolo due birre e due piatti stracolmi di hamburger, cipolle, patate e piselli e carote, mentre veniva portata al loro tavolo un'ampolliera con diverse spezie e salse, tra cui si potevano riconoscere la salsa HP nera, la salsa ravigote gialla, il ketchup rosso e la senape. Mangiarono. Bevvero e mangiarono. E si presero un goccetto o due, dalla fiaschetta, osservando la massima discrezione. Disquisirono di film che avevano visto. Della luce bianca sovresposta sulle signore di L'anno scorso a Marienbad, e della luce bianca sovresposta sui tavolini dei caffè deserti all'alba in di Fellini. Johan Corneliussen cominciò a parlare dell'uomo di Kongsberg, che in vari modi aveva gettato lunghe ombre sulla sua giovane vita. Ci volle un po' prima che Elias capisse che stava parlando di Immanuel Kant, e che Kongsberg era ovviamente una traduzione di Königsberg. L'uomo di Kaliningrad, replicò Elias quando lo capì. Johan Corneliussen espresse il suo grande amore per le frasi semplici che non enunciavano altro di ciò che enunciavano, e in cui il primo elemento era identico all'ultimo elemento, e la rivelazione che poteva provare quando tempo e spazio coincidevano al punto da potere pronunciare, con la più grande naturalezza, e bellezza, una frase come una porta aperta è una porta aperta. Rimasero lì per diverse ore, ma poi Johan Corneliussen diventò irrequieto e disse che dovevano andare a una nuova festa. Ancora alla città dello studente di Sogn.

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Pagina 136

[...] Ogni mattina, quaranta, cinquanta schiavi dei debiti si trovavano con il loro pranzo portato da casa nella sala insegnanti della scuola superiore di Fagerborg. Si chiacchierava del più e del meno. Dell'entità del loro debito per gli studi pro tempore e pro anno, dell'entità del mutuo della casa p.t. e p.a., dell'entità del prestito per l'acquisto dell'automobile e le rate p.t. e p.a. Non tutti erano schiavi dei debiti p.t.; erano i più giovani a essere sommersi, ma quelli che non lo erano, quelli dell'età di Elias Rukla o ancora più anziani, erano ex schiavi dei debiti. Nella sala insegnanti, di fronte ai suoi colleghi, Elias Rukla era in primo luogo uno schiavo dei debiti liberato, e si esprimeva tranquillamente come tale, e anche con un certo malizioso piacere, quando doveva dire qualcosa. Così, per esempio, se sentiva un giovane collega spiegare che il tasso di interessi sul debito degli studi era sceso all'8%, poteva far presente che il tasso era altrettanto alto, o basso, ai tempi in cui lui aveva cominciato a pagare il debito dei suoi studi, nell'anno di grazia 1970; e poteva anche raccontare allo stesso giovane collega la profonda angoscia finanziaria che l'aveva attraversato la prima volta che il tasso di interessi del suo mutuo per la casa aveva superato il 10%, nel 1982. Era così nella sala insegnanti; tutti parlavano della propria vita come schiavi dei debiti presenti o passati, era l'argomento preferito della pausa pranzo; e se Elias Rukla incontrava qualcuno di loro in società, quando le mogli si erano messe in ghingheri e i mariti esibivano il loro moderno abbigliamento di informale eleganza, era pur sempre, ancora, in qualità di schiavi dei debiti. Anche lì. Sempre nella loro qualità di schiavi dei debiti, era l'aspetto più evidente, sembrava a Elias Rulda. Poteva anche capirlo, non era quello, lo stipendio di un professore non era certo alto, ma il fatto è che quei colleghi malpagati rappresentavano anche qualcos'altro, un alto livello culturale, e facevano del loro meglio per nasconderlo, per non contribuire a rivelare l'aspetto «artificioso» delle loro vite e delle loro predilezioni, quindi non solo per riguardo verso se stessi ma anche verso gli altri che erano allo stesso livello. Per questo due individui allo stesso alto livello culturale si presenteranno sempre uno all'altro come schiavi dei debiti, per gettarsi subito in una vivace conversazione a partire da quella premessa, sia nel luogo di ritrovo proprio degli schiavi dei debiti, la sala insegnanti, che quando si incontrano in società. Era come se solo partendo da se stessi in quanto schiavi dei debiti riuscissero a vedersi come esseri sociali, cioè come persone che potevano parlare insieme di qualcosa che è comune ed essenziale per tutti coloro che partecipano alla conversazione. Partendo dal proprio livello culturale si nutriva infatti un giustificato timore di fare un effetto, socialmente parlando, «strano», anzi «innaturale»; mentre come schiavo dei debiti si viveva una vita sociale quasi drammatica, su cui si potevano esprimere commenti e intrattenersi e intrattenere gli altri. È vero che, in quanto schiavo dei debiti, si era un perdente, uno che non aveva realmente successo, ma questo metteva l'individuo in relazione con la vita sociale e lo rendeva pienamente moderno. Partendo da sé in quanto schiavi dei debiti ci si poteva anche lanciare sui giornali e sui programmi televisivi e provare la gioia di commentare quello che vi si diceva, e che non era altro che l'espressione delle tendenze diffuse dai leader di opinione; e in quanto schiavi dei debiti non era così difficile condividere i valori e le preferenze, addirittura l'atteggiamento di vita che vi venivano espressi. Elias Rukla non aveva niente da dire, eppure anche lui continuava a parlare di niente. Come gli altri. Spesso e volentieri con una distanza critica e ironica da tutto, ma pur sempre di niente. Elias Rukla si ricordava che quando aveva letto L'insostenibile leggerezza dell'essere di Kundera era rimasto deluso. Non dal libro, che era eccellente, anzi un capolavoro, ma dal titolo. Il titolo era sbagliato. Il libro non trattava dell'insostenibile leggerezza dell'essere ma di altro. Perché l'insostenibile leggerezza dell'essere non è una condizione esistenziale dell'uomo ma una sua condizione sociale, per un determinato ceto del mondo occidentale nella seconda metà del ventesimo secolo. L'insostenibile leggerezza dell'essere è qualcosa che concerne le persone inclini alla riflessione e assetate di conoscenza della scuola superiore di Fagerborg nella capitale della Norvegia durante gli ultimi due decenni di questo nostro secolo. E che ti priva della capacità di dire qualcosa. Agli altri. Di parlare.

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Pagina 146

[...] Oh, quanto desiderava qualcuno con cui parlare. Anche la sera, nel soggiorno di casa a Jacob Aalls gate, con le sue birre e i suoi cicchetti di acquavite, quando pensava alle sue cose, dopo che Eva era andata a dormire. Pensava alle sue cose e leggeva molto. Storia, e romanzi. Leggeva soprattutto romanzi degli anni Venti, che per lui erano un concetto. Marcel Proust, Franz Kafka, Hermann Broch, Thomas Mann e Musil erano gli scrittori che leggeva più volentieri, ed erano per lui tutti scrittori degli anni Venti. Anche James Joyce; non gli piaceva Joyce, ma lo metteva comunque nel novero degli scrittori degli anni Venti, perché in quel modo si potevano scorgere le grandi linee del romanzo europeo del ventesimo secolo. In senso stretto pochi dei suoi scrittori degli anni Venti erano autenticamente tali, comunque non senza forti riserve. Come nel caso di Kafka. Kafka non scrisse un solo libro negli anni Venti; il grosso lo scrisse addirittura prima del 1914; chi è però più scrittore degli anni Venti di Kafka? E Thomas Mann, inizialmente uno scrittore dell'Ottocento, i cui grandi libri però, La montagna incantata e Doctor Faustus, erano romanzi degli anni Venti, sebbene Doctor Faustus fosse stato pubblicato, com'è noto, dopo la Seconda guerra mondiale. E

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