Copertina
Autore Susan Sontag
Titolo Davanti al dolore degli altri
EdizioneMondadori, Milano, 2003, Strade blu , pag. 112, dim. 150x210x15 mm , Isbn 978-88-04-51804-4
OriginaleRegarding the Pain of Others [2003]
TraduttorePaolo Dilonardo
LettoreRenato di Stefano, 2003
Classe fotografia , politica , psicologia , media , guerra-pace
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Pagina 4

Chi crede oggi che la guerra possa essere abolita? Nessuno, neppure i pacifisti. Speriamo soltanto (e finora invano) di fermare i genocidi, di consegnare alla giustizia chi commette gravi violazioni delle leggi di guerra (perché esistono leggi di guerra, a cui i combattenti dovrebbero attenersi) e di riuscire a fermare certe guerre imponendo alternative negoziali al conflitto armato. Oggi ci è forse difficile prestare fede al disperato proposito indotto dallo shock successivo alla Prima guerra mondiale, quando prese finalmente corpo la percezione della rovina che l'Europa aveva provocato a se stessa. Ma condannare la guerra in quanto tale non sembrava così futile o irrilevante all'indomani delle fantasie cartacee del Patto Kellogg-Briand del 1928, col quale quindici importanti nazioni, tra cui Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia e Giappone, rinunciavano solennemente alla guerra come strumento di politica nazionale; nel 1932 persino Freud e Einstein furono coinvolti nel dibattito con un pubblico scambio epistolare intitolato «Perché la guerra?». Le tre ghinee di Woolf, apparso dopo quasi due decenni di accorate condanne della guerra, aveva almeno l'originalità (che ne fa il meno apprezzato dei suoi libri) di concentrarsi su ciò che era ritenuto così ovvio o inappropriato da non poterne parlare, e men che meno rifletterci sopra: che la guerra è uno sport maschile, che la macchina bellica ha un genere sessuale, ed è maschile. Ciò nonostante, la temerarietà della versione woolfiana del «Perché la guerra?» non basta a rendere la ripugnanza meno convenzionale nella sua retorica, nelle sue generalizzazioni zeppe di frasi ripetute. E le fotografie delle vittime di guerra sono anch'esse una sorta di retorica. Reiterano. Semplificano. Scuotono. Creano l'illusione del consenso.

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Pagina 8

Le immagini evocate da Woolf in realtà non mostrano ciò che la guerra, la guerra in quanto tale, produce. Mostrano un modo particolare di condurre una guerra, un modo all'epoca descritto abitualmente come «barbarico», in cui il bersaglio sono i civili. Il generale Franco stava utilizzando le stesse tattiche di bombardamento, massacro, tortura, uccisione e mutilazione dei prigionieri che, da comandante, aveva perfezionato in Marocco negli anni Venti. Allora, cosa più accettabile per le autorità costituite, le sue vittime erano state i sudditi di una colonia spagnola, per giunta scuri di pelle e infedeli; ora si trattava di compatrioti. Leggere in quelle immagini, come fa Woolf, soltanto la conferma di una generica avversione per la guerra significa rinunciare a fare i conti con la Spagna in quanto paese segnato da una storia. Significa liquidare la politica.

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Pagina 15

II



Assistere da spettatori a calamità che avvengono in un altro paese è una caratteristica ed essenziale esperienza moderna, risultato complessivo delle opportunità che da oltre un secolo e mezzo ci offrono quei turisti di professione altamente specializzati noti come giornalisti. La guerra è ormai parte di ciò che vediamo e sentiamo in ogni casa. Le informazioni su quel che accade altrove, definite «notizie», mettono in risalto i conflitti e la violenza - «Il sangue in prima pagina» recita la collaudata linea guida dei tabloid e dei notiziari televisivi che danno informazioni flash ventiquattr'ore su ventiquattro - di fronte ai quali reagiamo con compassione, indignazione, curiosità o approvazione, man mano che ciascuna miseria ci si para dinanzi agli occhi.

[...]

La consapevolezza del cumulo di sofferenze prodotte da un numero selezionato di guerre lontane è in qualche modo frutto di una costruzione. E, soprattutto nella forma registrata su pellicola, balugina all'improvviso, viene condivisa da molte persone, e poi svanisce. Contrariamente a un resoconto scritto - che, a seconda della complessità delle idee, dei riferimenti e del lessico, è indirizzato a una cerchia di lettori più o meno estesa - una fotografia possiede una sola lingua ed è potenzialmente destinata a tutti.

[...]

Un evento diventa reale - agli occhi di chi è altrove e lo segue in quanto «notizia» - perché viene fotografato. Ma anche una catastrofe di cui si ha esperienza diretta finisce spesso per sembrare stranamente simile alla sua rappresentazione. L'attentato al World Trade Center dell'11 settembre 2001 è stato descritto come «irreale», «surreale», «simile a un film», in molte delle prime testimonianze fornite da chi era scappato dalle torri o aveva osservato da vicino quanto stava accadendo. (Dopo quarant'anni di film catastrofici hollywoodiani ad alto costo, l'espressione «sembrava un film» pare aver sostituito la formula con cui i sopravvissuti a una catastrofe erano soliti esprimere l'impossibilità di assimilare in tempi brevi ciò che avevano vissuto: «Sembrava un sogno».)

L'incessante susseguirsi delle immagini (televisione, streaming video, film) domina il nostro ambiente, ma quando si tratta di ricordare la fotografia è più incisiva. La memoria ricorre al fermo-immagine; la sua unità di base è l'immagine singola. In un'epoca di sovraccarico di informazioni, le fotografie forniscono un modo rapido per apprendere e una forma compatta per memorizzare. Una fotografia è simile a una citazione, a una massima o a un proverbio. Ognuno di noi ne immagazzina centinaia nella propria mente, e può ricordarle all'istante. Provate a citare la più famosa fotografia scattata durante la Guerra civile spagnola, il miliziano repubblicano «immortalato» dall'obiettivo di Robert Capa nell'attimo in cui viene colpito da un proiettile nemico, e quasi tutti coloro che sanno qualcosa di quella guerra potranno richiamare alla memoria la granulosa immagine in bianco e nero di un uomo in camicia bianca e maniche rimboccate che si rovescia all'indietro su una collinetta, il braccio destro teso dietro di sé mentre allenta la presa sul fucile nel momento in cui sta per cadere, morto, sulla propria ombra.

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Pagina 32

[...] Burrows fu il primo grande reporter a fotografare un'intera guerra a colori - un altro passo avanti in termini di verosimiglianza, vale a dire di shock. Ma nell'attuale clima politico, il più favorevole alle forze armate da decenni a questa parte, quelle immagini di sventurati soldati americani con gli occhi infossati che un tempo sembravano una critica e una minaccia al militarismo e all'imperialismo rischiano di apparire esemplari. Sottoposte a tale revisione, potrebbero mostrare un nuovo soggetto: giovani americani come tanti altri che compiono il loro spiacevole e nobilitante dovere.

Eccezion fatta per l'Europa, che ha ormai rivendicato il diritto alla non belligeranza, resta vero che la maggior parte della gente non metterà in dubbio le giustificazioni addotte dal proprio governo per intraprendere o continuare una guerra. Occorrono condizioni particolari perché una guerra divenga davvero impopolare (e la prospettiva di essere uccisi non è necessariamente una di esse). In tali circostanze, il materiale raccolto dai fotografi, che ai loro occhi potrebbe avere la forza di smascherare il conflitto, acquista davvero grande importanza. Ma se tale protesta è assente, la stessa fotografia contro la guerra può essere letta come un'immagine che mostra il pathos, o l'eroismo, l'ammirabile eroismo, di una lotta inevitabile che può concludersi soltanto con la vittoria o la sconfitta. Le intenzioni del fotografo non determinano il significato della fotografia, che avrà vita propria, sostenuta dalle fantasie e dalle convinzioni delle varie comunità che se ne serviranno.

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Pagina 41

Le immagini delle sofferenze patite in guerra sono oggi così diffuse da farci dimenticare come solo di recente esse siano diventate quello che ci si aspetta dai fotografi più noti. Storicamente, i fotografi ci hanno offerto immagini piuttosto positive del mestiere delle armi, del piacere di intraprendere una guerra o di continuare a combatterla. Se i governi avessero mano libera, la fotografia di guerra, come gran parte della poesia di guerra, batterebbe la grancassa a sostegno del sacrificio dei soldati.

In effetti, la fotografia di guerra inizia proprio con una missione, un'ignominia, di questo genere. La guerra era quella di Crimea, e Roger Fenton, invariabilmente definito il primo fotografo di guerra, ne fu il vero e proprio fotografo «ufficiale», essendo stato inviato in Crimea all'inizio del 1855 dal governo britannico su proposta del principe Albert. Preso atto della necessità di mitigare gli effetti degli allarmanti resoconti pubblicati dalla stampa sui rischi imprevisti e sui disagi che avevano dovuto affrontare i soldati britannici inviati nella regione l'anno prima, il governo aveva infatti invitato un noto fotografo professionista a fornire una diversa e più positiva versione di una guerra sempre più impopolare.

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Pagina 62

Crudeltà e sventure paragonabili a queste si sono avute in passato anche in Europa. Appena sessant'anni fa, il Vecchio Continente è stato teatro di orrori che superano per dimensioni e mostruosità qualunque cosa ci venga oggi mostrata delle aree povere del mondo. Ma l'orrore sembra essere svanito dall'Europa, svanito per così tanto tempo da far apparire inevitabile la pacificazione attuale. (Il fatto che cinquant'anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale siano ricomparsi sul suolo europeo dei campi di sterminio, si siano visti un assedio e migliaia di civili massacrati e gettati in fosse comuni, ha conferito un particolare, anacronistico interesse alla guerra in Bosnia e al programma di uccisioni di massa condotto dai serbi in Kosovo. Anche se uno dei modi più diffusi per spiegarsi i crimini di guerra commessi nell'Europa sud orientale negli anni Novanta è stato dire che i Balcani, dopotutto, non hanno mai fatto parte dell'Europa.) In genere, i corpi gravemente feriti che ci mostrano le fotografie pubblicate appartengono ad asiatici o ad africani. Si tratta di una consuetudine giornalistica che eredita la prassi secolare di mettere in mostra esseri umani esotici - vale a dire, colonizzati: dal XVI secolo fino all'inizio del XX, africani e abitanti di remoti paesi asiatici sono stati esibiti come animali di uno zoo nelle esposizioni etnologiche allestite a Londra, a Parigi e in altre capitali europee. Nella Tempesta, il primo pensiero di Trinculo quando si imbatte in Calibano è che lo si potrebbe mettere in mostra in Inghilterra: «La domenica, qualsiasi furfante pagherebbe uno scudo d'argento per vederlo... magari non danno un soldo bucato a un povero zoppo, ma ne cavano dieci per vedere un indiano morto». L'esibizione fotografica delle crudeltà inflitte a individui dalla pelle più scura in paesi esotici continua questo genere di offerta, ignorando le considerazioni che scoraggiano comportamenti simili quando le vittime della violenza sono nostre; poiché l'altro, anche quando non è un nemico, è considerato soltanto come qualcuno da vedere, e non qualcuno che (come noi) vede. Eppure, possiamo esserne certi, anche il soldato talebano ferito che implorava per la propria vita, il cui destino è stato raffigurato con tanto risalto sul «New York Times», aveva moglie, figli, genitori, sorelle e fratelli, i quali potrebbero un giorno imbattersi nelle tre fotografie a colori del marito, padre, figlio, o fratello che viene trucidato - se già non hanno avuto modo di vederle.

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Pagina 70

Le fotografie oggettivizzano: trasformano un evento o una persona in qualcosa che può essere posseduto. E benché vengano apprezzate come resoconti trasparenti della realtà, le fotografie sono il risultato di una sorta di alchimia.

Spesso qualcosa ha, o sembra avere, un aspetto «migliore» in fotografia. Anzi, una delle funzioni della fotografia è proprio quella di migliorare l'aspetto delle cose. (Di conseguenza, siamo sempre delusi da una fotografia poco lusinghiera.) Abbellire è una delle classiche operazioni compiute dalla macchina fotografica e tende a stemperare la risposta morale a ciò che viene mostrato. Imbruttire, mostrare qualcosa al peggio, è una funzione più moderna: una funzione didattica, che sollecita una risposta attiva. Perché possano denunciare e, se possibile, modificare un certo comportamento, le fotografie devono scioccare.

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Pagina 74

La familiarità di certe fotografie plasma la nostra conoscenza del presente e del passato più recente. Le fotografie tracciano percorsi di riferimento e possono servire da totem di una causa: un sentimento si cristallizza più facilmente attorno a un'immagine che a uno slogan verbale. Le fotografie contribuiscono a forgiare - e a sottoporre a revisione - il senso del passato più lontano, grazie allo shock postumo provocato dalla diffusione di immagini fino a quel momento sconosciute. Le fotografie che tutti sono in grado di riconoscere sono ormai parte costitutiva di ciò su cui una società decide, o dichiara di aver deciso, di riflettere. Tali idee vengono chiamate «memorie» ma, a lungo andare, questa è una finzione. A rigor di termini, infatti, la memoria collettiva - riconducibile alla stessa famiglia di false nozioni a cui appartiene la colpa collettiva non esiste. Esiste invece l'istruzione collettiva.

Ogni ricordo è individuale, irriproducibile, e muore insieme all'individuo. Quella che si definisce memoria collettiva non è affatto il risultato di un ricordo ma di un patto, per cui ci si accorda su ciò che è importante e su come sono andate le cose, utilizzando le fotografie per fissare gli eventi nella nostra mente. Le ideologie creano archivi di immagini probatorie e rappresentative che incapsulano idee condivise, innescano pensieri e sentimenti facilmente prevedibili. Le fotografie pronte a trasformarsi in manifesti - la nuvola a forma di fungo di un test atomico, Martin Luther King Jr. che parla davanti al monumento di Lincoln a Washington, l'astronauta che cammina sulla Luna - sono gli equivalenti visivi delle tracce sonore. Servono a commemorare Importanti Eventi Storici con l'immediatezza dei francobolli; e infatti, le immagini trionfalistiche (a eccezione dell'immagine della bomba atomica) diventano francobolli. Fortunatamente, non c'è un'immagine simbolo dei campi di sterminio nazisti.

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Pagina 88

Non è detto che lasciarsi commuovere sia meglio. Il sentimentalismo, come è tristemente noto, è del tutto compatibile con la propensione alla brutalità o ad atti ben peggiori. (Pensate al classico esempio del comandante di Auschwitz che la sera rientra a casa, abbraccia moglie e figli e si siede al pianoforte per suonare un po' di Schubert prima di cena.) La gente non si assuefà a quel che le viene mostrato - se così si può descrivere ciò che accade - a causa della quantità di immagini da cui è sommersa. È la passività che ottunde i sentimenti. Le condizioni a cui diamo il nome di apatia, o di anestesia morale e emotiva, in realtà traboccano di sentimenti: ciò che si prova è rabbia e frustrazione. Ma se dovessimo stabilire quali emozioni siano auspicabili, sarebbe forse troppo semplice optare per la compassione. L'immaginaria partecipazione alle sofferenze degli altri promessaci dalle immagini suggerisce l'esistenza tra chi soffre in luoghi lontani - in primo piano sui nostri schermi televisivi - e gli spettatori privilegiati di un legame che non è affatto autentico, ma è un'ulteriore mistificazione del nostro rapporto con il potere. Fino a quando proviamo compassione, ci sembra di non essere complici di ciò che ha causato la sofferenza. La compassione ci proclama innocenti, oltre che impotenti. E può quindi essere (a dispetto delle nostre migliori intenzioni) una reazione sconveniente, se non del tutto inopportuna. Sarebbe meglio mettere da parte la compassione che accordiamo alle vittime della guerra e di politiche criminali per riflettere su come i nostri privilegi si collocano sulla carta geografica delle loro sofferenze e possono - in modi che preferiremmo non immaginare - essere connessi a tali sofferenze, dal momento che la ricchezza di alcuni può implicare l'indigenza di altri. Ma per un compito del genere le immagini dolorose e commoventi possono solo fornire una scintilla iniziale.

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