Copertina
Autore Paolo Sorrentino
Titolo Hanno tutti ragione
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2010, I Narratori , pag. 320, cop.fle., dim. 14x22x2 cm , Isbn 978-88-07-01809-1
LettoreAngela Razzini, 2010
Classe narrativa italiana
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Pagina 9

PREFAZIONE
del maestro Mimmo Repetto
(scritta all'aurora del giorno in cui ha compiuto cento anni)



Tutto quello che non sopporto ha un nome.

Non sopporto i vecchi. La loro bava. Le loro lamentele. La loro inutilità.

Peggio ancora quando cercano di rendersi utili. La loro dipendenza.

I loro rumori. Numerosi e ripetitivi. La loro aneddotica esasperata.

La centralità dei loro racconti. Il loro disprezzo verso le generazioni successive.

Ma non sopporto neanche le generazioni successive.

Non sopporto i vecchi quando sbraitano e pretendono il posto a sedere in autobus.

Non sopporto i giovani. La loro arroganza. La loro ostentazione di forza e gioventù.

La prosopopea dell'invincibilità eroica dei giovani è patetica.

Non sopporto i giovani impertinenti che non cedono il posto ai vecchi in autobus.

Non sopporto i teppisti. Le loro risate improvvise, scosciate ed inutili.

Il loro disprezzo verso il prossimo diverso. Ancor più insopportabili i giovani buoni, responsabili e generosi. Tutto volontariato e preghiera. Tanta educazione e tanta morte. Nei loro cuori e nelle loro teste.

Non sopporto i bambini capricciosi e autoreferenziali e i loro genitori ossessivi e referenziali solo verso i bambini. Non sopporto i bambini che urlano e che piangono. E quelli silenziosi mi inquietano, dunque non li sopporto. Non sopporto i lavoratori e i disoccupati e l'ostentazione melliflua e spregiudicata della loro sfortuna divina.

Che divina non è. Solo mancanza di impegno.

Ma come sopportare quelli tutti dediti alla lotta, alla rivendicazione, al comizio facile e al sudore diffuso sotto l'ascella? Impossibile sopportarli.

Non sopporto i manager. E non c'è bisogno nemmeno di spiegare il perché. Non sopporto i piccolo borghesi, chiusi a guscio nel loro mondo stronzo. Alla guida della loro vita, la paura. La paura di tutto ciò che non rientra in quel piccolo guscio. E quindi snob, senza conoscere neanche il significato della parola.

Non sopporto i fidanzati, poiché ingombrano.

Non sopporto le fidanzate, poiché intervengono.

Non sopporto quelli di ampie vedute, tolleranti e spregiudicati.

Sempre corretti. Sempre perfetti. Sempre ineccepibili.

Tutto consentito, tranne l'omicidio.

Li critichi e loro ti ringraziano della critica. Li disprezzi e loro ti ringraziano bonariamente. Insomma, mettono in difficoltà.

Perché boicottano la cattiveria.

Quindi, sono insopportabili.

Ti chiedono: "Come stai?" e vogliono saperlo veramente. Uno choc. Ma sotto l'interesse disinteressato, da qualche parte, covano coltellate.

Ma non sopporto neanche quelli che non ti mettono mai in difficoltà. Sempre ubbidienti e rassicuranti. Fedeli e ruffiani.

Non sopporto i giocatori di biliardo, i soprannomi, gli indecisi, i non fumatori, lo smog e l'aria buona, i rappresentanti di commercio, la pizza al taglio, i convenevoli, i cornetti con la cioccolata, i falò, gli agenti di cambio, i parati a fiori, il commercio equo e solidale, il disordine, gli ambientalisti, il senso civico, i gatti, i topi, le bevande analcoliche, le citofonate inaspettate, le telefonate lunghe, coloro che dicono che un bicchiere di vino al giorno fa bene, coloro che fingono di dimenticare il tuo nome, coloro che per difendersi dicono di essere dei professionisti, i compagni di scuola che dopo trent'anni ti incontrano e ti chiamano per cognome, gli anziani che non perdono mai occasione per ricordarti che loro hanno fatto la Resistenza, i figli sprovvisti che non hanno nulla da fare e decidono di aprire una galleria d'arte, gli ex comunisti che perdono la testa per la musica brasiliana, gli svampiti che dicono "intrigante", i modaioli che dicono "figata" e derivati, gli sdolcinati che dicono bellino carino stupendo, gli ecumenici che chiamano tutti "amore", certe bellezze che dicono "ti adoro", i fortunati che suonano ad orecchio, i finti disattenti che quando parli non ascoltano, i superiori che giudicano, le femministe, i pendolari, i dolcificanti, gli stilisti, i registi, le autoradio, i ballerini, i politici, gli scarponi da sci, gli adolescenti, i sottosegretari, le rime, i cantanti rock attempati coi jeans attillati, gli scrittori boriosi e seriosi, i parenti, i fiori, i biondi, gli inchini, le mensole, gli intellettuali, gli artisti di strada, le meduse, i maghi, i vip, gli stupratori, i pedofili, tutti i circensi, gli operatori culturali, gli assistenti sociali, i divertimenti, gli amanti degli animali, le cravatte, le risate finte, i provinciali, gli aliscafi, i collezionisti tutti, un gradino più in su quelli di orologi, tutti gli hobby, i medici, i pazienti, il jazz, la pubblicità, i costruttori, le mamme, gli spettatori di basket, tutti gli attori e tutte le attrici, la video arte, i luna park, gli sperimentalisti di tutti i tipi, le zuppe, la pittura contemporanea, gli artigiani anziani nella loro bottega, i chitarristi dilettanti, le statue nelle piazze, il baciamano, le beauty farm, i filosofi di bell'aspetto, le piscine con troppo cloro, le alghe, i ladri, le anoressiche, le vacanze, le lettere d'amore, i preti e i chierichetti, le supposte, la musica etnica, i finti rivoluzionari, le telline, i panda, l'acne, i percussionisti, le docce con le tende, le voglie, i calli, i soprammobili, i nei, i vegetariani, i vedutisti, i cosmetici, i cantanti lirici, i parigini, i pullover a collo alto, la musica al ristorante, le feste, i meeting, le case col panorama, gli inglesismi, i neologismi, i figli di papà, i figli d'arte, i figli dei ricchi, i figli degli altri, i musei, i sindaci dei comuni, tutti gli assessori, i manifestanti, la poesia, i salumieri, i gioiellieri, gli antifurti, le catenine d'oro giallo, i leader, i gregari, le prostitute, le persone troppo basse o troppo alte, i funerali, i peli, i telefonini, la burocrazia, le installazioni, le automobili di tutte le cilindrate, i portachiavi, i cantautori, i giapponesi, i dirigenti, i razzisti e i tolleranti, i ciechi, la fòrmica, il rame, l'ottone, il bambù, i cuochi in televisione, la folla, le creme abbronzanti, le lobby, gli slang, le macchie, le mantenute, le cornucopie, i balbuzienti, i giovani vecchi e i vecchi giovani, gli snob, i radical chic, la chirurgia estetica, le tangenziali, le piante, i mocassini, i settari, i presentatori televisivi, i nobili, i fili che si attorcigliano, le vallette, i comici, i giocatori di golf, la fantascienza, i veterinari, le modelle, i rifugiati politici, gli ottusi, le spiagge bianchissime, le religioni improvvisate e i loro seguaci, le mattonelle di seconda scelta, i testardi, i critici di professione, le coppie lui giovane lei matura e viceversa, i maturi, tutte le persone col cappello, tutte le persone con gli occhiali da sole, le lampade abbronzanti, gli incendi, i braccialetti, i raccomandati, i militari, i tennisti scapestrati, i faziosi e i tifosi, i profumi da tabaccaio, i matrimoni, le barzellette, la prima comunione, i massoni, la messa, coloro che fischiano, coloro che cantano all'improvviso, i rutti, gli eroinomani, i Lions club, i cocainomani, i Rotary club, il turismo sessuale, il turismo, coloro che detestano il turismo e dicono che loro sono "viaggiatori", coloro che parlano "per esperienza", coloro che non hanno esperienza e vogliono parlare lo stesso, chi sa stare al mondo, le maestre elementari, i malati di riunioni, i malati in generale, gli infermieri con gli zoccoli, ma perché devono portare gli zoccoli?

Non sopporto i timidi, i logorroici, i finti misteriosi, i goffi, gli svampiti, gli estrosi, i vezzosi, i pazzi, i geni, gli eroi, i sicuri di sé, i silenziosi, i valorosi, i meditabondi, i presuntuosi, i maleducati, i coscienziosi, gli imprevedibili, i comprensivi, gli attenti, gli umili, gli esperti, gli appassionati, gli ampollosi, gli eterni sorpresi, gli equi, gli inconcludenti, gli ermetici, i battutisti, i cinici, i paurosi, i tracagnotti, i litigiosi, i superbi, i flemmatici, i millantatori, i preziosi, i vigorosi, i tragici, gli svogliati, gli insicuri, i dubbiosi, i disincantati, i meravigliati, i vincenti, gli avari, i dimessi, i trascurati, gli sdolcinati, i lamentosi, i lagnosi, i capricciosi, i viziati, i rumorosi, gli untuosi, i bruschi, e tutti quelli che socializzano con relativa facilità.

Non sopporto la nostalgia, la normalità, la cattiveria, l'iperattività, la bulimia, la gentilezza, la malinconia, la mestizia, l'intelligenza e la stupidità, la tracotanza, la rassegnazione, la vergogna, l'arroganza, la simpatia, il doppiogiochismo, il menefreghismo, l'abuso di potere, l'inettitudine, la sportività, la bontà d'animo, la religiosità, l'ostentazione, la curiosità e l'indifferenza, la messa in scena, la realtà, la colpa, il minimalismo, la sobrietà e l'eccesso, la genericità, la falsità, la responsabilità, la spensieratezza, l'eccitazione, la saggezza, la determinazione, l'autocompiacimento, l'irresponsabilità, la correttezza, l'aridità, la serietà e la frivolezza, la pomposità, la necessarietà, la miseria umana, la compassione, la tetraggine, la prevedibilità, l'incoscienza, la capziosità, la rapidità, l'oscurità, la negligenza, la lentezza, la medietà, la velocità, l'ineluttabilità, l'esibizionismo, l'entusiasmo, la sciatteria, la virtuosità, il dilettantismo, il professionismo, il decisionismo, l'automobilismo, l'autonomia, la dipendenza, l'eleganza e la felicità.

Non sopporto niente e nessuno.

Neanche me stesso. Soprattutto me stesso.

Solo una cosa sopporto.

La sfumatura.

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Pagina 36

"Mo' vai" gli dico io.

"Mo' vai..." dice lui. "E i soldi me li vuoi dare, Tony?" chiosa lui con un senso di diafano che, non so come dire, mi dà fastidio.

"Insomma, a quanto la fa?" vocalizzo io.

"Cinquantamila al grammo, dimmi se questo non è un prezzo?" sorride cariato Maurizio De Santis.

"In effetti è buono. Venti grammi hai detto che ci dà?"

De Santís annuisce vigoroso:

"Un milione per venti grammi".

Alzo il culo dal sedile di pelle, sfilo dalla tasca di dietro una graffetta d'oro come si deve. Conto un milione dando piena fiducia al mio dito insalivato e allungo la mappata di soldi al compariello scemo. Lui li prende e li infila nella tasca interna della sua giacca a quadroni che brutta come questa ne ho viste solo in certe periferie americane e londinesi.

E scende dall'Alfetta, scomparendo in un buio bagnato, rischiarato solo da versi di gabbiani che stasera cantano malissimo.

Ora sono solo. E il silenzio per me non è mai stato una buona compagnia. Di fronte a me, a un metro dal parabrezza, un pezzo insignificante di metallo grigio di container. Al di là di tutto questo, il porto nella sua maestosa decadenza, nella sua industriale incapacità di comprendere il mondo circostante. È la classica situazione in cui ci si aspetterebbe di vedere un cane randagio che scorrazza a raccattare avanzi di cibo e invece non c'è neanche quello. Neanche í topi e gli scarafaggi ci sono. E questo non è buon segno. Non c'è malattia, solo profumo di morte. Ma è facile parlare col senno di poi, a fare questo sono buoni tutti, anche gli agenti di cambio, direbbe Oscar Wilde, che una volta lessi a scuola per sbaglio.

Passo mezz'ora in macchina in cui mi annoio fino alle lacrime. Mi guardo i mocassini nuovi. Fumo tre leggere col riscaldamento acceso che mi fa salire una nausea lenta ed inesorabile, come se nascesse un fiume. Di Maurizietto nessuna traccia, né di lui né della sua giacca a quadroni. Mi vuene un pensiero: un giorno, prima o poi, devo scrivere la mia autobiografia. È lì che dimostrerò che io sono un uomo buono, un uomo di cuore. L'occhio girovago mi cade vicino allo sterzo, noto una cosa che ha il potere di squagliarmi il sistema nervoso: le chiavi dell'accensione nella toppa non ci sono. Che significa? Se prima mi annoiavo ora mi faccio irrequieto. Metto in moto l'anima. E se De Santis si fosse liquefatto col milioncino che tra parentesi vale molto più di quest'Affetta tutta ammaccata? E se fosse tutta una messa in scena? È mezz'ora che aspetto. Un rumore metallico che neanche ve lo racconto mi esplode nelle orecchie.

D'accordo, al porto rumori di questo tipo è facile sentirli, ma se emotivamente uno sta traballante allora ecco che subito lo associ alla sfera negativa dell'esistenza. E poi si tratta veramente di un rumore enorme. Qualcosa, ma che dico, più di qualcosa non quadra proprio.

Intraprendo la peggiore decisione della mia vita: scendo dall'Alfetta.

Il vento mi prende a schiaffi, a pugni, a calci. Fa un freddo anarchico e implacabile. E questo vento va bene per i marinai russi. Avanzo lungo un corridoio di containers, tutti uguali. Un labirinto dal quale non si riesce a vedere neanche l'inizio del molo Martello. Il vento mi taglia la faccia, mi intontisce. In bocca tengo il sapore del dentifricio. Finalmente spunto fuori da quest'onda di lamiere e mi si staglia in controluce lo show del molo Martello.

Dietro di me c'è tutta la città, ma lei non mi può vedere.

La nave colombiana è rossa di colore e se ne sta lì intatta, attraccata e cigolante, a sorvegliare sorniona l'affanno della vita. E l'affanno della vita non è una frase ad effetto, ma la realtà: poche sagome umane che parlottano, qualcuno che finge di scaricare merci, maneggi che pure in controluce lo capisci. In tutto non più di dieci presenze. Fuori dal tunnel di lamiere la tramontana picchia ancora più cattiva, più solida, avvolgendoti come in un sacco a pelo di ghiaccio. Mi avvicino a quegli spettri opachi, in cerca di Maurizietto. Faccio il tostarello e mi rivolgo al più giovane della comitiva, innocuo scaricatore che presumo a occhio e croce non mi farà il terzo grado e chiedo:

"Sta Maurizietto qua?".

Mi guarda con la faccia della spernocchia. Insensata.

Della saliva gli cola a destra della bocca antica e carnosa. Mo' proprio non capisco. Lui non risponde ma io mi sento tranquillo senza motivo. Fino a che non vedo la linea del suo corpo, tiene un coltello da sub conficcato nel fianco destro. Le gambe mi si afflosciano a forma di rombo. Non riesco ad inghiottire che questo ragazzo mi fa sentire in primo piano com'è fatto il rantolo della morte. Mi sta per cadere addosso e io sto pure per prenderlo quando una sagoma nemica, nera e dura, si frappone dandomi una spinta che mi fa andare a finire a terra. Mi cadono dalla tasca le chiavi di casa. Quello che mi fa raggelare è che è una spinta cattiva e premeditata, una spinta che lo senti che è stata fatta da uno che ne ha già date diecimila di spinte così. Come quando ti scippano l'orologio, tu rimani a bocca aperta, coglionesco, e ti chiedi come sia possibile, ma in cuor tuo lo hai già capito che per loro è routine, abitudine fatta con maestria. Anche il crimine ha una sua tecnica, una sua professionalità. Ma tutti questi bei pensierini li avrei fatti dopo, perché adesso... adesso c'è solo l'inferno. Un inferno fatto di urla che non si riescono a decifrare, fari di macchine appena sopraggiunte che puntano verso gli scaricatori di droga, illuminandoli a giorno, e si sentono colpi di pistola, sordi e mortiferi, da una parte e dall'altra, ma quello che ti rimane conficcato nel cervello come un trapano sono le grida di paura.

Non ci vuole Enzo Biagi per afferrare questo semplice concetto, il clan opposto a quello del Pesante si è presentato a questo party di terrore per fare braccio di ferro a chi è più goloso sulla torta degli stupefacenti. Io, con un tempismo che non sospettavo neanche lontanamente di possedere, mi ritrovo al centro della battaglia e ad ogni colpo di pistola ripeto disidratato:

"Gesù" meravigliàndomi come in una fiaba che sono ancora vivo.

Goffo e sbilenco, raccolgo le chiavi in mezzo a grandinate di bossoli e mi accovaccio dietro una bitta, mentre ora, chiaro come l'acqua di montagna, oltre la bitta, imperversa un mitra. Chi lo tiene boh non lo so. Io non voglio guardare. E di crepacuore non voglio ancora morire. E le urla, ancora, tante, sovrapposte, incomprensibili, urla macabre di orrore.

Insomma, non dico niente di nuovo, anche in casi come questi la paura è sempre la stessa. E la stessa paura sia quando ti ritrovi dei pazzi che si sparano ad un metro sia quando ti svegli intorpidito e ti fa un poco male la gola.

È la paura di morire.

La paura di mollare questa landa desolata, ma guai a chi ce la tocca questa landa desolata.

Quello che ti squaglia il sangue, invece, è l'arcobaleno di atmosfere che gli uomini possono creare per farti andare a stringere la mano a Gesù Cristo. E io vi giuro su mia figlia che questa qua dove mi trovo adesso è la più infelice delle soluzioni che hanno trovato. Mi distraggo con questo concetto quando allungo l'occhietto un paio di centimetri, là fuori, nell'abisso di questo presepe cambogiano, e assisto in diretta a una faccenda che mi distrugge i sensi, rivedo Maurizietto che scappa alla cieca, nella mia direzione, sicuramente pronto a buttarsi a mare come voleva fare allegramente prima con me, ma non fa in tempo, perché una serie lunga di colpi di mitra lo deve aver acchiappato nella schiena, Maurizietto scivola a terra, come in un brutto fallo da rigore e scivolando scivolando carambola vicino alla mia bitta andando a sbattere con la testa contro quell'ammasso di ferro che, si capisce, è bello duro visto che lo hanno messo su per tenere ancorate le navi da mille tonnellate.

Mi muore davanti agli occhi.

Con la sua brutta giacca a quadroni che adesso è tutta sporca di fango. Non potrei parlare neanche se me lo chiedesse mia madre in punto di morte. Non respiro. Non faccio niente. Le orecchie abbassano un sipario di ovatta spessa e calda e non sento più mentre guardo il corpo di Maurizietto. Su di me si abbatte una voragine di nulla e di niente.

Solo l'anima parla, mi bisbiglia nelle orecchie e mi dice:

"Adesso basta!".

Ma io non posso smettere. Magari si potesse. Ancora spari. Questo dannato capodanno a scoppio anticipato. Ancora urla, questa volta si capisce cosa dicono. Loro, là fuori, si stanno organizzando, hanno meno paura, è finito l'effetto sorpresa, sono passati pochi secondi e già ci hanno fatto l'abitudine a questa sparatoria, così, allegramente, ci convivono. E danno disposizioni di guerra. Con la sicurezza dei più forti, ognuno di questi fetenti sa in cuor suo che ne uscirà vivo, mica è la prima volta per loro. Ne fa le spese Maurizietto che, come me, si è imbarcato in questo pianto senza esserne all'altezza. Lui amava Claudio Lippi, come poteva!

Nonostante tutto, in questo che è lo spettacolo più agghiacciante della mia vita, riesco a reclutare un pensiero, quasi una visione: il funerale di Maurizietto dove in coda al carro funebre vedo sì e no sei persone, due sono pure lì per caso, tipo quelle vecchie sadiche fissate con le notizie di chi muore e di chi vive, che neanche lo conoscono a Maurizietto. La tristezza. E quello che è più triste è che io non sono tra quei sei in coda al carro funebre.

Un braccio che sembra una gru mi scova e mi acchiappa dietro la bitta e mi tira su, io ho il tempo di pensare, ecco qua, è venuta l'ora che anch'io timbri il cartellino, mica sono meglio di Maurizietto, in ultima analisi. Il braccio di questo tipo chiatto e simpatico mi sospinge però con una violenza amica, non faccio in tempo a comprendere che lui mi dice:

"Vieni Tony, ce ne andiamo col motoscafo".

Mi ha chiamato per nome, allora mi conosce, è cristallino. È proprio il Pesante che mi catapulta lungo una scaletta e mi fa salire su un motoscafo blu dei contrabbandieri che stava ancorato vicino alla nave e che io noto per la prima volta. Insieme a me e al Pesante salgono altri due che non vi dico. Partiamo alla grande, ad una velocità pazzesca. Pare di volare. Fa un freddo che preferirei morire così, su due piedi. Io ho la netta sensazione che non stiamo andando a Capri. Scavalchiamo il molo infinito del porto che a malapena si vede e ci immergiamo in un buio infinito e allucinato. Una Madonna di gesso presiede l'entrata nel porto. La intravedo per pochi istanti, pare che dica che non ci vuole aiutare. Le luci della città non sono mai state così lontane. Poco importa che si vedano tutte quante, una ad una. È una notte limpida e contraddittoria questa qua. Io sento due rumori, uno è il motore sotto sforzo del motoscafo, l'altro è il tonfo netto e metallico della testa di Maurizietto che sbatte contro la bitta di ferro.

Per cinque minuti pare che sia ritornata la vita. Il motoscafo procede lungo la costa a velocità demoniaca. E i nemici non si vedono. Io siedo a poppa di fronte al Pesante, mentre gli altri due si occupano della guida. Nessuno parla. Il Pesante riflette assai. Gli altri due sono tesi, ma hanno l'aria di sapere il fatto loro, ogni tanto borbottano frasi accorte che non arrivo a sentire.

Io penso, cosa ci faccio qui? Come ci sono arrivato? Chi li conosce a questi? E soprattutto, dove cazzo stiamo andando? Ma non oso chiederlo. Il Pesante, tra una vertigine di pensiero criminale e l'altra, trova il tempo di guardarmi, mi fa un sorriso stanco, definitivo e addolorato e mi dice:

"Sono un tuo fan".

E sai chi cazzo se ne fotte!, vorrei rispondere.

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Ma poi finalmente, alle sei e un quarto, qualcosa da fare la trovo. Vado a trovare il mio maestro, quello che mi ha spiegato tutto, la A, la B e la C.

Ma dalla D in poi me la sono vista io, si capisce.

Ho avuto le cosce per camminare. Ma a me piace saltare. I furbi saltano. Alle volte cadono nelle pozzanghere. Le pozzanghere non sai mai dove stanno. Si dispongono a cazzo, le pozzanghere. Come le piante selvatiche. Non c'è giustizia per l'astuto, solo casualità. Che è pure peggio.

Con la faccia stravolta dal sonno mi apre la porta la sorella, una donnetta sui settanta ottanta, senz'arte né parte, una che ha immolato l'esistenza solo per accudire il fratello che poi sarebbe il mio maestro, Mimmo Repetto.

Questa leggenda.

Sono le sei e un quarto e Mimmo, naturalmente, sta sveglio perché a lui l'insonnia tutta la vita gli è ronzata attorno, come una mosca africana, appiccicosa ed immortale e coi sonniferi Mimmo ci può zuccherare le camomille, niente gli fanno, solo gli sbarrano gli occhi come se fossero mantenuti spalancati da pali di palafitte thailandesi. Resistenti e duraturi.

Entro nel salone e lo trovo avvolto in una tunica gialla di grande valore che gli ho portato io da una tournée in Venezuela. Fresca lavata, la tunica incombe come un dolce martello sul suo corpo devastato da settantanove anni di vita vissuta veramente, mica uno scherzo i ricordi di Repetto. Le sue mani sono massacrate da una vitiligine che, questo lo devo dire, mi ha sempre fatto un poco senso, ma le dita... ah, un romanzo quelle dita, lunghe e sottili come bisturi da chirurgo, che ora folleggiano sul pianoforte a coda nero, alle sei del mattino. Non mi guarda, concentrato sul piano come un astronauta alla sua prima missione.

Suona Bach, me lo dice la sorella, con uno spirito da missionaria crocerossina, che è Bach, perché io mica lo sapevo, mi vede e me lo sussurra tre volte soave e leggera come un raro uccello tropicale:

"Bach, Bach, Bach".

Gode, come una depravata, di quello che lei non sa fare. Lo sa fare il fratello, invece. Il mondo è pieno di questi individui così, allignano nell'ombra, con l'alibi del servizievole, si trasformano in paguri resistenti e inossidabili. Poi però, senza dire altro, se ne torna a letto. Ma a quell'informazione ci teneva assai, la vecchia.

Non dico una parola perché se il maestro suona la tradizione vuole che anche i piccioni e le lavastoviglie del circondario devono starsene zitti. Mi avvicino un po' di più per apprendere da questa fonte mostruosa ed inesauribile e le sue dita volano e volteggiano, arzigogolano senza tregua, perfette e inesorabili, su tasti neri e su tasti bianchi, una poesia, Dante, Leopardi, Carducci, tutti insieme, se ne vanno a braccetto, messi d'accordo dalle inarrivabili dita del maestro. Una poesia un po' meno poetica quando mi avvicino ancora un altro poco e scopro che il maestro suona con un catetere attaccato al suo corpicino che se ne cade a brandelli, afflosciato come un canotto bucato.

La tristezza, se pensate che quest'uomo con tre accordi uno in fila a un altro era capace di far crollare matrimoni da trentacinque anni di serenità. Le donne, tra loro, facevano incontri di judo e karate ad alto livello pur di accaparrarsi Mimmo Repetto per una notte. Ma vi parlo di anni fa.

E più si sbatte sul veloce con brio di Bach e più il catetere gli oscilla pericolosamente e io penso che se esagera con la passione quello si stacca e io mica glielo so rimettere, mi tocca andare a chiamare la sorella, ma mentre quella si sveglia e viene in soccorso non vorrei che mi scappasse dalla vita il mio maestro Mimmo Repetto.

Per grazia della madonna il catetere resiste alla musica.

Quando finisce la sonatina è come se si risvegliasse da uno stato di trance comatosa. Suda come un bambino dopo la partita di pallone. Ci ha l'influenza. Finalmente mi localizza estatico poco lontano da lui. Con un gesto rapidissimo fa scodinzolare nell'aria quelle dita che sembrano fruste. Un gesto che, pur di vederlo ancora una volta, io sarei pronto a buttarmi nel fuoco. Bellissimo. E finalmente esordisce:

"Passami la padella, Tony".

Ma allora a cosa cazzo serve quel catetere? Vallo a sapere. Non io, naturalmente. L'elenco di malattie possedute da Repetto occupa almeno tre pagine di quaderno a righe. Neanche il suo medico curante se le ricorda tutte. Ogni giorno vissuto in più da Mimmo è una casualità che stupisce il mondo della sanità.

Comunque, si capisce, dopo tutto questo sbattimento sul piano, alla sua età, anche un maestro deve pisciare. È incastonato nella sedia a rotelle e io gli allungo la padella. Se la ficca sotto e mentre si sente questo fastidiosissimo rumore metallico di liquidi mi dice serafico:

"Stai pieno di problemi, Tony".

Non solo suona come un padre eterno, Mimmo Repetto, ma mi legge anche dentro a questa stronza testa trasparente che tengo.

"No" bluffo io, "anzi, tengo una tournée interessantissima, bella lunga, che mi comincia proprio tra poco."

Non mi crede neanche per un istante, mi fissa giusto un attimo, senza impegno, e poi ripete ancora più convinto di prima:

"Tu stai pieno di problemi, Tony" e mi allunga la padella puzzolente che io non so dove cazzo depositare e così la sistemo sul tavolino davanti ai divani, spostando alla buono e meglio un'orgia di ninnoli d'argento.

Non l'avessi mai fatto, giustamente s'incazza come una iena.

"Ma che cazzo fai, mi lasci quella roba sul tavolino del salone? Non puoi fare il favore di buttarla nel cesso?"

Non ci avevo pensato. Mi precipito nel bagno. Ma neanche tanto, tocca muoversi con cautela se uno non vuole che poi la pipì ti cade da qua e da là. E poi non sia mai la madonna che mi va a finire sui mocassini nuovi, cosicché attraversare il corridoio che conduce al cesso diventa una faccenda brutta e lunga, un po' come attraversare il traforo del Monte Bianco a piedi.

Quando approdo di nuovo nel salone, dopo quella prova da equilibrista da circo, anch'io sono un po' sudato. Ora Mimmo mi dà le spalle, sfondato nella sua sedia a rotelle, guarda fuori attraverso i vetri. Di fronte alla sua casa c'è un brutto palazzo.

Che cos'è una città se non un susseguirsi di brutti palazzi?, penso io.

"Vieni a guardare" mi dice.

Mi avvicino alle sue spalle e con un cenno del capo mi indica una finestra di fronte, l'unica accesa in tutto lo stronzo condominio e si intravede in quella casa una coppia di trentenni che balla un valzer. Roba da non credere ai propri occhi. Quei due pazzi, alle sei e mezza del mattino, si stanno sparando, spassosi e ben determinati, un valzer. Pigiama e camicia da notte, varcano per brevi istanti le soglie dell'arte per compensare giornate non artistiche.

Non ridono, sono concentrati come gufi.

Magari quando finisce il disco si fanno lui la barba e lei la doccia e poi via, un'altra giornata di lavoro impiegatizio uguale a quella del giorno prima. Non trovo le parole per commentare quello che vedo nella finestra di fronte. Promanano felicità, potete scommetterci un organo a piacere del vostro corpo.

"Ogni mattina fanno questo e io ogni mattina mi metto a guardarli e ogni volta che li guardo mi dico che è ora di farla finita con questa stronza vita" questo mi dice Mimmo Repetto, mozzandomi il fiato una volta e per sempre.

Ci ha ragione lui, cos'altro? Tuttavia, cerco le parole per inserirmi nel discorso, ma è inutile, perché Mimmo sta già pensando a un'altra cosa.

Balbetto, cercando di riportarlo sulla terraferma:

"Mimmo, io... io...".

Lui fa una piroetta su se stesso, muovendo con grande perizia le ruote della sedia a rotelle e mi piomba di fronte a me. Si è girato così velocemente di centottanta gradi che io lo vedo chiaramente che il catetere volteggia dalla posizione verticale all'orizzontale, si tende nell'aria il catetere, a volo libero, come lo spinnaker della barca a vela che si gonfia col vento di poppa. Ma resiste. Questo catetere gli vuol proprio bene a Mimmo Repetto. Lo guardo dall'alto verso il basso. Lui alza gli occhi sul sottoscritto, fa un cenno appena percettibile col suo mento scavato e scolpito.

"La prostata" tuona apocalittico su di me e sulle prime luci del mattino e continua:

"La prostata è il grosso problema dell'anziano moderno".

Puzza di rivista medica questa definizione di Mimmetto, ma nessuno la potrebbe dire meglio di lui. Perché Mimmo è uno di quelli che quando parla, qualunque cazzata vada dicendo, ottiene subito un ascolto attento ed immediato dalla popolazione circostante, mentre io tutta la vita ho dovuto faticare per farmi notare, a forza di gomitate e trucchetti da baro alla stazione. Mimmo no. E non perché ora sia anziano. Anche quando era più giovane, apriva bocca e si faceva il silenzio, il mondo gli si accucciava attorno a semicerchio, come in un bel falò estivo sulla spiaggia, per sentirlo parlare. E a me mi fa talmente girare le palle questa differenza tra me e lui che io, ecco, io potrei anche ammazzarlo con una gomitata il mio maestro Mimmo Repetto.

Però carriera non ne ha fatta come avrebbe meritato. Perché la carriera la fanno solo quelli che nessuno vuole ascoltare. È più comodo. Così la gente, il pubblico, che non ha accocchiato assai nella vita, si fa una ragione del suo fallimento specchiandosi in quel tizio lì che gli sta di fronte sul palco, un paio di metri più in alto di loro. Tra di loro dicono: ma quanto è bravo. Per giustificare il prezzo del biglietto. Ma dentro, nei paraggi dell'anima, sussurrano: è poca roba, solo che è stato più fortunato.

Dimenticatevela la fortuna, se io sto qua da solo e voi tutti là, raggruppati nella platea come sfollati, una ragione tonda e pulita c'è. Ed è, semplicemente, che io sono meglio di voi. Ecco tutto. Ma quello che loro sanno ma faticano ad accettare è che in quei due metri in legno di distanza tra me e loro passano abissi e oceani, a volte neri, a volte bianchi. Ma è così che vanno le cose. Sto un paio di metri più in alto, ma in realtà, quanta distanza...

Se pensate che io e Mimmo, dopo la sua sentenza sulla prostata, ci siamo detti qualcos'altro allora vi sbagliate. È solo che lui aveva sete, è andato in cucina a prendersi un bicchiere d'acqua e io l'ho visto allontanarsi sulla sua bicicletta a quattro ruote. L'ho seguito con lo sguardo, ancora col cappotto addosso. Lui beveva e mi guardava e mentre mi guardava io gli ho fatto un cenno di saluto. Lui ha chiuso gli occhi e con questo gesto è riuscito a fare due cose contemporaneamente: ha salutato me e si è goduto più a fondo il suo bicchiere d'acqua.

La mattina non era ancora salpata. Ma c'erano avvisaglie.

Ma quando mi sono chiuso la porta del suo appartamento alle spalle mi sono fermato un attimo sul pianerottolo, un piede sullo zerbino e uno no, e ho pensato che forse è stata proprio una cazzata venire qui a trovare Mimmo Repetto. Ed è per questo motivo che, coi piedi sullo zerbino con su scritto "Salve", mi sono fatto un tiro di coca.

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8.



                                            Proviamo anche con Dio
                                            non si sa mai.

                                            ORNELLA VANONI



Gli uomini si dividono in due categorie: quelli che si mettono comodi. E appassiscono. E gli altri. Io faccio parte degli altri.

In ultima analisi, dico io, la vita è una favolosa rottura di coglioni. Ma su cosa dobbiamo concentrarci? Sulla rottura di coglioni? O sul favoloso? I comodi si adagiano sulla rottura di coglioni. Li rassicura. Come il telegiornale alle otto. Gli altri, li vedi, si catapultano in strada a tutte le ore, valicano la notte, avidi e nevrotici, spaesati ma concentrati. Cercano il favoloso. E non lo trovano. Perché lo hanno già vissuto. Ma fanno finta che questo preveda il bis. Non è così. Però non lo sappiamo veramente. E allora, giù a provarci, senza tregua, come drogati. E, come per tutti i drogati, la strada per il favoloso è costellata da intermezzi e arcobaleni di squallore, di umiliazioni, di pochezza, di elemosine e di bruttezze. Poi, ad un tratto, si matura, che brutta parola però, immonda, la maturazione, e tuttavia si capisce. Comprendi, nella sua essenza più intima, che cos'è il favoloso lontano dalla cripta dorata dell'adolescenza. Il favoloso dell'età adulta è proprio lo squallore, l'umiliazione, la pochezza e la bruttezza. Venite filosofi, venite a confutarmi. E ve ne dovrete tornare in mezzo alle gambe delle madri. Sotto sotto al marciapiede. Come l'indigente dignitoso la domenica alle tre del pomeriggio. Perché io dico la verità. Dico l'essenza, anche se è sconcia ed indicibile. Anche se vi deprime lo stato d'animo.

Ma non lo vedete il politicastro sessantacinquenne che sbava per la consulenza o il sottosegretariato? Ma vi pare favoloso, questo? Ma non lo vedete il salumiere che imbroglia sull'ettogrammo di prosciutto? Gli è andata bene. E allora? Ha mica toccato il favoloso? O il benessere? O la gioia? O la felicità? O la beatitudine? Ma di cosa stiamo parlando?

Lontano dall'adolescenza, ci s'inventa una vita logora, tremenda.

Ciascuno lì a piazzare la sua tesserina del domino. Dimenticandosi di andare a vedere l'acqua e la montagna avvolta nel freddo, beatificate dal colore limpido, preistorico. La trasparenza.

Invece, in prevalenza, uno strappo muscolare del gesto e del pensiero, corrotto dal piccolo potere che c'illude. Poi sono andato a mare e ho visto quel ragazzo che si spogliava mentre correva. Gli ridevano pure i denti. Anelava il tuffo nell'acqua gelida. Lo ha fatto. E ha goduto con tutto se stesso. Schizzava nel nulla, come un ossesso della vita veramente. Aggrediva il territorio. Spadroneggiare accantonando qualsiasi forma d'arroganza. Un'altra storia, l'adolescenza. Lo dicevo prima. Un'altra storia. Una roba che, a distanza di tempo, ti perfora le pupille con le lacrime acide. Lacrime a tenaglia.

Con gli anni poi, i sensi s'indeboliscono. Scivolano a piedi uniti nel torpore così triste, ma così triste che la malinconia rimane a piedi, senza trovare posto. Il tatto non apprezza, l'udito s'imbottisce di rumori sgradevoli, la vista si dibatte nella monotonia del già visto, l'olfatto si rattrappisce, violentato dalle sigarette e dai raffreddori della noia. L'uomo è salpato e ha lasciato l'adolescente a terra fino a farlo sbiadire dietro il faro. Sei salito a bordo della nave. Però, ti guardi attorno e la nave non è una nave. È un traghetto mezzo scassato. Con la puzza della nafta che non guarisce. E la nafta che ti dice: basta cozze, ventri piatti, vongole, petti glabri e tartufi. Che mo' vogliono pure proibire per legge. Questi nazisti con l'ossessione dell'igiene. Basta baci dolci per strada. Ora solo fotocopie di baci. Basta mustacciuoli addentati con molari indistruttibili. E invece trapani di dolore nelle gengive. Basta la delusione che ti strazia il cuore. Non la si vive più fino in fondo, la delusione, perché l'adulto ti condanna alla soluzione rapida, in un modo o nell'altro. È iniziato il conto alla rovescia, per finire da nessuna parte. Tutta questa concretezza, oggi come oggi, a me mi fa un poco male. Mi fa galleggiare nell'insensato. Altra storia se l'insensatezza mi facesse nuotare. Invece faccio il morto a galla.

Che vergogna! È un repertorio infinito di pene, l'età adulta. Una lenta cascata di inesorabili distruzioni. Palline di vecchiaia che rotolano nel corpo umano. Veloci come le biglie sulla spiaggia coi ciclisti disegnati da dentro. Si potrebbe andare avanti fino al proprio funerale. E anche lì rendersi conto, sì, che è stata poca roba, ma ne valeva comunque la pena. Per una semplice ragione. Non ci sono alternative.

O la vita o la vita.

E l'idea della saggezza, dell'esperienza, solo invenzioni. Alibi traballanti. Una misura tampone gonfia d'aria. Un condono dell'esistenza. Tutte bugie. Prima giocavi da titolare, ora devi stare sempre in panchina, ma con gli occhi bendati, neanche guardare ti fanno. Quest'è.

Per questo, gira gira, gli adulti evitano accuratamente i giovani. Non vogliono ricordare, giustamente. E quando non li evitano, ci cascano dentro come provoloni. Si fanno male. Perché ricordano. Ma il ricordo non è la vita vera. È deludente il ricordo.

È opaco. Sbiadito. È un frammento di merda. E allora si crolla nel dormiveglia pomeridiano. Lì qualcosa si risveglia, il ricordo assume contorni più definiti. Sono istanti. Quando pensi di acchiapparli, stanno già bussando al tuo citofono altri adulti carichi di sofferenze e di routine. Da qualche parte, c'è sempre l'invito di qualcuno a scrollarteli di dosso, i ricordi. Un complotto mostruoso per abbreviare la dilatazione.

Volevamo la poesia, abbiamo raccattato i malanni.

Volevamo l'emozione, siamo stati ripagati a forza di palinsesti televisivi. Orrendi come delitti preparati alla buona. Sbracati come i loro padri pieni di livore e diffidenza. È tutto un fallire.

Sudaticcio e forforoso, l'adulto scappa e finisce quasi sempre spappolato dentro una mondanità di quart'ordine. Non che quella di prim'ordine sia migliore, intendiamoci. Solo una corazza di accessori più costosi e un'affettazione insopportabile nella voce. Quest'è. Eppure li abbiamo visti, agli angoli della strada, i pensionati moribondi che parlottano con la passione e l'accanimento di un tempo che era. Sembrano vivi. Scrutano, con eccitazione maniacale, i lavori in corso all'angolo della strada. Sollevano occhi liquidi di stupore dinanzi alla scavatrice meccanica. Trovano i miracoli dappertutto. Allora sono vivi. Allora non sappiamo proprio tutto. C'è dell'altro. Chi cazzo è che ci nasconde le cose come stanno? C'è dell'altro che non riguarda noi. C'è la superficialità di chi ritiene che tutta la vita durerà. Non è così. L'entusiasmo, questa parolaccia. Mi abbrutisce. L'entusiasmo mi lascia senza forze. Mi fa morire al meriggio, quando apro l'occhio e ostento il vitalismo. Vi prego, non la chiamate depressione. Non vi appiattite sul sentito dire, sulla rivista col sondaggio annesso, non sprofondate dentro tabelle professionali da centocinquantamila lire all'ora. Non andate a cazzo perché così vi hanno suggerito. Non sottovalutate la mia, la vostra unicità, che sfugge alle teste di cazzo con la laurea che gli pende dietro la scrivania come una ghigliottina.

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Per tutte queste ragioni, quando ho infilato la chiave nella porta di casa mia ero calmo come un budda. E mia moglie Maria se ne è accorta subito che non ero più quello scalmanato di qualche tempo prima. Lei, invece, purtroppo, era sempre la stessa. Immutabile come un cardinale.

Ora alberga lì, immarcescibile, sulla punta del divano e sei bottiglie di lacrime versate vicino al tavolino di cristallo. Vuole ricominciare lì dove avevamo interrotto. Vuole che la aggredisca come di consuetudine altrimenti non ci crede che sta vivendo veramente. Invece si scontra con un camion di calma e di silenzio. E le manca il terreno sotto i piedi. Non mi riconosce, proprio nel giorno in cui io mi riconosco di più. C'è, nella donna moderna, una perseveranza nel litigio, che scuote anche gli animi più ripiegati. È una cimice, la donna moderna. Sale lentamente lungo tutto il corpo e succhia piccole dosi di sangue. Quando giunge al piede, ricomincia daccapo perché le vecchie bolle si sono ritirate. Nel litigio a tempo indeterminato trova un'intima vertigine di soddisfazione che non la fa desistere. Mai. Mai. Un avvoltoio della discussione prolungata. Con una convinzione ottusa che, dentro la schermaglia, si annidi la soluzione del problema. Ma dato che la soluzione è complessa secondo loro, allora, per definizione, il litigio deve possedere una sua lunghezza incredibile, estenuante. Se desiste dal conflitto, statene certi, è solo un'interruzione pubblicitaria. Una strategia di vendita del litigio. Una presa d'aria per ricominciare daccapo. Con nuovo vigore. Io, invece, di indole, pur di scongiurare un litigio, sarei pronto a vendere le enciclopedie porta a porta. Poi mi lascio fottere dal sangue al cervello che in me lavora alacre e allora deflagro nelle urla e nella cattiveria. Ma non adesso. Ora che ho altro a cui pensare. Ora che mi sono sintonizzato dopo venticinque anni di nuovo con la vita semplice.

Sbaglia l'attacco, Maria la monocorde. Sibila dall'oltretomba:

"Voglio il divorzio".

Ricomincia da dove aveva finito.

E crede di avere fornito l'incipit per quattro ore di guerra sotto il soffitto. Invece, ma lei non lo sa, è andata dritta dritta alla conclusione del problema perché io dico senza enfasi e con un tono sincero che lei non riconosce in me da quando ci siamo fidanzati:

"Accordato".

La vedo. È ferma, di pietra. Ma sta esattamente dentro a quelle brutte cadute sul fango quando vai per aria, perdi il senso dell'orientamento e non sai, per un frammento di secondo, come e dove cadrai. Ed è il panico.

Ma deve essere caduta e non si è fatta niente, perché ritrova il bandolo e fa marcia indietro con una frase significativa:

"E a tua figlia non ci pensi?".

"Sì, ci penso, ma ormai è grande, capirà, deve cominciare la sua vita finalmente. E le vite vere, spesse volte, cominciano con un grande dolore."

Mi è uscita dalla bocca una tale tempesta di buon senso che lei, incredula come il calamaro, inclina la testa di lato di quindici gradi. Con un'incredulità così ingorda, ma così ingorda che gli occhi le si spalancano come se avesse visto la Cappella Sistina.

Le palpebre le sbattono producendo un suono atonale.

Dischiude la bocca e solo adesso, per quei miracoli della volubilità del corpo umano, sono pronto a riconoscere che ha una bellissima bocca. Un pensiero che si era perso nella lontananza.

Distrutta dall'impotenza, si alza dal divano. Io mi avvicino a lei e l'abbraccio con una delicatezza, una premura che da me non ha mai conosciuto. Poi dico:

"Adesso mi faccio la valigia e me ne vado".

Nel momento preciso in cui la sto lasciando, ha trovato inaspettatamente l'uomo che ha sempre desiderato. Un uomo tenero. Un uomo comprensivo. Un uomo calmo.

Infine, un uomo affidabile.

Le sta crollando il mondo addosso. E lo sa. Mi seguirebbe in capo al mondo. Esattamente dove sto per andare. Ma senza di lei. Troppo spesso le vite non s'incontrano, per questo soffriamo tale e quale come i bambini del Centro Africa senza cibo né acqua. Ecco tutto. Ma mentre il problema dell'Africa, con un po' di buona volontà, si potrebbe pure risolvere, qua invece non c'è un cazzo da fare. È così.

Sono, le nostre, sofferenze insensibili alle cordate umanitarie.

Le tremano le ginocchia, le labbra le si fanno esili fili bianchi di fiordilatte, le pupille la abbandonano e sviene sul tappeto. Aveva bisogno della pausa pubblicitaria. L'ha trovata involontariamente. Il corpo le ha sconfitto il pensiero. È scivolata scomposta senza battere la testa. Questo è importante, perché ora posso andare a fare la valigia senza pronto soccorso e sensi di colpa. Ma non sono contento. Solo freddo. Cattivo senza volontà di esserlo. Sono, molto semplicemente, un uomo. Come gli altri.

In camera da letto, mi arrampico come un Tarzan in pensione agli scaffali alti. Ho delle idee così chiare e semplici che il mondo mi sembra inventato da me. Un vestito su misura. Per cui, scaravento giù solo camiciole estive e morbidi pantaloni di lino. Compongo una valigia piccola, mentre sento dalla cucina dei gemiti di dolore lancinante. Si è ripresa, Maria, e ha eletto la cucina a bara.

Afferro una foto di mia figlia di quando aveva due anni e poi chiudo il borsone. Attraverso il corridoio, come dentro l'ovatta calda. Sono pronto per un addio semplice e concreto. Sono un altro.

"Mi comporterò come un gentiluomo. Ti lascio tutto, casa, macchina, tutto, prendo solo qualche milione per affrontare gli inizi della nuova vita. Non avrete mai più notizie di me, ma state tranquilli, immaginatemi vivo e sereno. Mi farò vivo solo un'altra volta, da morto. Ma avrò provveduto io alle spese del mio funerale. E ora non piangere più, Maria. Tu piangi perché credi, sbagliando, che c'è una sola vita su questa terra. Invece ce ne sono almeno tre, forse quattro. Tieni a mente quello che ti sto dicendo. Perché da qui in poi, questo è l'unico concetto buono a tenere in vita sia te che me."

Per adesso, non mi ascolta. Vuole piangere a tutti i costi. Ma poi le torneranno in mente queste parole, perché sono autentiche.

E saranno parole di sollievo.

Mi giro e me ne vado senza dire altro, senza guardare la casa, senza guardare la città, senza salutare Samanta, il maestro Mimmo Repetto, nessuno. Non bisogna annusare niente, perché potrei sentire la puzza di nostalgia che inchioda. Un piccolo sforzo ancora, per essere fuori dal mondo fatiscente. E da quello che ero fino a una mezz'oretta prima.

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