Copertina
Autore Vincenzo Sorrentino
Titolo Il pensiero politico di Foucault
EdizioneMeltemi, Roma, 2008, Universale 49 , pag. 310, cop.fle., dim. 12x19x2,7 cm , Isbn 978-88-8353-628-1
LettoreGiorgia Pezzali, 2009
Classe filosofia , politica
PrimaPagina


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Indice

  7 Introduzione

 19 Capitolo primo
    Soggetto, sapere, discorso

 19 La questione del soggetto
 22 Figure dell'Altro
 31 Forme del Medesimo
 39 Letteratura e trasgressione
 42 Il discorso e le pratiche non discorsive

 59 Capitolo secondo
    L'analitica del potere

 59 La genealogia
 63 Il potere come rete produttiva
 71 Lo Stato e i micropoteri
 76 Rapporti di forza, potere e guerra

 91 Capitolo terzo
    Il bio-potere

 91 La gestione della vita
100 La bio-politica della popolazione
104 La disciplina del corpo
107 Normalizzazione, liberalismo e democrazia
114 Lo sguardo senza volto

127 Capitolo quarto
    Sessualità e arti dell'esistenza

127 Il dispositivo di sessualità
134 Le tecniche di sé
139 Dall'etica antica a quella cristiana

155 Capitolo quinto
    L'atteggiamento critico

155 Le resistenze al potere
159 La funzione dell'intellettuale
165 La parresia
169 La spiritualità politica

181 Capitolo sesto
    L'impazienza della libertà

181 L'ethos della modernità
187 Costituzione del soggetto e invenzione di sé
193 Limite, mondo e significato
196 Il piacere totale
199 Morte e perdita di sé

215 Capitolo settimo
    Presupposti ontologici e normativi
    della critica foucaultiana

215 Problematizzare senza prescrivere
220 Il reale come gioco di forze
224 Oltre la dominazione
232 L'ontologia della contingenza
242 Critica e giustificazione

255 Capitolo ottavo
    Sentieri interrotti

255 Il pensiero e la parola
259 L'argomentazione come pratica critica
263 Il parresiasta come esempio

279 Bibliografia

 

 

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Pagina 7

Introduzione


La curiosità (...) evoca la "cura", l'attenzione che si presta a quello che esiste o potrebbe esistere; un senso acuto del reale, che però non si immobilizza mai di fronte a esso; una prontezza a giudicare strano e singolare quello che ci circonda; un certo accanimento a disfarsi di ciò che è familiare e a guardare le stesse cose diversamente; un ardore di cogliere quello che accade e quello che passa; una disinvoltura nei confronti delle gerarchie tradizionali tra ciò che è importante e ciò che è essenziale (Foucault 1980a, pp. 141-142).


Questo passaggio rende molto bene quella che, a mio avviso, costituisce la cifra delle ricerche foucaultiane: la curiosità, intesa non come tentativo di assimilare l'oggetto conosciuto, ma come capacità di distaccarsi da sé (cfr. 1984a, pp. 13-14), dalle proprie certezze e aspettative, lasciandosi sollecitare dalla realtà, anche quando essa mostra i tratti dell'alterità irriducibile alle categorie con le quali la si interroga. Questa sensibilità nei confronti dell'alterità si traduce in Foucault non solo nella tendenza a porre nuovi generi di domande e intraprendere nuovi tipi di indagine, ma anche nella disposizione a riesaminare continuamente i risultati raggiunti, effettuando revisioni talvolta profonde dei propri paradigmi teorici.

Nell' Introduzione a L'uso dei piaceri, pubblicato nell'anno della sua morte, il filosofo francese descrive l'intero suo lavoro come caratterizzato da tre "spostamenti teorici". Il primo, da cui nascono le opere archeologiche degli anni Sessanta, lo porta a interrogarsi sulle pratiche discorsive in cui si articola il sapere. Il secondo, che prende corpo negli studi genealogici degli anni Settanta, lo spinge a porre al centro della propria riflessione le relazioni di potere. L'ultimo, da cui hanno origine le ricerche sull'etica antica e cristiana condotte tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, lo fanno approdare all'analisi delle modalità del rapporto con se stesso attraverso le quali l'individuo si costituisce e si riconosce come soggetto (cfr. 1984a, pp. 11-12). Come cercherò di mostrare, si tratta di un lavoro che è contraddistinto da una mole notevole di analisi e che non si lascia leggere né attraverso le lenti di una rigida separazione cronologica e concettuale tra i temi trattati, né attraverso quelle di un'evoluzione lineare tra fasi diverse di uno stesso procedimento dialettico. Siamo in presenza di un percorso in cui gli assi del sapere, del potere e del soggetto si intersecano a più riprese e che conosce, come ho accennato, rilevanti mutamenti prospettici, dovuti a quelli che sono stati giustamente considerati due tratti peculiari di Foucault, ossia la sua "inquietudine nei confronti della realtà" e la sua capacità di "correggersi costantemente in rapporto alle cose, (anche al prezzo di incorrere in possibili contraddizioni)" (Fink-Eitel 1989, pp. 12-13). Anche un lettore estremamente critico come Habermas ha riconosciuto che nell'ambito dei filosofi della sua generazione "votati alla diagnosi del tempo, Foucault spicca come colui che ha saputo sollecitare nel modo più efficace lo spirito dell'epoca (Zeitgeist): non da ultimo grazie alla serietà della sua perseveranza in contraddizioni produttive. Solo un pensiero complesso è in grado di provocare contraddizioni istruttive" (Habermas 1984, p. 241).

Nella lettura di Foucault occorre stare attenti, tuttavia, all'uso che si fa di una categoria come quella di contraddizione che, a mio parere, rischia di essere fuorviante. La sua riflessione si articola su registri che spesso non si lasciano ricondurre a unità, come risulta, ad esempio, dal suo discorso sulla libertà. Un discorso che, per certi versi, rappresenta un utile antidoto a quella sorta di ossessione identitaria che in questi ultimi anni si è riaffacciata sulla scena pubblica mondiale, in forme certo diverse ma tutte correlate a un'idea di identità intesa quale dato immodificabile da difendere dagli attacchi esterni o dai fattori interni di corruzione. Contro la paura del meticciato, della contaminazione, della perdita della propria identità profonda (e immutabile), Foucault ci parla della libertà nei confronti dell'identità. E questo mettendo in gioco due accezioni della libertà differenti: da un lato, la libertà di non essere inchiodati a un'identità assunta come normativa da un punto di vista contenutistico, ossia la capacità di trasformare se stessi e il proprio contesto sociale; dall'altro, la libertà di perdere se stessi, attraverso esperienze volte non alla creazione di nuovi profili identitari, bensì al superamento dello stesso principium individuationis, alla dissoluzione dell'identità in quanto tale. A complicare – ma, allo stesso tempo, a rendere più stimolante sotto il profilo teorico – il quadro tracciato dalla riflessione foucaultiana vi è il fatto che al suo interno si profilano, e talvolta si scontrano, paradigmi differenti di libertà, quali la trasgressione, l'autopoiesi radicale, la perdita di sé e la stilizzazione della propria esistenza. Le letture di Foucault hanno spesso posto l'accento su uno di questi paradigmi, ignorando però gli altri: di conseguenza, il suo discorso sulla libertà è stato considerato, di volta in volta, una forma di anarchismo, un'idealizzazione della trasgressione fine a se stessa, una riproposizione della sovranità del soggetto (auto)costituente, un narcisistico e amondano ripiegamento su di sé o, al contrario, una lucida indagine sul carattere plurale, finito e storicamente radicato delle pratiche attraverso le quali gli individui danno una forma al proprio sé. A mio parere, molte di queste letture, pur cogliendo aspetti effettivamente presenti in Foucault, li assolutizzano, finendo così per fornire una visione unilaterale, e quindi fuorviante, del filosofo francese; in altri termini, esse non tengono conto dell'insieme delle linee teoriche che, come cercherò di mostrare, concorrono a formare il tessuto riflessivo foucaultiano.

Considerando però come meramente contraddittorio il darsi di questi differenti registri, credo che si finisca per semplificare un itinerario di ricerca complesso, cancellando quello che rappresenta uno dei suoi tratti di maggiore interesse, e cioè la sua capacità di investire dimensioni diverse della libertà, la cui coesistenza probabilmente sfugge alla logica della contraddizione e della sintesi. Tuttavia, se l'avversione di Foucault per il "sistema" consente a tali dimensioni di emergere in tutta la loro articolata problematicità, la mancanza di un'interrogazione sul loro rapporto, dovuta probabilmente anche al timore di cadere nelle maglie di un discorso sulla natura umana, chiude ogni spazio per una tematizzazione del paradosso quale possibile forma del concomitante darsi di paradigmi teorici ed esperienze della libertà irriducibili a ogni sintesi.

Penso che sia possibile liquidare come semplici contraddizioni le tensioni, spesso profonde, che attraversano la filosofia foucaultiana solo a partire da un'idea monolitica dell'identità, che rimuove l'inestricabile intreccio di elementi eterogenei che costituiscono quest'ultima, e da un paradigma di tipo "autoritario" dell'autore, volto cioè ad imporre a tutti i costi alla sua produzione un principio di unità e di coerenza. Con questo non intendo sostenere che vada trascurata la portata delle suddette tensioni o che vadano ignorati i limiti e le aporie che, come cercherò di mostrare, connotano la riflessione di Foucault. Affermare il carattere molteplice dell'identità non deve equivalere a distruggere la nozione stessa di identità, così come criticare il sopraindicato modello di autore non deve coincidere con la rinuncia a cercare un volto nei testi che leggiamo. Il mio lavoro prova a muoversi sul crinale compreso tra questi estremi, cercando di individuare le linee di continuità e le connessioni teoriche che consentono di attribuire un profilo specifico al discorso del filosofo francese, dando conto, allo stesso tempo, dei mutamenti di prospettiva che costellano le sue ricerche e del carattere problematico che assume la compresenza di alcuni registri della sua riflessione.

Leggere Foucault equivale a misurarsi con un filosofo il cui contributo al pensiero politico e al dibattito pubblico contemporanei si gioca, a mio parere, su più livelli. Innanzi tutto, va rilevata la proficuità di molti suoi studi per la comprensione di alcuni importanti aspetti delle società moderne, come, ad esempio, la proliferazione delle tecniche di sorveglianza, il sorgere di differenti tipologie di biopolitica, di natura sia totalitaria che democratica, o l'assunzione di una struttura reticolare da parte di diverse forme di potere nell'era della globalizzazione. In relazione a tali fenomeni, si pensi alle analisi di Foucault sulla logica dei sistemi di sorveglianza e sulla loro crescente rilevanza come strumenti di controllo sociale, alle indagini sulle pratiche attraverso le quali nella modernità le tecniche del bio-potere cercano di gestire la vita degli individui e delle popolazioni, o alle sue riflessioni sul potere quale rete di interazioni e sulla correlazione tra istituzioni centrali e micropoteri.

Sotto l'aspetto metodologico, invece, va messo in evidenza, in primo luogo, il costante intersecarsi, in Foucault, di riflessione filosofica e ricerca storica, quest'ultima condotta in prima persona attraverso lo studio di fonti eterogenee – ad esempio, decreti, regolamenti, registri d'ospedale o di prigione, atti giudiziari – che gli consentano di ricostruire i meccanismi di potere che connotano i contesti sociali analizzati:

non è certamente né con Hegel né con Auguste Comte che la borghesia parla in modo diretto. Accanto a questi testi sacri è rinvenibile una gran massa di documenti sconosciuti i quali costituiscono il discorso effettivo di una azione politica; da essi salta agli occhi una strategia assolutamente cosciente, organizzata, ponderata (Foucault 1975c, p. 30).

Si tratta di documenti che in alcuni casi si limitano a gettare, anche solo per un istante, un fascio di luce su quelle che il filosofo francese definisce "vite infami", ossia esistenze destinate all'oblio e le cui uniche tracce sono date, appunto, dal loro contatto con il potere: soldati disertori, monaci scandalosi, ubriaconi inveterati, ecc., fatti oggetto di lettres de cachet, misure di internamento o rapporti di polizia (cfr. 1977d, pp. 249-252). L'attenzione prestata a questo tipo di materiale storico non implica, naturalmente, che non sia necessario misurarsi anche con le opere scientifiche e i grandi classici: basti pensare al serrato confronto con la letteratura psichiatrica e con Freud in Storia della follia.

Il modo in cui Foucault concepisce il proprio rapporto con la storia, e dunque anche i criteri in base ai quali egli seleziona le proprie fonti, come vedremo, hanno alle spalle dei riferimenti precisi, come quello alla "nuova storia" delle «Annales», e sono connessi a importanti assunti della sua prospettiva teorica. Ad esempio, la correlazione tra Stato e micropoteri impone un attento studio proprio di quei documenti in grado di parlarci della maniera in cui gli individui venivano governati nei luoghi in cui si svolgeva la loro vita quotidiana. Inoltre, ed è questo un aspetto centrale, per Foucault l'analisi del modo in cui il potere investe le "periferie" della città politica, ossia coloro che sono ai suoi margini (ad esempio, i folli o i detenuti), è fondamentale per comprendere la logica delle relazioni di potere. Quando egli afferma di essersi interessato a temi che "erano un po' i bassifondi della realtà sociale" (1975d, p. 13)6, enuncia un principio cardine della sua ricerca, quello secondo il quale un'analitica del potere, che voglia cogliere il funzionamento concreto e spesso nascosto di quest'ultimo, non può che essere anche una genealogia dei limiti, cioè dei confini attraverso i quali una società delimita lo spazio di ciò che va incluso, disegnando, al contempo, la figura di ciò che per essa è da considerare come l'Altro. Ed è solo esaminando il profilo che assume questa alterità, nonché il tipo di rapporto che viene instaurato con essa – ossia non limitandosi a guardare una società a partire dall'autocomprensione che essa matura di se stessa, la quale, ci insegnano Marx, Nietzsche e Freud, è spesso limitata e viziata dall'ideologia, dall'autoinganno e dai meccanismi della rimozione – che possono emergere alcune caratteristiche essenziali di una società, e dunque anche della specifica razionalità delle sue tecniche di potere. Ad esempio, anche ammettendo, come farà Foucault, che esiste uno statuto etnologico generale della follia legato alle necessità di ogni funzionamento sociale (cfr. 1978c, pp. 68-70), è soltanto attraverso un'interrogazione sul particolare profilo che assume il folle all'interno della cultura moderna che diventa possibile cogliere degli elementi costitutivi di quest'ultima. Se le linee che disegnano i tratti dell'identità di una società sono, allo stesso tempo, i limiti che determinano ciò che è l'Altro rispetto a essa, allora è proprio su queste linee di configurazione/esclusione, sui confini di una cultura – e non solo al suo interno, negli spazi in cui essa definisce se stessa –, che bisogna collocarsi per cercare di comprendere cosa vi accade. Soltanto a partire da una filosofia del soggetto incentrata sul primato dell'autocomprensione è possibile, dunque, considerare ricerche come quelle sulla follia o sulla prigione come contributi marginali all'analisi della modernità politica.

Un terzo livello, oltre a quello contenutistico e a quello metodologico, sul quale mi sembra che vada individuato il contributo di Foucault al pensiero politico e al dibattito pubblico contemporanei è quello relativo al tipo di pratica critica che egli propone. A risaltare è, innanzi tutto, l'insistenza con cui il filosofo francese pone l'istanza della "fisicità" di tale pratica. Se il potere, come egli sostiene, attraversa i corpi, anche la critica del potere è costretta a passare attraverso i corpi, in primo luogo a quello dell'intellettuale stesso: da ciò la correlazione tra critica teorica e lotta politica, quest'ultima intesa anche e soprattutto come un'azione che va condivisa con coloro che vengono investiti dai rapporti di potere che sono oggetto della critica. Tale impostazione ha due conseguenze che mi sembrano interessanti e che risultano evidenti, ad esempio, in un'esperienza come quella del GIP, che era volta a elaborare una critica del sistema penitenziario che desse vita a delle lotte condotte con i detenuti stessi, offrendo loro la possibilità di parlare in prima persona, e con i diversi soggetti che professionalmente gravitavano intorno alla prigione. In altri termini, l'impegno "fisico" dell'intellettuale critico implica, innanzitutto, che egli non si limiti a lottare per, ma lotti con le persone la cui esistenza è attraversata e configurata dai rapporti di potere che sono bersaglio della sua attività critica; inoltre, che egli non è chiamato soltanto a parlare di, ma anche a dare voce a coloro di cui parla. Contro le generalizzazioni astratte e la proliferazione dei discorsi su, che costituiscono spesso una riduzione al silenzio di coloro sui quali essi vengono tenuti, si tratta di elaborare delle analisi anche con il coinvolgimento dei diretti interessati.

Alla "fisicità" della pratica critica è correlata l'attenzione che Foucault presta alla dimensione "locale" dei rapporti di potere. Non si tratta, per il filosofo francese, di trascurare l'importanza delle strategie e delle istituzioni "globali", ma di comprendere che esse si radicano sempre in micropoteri, ossia in dispositivi di potere operanti negli spazi circoscritti all'interno dei quali si svolge la vita quotidiana degli individui; dispositivi che, a loro volta, si inscrivono continuamente in strategie d'insieme: il rapporto tra i due piani è di reciproco condizionamento. Le relazioni di potere vanno dunque pensate come reti di interazioni in cui, nonostante le differenti posizioni degli attori, non si danno soggetti sovrani. Questo significa che non possiamo modificare i meccanismi di potere che attraversano e configurano una società se ci limitiamo a trasformare le sue istituzioni centrali, senza intervenire sui suddetti micropoteri. Foucault riporta come esempio quello che, a suo parere, è accaduto in Unione Sovietica, dove sono cambiati i rapporti di produzione, il sistema legale concernente la proprietà, le istituzioni politiche, ma i rapporti di potere in famiglia, in fabbrica, nella sessualità, sono rimasti identici a quelli dei paesi occidentali (cfr. 1978b, p. 473). L'assenza di "centrali del potere" implica che anche lotte locali possono avere ricadute globali, se riescono a mettere in discussione l'economia generale dell'insieme, e che le strategie globali di critica e di lotta possono essere efficaci soltanto nella misura in cui integrano "resistenze locali" (cfr. 2004a, p. 95 e 1977i, p. 28). Da questo punto di vista risultano evidenti i limiti di quelle prospettive intellettuali che enfatizzano l'efficacia degli interventi di ingegneria istituzionale, a livello sia nazionale che sovranazionale.

Questa istanza della "fisicità" dell'atteggiamento critico resta centrale anche negli studi foucaultiani degli anni Ottanta – che per certi versi segnano un significativo ripensamento di alcuni assi portanti della genealogia elaborata nel decennio precedente – sulla figura del "parresiasta" nel mondo antico, ossia di colui che esercita una funzione critica dicendo la verità, anche a costo di rischiare la morte, e conducendo una vita esemplare in grado di stabilire un rapporto armonico tra logos e bios. Si tratta di studi che si inseriscono all'interno di una più ampia riflessione sull'etica, in particolare quella antica, intesa come "elaborazione di una forma di rapporto con se stessi che permette all'individuo di costituirsi come soggetto di una condotta morale" (1984a, p. 251): è il tema classico della cura di sé nella sua correlazione con la cura degli altri (cfr. 1984r, p. 279), su cui verteranno le ricerche del filosofo francese negli ultimi anni della sua vita.

Foucault insiste, lo vedremo, su quello che egli definisce il principio di "irriducibilità del pensiero". Quest'ultimo costituisce la modalità attraverso la quale gli esseri umani affrontano la realtà ed è connesso alla libertà, che è possibile soltanto all'interno dello spazio aperto dalla problematizzazione riflessiva dell'esistente. Si tratta allora di porsi, allo stesso tempo, sul piano delle idee e dei corpi, di "ciò che si pensa" e di "ciò che accade":

ci sono più idee sulla Terra di quante gli intellettuali spesso non immaginano. E queste idee sono più attive, più forti, più resistenti e appassionate di quanto pensano i "politici". Bisogna assistere alla nascita di idee ed all'esplosione delle loro forze: e non nei libri che le formulano, ma negli avvenimenti in cui esse manifestano la loro forza, nelle lotte condotte per le idee, contro o per esse. Non sono le idee che conducono il mondo. Ma proprio perché il mondo ha delle idee (e perché ne produce molte in continuazione) esso non è condotto passivamente secondo coloro che lo dirigono o coloro che vorrebbero insegnargli a pensare una volta per tutte (1978r, p. 1).

Foucault delinea, dunque, i tratti di una pratica critica capace di tenere insieme idee e avvenimenti, governo di sé e governo degli altri, etica e politica, conoscenza e testimonianza, nella convinzione che la critica non possa non mettere in gioco l'esistenza stessa degli individui e che "non esiste un altro punto, originario e finale, di resistenza al potere politico, che non stia nel rapporto di sé con sé" (2001c, p. 222). Infatti, soltanto colui per il quale stabilire un certo rapporto con sé e con la verità è più importante della propria sicurezza, e della vita stessa, può trovare il coraggio per criticare e opporsi a chi ha il potere di punirlo o, addirittura, di dargli la morte. Ed è proprio in questo coraggio che la volontà di dominio trova un irriducibile ostacolo alla sua piena realizzazione:

il movimento per cui un uomo solo, un gruppo, una minoranza o un popolo intero dice: "Non ubbidisco più" e, di fronte a un potere che giudica ingiusto, rischia la vita – questo movimento mi sembra irriducibile. Perché nessun potere è capace di renderlo assolutamente impossibile: Varsavia avrà sempre il suo ghetto in rivolta e le sue fogne popolate di insorti. (...) Se le società tengono e vivono, cioè se i poteri non sono "assolutamente assoluti", questo accade perché, dietro a tutte le accettazioni e le coercizioni, al di là delle minacce, delle violenze e delle persuasioni, esiste la possibilità di un momento come questo, in cui non si scambia più la vita, in cui i poteri non possono più niente e in cui, davanti al patibolo e alle mitragliatrici, gli uomini si sollevano. (...) È giusto o no rivoltarsi? Lasciamo aperta la questione. Ci si solleva, questo è un fatto: è in questo modo che la soggettività (non quella dei grandi uomini, ma quella di chiunque) si introduce nella storia e le trasmette il suo soffio vitale (1979f, pp. 132, 135).

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