Autore Ettore Sottsass
Titolo Molto difficile da dire
EdizioneAdelphi, Milano, 2019, Piccola Biblioteca 736 , pag. 298, ill., cop.fle., dim. 10,5x17,7x2,2 cm , Isbn 978-88-459-3341-7
CuratoreMatteo Codignola
LettoreGiangiacomo Pisa, 2019
Classe design , architettura , urbanistica












 

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Indice


Molto difficile da dire                      11

Humor                                        27

Le pietre cadute sui prati                   29

Alle sorgenti del Nilo                       39

Comunisti, africani e barcamenosi            43

Un'India spelacchiata                        49

Templi in India                              53

Design                                       63

Appunti per il progetto di una casa al mare  77

Le ceramiche delle tenebre                   81

Agosto '66                                   93

Col permesso della censura                  105

L'uso della luce                            123

Il povero Richards.
    Un'esperienza con la ceramica           159

Il controdesign                             175

I container impassibili.
    Progetto per una mostra al Moma         181

Per ritardato arrivo dell'aeromobile        189

Quando ero piccolissimo                     195

Haiku e suspense                            203

Lettera a Riccardo Dalisi                   221

Rituale di morte e nascita di una casa
    borghese del centro di Milano           227

Il rituale per fare una casa sumera         235

Definizione di design                       239

Il popolo lontano                           255

Acqua minerale diuretica                    277

Il convegno di Lilla                        281

Voglio risolvere per sempre il problema
    mondiale dell'architettura              287


Nota ai testi                               289

Ettore L'Africano di Matteo Codignola       293


 

 

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Pagina 11

MOLTO DIFFICILE DA DIRE
[1967]



Sono nato nel 1917, classe 1917, «classe di ferro» - dicevano - e il ferro, per come me lo ricordo io, è il simbolo della forza dei poveri, per esempio di quei montanari come mio nonno Giovanni Battista capostradino austroungarico delle Dolomiti: costruiva strade nelle valli profonde di una volta, dove il sole tramonta nel buio a mezzogiorno e la gente diceva: «quello lì ha una salute di ferro» e «quello lì dopo aver mangiato per anni, appena sveglio (alle quattro di mattina) un piatto di trippa e bevuto un quarto di grappa, morì di polmonite galoppante, morì di febbre bollente in mezzo a coperte ghiacciate e fu sepolto dietro la chiesa a nord dove la neve se ne va soltanto a maggio, quando i dossi sono già scaldati dalle primule, dove era sepolta anche mia nonna di ventitré anni che una domenica andò a Messa con ciabattine nere ricamate di rose rosse e si bagnò le calze bianche e i piedi nella neve e rimase troppo a lungo a farsi vedere nella chiesa di pietra gelata, perché era giovane - giovane e bella - e fu così che la polmonite la uccise. Quella era la generazione dei poveri di ferro dell'Impero austroungarico, sommersi da valanghe di ferro di granate e di obici e cannoni, in Galizia, sul Pasubio, in Bosnia e dovunque in Europa, ma adesso nessuno è più di ferro; già la classe 1917 non era di ferro, anche se lo dicevano, e quando sono andato soldato io, non ero sul camion con bandiere tricolori, canti osceni e ubriachi, ma sono arrivato a piedi da solo; sono entrato nell'androne della caserma e mi è venuto incontro odore di cucina - latrina - lavatura di gavette - pastasciutta a marcire nei rigagnoli del cortile. Poi mi hanno mandato in camerata - al buio - e mi sono messo a piangere.

Doveva essere più o meno il 1938, anch'io ero giovane: quando poi la classe di ferro tornò nel 1945, non era più di ferro, eravamo magri, malati e sconfitti e gli altri andati a nutrire betulle, boschi di pini e erbe chissà dove. Adesso in Italia nei paesi ci sono giardinetti che nessuno bagna, e a ricordare, ci sono discorsi di Presidenti e Generali su palchi di tubi Innocenti, velluto rosso, bandiere tricolore e carabinieri, con palme sullo sfondo e fattura della cerimonia pagata dal Ministero degli Interni.

Il fatto è che sono nato nel 1917, così da ragazzo mi facevano mettere il fez che era un secchiello di panno nero con un fiocco pesante di seta finta, o rayon. Mi mandavano a comperare aquile di stoffa dorata, gradi rossi da caporale, cinture elastiche e stivali.

La gente stava per essere messa a posto e in ordine e qualcuno sapeva come si sarebbe dovuto fare: tutti si dovevano impegnare per lo Stato, per la Legge, per la Famiglia, per l'Esercito e altre cose, la Fiat e la Lancia vendevano automobili, ma non c'era ancora l'idea del disegno (come c'è adesso che si chiama «design»), tanto la Fiat e la Lancia vendevano lo stesso e del resto l'idea del «design», anche se forse si era formulata in Europa, però stava per diventare una cosa reale soprattutto nell'America del Nord per via delle tante industrie. Invece da noi, in generale, c'erano poche industrie, soltanto quelle per i treni, per gli aeroplani, per i cannoni e le forniture militari, soltanto le industrie che in un modo o nell'altro potevano servire allo Stato che poi naturalmente lo Stato è sempre l'Esercito, la Marina, l'Aviazione, compresa la Polizia e affini, ma quelli lì, anche se sono sempre i primi a procurarsi i soldi delle tasse per gli esperimenti a tutte queste cose, certo non gli importa com'è il disegno dei loro strumenti, basta che siano disegnati per ammazzare, e Carmichael dice che «l'arte è politica», così per tutti quei comandanti e potenti «l'arte è morte» e invece per la vita della gente ci sono sempre le briciole, soltanto le briciole.

Ad ogni modo per la vita della gente, in Italia a quei tempi, non c'erano davvero molte industrie, quasi non cominciavano neanche; neanche per le scrivanie dei Burocrati dello Stato, neanche per le brande delle caserme, ancora meno per la gente: l'Italia e tutti gli Stati dell'Europa erano impegnati a preparare «la difesa basata sulla forza delle armi». Stavano preparando una fantastica macchina di guerra che poi scoppiò finalmente tra la felicità generale che poi finì in un generale massacro.

Dato che io ero nato nel 1917, con le buone o con le cattive mi fecero partecipare a questa preparazione di morte. Anche se ero studente di architettura, anche se guardavo libri del Bauhaus (che ormai erano stati bruciati sulle pubbliche piazze con la scusa che non erano abbastanza patriottici e militaristi) - il Nazi diceva: «Il potere è dietro l'otturatore», come si dice oggi del resto - anche se guardavo i libri del Bauhaus dove c'era scritta l'idea, anzi la speranza più avanzata e morale di quello che avrebbe potuto diventare l'architettura e l'industria per la gente e di come si sarebbe forse potuto disegnare il mondo, mi facevano ad ogni modo partecipare alla preparazione di morte. Era molto difficile capire, la solitudine era grande, i destini pesavano e veniva l'angoscia, come quel giorno presago che ero nella camerata buia e mi è venuto da piangere.

Qui in Italia dicevano che quella roba del Bauhaus era puro intellettualismo borghese internazionale, tutti comunisti e massoni, non c'era il senso delle tradizioni e ancora meno il patriottismo più o meno come oggi si direbbe l'impegno; quella roba non c'entrava con l'Italia, che cosa c'entrava e che cosa erano questi problemi dell'industria quando c'era l'artigianato e tanta arte nell'Italia secolare bimillenaria?

Ad ogni modo anche se andavo disperatamente a cercare nelle immagini, nelle forme, nelle pitture, nei colori, nei modi di tutti i tempi e di tutti i luoghi, soluzioni del mio mestiere che avessero avuto a che fare con la gente - con noi e non soltanto con i Destini della Storia, che già davano angoscia di tragedia incombente - mi restava in mano ben poco e ben misere soluzioni dato che ero in un posto dove si doveva sempre pensare allo Stato e non alla gente, dato che alla gente dicevano ci avrebbe pensato lo Stato...

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Pagina 29

LE PIETRE CADUTE SUI PRATI
[1960]



Circa duemila anni fa, qualcuno ha aggredito la Grecia, ha ammazzato i greci, ha distrutto i templi, ha rubato le statue lungo le strade e nelle piazze e tutto è finito nella polvere. Può darsi che i greci avessero rotto le scatole ad altra gente o può darsi di no. Questo non me lo ricordo, ma ad ogni modo adesso sono circa duemila anni che si va in Grecia col fiato sospeso e si torna commossi: e sono circa duemila anni che quando uno torna, deve dire qualcosa

[...]




Il grande momento della Grecia - il momento di quelle pietre che adesso nei prati non mi lasciano fumare - è stato il momento arcaico, dicono dal sesto al quarto secolo avanti Cristo. In quei due secoli i greci sono andati a scoprire le cose a modo loro, hanno fatto strade attraverso la loro terra, con grazia, hanno inventato quella faccenda della mitologia, con gli dèi e le loro storie da portinai, hanno spettegolato a destra e a sinistra, mescolando ulivi con puttane, sorgenti con indovini, capre con stelle, fiumi con giovanotti, liti con amori, il mare con le vergini, la morte con i cavalli, e hanno fatto un casino generale di storie e di spettacoli, di proverbi e di verità dove non si capisce niente, ma dove ogni cosa diventa divertente e possibile - per lo meno divertente - in questo mondo di fessi e di noiosi. Poi hanno costruito i templi e hanno fatto migliaia di statue e di vasi. Portavano gioielli, facevano guerre e passavano il tempo: erano un po' allegri e un po' seri, un po' pettegoli e poi si arrabbiavano. Spendevano i soldi per le loro città, mantenevano le vergini (chissà poi se erano vergini, chissà se erano belle, spero tanto che non fossero come quelle delle processioni cattoliche) e le chiudevano nei santuari, sacrificavano i montoni al dio e poi se li mangiavano e passavano il tempo e tutto finiva lì.


Tutto finiva con la scoperta di un modo di vivere sulla terra e nel paesaggio e con gli strumenti che avevano nelle mani: i cambiamenti e le rivoluzioni erano il risultato di esperienze lunghe ed erano funzionali e non retoriche, erano cambiamenti e rivoluzioni di famiglia, su una misura giusta e possibile. Per lo meno lo spero, perché la storia della politica non la so, e non mi fido, in fondo, di nessun testo, perché è come se si volesse ricostruire New York dalle raccolte del «New Yorker» o dell'«Esquire», o l'architettura americana dalle riviste di architettura - e poi peggio, perché i testi dei greci non sono antologici e informativi ma altre cose: poesia e poemi e discorsi e storie per divertire, pieni di balle e di idee, ma certo pochi documenti per fortuna. E così spero proprio che i Greci siano stati così intelligenti come si dice. Io le storie della politica non le so, riesco solo a leggere nelle pietre e nei posti, come un cacciatore... e nelle pietre, nelle pietre cadute nei prati, riesco a leggere come erano perfetti e capaci nel mettere insieme il paesaggio con le loro costruzioni, nel fare organizzazioni di città e di posti incastrati a misura nelle pianure e nelle montagne, con strade di giusta lunghezza, con curve che si prendono bene, e nelle curve i muri giusti, non troppo alti e non troppo bassi, con le statue nel punto giusto, non troppa piazza davanti non troppa di dietro, non troppa sorpresa e non troppa preparazione, con tanta pietra e con tanti alberi, con i giardini chiusi dai muri e poi il bosco aperto, con minuzie di ogni genere che non possono venire, come si dice, da un progetto - ma vengono soltanto se si resta sul posto e si guarda a lungo. Io spero che si capisca quello che voglio dire. La stessa cosa che è riuscita a fare la borghesia per qualche decennio nelle sue case, quelle dipinte da Vuillard o da Bonnard, tutto perbene al suo posto. La stessa cosa che sono riusciti a fare i contadini della Toscana con le loro case di campagna - non i Medici, solo un poco i Medici, con i loro volloni - ma i contadini, con i loro muretti delle vigne, le loro strade ben messe, i sagrati, le case e le casette, i cipressi, le panche di pietra e le lucertole.

Ma l'anima dei greci non era certo borghese e poco contadina.

Sì, i greci raccontavano storie come i contadini, come i contadini del Sud americano, e Faulkner, come i contadini toscani - forse - con gli occhi vivaci.

[...]




Qui in Grecia, prima dell'architettura, voglio dire, prima dei monumenti viene il paesaggio. I monumenti non sono che mezzi qualunque per dare un certo senso al paesaggio.

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Pagina 63

DESIGN
[1962]



Non mi ricordo dove, ma ho letto una volta che gli uomini non sono come gli altri animali. Questa cosa pare si possa dire perché gli uomini hanno inventato e costruito strumenti per aumentare la loro forza, e ad ogni modo le loro possibilità di azione. Mi ricordo anche di aver letto che gli uomini con l'aiuto degli strumenti hanno aumentato il loro cosiddetto «dominio sulla natura».

Io non so se le cose stanno proprio così, ma anche se le cose non stanno così, l'idea è ben inventata e si può partire da una possibilità del genere: anche se il fatto, messo in questo modo, è forse un po' troppo semplificato. La verità è che gli strumenti non hanno mai avuto alcun effetto sugli uomini; cioè gli uomini non sono stati trasformati dagli strumenti come tali: se gli uomini si sono trasformati durante la loro storia - un'affermazione problematica - è per le «azioni» rese possibili dagli strumenti e soprattutto per l'effetto che ha avuto sugli uomini l'idea di poter essere la causa di certe azioni. In altre parole, gli uomini non hanno mai deificato le frecce: hanno casomai deificato gli animali che venivano uccisi dalle frecce o hanno sublimato in qualche modo l'idea dell'uccisione degli animali o - il più delle volte - hanno deificato se stessi. Ma le frecce, come tali, sono rimaste frecce fin quando, per una specie di viaggio di ritorno, il rito, nel sublimare l'uccisione dell'animale, non ha preso dentro di sé anche la freccia. A questo punto (un punto che è molto vicino all'origine degli strumenti ma può anche non esserne l'origine stessa) comincia il design, che a quei tempi significava incidere sulle frecce segni magici o simboli e così via; o anche dare una forma speciale alle frecce.


Questa storia del design l'ho presa un po' alla lontana, ma in realtà la sostanza della storia è che il design non riguarda l'esistenza o meno degli strumenti come tali, ma riguarda la possibilità di esistenza degli strumenti a contatto con una certa atmosfera psichica o culturale o che so io, a carattere magico, o razionale, o mezzo e mezzo, o - di nuovo non lo so - tutto quello che c'è nella storia.

Naturalmente definire i vari stati psichici o culturali è come definire le nuvole - tanto non c'è definizione e quasi quasi non ci sono neanche approssimazioni -, e così in fondo definire quando c'è design è come definire le nuvole, se uno decide che design c'è quando si crea un rapporto tra uno strumento e una certa atmosfera psichica o culturale. A me, quello che mi diverte è soltanto l'idea che tutto va avanti per suggestioni e niente di più: e so benissimo che se volessi provare a definire il rapporto esistente tra il pilota di un grosso aereo a reazione e il pannello di comando dell'aereo mi troverei nei guai, e mi troverei nei guai anche se volessi definire il rapporto che c'è tra una cucina a gas e la cuoca, dato che i momenti di questi tipi di rapporto non si possono tirar fuori, come giocattoli, da una scatola. I confini di tutte le cose che si possono dire al riguardo sono sempre mescolati, così mescolati che quando se ne stacca un pezzo ne restano altri quaranta attaccati.

[...]




Nessuno mi dice che design vuol dire inventare la freccia. Dicono che quella è un'invenzione, un fatto di ingegneria o un fatto di tecnica. E fin qui tutto va bene.

Ma poi mi vogliono far credere che design vuol dire fare in modo che si possano tirare meglio le frecce e fare in modo che la freccia colpisca meglio nel segno. Cioè mi vogliono far credere che il design significhi lubrificare l'automatismo professionale del tiratore di frecce. È a questo che non credo.

Naturalmente l'automatismo del tiratore di frecce va lubrificato, va facilitato, si deve fare ogni cosa perché il povero tiratore di frecce non sbagli la mira e ammazzi il suo povero mammut. Ma io dico che fin qui la faccenda riguarda l'inventore della freccia o quelli che la vogliono perfezionare come strumento: non riguarda il design, come del resto non riguarda la magia (se vogliamo riprendere il tema che il design comincia con la magia). Adesso, lo so che la magia è un modo come un altro di perfezionare uno strumento. Ma perfezionare uno strumento per facilitare i gesti automatici o i gesti che tendono ad essere automatici è un'operazione che non ha niente a che fare con la magia, né la magia ha niente a che fare con i gesti automatici.

Malgrado tutto, la magia è un tipo di tecnica che richiede all'uomo una partecipazione totale e tira a galla dell'uomo, più che i gesti automatici, i gesti più instabili; più che la presunzione delle certezze (quali poi?), la magia tira in ballo la paura e le incertezze più angosciose; tanto angosciose che per uccidere un animale si comincia, prima ancora di andare a caccia, a chiedergli perdono. Voglio dire che non è la stessa cosa rovesciare un bicchiere d'acqua perché voglio bagnare la terra o rovesciarlo per compiere un gesto di magia che richiami dal cielo la pioggia. Non è niente affatto la stessa cosa, come non è la stessa cosa perfezionare uno strumento con i procedimenti razionali che usiamo oggi, o perfezionarlo con procedimenti magici.

Sono per l'uomo, e riguardo all'uomo, due procedimenti diversi. E così, io ho sempre pensato che il design comincia dove finiscono i perfezionamenti con processi razionali, e cominciano i perfezionamenti con processi diciamo - tanto per dire, che poi non va bene - dove cominciano i perfezionamenti con processi magici.


Qui è ora di parlare della magia.

[...]




Ogni giorno il razionalismo moderno si sforza di sostituire gli automatismi ai riti: tende a limitare alle zone più facili il dominio delle forze della natura. Il razionalismo moderno fa come gli struzzi: mette la testa sotto terra per nascondersi, e si ritiene soddisfatto se riesce a drogare milioni e milioni di uomini con le «istruzioni per l'uso» - tutto spiegato bene: girate i bottoni 1, 2, 3 e 4 e uscirà X, Y, Z e K: non avete da partecipare, anzi, guai se partecipate: il mondo potrebbe saltare per aria.

Effettivamente potrebbe anche saltare per aria e non è escluso che salti. Siamo molto vicini al momento in cui le «istruzioni per l'uso» non serviranno più e il mondo salterà per aria e caso mai fosse necessaria una dimostrazione, questa è la dimostrazione più drammatica che i metodi razionali non risolvono le cose del mondo: e anche se il mondo non salterà per aria, bisogna arrendersi all'evidenza del disastro completo dell'impalcatura razionale.

Perché credete che tutti vogliano fuggire alle isole del Pacifico - quelle isole che tra l'altro non esistono più? Volevo soltanto dire che al di là delle «istruzioni per l'uso» gli strumenti e le cose sono i mezzi con i quali gli uomini compiono o cercano di compiere il rito di vivere e se c'è una ragione per la quale esiste il design, la ragione è che il design riesca a ridare o a dare agli strumenti e alle cose quella carica di sacralità per la quale gli uomini escano dalla sfera automatica e mortale e rientrino nella sfera del rito: cioè della vita.

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Pagina 255

IL POPOLO LONTANO
[1975]



Se uno dice «la gente» io mi immagino che voglia parlare di tutti, uomini e donne, vecchi e bambini, belli e brutti, tutti in generale quelli che camminano per le strade, che si fermano nelle piazze, che viaggiano sui treni, che lavorano nelle fabbriche e negli uffici, che stanno seduti al cinema, che ballano nelle balere e così via, compresi ricchi e poveri, potenti e inermi, sani e malati, attivi e pigri.

Ma se uno dice «popolo», allora mi pare che uno già comincia distinguere.

[...]




Gramsci, questi salti, questo tipo di cultura, la chiamava folclore: non ci soffriva neanche troppo, o almeno, dato che era un cervello fino, non sapeva bene che cosa farsene del folclore e non sapeva bene come usarlo. Nelle condizioni nelle quali si trova il folclore, la cultura popolare, non gli appariva certo come un termine abbastanza sicuro o abbastanza ricco attraverso il quale poter risalire ad una qualsiasi realtà popolare. «Occorrerebbe studiarlo (il folclore)» - diceva - «come concezione del mondo e della vita, implicita in grande misura, di determinati strati (determinati nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione (anch'essa per lo più implicita, meccanica, oggettiva) con le concezioni del mondo ufficiali (o, in senso più largo, delle parti colte delle società storicamente determinate) che si sono successe nello sviluppo storico. (Quindi lo stretto rapporto tra folclore e senso comune che è il folclore filosofico). Concezione del mondo non solo non elaborata e asistematica, perché il popolo (cioè l'insieme delle classi subalterne e strumentali di ogni forma di società finora esistita) per definizione non può avere concezioni elaborate, sistematiche e politicamente organizzate e centralizzate nel loro sia pur contraddittorio sviluppo, ma anzi molteplici; non solo nel senso di diverso e giustapposto, ma anche nel senso di stratificato dal più grossolano al meno grossolano, se addirittura non deve parlarsi di un agglomerato indigesto di frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute nella storia, della maggior parte delle quali, anzi, solo nel folclore si trovano i superstiti documenti inutili e contaminati».

A me pare che queste cose che dice Gramsci siano molto giuste, molto ben dette e mi pare che sia anche molto giusto, per quel che ne capisco io, sospettare e molto, come fa lui, Gramsci, di quelle mosse e mossette della cultura borghese, di avanguardia o no, per agganciarsi a «questo» tipo di cultura popolare con l'idea che così uno si sente più vicino al popolo, si democratizza, si mescola con il popolo e queste cose, voglio dire quelle mosse e mossette della cultura borghese, d'avanguardia o no, che vanno dal costruirsi in campagna (o anche in città) muri di sassi in vista o di finti sassi in vista, travi di legno in vista o finti travi di legno in vista (voglio dire un ambientino rustico), fino a bere Barbera e mangiare porcate pseudopopolari nelle osterie di periferia (magari cantando canzoni) e queste cose, e vanno dal collezionare naïf o stampe popolari per il soggiorno al rimpianto per le «qualità» popolari perdute (quali qualità?...) e queste cose, e vanno (per l'avanguardia) dall'organizzare serate di canti di lavoro e canzoni della mala eccetera, fino alla frase che dicono ogni cinque minuti: «... ma questo non serve al proletariato...» eccetera eccetera eccetera. Il sospetto che viene irrefrenabile è che alla fine tutte queste mosse o mossette non siano altro che un modo per non perdere, ancora una volta, la gestione generale delle condizioni nelle quali il popolo - dicono - è bene sia tenuto.

Io invece, per quello che posso pensare, credo che se ci sono agganci, tra una cultura borghese o no, d'avanguardia o no, e la cultura popolare, casomai, non sono certo agganci con le «forme», voglio dire non sono agganci con i risultati finali, con quello che si vede o che si sente o queste cose: se casomai ci sono agganci, se ci sono cose da studiare e da imparare, cose da sapere e da non sapere e da non dimenticare della cultura popolare, forse sono i metodi, i processi, le strategie di difesa; casomai sono da imparare le tecniche di difesa e non certo i trionfi - (dato che un popolo non ne ha mai) -, ma l'astuzia a battersi senza armi, la forza a sapersi mimetizzare, la dignità ad amministrare il tempo (voglio dire le ore e gli anni) e la dignità ad economizzare la fatica, la certezza a rispettare (unico, reale rispetto) il pianeta, voglio dire il pianeta astrale che è fatto di terra, di acqua, di venti, di fulmini, di fuochi, di nuvole: che è capace di generare ma è anche capace di massacrare e queste cose, non so se mi spiego.

Casomai, secondo me, della cultura popolare queste sono le cose da guardare e forse da insegnare: come si comporta un marinaio con il mare e un valligiano con la montagna, come si fa a navigare, a camminare, a lavorare adagio per stancarsi il meno possibile, come si fa ad abbassare adagio il piccone, come si fa ad alzare adagio il badile, come si fa a girare adagio un bullone e come si fa a guardare in permanenza al lavoro come a un sopruso.

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Pagina 277

ACQUA MINERALE DIURETICA
[1975]



Che a Milano c'era la Mostra del Mobile me ne sono accorto per via che mangio sempre all'albergo qui di fronte e i tavoli un giorno si sono riempiti di stranieri, specialmente signore, non più giovani, svizzere, tedesche e americane, direttrici di riviste di arredamento, direi, e signore un po' più giovani, magari arredatrici di classe, tipo parigino, e anche uomini, chi lo sa, mercanti dalla voce un po' roca e poi anche amici omosessuali intellettuali, tipo «haute couture» e queste cose e così ho pensato: «Ci deve essere in giro la Mostra del Mobile».

Ma poi la notizia veramente sensazionale l'ho letta sul giornale, voglio dire quando ho letto che l'Alain Delon con la Mireille Darc hanno disegnato dei mobili, una stanza da letto, e c'era scritto che è un po' liberty. «Cazzo,» ho pensato «questa sì che è una bella notizia», mi sembra un'idea fantastica che i divi del cinema si mettano a disegnare i mobili, anche a fare i designer, lo dico sul serio, non ci avevo pensato ma mi pare una grande idea che tutto il bla bla bla di una professione incerta finalmente vada ad approdare a quei lidi cui questa società felice l'ha da sempre destinata, questa professione, non so se mi spiego, magari così tutto diventa più chiaro e così mi pareva una bella azione di radical design, come si dice oggi, se è vero che l'intento del radical design (almeno uno degli intenti) è di mettere in chiaro storie di questo genere.

Adesso sono qui a sperare che il fenomeno dilaghi a macchia d'olio: c'erano già i sarti, sto pensando, e adesso ci sono gli attori del cinema, ma potrebbero anche esserci i grandi calciatori (mi riferisco a Rivera, naturalmente), e i corridori di bicicletta, poi i fantini e i corridori d'automobile, ma soprattutto potrebbero esserci presentatori TV e i cantanti in genere senza contare le conigliene così carine e senza contare, con sussiego, alla fine, qualche ministro importante. Sarebbe fantastico. Finalmente, gli industriali farebbero affari come con noi cosiddetti designer non hanno mai fatto (incrementando, tra l'altro, l'occupazione che in questo momento risulta debolina), poi noi si resterebbe designer intellettuali senza lavoro e così ci si potrebbe dedicare ad attività più serie (che in questa sede non elenco), e poi, fatto importante, si arriverebbe finalmente a dare un altro colpo a quel fenomeno di disgregazione totale della «cultura» cui è bene partecipare e collaborare se in qualche modo si auspica, come si auspica, che i meccanismi di una società come la nostra risultino così chiari da brillare di luce propria.

Che sarà poi, come sempre, la luce dell'alba, quella delle fucilazioni.

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Pagina 287

VOGLIO RISOLVERE PER SEMPRE
IL PROBLEMA MONDIALE
DELL'ARCHITETTURA
[1975]

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