Copertina
Autore Alessandro Spaventa
CoautoreFabrizio Saulini
Titolo American Lies
SottotitoloAscesa e caduta della Enron
EdizioneFazi, Roma, 2002, Le terre Interventi 46 , pag. 188 dim. 120x200x16 mm , Isbn 978-88-8112-382-7
LettoreCorrado Leonardo, 2003
Classe economia finanziaria , thriller
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


    American Lies

    Ascesa e caduta della Enron

    Prologo                                      7

1.  Relazioni pericolose (1985-1989)             9

2.  Valhalla, il paradiso degli eroi (1987)     20

3.  Tre uomini in barca (1990-1995)             27

4.  Passaggio in India (1991-1997)              36

5.  Piccoli manager crescono (1993-1998)        47

6.  I semi del male (1997-2000)                 62

7.  Il cielo si oscura (2000-2001)              78

8.  «A vision without boundaries» (1997-2001)   89

9.  Belli e dannati (1997-2001)                 97

10. Senti chi parla (gennaio 2001)             104

11. «Houston, abbiamo un problema» (2000-2001) 113

12. La lettera (agosto 2001)                   123

13. La resa dei conti (agosto-dicembre 2001)   132

    Epilogo (2002)                             144

    Nota                                       161
    Personaggi principali della vicenda        163
    Cronologia degli eventi                    168
    Riferimenti bibliografici                  175

 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 31

Il rischio è il suo mestiere


Personaggio insolito nel panorama dei dirigenti dell'industria texana del petrolio e del gas, figlio di un direttore vendite di un'azienda di valvole, Jeffrey Skilling nasce a Pittsburgh nel 1953. Finito il liceo, vince una borsa di studio in ingegneria presso la Southern Methodist University a Dallas, dove si laurea nel 1973.

Nel corso degli studi Skilling segue con forte interesse i corsi di economia e finanza aziendale, preferendoli a quelli del suo indirizzo e appassionandosi al tema dei derivati, strumento finanziario che permette di "scommettere" sull'andamento del mercato.

Scartata l'idea di diventare ingegnere, viene assunto dalla First City National Bank di Houston, dove si occupa di gestione del rischio, anche se lo scintillante mondo finanziario studiato all'università è ancora una chimera. Lui, che sognava call e put, infatti, si ritrova a occuparsi di assegni a vuoto.

Nel 1979, mentre Skilling studia per l'MBA ad Harvard, dove risulterà tra i migliori del suo corso, la First Bank fallisce, lasciando nel suo ex impiegato segni profondi. In un commento che assume oggi un sapore ironico, Skilling dichiara che proprio il fallimento della First Bank lo ha indotto «ad essere particolarmente rigoroso nella gestione del rischio nel settore trading».

Il rigore, tuttavia, non va d'accordo con la cultura aziendale promossa all'interno della Enron. Un simile incrocio tra il credo yuppie degli anni Ottanta e l'euforia irrazionale degli anni Novanta non può insistere troppo su come vengono raggiunti i risultati. I meccanismi di controllo, nonostante le dichiarazioni di Skilling e del resto dei vertici della Enron, sono a dir poco rilassati. E tanto più lo diventano a mano a mano che si sale nella gerarchia dell'azienda e ci si avvicina al centro del sistema. Bonus e promozioni vengono concessi in base agli affari conclusi: maggiore è il numero e l'entità, tanto più alto è il premio. Ma a rendere rischioso il tutto è l'assenza di controlli. Nessuno si preoccupa di verificare con attenzione le cifre reali dietro ad ogni accordo. Spesso i risultati annunciati sono ben lontani dalla realtà. Nella visione promossa da Skilling, chi chiude un nuovo contratto diventa l'eroe del momento; chi invece si preoccupa del lungo periodo viene bollato come improduttivo e messo ai margini dell'azienda.


La strana coppia

Uomo di spessore, motivato, capelli ingelatinati all'indietro e sguardo penetrante, Skilling guida il cambiamento ristrutturando divisioni, vendendo proprietà e attività e creando nuove opportunità d'impresa. Le buone maniere e la pronuncia perfetta, una rarità fra i masticatori di tabacco di Houston, gli permettono di emergere tra i dirigenti texani del petrolio e del gas. Parla la lingua dei consulenti, infarcita di espressioni aliene come "capitale intellettuale" o "velocità del capitale". Ken Lay ha trovato il suo delfino.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 52

Rank and yank

Nel frattempo, Jeff Skilling riempie il quartier generale della Enron con le sue truppe. Soprattutto, diffonde all'interno dell'azienda la cultura McKinsey, ovvero il mito del talento, il trionfo dell'individuo sul sistema.

In un libro uscito nell'ottobre del 2001 dal titolo The War for Talent, tre consulenti della McKinsey descrivono l'elemento fondamentale che, a parer loro, distingue le aziende di successo: «Il profondo convincimento che l'unico modo per prevalere è avere veri talenti a tutti i livelli dell'azienda». Per la McKinsey e i suoi epigoni il sistema, l'azienda, è forte tanto quanto lo sono le sue star, i suoi talenti. Negli anni Novanta, la cultura del talento si diffonde a ritmi vertiginosi in tutta Corporate America. Le idee della McKinsey, come sempre, diventano una bibbia, e Skilling ne è uno dei profeti più entusiasti. Il suo staff arruola ogni anno centinaia di govanissimi diplomati MBA, strapagandoli e promettendo loro opportunità mirabolanti. «L'unica cosa che ci distingue dai nostri concorrenti», dichiara Ken Lay ai consulenti McKinsey in visita alla sede della Enron a Houston, «sono le persone».

Alla base della visione McKinsey - e quindi della Enron - c'è un processo chiamato "differenziazione e affermazione" o, nella più volgare traduzione nel linguaggio enroniano, rank and yank, ovvero mors tua, vita mea. Il meccanismo è spiegato con brutale chiarezza dagli autori di The War for Talent, secondo i quali una o due volte l'anno i dirigenti di un'azienda devono sedersi al tavolo

e dividere i dipendenti in tre gruppi: A, B e C. Quelli del gruppo A devono essere stimolati e remunerati ben oltre il loro impegno. Quelli del gruppo B devono essere incoraggiati e aiutati. Quelli del gruppo C vanno rimessi in carreggiata oppure licenziati.

Alla Enron, il sistema viene applicato quasi alla lettera. In ogni divisione, per due volte all'anno si riunisce il comitato per la valutazione dei risultati, che assegna a ciascuno dei dipendenti un punteggio da 1 a 5 sulla base di 10 differenti criteri. Ai primi in classifica vengono corrisposti bonus di due terzi superiori rispetto ai colleghi, mentre agli ultimi non spettano né incentivi né stock options. In certi casi, i dipendenti meno brillanti vengono semplicemente mandati a casa.

Il sistema, apparentemente lineare, anche se crudele, è in realtà una specie di prova di sopravvivenza, un attraversamento del Nilo su una corda sottile. A ispirare il meccanismo, infatti, è la cultura del "tagliafuori", nella quale le fortune degli uni sono legate a filo doppio alle sventure degli altri. È fin troppo facile immaginare che cosa succede quando al malcapitato di turno tocca essere esaminato dai colleghi mentre si affanna a spiegare i risultati semestrali sotto un tabellone sul quale campeggia la sua foto.

Il sistema si presta anche a manipolazioni malevole. Può accadere che, per mettere qualcuno in cattiva luce, i membri del comitato cambino ad arte le cifre dei contratti. Spiega un ex dirigente della Enron:

A causa della complessità dei calcoli, ci possono volere settimane prima di capire che cosa sia stato cambiato. Per allora o il contratto era già stato bocciato oppure venivi licenziato.

Chiunque non abbracci la cultura del "tagliafuori" viene etichettato come uno che "non ci arriva", uno "scoppiato", uno "scarto" che verrà fatto fuori al prossimo giro. Le sessioni di valutazione diventano un incubo per i meno spregiudicati, per chi per un motivo o per l'altro non ce la fa, e soprattutto per chi non riesce a realizzare il budget assegnato da Lay, Skilling e Fastow al momento della definizione degli obiettivi. Chi non raggiunge la cifra prevista, quasi sempre fuori portata, corre il rischio di essere "riposizionato", ovvero, nel linguaggio enroniano, di essere spostato presso un altro dipartimento, per poi essere sottoposto a una nuova valutazione.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 92

Conflitto di interessi

In realtà, il caso Enron-Andersen non è che lo specchio di un problema più ampio. Tutto parte dagli anni Novanta, quando le società di certificazione dei bilanci si sono ritagliate una rilevante quota di profitti nel settore della consulenza alle imprese dell'Information Technology. Si calcola che alla fine del decennio la metà dei ricavi totali delle Big 5 derivi proprio dall'IT, foraggiata dalla pioggia di capitali che investe i mercati durante il boom della New Economy. A consolidare definitivamente l'intreccio è lo sviluppo di software sempre più affidabili e completi per la gestione della contabilità. Spiega Terry Jost, direttore generale della Ernst & Young negli Stati Uniti:

È cominciato tutto negli anni Novanta con l'avvento di applicativi robusti e integrati. Quella sviluppata dalla tedesca SAP è stata la prima soluzione end-to-end, e la sua implementazione richiedeva una spesa di milioni di dollari. In quel momento, le società di revisione erano in una posizione ideale [per avviare l'attività di consulenza, N.d.A.] grazie ai loro rapporti con gli alti dirigenti delle aziende clienti.

A mano a mano che il giro d'affari delle Big 5 si allarga, negli ambienti politico-finanziari si parla sempre più insitentemente di conflitto di interessi. Qualcuno comincia a mettere in dubbio la trasparenza di un mercato in cui le società con la mano destra certificano i bilanci dei loro clienti e con la sinistra ne decidono le strategie. Come direbbero alla Andersen, è una vision whitout boundaries, 'una visione senza confini'.

Non a caso, già dal 1996 la società di Chicago è impegnata in una costante opera di lobbying su membri del Congresso, candidati alle elezioni (soprattutto repubblicani) e addirittura sulla Securities & Exchange Commission. Lo scopo, ovviamente, è quello di ammorbidirne le posizioni in merito alla sussurrata incompatibilità fra certificazione di bilanci e consulenza.

L'attività, come da copione, si intensifica a partire dal 1998, all'inizio della campagna elettorale per le elezioni presidenziali. Nel suo complesso, il settore della revisione contabile investe 11 milioni di dollari (8,2 solo dalle Big 5) per sostenere le candidature dei rappresentanti dei due principali schieramenti politici. All'inizio dell'anno, la Arthur Andersen paga 60.000 dollari al noto studio legale texano O'Brien Calio affinché faccia pressioni sul Congresso per una riforma in senso laissez-faire dell'Internal Revenue Service, l'ufficio del fisco americano. Un paio di anni più tardi, due membri di primo piano dello studio, Nicholas Calio e Kirsten Ardleigh Chadwick, verranno messi a capo dell'ufficio affari legali di George W. Bush alla Casa Bianca.

Anche se il cambio di amministrazione, da Clinton a Bush, sorride alla Arthur Andersen e alle Big 5 in generale, il nodo del conflitto di interessi sembra venire al pettine alla fine del 2000. In prossimità della scadenza del suo mandato, il presidente della SEC Arthur Levitt jr propone una norma che restringe notevolmente i margini per lo svolgimento di attività di consulenza da parte delle società che si occupano di certificazione di bilanci. Levitt, infatti, è preoccupato per la crescente frequenza dei casi di contabilità errata che dal 1993 al 2000 sono costati agli investitori 88 miliardi di dollari, ed è convinto che un giro di vite sia quello che ci vuole per far tornare le società di auditing all'antico rigore. Le Big 5 si oppongono. La Arthur Andersen (che nel frattempo è diventata semplicemente Andersen) segue la strada che conosce meglio, affidandosi a due influenti "lobby shop": gli studi Clark & Weinstock e Fried, Frank, Harris, Shriver & Jacobson.

È una battaglia durissima. Levitt dichiara alla stampa che quella con le società di revisione è «la rissa più incredibile in mezzo alla quale mi sia mai trovato». Il direttore della Andersen Jeffrey Peck risponde che la norma proposta dalla SEC rischia di ridurre del 40% il potenziale di mercato della sua azienda. Alla fine, sotto la pressione delle Big 5, l'authority opterà per una versione morbida della norma, in base alla quale l'unico obbligo per le società di auditing sarà quello di dichiarare i ricavi per i servizi di consulenza provenienti dalle società certificate.

Ma le sorprese non sono finite. Alla scadenza del mandato di Levitt, infatti, George W. Bush nomina nuovo presidente della SEC Harvey L. Pitt, avvocato dello studio Fried, Frank, Harris, Shriver & Jacobson e lobbista della Andersen nella querelle che ha visto impegnata la società di auditing contro la commissione stessa. Il nuovo presidente è un noto oppositore di ogni forma di restrizione del mercato, in particolare per quanto riguarda la questione revisione-consulenza. In un articolo del 1998, Pitt scrive che «non c'è una base empirica per affermare che la prestazione di servizi diversi dall'auditing comprometta 1'attività di certificazione dei bilanci». Nell'agosto 2001, il Senato conferma la nomina di Pitt a presidente della SEC. Per le Big 5 è vittoria su tutta la linea. Alla Andersen, tuttavia, non è tempo di festeggiamenti.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 132

13
La resa dei conti
(agosto-dicembre 2001)



Dopo anni di idillio, le dimissioni di Jeff Skilling scatenano improvvisamente i sospetti di Wall Street e della stampa specializzata. Che cosa ha spinto il CEO più ammirato e invidiato d'America a rinunciare da un giorno all'altro al suo incarico? E perché Skilling, che certamente non è uomo che disprezza il denaro (a gennaio ha venduto una sostanziosa tranche di azioni Enron intascando 17,5 milioni di dollari) ha rinunciato alla sua principesca liquidazione? Forse è al corrente di qualcosa che anche gli investitori e il pubblico dovrebbero sapere?

I primi a muoversi sono tre esperti giornalisti del «Wall Street Journal»: Rebecca Smith e John Emshwiller, della sede di New York, e Jonathan Friedland, capo della redazione di Los Angeles. I tre, messi sul chi vive dalle dimissioni di Skilling ma anche dalle voci sempre più insistenti su presunte irregolarità contabili, cominciano a scavare fra i rendiconti finanziari della Enron e scoprono, come Jonathan Weil e James Chanos qualche mese addietro, che i conti non tornano. Nel frattempo, una fonte «vicina alla Enron» comincia a inviare alla redazione newyorchese del «WSJ» una serie di documenti compromettenti, confermando puntualmente i timori di Sherron Watkins su una possibile fuga di notizie dall'interno. Il 28 agosto, la Smith e Emshwiller scrivono sul «WSJ» che il CFO della Enron Andrew Fastow «ha silenziosamente chiuso i suoi rapporti con alcune partnership». Nei giorni successivi, i due cronisti proseguono nelle loro ricerche, sicuri di aver messo le mani su qualcosa di grosso. Poco dopo, però, 1'11 settembre stravolge le priorità del giornale: la Smith e Emshwiller vengono destinati ad altri incarichi e si vedono costretti a congelare la storia.

Il 16 ottobre, l'ufficio stampa della Enron diffonde un prolisso comunicato sui risultati del terzo trimestre. Non troppo abilmente mimetizzata fra le dichiarazioni ottimistiche di Ken Lay e un fiume di cifre, spicca una notizia: «La perdita netta totale per il trimestre [...] è stata di 618 milioni di dollari, pari a 0,84 dollari per azione». È la conferma che la Smith e Emshwiller aspettavano. Il giorno successivo, sul «WSJ», i due associano la perdita alle special purpose entities e le identificano per nome: LJM e LJM2. Quando Ken Lay, in una drammatica conferenza stampa, si lascia sfuggire che il valore azionario della Enron si è ridotto di 1,2 miliardi di dollari, la Smith e Emshwiller sono ormai pronti ad azzannare il gigante di Houston alla giugulare: il giorno dopo, sul «WSJ», attribuiscono apertamente la perdita alle misteriose società affiliate di Andrew Fastow.

| << |  <  |