Autore Corrado Stajano
Titolo La stanza dei fantasmi
SottotitoloUna vita del Novecento
EdizioneGarzanti, Milano, 2013 , pag. 274, cop.ril.sov., dim. 14,5x22x2,8 cm , Isbn 978-88-11-68295-0
LettoreDavide Allodi, 2015
Classe narrativa italiana , libri , storia sociale , lavoro , paesi: Italia: 1900 , paesi: Italia: 1920 , paesi: Grecia












 

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Indice


La stanza è popolata di fantasmi              6


La bella guerra                              13

Il nonno ignoto                              35

Le bombe in cucina                           83

Latomie della memoria                       105

Libertà e furore                            115

Bellum anima mundi                          135

Un popolo violato                           147

Il ragazzo terrorista                       181

Sicilia mia                                 215

Finisterre                                  255


Note                                        261
Indice dei nomi                             267


 

 

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Pagina 7

La stanza è popolata di fantasmi. Lievi come farfalle, grevi come rocce. Si sciolgono nelle vene della memoria dove uomini e donne si incontrano ai crocicchi. Olga, Irina, Mascia e don Chisciotte, Meursault e Josef K., Alioscia, l'Adalgisa e Emma Bovary, Stephen Dedalus e il doktor Faustus, Padre Cristoforo, il capitano Achab e Tristram Shandy, Albertine e il principe Andrej, Abelone e Zeno, Fabrizio del Dongo e Mastro don Gesualdo, Ettore, Meaulnes e l'Ignoto marinaio.

Parlano tra loro e le parole sfumano come i disegnetti dei bambini sui vetri appannati? Si osservano con sussiego e timidezza? Conta anche per loro l'aspetto, il dorso nobile, in pelle, la tela rilegata, il nome dorato, la povera copertina di cartone di un libro scovato nella giovinezza su una bancarella o nel buco di qualche oscura libreria?

Si intravedono con una sola occhiata i libri molto letti, ingialliti, qualcuno con i sedicesimi staccati, la carta sbriciolata, di bell'aspetto o miserevoli, color marroncino, comprati risparmiando sulle lire. Sono distinguibili le diverse stagioni della vita, gli interessi mutevoli – la poesia, la narrativa, la storia, la politica –, quelle ricche di ardori e quelle dell'obbligo, meccaniche quasi, un libro che ne trascina un altro nella catena della lettura.

Chissà quanto conta per molti di quei personaggi dell'immaginazione l'essere entrati nella storia della letteratura, famosi in tutto l'orbe terracqueo o dimenticati, amati soltanto da giovani appassionati che trovarono in quelle pagine nutrimenti terrestri, il piacere di vivere e anche di morire. In guerra, qualcuno, nel tascapane del soldato.

Avranno una vita propria quegli oggetti dalla forma consimile o è tutto e soltanto il gioco di una fantasia malata? Scrisse Hans Christian Andersen dei giocattoli che a tarda sera uscivano dalla loro scatola, si facevano visita, battagliavano, ballavano. I poveri soldatini di stagno, invece, rumoreggiavano perché volevano giocare anche loro ma non riuscivano a sollevare il coperchio. Infelici.

Come i libri, oggetti infungibili, unici, nati nella testa di chi – narratori, poeti, filosofi – li ha inventati dal nulla e su una pagina bianca ne ha tessuto l'esistenza. Desiderano anche loro uscire dalla prigione?

Gli scrittori che hanno dato vita a quegli uomini, a quelle donne, a quei bambini senza corpo – solo dal cinema l'hanno avuto in dono – sono contenti di trovarsi l'uno accanto all'altro in una bizzarra giostra del destino? Camus e Kafka, Cechov, Cervantes e Dostoevskij, Gadda e Flaubert, Joyce e Thomas Mann, Manzoni, Proust e Rilke, Stendhal e Svevo, Tolstoj e Verga, Alain-Fournier e Consolo? Certe volte viene davvero la tentazione di chieder loro scusa per averli messi l'uno accanto all'altro, così diversi, secondo il rigore tirannico dell'alfabeto.

Che cosa fanno nell'immobilità cui sono stati condannati? Discutono con bonomia o cattiveria, citano superbi l'influenza avuta nella Storia, non riescono a mascherare la superiorità dell'io, lamentano i cicli mutevoli degli umori dei popoli? Avranno, creature inquiete, spesso di gran nome, immortalate, imprigionate dalla fama, la tentazione di fuggire nel libero mondo di fuori, di cambiare dopo secoli la loro identità più perenne del bronzo, don Chisciotte a Borodinò, madame Bovary nel palazzo di don Rodrigo?


La stanza di una casa può diventare una specola del cosmo, capace di fissare come su una pellicola momenti della vita di un uomo, frammento infinitesimale dell'esistenza, di cui ha avuto grazia dal dio degli eserciti, tra miliardi di esseri umani finiti in cenere, ma pur sempre porziuncola della Storia, inclemente maestra del niente?

Non ci sono soltanto libri nella stanza. Sull'angolo di un ripiano lasciato sgombro dagli scaffali colorati dalle copertine accese, vermiglie, verdi, color tortora, color blu notte, trotta, nella precaria eternità che gli è concessa, un cavallino di cartapesta, accanto a una goletta e ad altre minuscole barche di legno, una lampara, una cianciola, un gozzo, approdati in quel porto anomalo. Un violino lillipuziano segna beffardo la memoria del sommo liutaio sopravvissuto coi suoi suoni angelici: Antonius Stradivarius Cremonensis Faciebat anno 17... L'anno lo aggiungeva a penna, con inchiostro da stampa fatto con olio vecchio di lino e nerofumo. Vicine, due berrette microscopiche, violacea l'una, color porpora l'altra, un vescovo e un cardinale fiammeggianti come da un pulpito in una terra di infedeli.

Dall'angolo di una parete, in un ritratto a olio, sta a guardare un signore minuscolo, soddisfatto di sé, in abito da sera, privo del dono della simpatia, chissà da dove spunta, di trasloco in trasloco, chissà chi è, un medico di provincia, un notaio, un possidente, un benpensante pasciuto dell'epoca della breccia di Porta Pia, ancora amareggiato per quell'affronto al papa re, certamente a disagio, ora, in un mondo che deve sentire estraneo.

In un altro canto è accostato un davenport che un gioco di rifrazioni della memoria colloca in una vecchia casa, addossato a una parete rosacea. Ha i cassettini laterali colmi di cianfrusaglie di cui deve essere stato arduo privarsi, giochi di carte, diplomi, tessere, pennini, scatole di matite colorate, le «cose banali», perdute, rispuntate, su cui i filosofi amano triturarsi la mente alla ricerca delle ragioni di quel conservare, spesso inesplicabili.

Un lustro tavolo ottocentesco con le gambe tornite, coperto di panno rosso, rompe la geometria della grande stanza, piantato com'è nel mezzo. Ma è un'altra libreria, di noce inscurito, a incombere massiccia. Tra collane di libri scampati al massacro alfabetico si intravedono una decina di volumi celesti, l'opera omnia di uno scrittore, Cesare Beccaria, che denunciò, primo nel mondo, la ferocia e l'inutilità della pena di morte. Inascoltato, dopo più di due secoli, in nazioni e continenti che seguitano a usare la lapidazione, l'impiccagione, la sedia elettrica, e non importa, per esecrare la crudeltà di uno Stato sovrano, che le vittime non siano innocenti.

A guardar dentro la libreria si può restar stupefatti per il gran guazzabuglio. Soltanto psicoanalisti sapienti potrebbero forse capire gli inconsci del sottosuolo di chi accumulò oggetti e immagini. A cominciare da qualche fotografia appiccicata ai vetri, La veduta di Delft, di Vermeer, amata da Proust («il più bel quadro del mondo»); L'impero dei lumi, di Magritte, una casa dei sogni che spunta dall'oscurità; un bambino biondo, imbronciato, vestito di bianco alla marinara nel cortile di una caserma; un bambino povero fotografato in una Sicilia desolata; una bambina che gioca con le bolle di sapone, soffia soffia nella cannuccia. E la meravigliosa biblioteca teologica dei premonstratensi del monastero di Strahov, a Praga, coi mappamondi e gli antichi codici colorati esposti nella gran sala, le librerie a ridosso delle pareti, il soffitto a botte dipinto con allegorici affreschi barocchi, amore e scienza. (Sapientia aedificavit sibi domum.) Gli oggetti non sono per nulla omogenei: un fischietto di Gravina di Puglia; una ciotola di palline colorate; il banco di gesso di un venditore napoletano di pesce; un piccolo busto di Garibaldi in uniforme di generale sudamericano, l'elsa della sciabola in mano, un cappellaccio che lo fa assomigliare a D'Artagnan; una scatola da tabacco con un Victor Hugo pensoso o assonnato, la sinistra sulla tempia, la destra sul cuore; una testa tardo-romana di marmo, frammento di un sarcofago. Ballonzolante.

Ma è una collezione di calamai di cristallo a riempire le assi della libreria. Dalla forma di cubo, di parallelepipedo, di cipolla, di sfera. Scanalati, squadrati come una fortezza, infiorati, piatti, appuntiti, grandi, piccoli, a tortiglione, con coperchi a boccia d'argento, oppure dorati, con delle dediche sul cappuccio di una mela granata e su un calamaio liberty, dalla morbida forma, un cappelletto a strisce blu e una dedica, «A Arturo Toscanini gli amici, 10-9-1919». Se ne disfò o lo fecero gli eredi ingrati?

A chi sarà appartenuto un calamaio severo come una colonna ionica, con il pomolo tondo? E quel calamaio verde, panciuto gonfio di sé? A un sottoprefetto, a un colonnello, a un primario d'ospedale, al preside di un liceo, un po' minacciosi anch'essi sulle vecchie scrivanie nella stanza dove venivano convocati i reprobi, studenti, impiegati, reclute, a discolparsi per qualche mancanza, in piedi, intimiditi? Che cosa avranno scritto gli inchiostri disseccati da un secolo e forse più? Note di biasimo, intimazioni a rigar dritto, provvedimenti disciplinari, lettere riservate, pubblici encomi urlati davanti al reggimento schierato? Con inchiostri neri, verdi, rossi, su fogli bianchi, dalla svolazzante calligrafia della moda dannunziana che doveva grattare anche la carta con le sue punte aguzze o dalla pudica calligrafia da professore d'altri tempi di Luigi Einaudi?


Da quanto tempo sono qui le petites madeleines dal sapore dolce o amarognolo, che fanno da appiglio alla stanca memoria? Guardando pare davvero di essere «come quelle persone addormentate che, svegliandosi di notte, non sanno dove si trovano, cercano di orientare il loro corpo per prendere coscienza del luogo dove sono, non sapendo in quale letto, in quale casa, in quale luogo della terra, in quale anno della loro vita si trovino».


La mente gioca a rimpiattino e può trasformare quegli oggetti che spuntano come fantasmi da un passato dimenticato in brandelli di storie della vita vissuti e sofferti?

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1.



Sono io quel bambino biondo e imbronciato appiccicato ai vetri della libreria, vestito di bianco alla marinara, nel cortile di una caserma. Mio padre è un po' più in là, su uno spigolo del muro d'angolo, in una cornicetta liberty, con un gruppetto di ufficiali. Lui, capitano, è seduto, l'elmetto col sottogola, il moschetto sulle ginocchia, la bandoliera, gli stivali con gli speroni. Dietro di lui, in piedi – la gerarchia – tre tenenti, uno di loro è un ufficiale degli arditi, le fiamme nere sul bavero, come la cravatta. Gli altri hanno la giubba chiusa fino al collo, la vecchia uniforme dell'esercito regio. S'intravedono sul petto i nastrini delle medaglie, la Grande Guerra deve essere finita da poco. I quattro sono tirati a lucido, come il giorno della festa dello Statuto, in posa davanti al fondale di uno studio fotografico. Chissà che cosa nasconde quella loro fissità senz'espressione, quell'immobilità di statue. Che cosa c'è dietro quei visi gelidi. La fotografia non riesce a svelare, al di là delle apparenze, la verità difficile da decifrare. Quei quattro non sembrano neppure lieti di essere scampati al massacro. Tutto, in loro, sembra tornato nella normalità della vita militare.

Che cosa hanno visto in quegli anni di guerra, sul Montello, sul Monte Grappa, sul Monte Nero, sull'Isonzo, sul Piave? Hanno ucciso con quei moschetti simili ora a pezzi di legno inanimati?

Hanno visto da vicino i loro soldati maciullati, i corpo a corpo cruenti, hanno avuto paura del fragore delle granate o sono riusciti a mascherarla? Gli è toccato in sorte di comandare plotoni di esecuzione, di far parte di tribunali di guerra, di dover ordinare decimazioni di contadini innocenti in grigioverde, arrivati al fronte da poveri paesi spersi sui monti e nelle campagne?

Hanno commesso atrocità? In un figlio pesa l'angoscia che sia potuto accadere. L'odore del sangue e della morte è rimasto almeno nelle narici di quei quattro eleganti ufficiali o si è dissolto come la neve, sia pure arrossata?

La guerra, per molti con le greche sul cappello, è soltanto un evento naturale dell'esistenza tra gli uomini lupo, ma anche una fruttifera portatrice di doni, le medaglie, gli stati d'avanzamento della carriera, le promozioni per merito di guerra, i pubblici encomi. Quanto inquieta, se inquieta, la desolazione delle famiglie per la morte dei giovani figli, le case svuotate dal lutto, una busta bianca arrivata dal fronte che i neri carabinieri porgono alla madre, al padre, ai fratelli?

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Nelle piazze dei paesi sono stati costruiti dopo la Grande Guerra i monumenti ai caduti e si prova ogni volta una triste meraviglia nel vedere quanti contadini hanno perso la vita nella giovinezza. I loro nomi incisi sul marmo formano lunghi elenchi neri, un morto per riga, spesso più di uno nella medesima famiglia.

All'assalto, il petto in fuori, il fucile con la baionetta inastata a incalzare il nemico, la bandiera svolazzante, la vetta conquistata, e, agli angoli del monumento, quattro grosse bombe di cannone a far da sentinella. (In nome della pace.) Poveri braccianti di Castelverde, di Marzalengo, di Pozzaglio mandati a morire nei nomi ignoti di Trento e Trieste.


Per il nonno Paolo è la stagione più feconda della vita, l'ultima. Le sue figliole hanno sposato, lo stesso giorno, due ufficiali di carriera, un destino stravagante, un altro mondo. Una casa come regalo di nozze dietro al duomo della città.

Il nonno Paolo è sempre in moto, tra le sue cascine e i mercati. D'estate, è uno dei pochi ricordi di mia madre, vestiva spesso di bianco e viene naturale pensare a quella famosa canzone delle mondine sul «Sciur padrun de li beli braghi bianchi».

Che uomo era il nonno Paolo? Ama il mestiere che fa, è un modello del senso pratico e della concretezza padana. Dev'essere un agricoltore avanzato, comprende subito l'importanza dei silos, per nulla simili ai torrioncelli un po' bombati che popoleranno negli anni venturi la campagna: allora sono fosse chiuse e murate che servono per conservare i foraggi. Costruisce nuove case per i contadini, cosciente che debbano vivere decentemente. La stalla è il suo fiore all'occhiello. Ha scelto fattori competenti, ma non manca mai di andare a vedere di persona. Sembra un commodoro quando passa in mezzo alle due file di mucche bene allineate, l'una di fronte all'altra. Le guarda attento, dà un'occhiata alle tavolette appiccicate al muro — la cartella clinica —, il nome segnato col gesso, nomi amorevoli di fanciulle, quasi delle figlie, Isabella, Beatrice, Bernadette, Agnese, Gioconda, Norma, controlla la data della fecondazione e la quantità del latte prodotto e alla fine dell'ispezione non manca mai di andare a far visita al toro.

Ma che cosa pensa veramente, qual è la sua idea del mondo visto da quel puntino di terra? Quanto contano per lui i soldi? Il profitto rappresenta l'unico fine del lavoro e dell'esistenza?


La speranza è che non abbia nulla in comune con il modello di padre-padrone che Renato Rozzi raffigura in un suo libro: «El sior B. era imponente, inaccessibile, grossissimo, ma sapeva proprio tutto della sua grande cascina. La sua presenza incombente si faceva sentire anche attraverso il capo-uomo, e a volte, meno brutalmente, attraverso la moglie. Nella zona la sua durezza era considerata anche dagli agricoltori come un parametro: i contadini sapevano bene cosa significava andare a vivere 'sota lelό (sotto quello li). Di fronte alle novità tecniche ed alla meccanizzazione egli si adeguava e nulla più: in generale sembrava non aver opinioni ma solo comportamenti».

Esisteva, secondo Rozzi, anche un altro tipo di agricoltore: «M. era sempre serio, cappello in testa e, sotto la giacca, il gilet. La sua voce di basso profondo si sentiva solo a ragion veduta ("parla quando tuona"). Neutrale e severo nelle sue capacità tecniche, spesso consultato dagli altri agricoltori, per lui il mondo aveva un ordine già dato in tutte le sue parti, ed anche le gerarchie sociali e le ingiustizie esprimevano un ordine che le sovrastava. Al tramonto, lasciandosi andare sull'ottomana, borbottava le prime parole del rosario, poi taceva: le donne, i vecchi e l'orfana da sempre "tenuta in casa", continuando nelle loro occupazioni, mettevano in moto la cantilena, mentre i bambini si disputavano i suoi "polacchi" da slegare e si cominciava a sentire l'odore delle lampade a petrolio. Si diceva che da quella cascina aperta e solitaria vicino al fiume i contadini se ne andassero solo per fare il militare, una famiglia era lì da più generazioni».


Le cascine sono caserme, prigioni, fortilizi, in un tempo passato conventi, abbazie, lazzaretti.

Il padrone ha soltanto lui la chiave del portone di legno massiccio e ogni sera, appena si fa buio, estate e inverno, lo chiude. La chiave è il medievale simbolo del possesso. Dei corpi e delle anime. Nessuno può entrare o uscire dopo l'ora fissata. La legge dello Stato non conta, è il padrone che può concedere a chi vuole qualche sospirato permesso, senza una regola. Non certo ai lavativi e a chi gli sta sul gobbo.

Finito il turno gli operai timbrano il cartellino e nelle loro case sono uomini liberi. I contadini, invece, devono restar chiusi in cascina quasi fossero agli arresti domiciliari. L'usanza durerà fino al 25 aprile 1945, una doppia liberazione. Soltanto negli anni Cinquanta ognuno avrà la sua chiave.

Che cosa possono fare la notte i contadini stremati dalla fatica? Una catena di figli, nient'altro. E rimuginare su un futuro privo di certezze perché i contratti sono in genere annuali e il rinnovo è affidato soltanto alla benevolenza del padrone, l'uomo della chiave.

Salariati e braccianti lavorano dieci ore al giorno, i bergamini ancora di più, per mungere, nel pieno della notte, almeno 18 vacche, dar loro da mangiare, accudire i vitellini, rifare le lettiere del bestiame, operazioni da ripetere nel primo pomeriggio. Una dura fatica, con retribuzioni misere, di molto inferiori, anche nei primi vent'anni del Novecento, a quelle degli operai dell'industria. Che cosa resta della vita agli uomini delle cascine? Poche ore di sonno e un'ora di svago, a imbestiarsi all'osteria.

La disdetta è una cappa minacciosa. Immalinconiscono i carri con le masserizie che il giorno di San Martino, l'11 novembre, lasciano traballanti la cascina e intasano le strade dei poderi, come i carri dei profughi dopo un terremoto o un'alluvione. Un catino bianco spunta sopra la credenza, le gabbie con le galline troneggiano sui lettini dei bambini, le pentole e il paiolo della polenta sulla cucina economica.

La cascina è un'istituzione negata, come il manicomio, la fabbrica, l'ospedale, il carcere, l'orfanotrofio. Conta ormai poco ai tempi di Franco Basaglia il mondo contadino sconfitto. Ma quelle sue idee si applicano naturalmente a chi lavora o lavorava nelle cascine, anche perché i malati di Gorizia, di Trieste, di Colorno, liberati dalle sbarre, dalle grate, dai cancelli, dalle cinghie di contenzione, da quella linea d'ombra, sono figli del mondo contadino: «Ciò che accomuna le istituzioni limite è la violenza esercitata da chi ha il coltello dalla parte del manico, nei confronti di chi è irrimediabilmente succube».

Carlo Cattaneo, nel 1851, scrive Su le condizioni economiche e morali della Bassa Lombardia, un saggio che ha mantenuto ancora oggi tutta la sua contemporaneità: «A persuadermi della miseria e delle privazioni a cui sono condannati, basterebbe accompagnare la vita in una giornata di lavoro: basterebbe visitare la sua abitazione cupa, disagiata, senza luce, spesso sotto il fetore delle cloache, nella quale sono ammucchiati in una stanza sola genitori, figli, e talvolta i figli dei figli, chi su povero letto, chi su immondo strame gettato sul terreno. Eppure non tutti giungono a ripararsi in questo squallido abituro, la notte sotto i portici, nelle stalle, sotto quell'aria umida e pesante, a grave scapito della salute. Scarseggiano le vesti, le biancherie di rado si mutano, provocando col sudiciume quelle malattie cutanee sì frequenti nella Bassa. La mancanza d'una riparata abitazione e il difetto di legna fanno raccogliere nelle stalle le donne, le quali vi dimorano quasi tutto il giorno, e parte della notte, durante il freddo e non escono che al finir dell'inverno, portando incontro ai tiepidi raggi della primavera un viso spesso livido e sparuto, che fa da duro contrasto col nuovo e ridente aspetto della natura».

Trent'anni dopo quando, nel 1884, fu pubblicata l' Inchiesta agraria sulle condizioni della classe agricola promossa dal Parlamento del Regno, il presidente della Commissione parlamentare senatore Stefano Jacini, un conservatore intelligente, futuro ministro, politico anomalo della Destra storica, denunziò la condizione miserabile dei contadini, non mutata dai tempi di Cattaneo, e si rivolse nella relazione finale al senso di responsabilità di tutti coloro «che hanno il cuore aperto ai sensi di pietà verso le classi sofferenti, ma di una pietà illuminata e operosa».

I diritti sono di là da venire.

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Dopo la guerra i contadini soldato si sentono disadattati alla vita di cascina. Sono mutati nel profondo dal giorno in cui hanno lasciato il paese per il Distretto militare della città e poi per il Reggimento, segnati dalle lunghe marce, dai bivacchi, dalla trincea, dentro e fuori quei fossi per conquistare un pezzetto di terra, un guado, un'altura, strisciando per tagliare con le pinze i reticolati, con l'angoscia di vedere i compagni al loro fianco stecchiti per il colpo di un cecchino. Sono mutati per il sangue che gli è colato addosso, nel loro cervello seguita a fischiare ossessivo il sibilo dell'ordine di far fuoco, come a caccia di quaglie, ma contro uomini uguali a loro, con una madre, forse una moglie, dei figli. Senza capire le ragioni di quella guerra voluta dai signori.

I giovani ufficiali non spiegavano nulla, reticenti. I futuri soldati non avevano saputo a suo tempo dei furori degli interventisti, dei proclami del vate D'Annunzio e neppure di quelle piazze incendiate, tra il 1914 e il 1915, dalle grida delle folle, «guerra guerra». Non avevano assaporato il clima di follia aleggiante nell'intero Paese, la «Santa Vigilia». Gli interventisti tacevano, si vergognavano, forse vedendo ora che cos'era realmente la guerra. I signori ufficiali davano ordini urlando, non diversi nei toni dai padroni delle cascine, solo che in trincea era in palio la vita. Poveri numeri grigioverdi. Chissà se avevano qualche barlume di coscienza i generali assatanati di potere e di gloria coi loro piani di alta strategia, o se i destini di quegli uomini loro affidati erano l'ultima preoccupazione. Poltiglia.

Ma in quei tre anni di guerra i contadini soldato hanno conosciuto anche altri mondi, non soltanto la violenza, la sopraffazione, l'arbitrio di cui nella vita di cascina erano stati spesso vittime. Hanno allargato, nonostante la ferocia di quel vivere, gli orizzonti della mente e del cuore, hanno conosciuto la solidarietà, l'amicizia. I commilitoni venivano da regioni lontane, la Sicilia, la Sardegna, la Puglia, da grandi città, Roma, Milano, Napoli, Firenze, con culture, modi di pensare e di fare assai differenti dal loro che dalla nascita erano vissuti nel chiuso di una cascina isolata tra boschi e prati, in un trantran quotidiano fissato dall'orologio delle stagioni, tra i campi da arare, i giorni della mietitura, i fienili da riempire fino all'orlo, la stalla da accudire passando ore e ore sotto i porticati a scartocciare pannocchie di granoturco, con le chiacchiere brontolanti delle donne a far da sottofondo.

Erano stati ben pochi nella breve giovinezza i luoghi dove avevano potuto incontrare gli altri, uomini e donne della comunità e anche ritrovare i compagni della loro poca scuola: la piazza della chiesa, la domenica dopo la messa, l'ultimo giorno di Carnevale festanti intorno al falò acceso per l'occasione, il mercato, la cooperativa, la bottega per scambiare quattro chiacchiere, conoscersi meglio, intessere amicizie, amori.

In trincea, invece, nelle lunghe veglie, avevano stretto legami anche tenaci coi commilitoni che tante volte avrebbero visto morire. Solo un attimo prima ridevano allegri.

Alcuni raccontavano la trama dei libri letti, Il tallone di ferro, I tre moschettieri, I miserabili, i più consapevoli tenevano rudimentali lezioni politiche. C'era chi sapeva delle leghe, della lotta di classe, del socialismo, della Federterra, dei partiti e ne parlava agli altri.

Non ci siamo sacrificati per niente, si dicevano al ritorno dal fronte. Avevano gli occhi ancora piagati da quelle immagini tormentose, il loro stato d'animo era confuso, tra furore e speranza. Ma la vita ora doveva cambiare, ne erano certi. Avrebbero discusso alla pari col padrone. Senza più l'antica soggezione per risolvere insieme i problemi essenziali del lavoro, i diritti, i doveri, l'orario, la paga, il riposo, la casa che avrebbe dovuto essere decente, non più una sporca catapecchia per tutta la famiglia, genitori e figli, a dormire in un'unica stanza su materassi riempiti coi cartocci del granoturco. Una vita migliore. Non gli era stato promesso, dopo Caporetto, che a guerra finita la terra sarebbe stata distribuita ai contadini? «Non guerra, ma terra» era stato il grido di allora.

Soltanto un miraggio. Tutto è rimasto come quando erano partiti, i problemi sono gli stessi, irrisolti, uguali la miseria e le privazioni, la vita è rincarata, la disoccupazione raddoppiata, i padroni hanno conservato il loro piglio autoritario. C'è poco da discutere alla pari. Ma i contadini tornati dalla guerra ora si ribellano, capiscono che uniti possono contare. Cominciano gli scioperi, l'occupazione delle terre e delle cascine, per i più è la prima volta. Gli agricoltori si dannano. Quando scioperano i bergamini e le vacche sofferenti muggiscono, non riescono a contenere l'ira. Si sentono traditi da quegli ingrati. Vi abbiamo sfamato per generazioni, urlano inviperiti.


Θ una terra accesa quella dove vive il nonno Paolo. Gli scioperi contadini erano cominciati negli ultimi decenni dell'Ottocento quando le Leghe rosse e le Camere del lavoro si erano moltiplicate e, dopo una lunga gestazione, negli anni Novanta, era nato il Partito socialista, attecchito proprio nel popolo dei braccianti e dei contadini.

C'è passione, spirito ribelle. I temi della lotta – pane, lavoro, giustizia sociale, gli slogan del tempo – diventano popolari. Nascono circoli, associazioni, giornali, si chiamano «Il grido del popolo», «La plebe». Edmondo De Amicis scrive un sofferto romanzo, Primo maggio. Il primo giorno di maggio è ogni volta occasione di conflitto tra i carabinieri, le Guardie regie e i dimostranti. Anche i pittori si ispirano ai temi sociali: Giuseppe Pellizza da Volpedo dipinge il suo Quarto Stato, il popolo in marcia (da allora) che diventerà famoso; Emilio Longoni dipinge L'oratore dello sciopero, un operaio che parla in un comizio, tra bandiere rosse e pugni chiusi, sullo sfondo di un cordone di soldati coi fucili puntati. I prefetti sono allarmati, basta una scintilla a provocare rovinosi incendi, scrivono nei loro rapporti. Schedano circoli, sindacati, associazioni di mutuo soccorso. Sovversivi.

Dopo la Grande Guerra – l'immane macello, l'inutile strage – la lotta politica nella pianura padana si fa ancora più aspra. Il biennio rosso. L'eco della Rivoluzione d'Ottobre fa da miraggio. Sembra a un palmo di mano anche fra i gelsi della Bassa. Cremona diventa una piccola capitale politica, con una classe dirigente non mediocre, da Filippo Turati, il figlio del prefetto, e Leonida Bissolati, socialisti riformisti, dai diversi destini, compagni di scuola al Liceo classico Daniele Manin, ai socialisti rivoluzionari di Costantino Lazzari ai radicali progressisti di Ettore Sacchi a Guido Miglioli, a capo della sinistra cristiana, agli avvocati Piero Brugnoli e Ubaldo Ferrari, fervidi antifascisti che ebbero un ruolo di rilievo nella stesura del migliolino Lodo Bianchi del 10 agosto 1921 tra contadini e agricoltori sulla cogestione degli utili delle imprese, un accordo quasi rivoluzionario: «l'abolizione del salariato agricolo e il diritto dei contadini a diventare i gestori delle aziende». L'agricoltore cessa di essere il padrone e diventa il direttore dell'azienda. Il contadino diventa un socio.

Anche la Chiesa fa da argine alla prepotenza degli agrari. Il vescovo è Geremia Bonomelli, protettore degli operai emigranti «che divinando in amore segnò le vie dell'armonia feconda tra la Chiesa e l'Italia», come verrà inciso decenni dopo su una lapide del Palazzo comunale.

Le Leghe bianche e le Leghe rosse sono in allarme perenne, ma il conflitto con le squadre arruolate dagli agrari non raggiunge ancora le punte di violenza criminale che saranno innescate dal fascismo quando, diventato partito, ingigantito dal consenso e dai finanziamenti degli agricoltori e anche dal sostegno di un sottoproletariato deluso e in crisi, godrà dell'ombrello protettivo di uomini dello Stato che nel suo nome violeranno la legge e lo Statuto del Regno.

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L'11 aprile 1919, Roberto Farinacci, molisano di Isernia, di famiglia napoletana, figlio di un commissario di Pubblica sicurezza, studente senza studi, aiuto applicato alle Ferrovie, fonda il Fascio di combattimento di Cremona, dopo esser stato, neppure un mese prima, tra i protagonisti della nascita del movimento in piazza San Sepolcro a Milano. La politica lo attrae, è un retore della parola reboante, vitalistico, spregiudicato, un uomo della foresta senza cultura e senza principi, un opportunista d'epoca, svelto fin dalle origini a intrupparsi con chi ritiene vincente. Vicino a Bissolati, direttore della «Squilla», un settimanale socialista, è affiliato alla Massoneria, interventista senza trincee (sarà chiamato l'onorevole Tettoia per la sua guerra combattuta al riparo della stazione di Malagnino), estremista che usa la violenza come pratica naturale dell'azione politica.

Il fascismo è il suo pane, azzanna. Le spedizioni punitive contro gli scioperi nelle campagne e le occupazioni delle cascine, gli incendi appiccati alle Case del popolo e alle cooperative rosse e bianche hanno il suo sigillo. L'uccidere non lo spaventa, lo eccita.

Il movimento mussoliniano fa proseliti. L'insicurezza è la matrice di una nuova base sociale che vede nel fascismo il protettore dei propri interessi: piccola e media borghesia urbana impaurita, in disaccordo con la placida politica del liberalismo tradizionale, reduci delusi, senza lavoro, frazioni del movimento operaio disorientate dalla strategia del sindacato che ritengono morbida. Non ripudiano la violenza, la ritengono piuttosto uno stato di necessità.

Gli agrari, in quella stagione di tensione, non nascondono la paura di perdere i privilegi consolidati. Temono le Leghe rosse, odiano soprattutto le Leghe di Guido Miglioli, il «bolscevico bianco», esterrefatti che un cattolico possa stare dalla parte dei contadini contro la proprietà e contro il fascismo protettore. Finanziano le squadre d'azione di Farinacci: giovani sottoproletari, sradicati, fanatici affascinati dallo spirito di vendetta che amano il santo manganello, il fuoco, le armi, l'olio di ricino fatto trangugiare agli inermi. Lo scontro, in quegli anni fino alla marcia su Roma, insanguina la pianura.


Scrive il 4 marzo 1922 il prefetto di Cremona Guadagnini in un rapporto al ministero dell'Interno: «[... ] Allorché, circa alla metà del dicembre u.s., assunsi la direzione di questa Provincia, le condizioni dell'ordine pubblico erano così gravi che tutta l'opinione pubblica e la stampa se ne occuparono. Il giorno 12 era stato ucciso dai fascisti il vicepresidente del Consiglio provinciale Attilio Boldori, socialista, e tale reato, ultimo di una lunga serie di aggressioni e di conflitti, aveva diffuso, specialmente tra i partiti estremi, rossi e bianchi, un larghissimo panico, mentre non aveva tolto baldanza al Fascio i cui capi non solo non avevano sconfessato gli autori del delitto, ma anzi ne avevano assunto la responsabilità morale e politica giudicandolo come ritorsione legittima di precedenti violenze».

Si spara, si uccide. Il fascismo ha trovato la sua ossatura nel mondo degli agricoltori, certi che è il bastone lo strumento adatto a proteggere i loro interessi. Abbandonano quasi in massa l'Agraria e danno vita al Sindacato dei datori di lavoro che fa capo al Fascio, stracciano i patti sottoscritti, vogliono la riduzione delle paghe, l'abolizione degli uffici di collocamento, licenziano senza timori gli avventizi giornalieri. L'idea del capitalismo democratico approdato in cascina è durata solo un mattino. Il fascismo è vincente. «I principali sconfitti furono i contadini: essi videro gradualmente diminuire le paghe e la quota di mano d'opera per ciascuna azienda. [...] I proprietari terrieri trassero i maggiori benefici dalla vittoria fascista. Il reddito medio dei primi venti anni del secolo era stato nel circondario pari a un terzo del prodotto nazionale lordo; con il 1921 era sceso al venti per cento, ma dopo il 1922 i proprietari terrieri divennero i beniamini del regime fascista, a scapito dei loro vecchi alleati, i conduttori e i fittavoli. Il reddito salì immediatamente al 23 per cento con contratti d'affitto a breve scadenza, e di conseguenza investire in terreni riacquistò quella popolarità perduta durante le agitazioni agrarie e attrasse i capitali della classe media commerciale e professionale.»

La reazione di Guido Miglioli alla vittoria del fascismo è desolata: veniva imposto un nuovo patto colonico che, quasi per ironia, era definito di collaborazione tra capitale e lavoro: «Riduceva i salari annui e le mercedi giornaliere; aumentava gli orari di lavoro; sfruttava le donne e i giovani, limitando i loro compensi; incatenava tutti al padrone, con una disciplina ferrea di sottomissione totale al fascismo, sottomissione di cui era segno la tessera obbligatoria, che ogni contadino portava sul suo cuore, dolorando come se avesse in seno una vipera. Chi poteva fuggire, arrivava a Milano, in cerca di aiuto. Così s'accresceva il nostro astio contro l'agrarismo fascista, ignobile nella sua vendetta, ancora più di quanto lo fosse stato nel periodo della sua lotta contro i contadini».


Finanziare le squadre d'azione era stato un oculato investimento per gli agrari della Bassa padana. L'odiato Lodo Bianchi viene subito abolito. Le mani padronali ridiventano libere, senza controlli, senza regole. La logica del profitto applicata alla politica ha di nuovo vinto. L'etica proprietaria insanguinata.

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26.



Dietro lo spigolo di un muro della grande stanza è appeso il minuscolo ritratto di un partigiano visto di profilo. 1944. Sta osservando dalla cima di Gias della Garbella, sulle montagne del Cuneese, giù nella val di Gesso. Ha indosso un giubbotto orlato di pelliccia di agnello, di quelli che nella campagna di Russia avevano in dotazione soltanto pochi ufficiali.


«Sul Don l'organico della mia compagnia era di 8 ufficiali e 342 uomini di truppa. A Udine eravamo rimasti in pochi: 3 ufficiali e 70 alpini. [...] Era proibito uscire dal "campo contumaciale", si temevano i contatti con la popolazione, le epidemie di tifo petecchiale. Ma un mattino infransi le regole. [...] Mi rifugiai in un caffè, credendo che fosse un bar qualsiasi, ma mi sentii subito un estraneo. Era un locale elegante, tutto a specchi, e più mi guardavo, più cresceva in me un senso di disagio. Ero vestito alla meno peggio. La giubba era la stessa del Don, di panno da guerra, sbiadita come l'erba quando attende la prima neve. Lo strappo nella manica, all'altezza del bicipite, era mal rattoppato, come la mia ferita. I pantaloni erano nuovi, informi, sfacciatamente verdi. Il cappello alpino, anch'esso nuovo, rotondo come un panettone, era così indecente che mi rifiutavo di indossarlo. Solo le uose di cuoio marrone, e gli scarponi dalle suole Vibram dicevano che forse ero un ufficiale.»


Quando, finita la contumacia, lasciò la caserma e si voltò a guardarla, aveva una gran voglia di piangere. Era finito un mondo, quello che era stato il suo mondo. Ripensò come in un sogno ai suoi alpini caduti, rivide come in un incubo la «lunga striscia nera» della ritirata.

Il suo bagaglio era un fagotto, più lungo che largo, un telo da tenda con avvolti dentro due Parabellum russi e una Machinenpistole tedesca. Non avrebbe potuto portare con sé quelle armi. Ma si ribellava.

Sapeva, sia pure confusamente, che un giorno ne avrebbe fatto uso.


Nuto Revelli, il giovane partigiano del ritratto. Valoroso in montagna, come lo è stato in Russia, tenente del 5° Alpini, Divisione Tridentina. Dopo l'armistizio del 1943 mantiene fede al giuramento fatto a sé stesso di usare un giorno i suoi Parabellum e la sua Machinenpistole contro i nazisti che durante la ritirata nella neve rossa di sangue aveva visto in azione con tutta la loro risentita violenza di esseri superiori e la loro ferocia aguzzina. Ufficiale di carriera, dopo la Liberazione si dimette dall'esercito, lavora nel commercio di lamiere e di profilati di ferro. Poi comincia a scrivere i suoi libri memorabili, la guerra dei poveri, anzitutto, nelle testimonianze di chi l'ha sofferta. Poi i compagni morti, indimenticati – «i migliori» –, i reduci, i padri e le madri che attendono ogni giorno, nell'assurdo della speranza, il ritorno dei figli, e ancora le donne, il loro coraggio nel momento del pericolo, i contadini, il mondo dei vinti, gli ultimi rimasti sulla montagna abbandonata. Una saga medievale e, insieme, una narrazione del tempo presente, il ricordo amaro della miseria, della fatica, della fame, del dolore, dell'umiliazione, della morte di una generazione. Un grido contro la guerra.

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33.



All'alba di quella mattina del 21 aprile 1967 avevo in progetto, sfortunato turista, di andare a Delfi per vedere il Santuario di Apollo, il teatro e il museo dove riposa e attende, appunto, l'inquieto Auriga. Uscii verso le sei con mia moglie Giovanna dal piccolo albergo sotto l'Acropoli, nel quartiere della Plaka, zeppo di taverne, di bottegucce, di bancarelle di souvenir. Il portiere di notte stava ascoltando la radio che rimbombava di musiche marziali. «L'armada», disse strabuzzando gli occhi in un suo italiano ispanico, come se volesse alludere a qualcosa di cui era meglio non dire. E infatti non capimmo, non avevamo alcun sospetto di quel che stava per accadere o meglio era già accaduto. Ci incamminammo per la via Mitropoleos ancora addormentata. I negozi avevano le serrande abbassate, i bidoni della spazzatura non erano stati svuotati e tolti dai marciapiedi, i lampioni erano accesi. Ci colpì l'assurdo di una piccola vecchia chiesa, con una campanella sul tetto ingabbiata sotto il porticato di un palazzotto a più piani costruito di recente da qualche architetto selvaggio. Non c'era nessuno per la strada, il silenzio era assoluto, non prestammo attenzione a una jeep carica di soldati che a forte velocità correva verso piazza Syntagma, dove anche noi eravamo diretti. Alla fermata per Delfi l'autobus naturalmente non c'era.

Altro che dèi dell'Olimpo. Davanti e tutt'intorno al Palazzo del Parlamento facevano la guardia, statue della morte civile, mastodontici carri armati coi cannoni puntati ad alzo zero. Dalle torrette affioravano soldati coi mitra imbracciati. Paracadutisti in tuta mimetica si muovevano nella piazza, il cuore di Atene, con la precisione meccanica di un saggio ginnico provato e riprovato. Poliziotti dall'uniforme nera come le SS di Himmlerì si aggiravano sospettosi. Erano spariti gli euzones, gioia dei turisti, la guardia reale col chepì rosso e il gonnellino bianco a piegoline minuscole da chierici fanciulli, erano state ammainate le bandiere. Il colpo di Stato dei colonnelli. Ci prese un grande sconforto, rabbia e insieme voglia di piangere. Pareva di assistere alla scena di un teatro macabro che nessun regista avrebbe saputo inventare. La democrazia distrutta e umiliata proprio nel luogo dove nacque, la Costituzione violata proprio nella piazza che portava e porta il suo nome.

E pensare che la sera prima, fino a tardi, eravamo stati a cena in allegria vicino al Museo Archeologico – ricordo ancora il nome della trattoria, Kostoyannis – e avevamo fatto festa con amici archeologi, Luigi e Caterina, lui italiano, lei greca. Quella sera si è fissata nella memoria anche nei particolari più minuti. La trattoria era affollata. Nella mente, come incrostato sul fondo di un barile, è rimasto un magma di sensazioni, suoni, colori, odori, sapori, dagli antipasti, i mezédes, ai souvláki, gli spiedini, al saganáki, il formaggio fritto, alle soutzoukákia, le polpette con il riso al pomodoro, in un'aria di vacanza, nella letizia indimenticabile di quel venerdì sera. Una zingara suonava la chitarra e accompagnava le malinconiche canzoni di una cantante di nome Maria, un'indovina prediceva il futuro, chissà se lo stava davvero vedendo, fosco com'era, mentre tutt'intorno, ai tavoli, lieve, quasi danzasse, si aggirava una venditrice di scialli e una ragazza porgeva camelie come se fossero un dono.


Le elezioni politiche erano vicine, il 28 maggio i greci sarebbero andati a votare e la vittoria dell'Unione di Centro di Andrea Papandreu era data per scontata, quasi un referendum già vinto. Partito di sinistra moderata, era considerato dagli ambienti tradizionalisti un partito eversivo. I circoli reazionari americani legati ai militari greci e alla monarchia soffiavano sul fuoco, timorosi che in un angolo strategico del Mediterraneo i comunisti, li giudicavano tali, prendessero il potere. La CIA, i servizi segreti degli Stati Uniti, come risulterà, faceva da regista al colpo di Stato preparato con minuzia.

Ma nulla si temeva in quella sera festosa. Il governo conservatore di Panayiotis Kanellopoulos, si era certi, aveva ancora poche settimane di vita. La polizia avrebbe smesso di tormentare i giovani che scrivevano sui muri il numero 114, un articolo della Costituzione a tutela delle libertà politiche; avrebbe perso l'abitudine di schedare persino i frequentatori di certe librerie considerate sovversive, di controllare convegni e dibattiti, di pestare gli operai delle fabbriche. Gli scioperi dilagavano, anche le occupazioni delle università. Il Politecnico era stato appena occupato dagli studenti. Finiranno imprigionati dentro lo stadio, come sei anni dopo a Santiago del Cile, la notte del golpe di Pinochet e della morte di Salvador Allende.

Nulla era trapelato, soltanto ottimismo. Non si conosceva l'esistenza del Piano Prometheus ordito tempo prima da un gruppo di generali con l'avallo del re Costantino, un piano di emergenza dello Stato maggiore elaborato nell'ambito della NATO per l'eventualità di una guerra con un Paese comunista.

La paura delle elezioni, la certezza di una sconfitta della Destra, l'enfatizzazione della minaccia comunista avevano affrettato i tempi del golpe. I colonnelli, ancora più rozzi dei generali, avevano adottato e messo in moto le direttive del Piano Prometheus.


(Poi si tenterà di dire che la monarchia era stata estranea al colpo di Stato. Era pesantemente coinvolta, invece, nel disegno della dittatura militare. La regina madre Federica di Hannover dominava con il pugno di ferro il giovane, debole e insipiente re Costantino. Si saprà che fu lei a ordinare imperiosamente al figlio, in tedesco, la sua lingua madre, che dava un tocco ancora più sinistro alle parole, di firmare il decreto dei colonnelli in cui si proclamava lo stato d'assedio e si sospendevano le libertà costituzionali. «Halt's Maul und unterschreib» («chiudi il becco e firma») e lo disse sprezzante davanti agli uomini della Giunta. Il re, sventurato, rispose e avallò tutto quanto era accaduto o stava per accadere partecipando di persona, in un salone del Palazzo reale, a due cerimonie di giuramento del nuovo governo, il 21 e il 22 aprile 1967.)

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Sorretti dalla CIA americana e dai più oscuri poteri internazionali, i colonnelli greci reggono per anni al governo. La notte tra il 18 e il 19 settembre 1970 la tragedia dell'esilio. A Genova, in piazza Matteotti, su un fianco della scalinata del Palazzo Ducale, uno studente di Geologia, Kostas Georgakis, appassionato militante del movimento Grecia libera, di Andrea Papandreu, si cosparge i vestiti di benzina e si dà fuoco, in un gesto estremo contro la tirannide che ricorda gli eroi delle nobili tragedie della sua terra. Degli spazzini, già al lavoro, sentono il suo ultimo grido, «Evviva la Grecia libera», cercano di soccorrerlo, morirà dopo nove ore di straziante agonia all'Ospedale San Martino. Come Jan Palach, suo coetaneo, l'anno prima, il 19 gennaio, in fondo a piazza San Venceslao, a Praga, per protesta contro i carri armati sovietici invasori e «per scuotere la coscienza del popolo sull'orlo della disperazione e della rassegnazione».

Nella sua ultima lettera ai famigliari, Kostas Georgakis aveva scritto: «Dopo due anni di violenza non ce la faccio più. Non voglio che voi per causa delle mie azioni corriate dei rischi e io non posso fare a meno di pensare e di agire come una persona libera».

Resta a ricordarlo in piazza Matteotti una lapide: «Al giovane greco COSTANTINO GEORGAKIS / che ha sacrificato i suoi 22 anni / per la libertà e la democrazia del suo Paese / tutti gli uomini liberi / rabbrividiscono davanti al suo eroico gesto. / La Grecia libera lo ricorderà PER SEMPRE».

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49.



In uno spicchio di muro della stanza è come incastrata una carta a colori della Sicilia. Ricordo quando vidi l'originale di quell'immagine, un affresco dipinto su una parete della Galleria delle carte geografiche dei Musei Vaticani. La prima impressione fu di sconcerto. Ero vittima di un trucco ottico? Come mai l'isola appariva capovolta, rispetto al triangolo conosciuto, con il Sud in alto e il Nord in basso? Poi capii, anche la costa orientale era dipinta alla rovescia, Messina a Sud e Capo Passero all'insù. Così stravolta, la Sicilia dei Musei Vaticani affrescata ai tempi di Gregorio XIII Boncompagni, sentinella severa della Controriforma, era pur sempre l'appendice dello stivale di cavaliere, come era solita definire l'Italia la maestra Ramaglia, quand'ero scolaro della Scuola elementare Cesare Battisti di Como.

Camminai affascinato per il centinaio di metri della Galleria, diretto alla Cappella Sistina. Non c'era da annoiarsi, bastava guardare la volta minuziosamente affrescata nel Cinquecento. Angeloni bizzarri sembravano danzare con una tromba in mano, altri con la chiave dell'abisso e una gran catena. Con loro putti, donne che schiacciavano la luna, angeli e demoni, draghi e serpenti che guizzavano tra terra e mare. Gli spazi dipinti toglievano il respiro. Tobia e Giobbe, Samuele e Giosuè, Baruc ed Ezechiele, Malachia e Giona sembrava che mi osservassero dal soffitto, tra pecore e uccelli, pappagalli e upupe, cavalli approntati per la guerra, vergini con la spada. Chissà se tra loro svolazzava anche l'angelo sterminatore. E i cavalieri con le corazze di zolfo. C'era il rischio di smarrirsi tra gli emblemi, le figure brulicanti, i santi dell'agiografia cattolica, le allegorie bibliche e i misteri dell'Apocalisse. Cercavo di identificare paesaggi e figure in quell'intrico di geometrica fattura, tra stucchi bianchi e dorati, tra fuoco e fiamme.

Guardavo sia la volta sia gli affreschi delle carte geografiche dipinti tra un finestrone e l'altro, incorniciati da stipiti massicci decorati da segni di stile pompeiano. Mi pareva di passare in rassegna un'Italia unita, quasi tre secoli prima del 1861 quando l'idea di nazione divenne realtà. I nomi erano spesso diversi dal presente, ma le regioni raffigurate in una quarantina di carte si componevano naturalmente tra loro, una sequenza dopo l'altra come nella proiezione di un film: il Piemonte, la Liguria, l'Etruria, il Ducato di Milano e quello di Mantova, la Flaminia, il Ducato di Ferrara, il Ducato di Parma e Piacenza, il Piceno, la Marca di Ancona, l'agro Perugino e quello Spoletino, il Ducato di Urbino, la Penisola Salentina, il Tavoliere, la Lucania, la Calabria Citeriore e quella Ulteriore.

L'occhio restava incastrato tra boschi, prati, laghi, pianure immacolate, colline e montagne, tra i filari degli alberi, tra gli scogli del mare infinito, con le barchette gentili naviganti come nei giochi di carta dell'infanzia, tra le nevi eterne e il monte color delle rose, tra le città e i piccoli borghi che danno il nome alle battaglie, tra le cattedrali famose, le piazze dove il popolo si desta, nel gioco senza confini dell'immaginazione messa in moto da quegli affreschi colorati di storia. Non erano ancora arrivati i viaggiatori stranieri del Grand Tour alla estetizzante ricerca delle rovine, il secolo dei Lumi era di là da venire, come il Novecento distruttore del bene supremo della bellezza che, soprattutto in Italia, non è un'astrazione o un gioco intellettuale, ma è, o dovrebbe essere, il vivere della penisola, lunga come un ombrello dalle Alpi ai mari.

Non lo scrive anche la Costituzione all'articolo 9 che la Repubblica «Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione»?


La Sicilia, poi. Seppure alla rovescia mi accese l'anima e il cuore. Ritrovavo l'isola amata e disamata, tra l'Aphricum, l'Adriaticum e il Tyrrenum mare, con un grande stemma ridondante di fregi, quasi una bolla papale ai margini della carta, che narra dell'antica Triquetra, la Trinacria, «frumento alisq.rebus.abundat», distante dall'Africa 618 miglia di passi.

In quali mani straniere, non c'è da dubitare che così fosse, si trovava la Sicilia quando la brigata di artisti e di artigiani dipinse quelle carte sotto la sovrintendenza del famoso cosmografo, geografo e matematico di Perugia, il frate domenicano Egnazio Danti, autore dei cartoni, professore all'Ateneo di Bologna dove in passato aveva tenuto cattedra anche il papa Ugo Boncompagni? Quando nacque l'idea ardente di un'Italia incarnata in una galleria di dipinti?

Com'era la Sicilia di allora? Dopo i greci, gli arabi, gli angioini, i normanni, proprio negli anni in cui quegli artisti e artigiani lavoravano alla Galleria, la Sicilia era sotto il dominio del re di Spagna che durerà per quattro secoli. Abbisognavano agli spagnoli le basi militari dell'isola e li ingolosiva l'allora terra feconda.

Fiori e frutti venivano da lontano, nello spazio e anche nel tempo. Gli aranci amari cantati dai poeti della Conca d'Oro li avevano portati gli arabi in Spagna già nel X secolo e poi in Sicilia: erano stati loro i maestri della terra scoprendo il tesoro delle sorgenti d'acqua e dell'irrigazione. Gli aranci dolci, nati in Cina, già nel 1187 venivano piantati nel giardino di Federico de Abatellis, a Palermo; i carrubi arrivavano dall'Oriente, i fichidindia, «il pane dei poveri», dall'America. I mandarini, cinesi, com'è ovvio, arrivavano a Palermo da Malta solo nel primo Ottocento quando i mandorli, anch'essi venuti dall'Asia, fiorivano da un secolo nella Valle dei Templi, già il giorno di san Valentino, il 14 febbraio. Gli ulivi si conoscevano da seimila anni, in Mesopotamia, in Anatolia e nel VI secolo erano ancora sconosciuti nei paesi del Mediterraneo. Dei limoni, originari anch'essi nelle terre dell'Asia, forse in India, non c'è traccia nel Mediterraneo fino all'XI secolo quando apparvero a Patti – via de Limonis – ed empirono via via giardini e vallate dell'isola.

Governavano i viceré scelti dai Grandi di Spagna. La società, già allora, era ambigua, la classe media mitizzava con un'invidia mai più sopita la nobiltà, addolcita soltanto dall'acquisto di contee e baronie. La Santa Inquisizione imperversava sovrana, gli spagnoli, nonostante le cose si stessero mettendo al peggio, «continuavano a parlare della Sicilia come di un paradiso in cui il vino era eccellente, la caccia abbondava, in cui si produceva il miglior grano del mondo, nonché zucchero, seta e frutta in abbondanza. I visitatori, proprio come nei secoli prima, erano impressionati dai frutteti irrigati e dai mulini intorno a Palermo. Essi potevano anche osservare che i nobili, qui, portavano abiti più ricchi che in qualsiasi altra parte d'Italia».

Ci volle del tempo prima che si capisse come la vita nell'isola fosse diventata grama, la miseria e il vagabondaggio fossero cresciuti a dismisura. La responsabilità, come sempre, allora e dopo, fu addossata ad altri, al malgoverno spagnolo che considerava la Sicilia un dominio coloniale – non era un'invenzione settaria – ma i maggiorenti siciliani furono anch'essi complici, attenti com'erano ai propri interessi particolari, i beni materiali, i titoli e gli onori, incuranti della miseria, della diseguaglianza, dell'umiliazione, del male di vivere di tutto un popolo offeso.


La carta è ricca di suggestioni. Si intravedono i fari sugli scogli, le colline, i monti e le valli, i fiumi, i piccoli laghi, le isoline, le navi sul mare con le vele spiegate. Le città sono appena segnate, le più grandi figurano ai bordi della carta con le loro piante, Syracusa, la più potente per secoli e anche allora, con la sua Ortigia, la piccola isola chiusa nel suo cuore, accanto a Messana e a Panormus. Ma sono i nomi dei paesi e delle piccole città, nell'antica dizione, a far rivivere le memorie del passato e a legarlo al presente, Calatafuni e l'ombra di Garibaldi; Vindicari, con il suo mare color cobalto dove approdano gli uccelli migratori, coi graffiti incisi sui resti della tonnara erosi dal mare, incautamente sbiancati ora, cancellati dalla calce; Noto, la città dove nacque mio padre, il giardino di pietra, con le sue scalinate da teatro d'opera, il suo fascino antico; Xacca; Chiaramonti; Spaccaforno; Sambuca; Calatagirone e la sua scala di maiolica che sembra condurre al cielo; Trapani del Monte dove, in una sala del museo, è conservata l'ultima spaventosa ghigliottina usata dai Borbone; Mazzarino, il paese del convento dei frati cappuccini con la loro terribile istoria di atroci delitti; Leontini, dalle sugose arance simili alle allegre palle degli alberi di Natale; Pozzallo; Porto de Palo da dove nei giorni limpidi si può vedere l'Africa. E poi Siculiano; Calatabellotto; Rosa Marina, la fiumara che sfiora Sant'Agata di Militello, sulla costa del Val Démone, dove nacque l'incantato grande scrittore di Sicilia, Vincenzo Consolo. E Capo d'Orlando, non lontano.


Quando, alla fine del 1958, uscì nelle librerie Il Gattopardo , di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, dilagò nella penisola la moda dei principi, dei duchi, dei marchesi, dei discendenti dei Viceré, dei Pari del Regno, dei Grandi di Spagna, e le più famose sentenze di don Fabrizio Salina finirono sulle labbra delle moltitudini, massime compiaciute, veridiche talvolta, anche se calate dall'alto dei cieli.

«Il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di "fare". Siamo vecchi, Chevalley [l'ambasciatore del Governo di Torino che offre al principe il laticlavio], vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori [...], nessuna germogliata da noi stessi.»

«I Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti; la loro vanità è più forte della loro miseria.»

«Tutto questo non dovrebbe poter durare; però durerà, sempre; il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli...; e dopo sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra.»

E la più famosa delle sentenze, ripetuta fino allo spasimo, recitata con le parole di Tancredi, il nipote del principe, «lo zione», come gli si rivolgeva insopportabilmente, anche in quell'occasione, al momento di partire per far la guerra contro le truppe ormai in fuga del re Franceschiello: «Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la Repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi».

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