Copertina
Autore Henry Morton Stanley
Titolo Alla ricerca di Livingstone
EdizioneWhite Star, Vercelli, 2005, I classici dell'avventura , pag. 368, ill., cop.ril., dim. 125x187x26 mm , Isbn 978-88-540-0290-6
LettoreLuca Vita, 2006
Classe viaggi , illustrazione , geografia , storia: Africa
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Indice

INTRODUZIONE                                11

CAPITOLO 1                                  19

Convocazione a Parigi.
Colloquio con il signor Bennett.
"Andate e trovate Livingstone".
Un gran viaggio.
A bordo del Polly.

CAPITOLO 2                                  27

Panorama di Zanzibar.
Sono accolto dal console americano.
Impressioni.
Il mercato di Zanzibar.
Cifra della popolazione.
Le tre razze commercianti e i mulatti.
Presentato al dottor Kirk.
Ragguagli scoraggianti.

CAPITOLO 3                                  37

Problema.
Soluzione.
Stoffa, perline, filo di metallo.
Si mercanteggia.
John Shaw.
Farquhar.
Composizione della scorta.
Una vendetta africana.
Battello.
Carretto.
Quantità dei bagagli.
Necessità del denaro contante.
Visita di commiato al sultano.
Addii.
Partenza dall'isola.

CAPITOLO 4                                  47

Sbarco a Bagamoyo.
Una cena alla parigina.
Furto.
Alì bin-Salim e le sue promesse.
Imballaggio da rifare.
Difficoltà nel procurarmi i portatori.
Hadij Pallu, e suoi aiuti e le sue malefatte.
A chi devo la vita.
La carovana dei soccorsi a Livingstone.
Arrivo del console inglese.
Partenza delle cinque carovane.

CAPITOLO 5                                  57

Partiamo con entusiasmo per l'interno.
Arrivo a Shamba Gonera.
Si valica il Kingani, costruendo un ponte.
Reazione di un ippopotamo.
Giungiamo a Kikoka.
Una strada mai battuta da uomo bianco.
Il mio cane da guardia, Ornar

CAPITOLO 6                                  65

Il paese degli insetti.
La mosca che uccide i cavalli.
Salute e appetito in tutti.
Incomincia la stagione delle piogge.
Il mio cavallo arabo è ucciso dai vermi.
Curiosa pretesa del capo Kingaru.
Muore anche l'altro cavallo.
Dieci ammalati e un disertore.
Un'allegra sveglia.
Secondo disertore.
Una marcia che mi fa sospirare
la mia poltrona di Madrid.
Incontro di schiavi incatenati.
Kisemo e le sue belle.
Punizione di un disertore.
Un confronto che mi sbalordisce.
Guado dell'Ungerengeri.
Ho notizie di Livingstone.
Simbamiwenni e la sua Sultana.
Disputa burrascosa con Shaw.
Sono attaccato dalla febbre africana.
Una questione di tributo.

CAPITOLO 7                                  85

Stagione delle piogge.
L'Ungerengeri.
La mia tenda diventa un museo entomologico.
Un ponte africano.
La fustigazione di Bunder Salaam.
I peccati di Bombay: sua destituzione da capitano.
Soldati imprigionati dalla Sultana.
Il deserto del Mahata.
Acqua e fango.
Il Wani Hukondokwa.
Diserzione di un soldato;
come avvenne il suo arresto; castigo.

[...]


 

 

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Pagina 19

CAPITOLO 1



Convocazione a Parigi. Colloquio con il signor Bennett. "Andate e trovate Livingstone". Un gran viaggio. A bordo del Polly.


Il 16 ottobre 1869 mi trovavo a Madrid, reduce dalla sanguinosa sommossa di Valenza. Alle 10 del mattino, Jacopo mi consegnò un telegramma in camera, in calle de la Cruz. Lessi: "Venite a Parigi per un affare importante". Il dispaccio era di James Gordon Bennett junior, giovane direttore del New York Herald. In un paio d'ore feci i bauli, imballai i libri e i quadri. Il diretto partiva da Madrid alle 3 del pomeriggio, quindi mi restava appena il tempo di prendere commiato dagli amici. Ne ho uno in calle Goya, che è un corrispondente di parecchi giornali di Londra: ha parecchi figli, ai quali ho preso a voler bene. Charlie e il piccolo Willie sono miei amici; amano ascoltarmi mentre racconto le mie avventure, e per me è stato un piacere intrattenermi con loro. Ma ora devo salutarli.

Poi ho amici alla Legazione americana, persone di cui prediligo la conversazione... ma a questo punto il discorso cade, perché mi dicono: "Speriamo che ci scriverete, ci farà sempre piacere il sapervi in buona salute". Quante volte, nella mia esistenza febbrile da giornalista vagante, ho udito le stesse parole, e quante volte ho provato lo stesso rammarico di dover lasciare amici calorosi come questi! Ma un giornalista del mio genere non deve patire per questo. Deve essere preparato al combattimento. come un gladiatore. Un passo indietro, una piccola esitazione ed è perduto. Il gladiatore va incontro al ferro che lo deve uccidere; il giornalista volante, o il corrispondente girovago, obbedisce all'incarico che può essere la sua sentenza di morte. Sul campo di battaglia o a un banchetto è sempre lo stesso: "Avanti, march!".

Alle 3 del pomeriggio ero in viaggio, ma giunsi a Parigi soltanto la notte seguente poiché dovetti fermarmi a Bajonne per qualche ora.

Andai diritto al Grand Hotel e bussai all'uscio del signor Bennett.

"Entrate", mi disse una voce.

Entrai e lo trovai a letto.

"Chi siete?", chiese.

"Sono Stanley!".

"Ah, si! sedete; ho un affare importante da affidarvi".

Dopo essersi gettata sulle spalle la veste da camera, Bennett soggiunse:

"Dove credete che sia Livingstone?".

"Davvero non so, signore!".

"Credete che sia vivo?".

"Può esserlo, e non può esserlo!".

"Bene. Io credo che sia vivo e che si possa trovarlo, quindi vi spedisco sulle sue tracce".

"Ma come!" dissi, "credete davvero che io possa trovarlo? Volete che vada nell'Africa centrale?".

"Sì, vorrei proprio questo: che lo troviate dove vi diranno che si trova, che raccogliate tutte le notizie possibili su di lui. E siccome potrebbe trovarsi in stato di necessità, portate con voi il necessario per essergli d'aiuto. Naturalmente agirete a seconda del vostro piano, farete quello che meglio crederete. Ma trovatelo".

Replicai meravigliandomi di tale ordine, dato così su due piedi, di mandare uno nell'Africa centrale in cerca di un uomo che io stesso, assieme a molti, credevo morto, quindi aggiunsi: "Avete considerato seriamente la spesa che vi sobbarcate per un viaggio simile?".

"Quanto potrà costare?".

"Burton e Speke, per il loro viaggio nell'Africa centrale, spesero da 3000 a 5000 sterline, e temo che questo non lo si possa fare a meno di 2500".

"Bene, vi dirò quel che dovete fare. Cominciate con l'emettere una cambiale da 1000 sterline su di me e poi, quando non ne avrete più, tirate per altre mille; quando queste saranno spese, tirate per altre mille e via di seguito. Ma trovate Livingstone".

Sorpreso dall'ordine, ma non confuso, e conoscendo la fermezza di Bennett quando si era prefisso qualche cosa, pensai che forse non avesse ben ponderato il pro e il contro dell'impresa, perciò replicai:

"Ho sentito dire che, se morisse vostro padre, voi vendereste l'Herald e vi ritirereste dagli affari".

"Chi ve lo ha detto aveva torto, perché non c'è denaro sufficiente in tutta New York per comperare il New York Herald. Mio padre ne ha fatto un gran giornale. Io voglio farlo ancora più grande. Voglio che sia un giornale nel vero senso della parola. Che pubblichi qualunque notizia possa interessare il mondo, senza badare a spese".

"A questo punto", risposi, "non ho più nulla da dire. Volete che parta direttamente per l'Africa?".

"No! Desidero che assistiate prima all'inaugurazione del canale di Suez; di là risalirete il Nilo. Ho saputo che Baker sta per partire per l'Alto Egitto: informatevi il più possibile sulla sua spedizione e, andando avanti, descrivete tutto l'interessante per i touristes; e poi scrivete una guida, una guida pratica per il Basso Egitto: ci direte quello che merita di esser visto e come lo si può vedere. Dopo, farete bene ad andare a Gerusalemme. Mi dicono che il capitano Warren vi scopre cose interessanti. Visitate Costantinopoli e informatevi un po' su quanto c'è di vero nei dissidi fra il sultano e il hhedivè.

E poi... vediamo... potete recarvi in Crimea a visitare i campi di battaglia laggiù. Dopo, valicate il Caucaso sino al mar Caspio; ho informazioni circa un'imminente spedizione russa contro Khiva. Da questo punto potrete attraversare la Persia e passare in India; potreste scrivere una lettera interessante da Persepoli. Baghdad sarà vicina alla vostra strada per le Indie; che direste di andarci, scrivendoci qualcosa sulla ferrovia che si progetta lungo la valle dell'Eufrate? Quando sarete in India, potrete mettervi sulle tracce di Livingstone.

Probabilmente a quell'epoca sentirete dire che è in cammino per Zanzibar; se no, andate nell'interno e trovatelo, se è vivo. Raccogliete quante notizie potete sulle sue scoperte e, se scoprite che è morto, portate tutte le prove. Ecco tutto. Buona notte, e che Dio sia con voi".

"Buona notte, signore, risposi; ciò che è in potere della natura umana di fare io farò; che Dio mi accompagni in questa missione".

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Pagina 213

CAPITOLO 17



Pericolo di incontrare i Wavinza. Entriamo nell'Uhha. Imposte esorbitanti. Consiglio. Ci gettiamo nei boschi. Una donna compromettente. Il Kabogo. Ultimo allarme. Gli indigeni di Uharanga. Preparativi per il grande incontro. Giorno di felicità e di gloria. Il Tanganika. Fuochi d'allegria. Ingresso in Ujiji. Due saluti in inglese. Susi e Chumah. Stringo la mano a Livingstone.


Partimmo immediatamente dalle sponde del Malagarazi, accompagnati da due guide. Al primo abitato ci avvertirono di avanzare con precauzione; una banda vittoriosa di Wavinza ritornava dalla guerra e, nella sua ebbrezza, devastava il proprio paese. I risultati di un mese di campagna contro Lokanda-Mira erano stati la distruzione di due villaggi, l'uccisione di uno dei figli del capo e l'eccidio di parecchi uomini. Makumbi, capo dei Wavinza, aveva anche perso cinque uomini, morti di sete nella traversata di un deserto di sale a sud del Malagarazi.

Ricorro anche qui al mio diario. Credo che la fredda narrazione di diversi fatti, ora che il ricordo è in parte svanito dalla memoria, sarebbe molto meno interessante di questi estratti, scritti al termine di ogni giornata e sotto l'impressione dei fatti stessi.

4 novembre. - Siamo partiti presto con grandi cautele, mantenendo un profondo silenzio. Le guide sono state mandate avanti, a una distanza di circa 200 metri l'una dall'altra, per essere allertati in tempo. Abbiamo attraversato prima una giungla, poi un territorio piano. Siamo entrati nell'Uhha. Uno stretto fosso asciutto forma il solo confine tra questo Paese e l'Uvinza. Messo piede nell'Uhha, si è dileguato per noi ogni pericolo di imbatterci in Makumbi.

Abbiamo sostato a Kawanga, il cui capo non ha messo tempo in mezzo per farci capire che lui in persona era il percettore reale, il solo che, nella provincia, potesse far pagare il tributo. Perciò ci invitava, nel nostro stesso interesse, a mandargli 12 doti di bella stoffa. Questo avrebbe regolato l'affare una volta per tutte. La faccenda ci ha insospettiti, e ne abbiamo discusso per sei lunghe ore. Il nostro uomo non ha voluto detrarre dalla richiesta iniziale che 2 doti, ma ha affermato che potevamo portarci al fiume Rusugi senza essere ulteriormente tassati.

5 novembre. Lasciando Kawanga al mattino presto e continuando la marcia sulle sconfinate pianure, sbiancate dal sole equatoriale, eravamo pieni di lieti presentimenti. Passando vicino a un gruppo di villaggi, con tutta la fiducia che nessuno ci avrebbe più molestati, abbiamo scorto due uomini staccarsi da un gruppo di indigeni che ci stavano facendo la posta, e correre verso la testa della carovana, evidentemente allo scopo di impedirle il passaggio.

La carovana si è fermata e io sono avanzato per vedere di che si trattasse. I Wahha mi hanno salutato con il solito yambo, poi mi hanno chiesto: "Perché l'uomo bianco passa per il villaggio del re di Uhha senza salutarlo e senza un dono? Forse l'uomo bianco non sa che qui c'è un re al quale Wangwana e arabi pagano un tanto per il diritto di passaggio?".

"Infatti", ho risposto, "abbiamo pagato al capo di Kawanga, che ci ha detto di aver ricevuto dal re di Uhha l'incarico di esigere il tributo".

"Quanto avete pagato?".

"Dieci doti di bella stoffa".

"Ne sei certo?"

"Certissimo. Domandalo a chi lo ha intascato e te lo dirà".

"Bene", disse uno dei Wahha, un bel giovane dall'aspetto intelligente, "il nostro dovere verso il re è di fermarvi qui fin quando non avremo verificato la verità di quello che dici. Volete venire al nostro villaggio e riposarvi all'ombra dei nostri alberi, mentre mandiamo messaggeri a Kawanga?".

"No; il sole si è levato appena da un'ora e noi dobbiamo andare lontano; tuttavia, per mostrarvi che non cerchiamo di passare in mezzo al vostro paese senza fare quello che ci spetta, ci riposeremo qui dove siamo, e manderemo assieme ai vostri messi due dei nostri soldati, che indicheranno loro l'uomo al quale abbiamo pagato la stoffa".

I messi sono partiti, ma nel frattempo il bel giovane, che abbiamo poi saputo essere il nipote del re, ha dato a bassa voce un ordine a un ragazzo che immediatamente è partito, alla velocità dell'antilope, verso il gruppo di villaggi sopraccennato.

Di li a poco abbiamo visto arrivare 50 guerrieri guidati da un uomo vestito con un mantello rosso, armato di arco e di lancia e, nel complesso, di singolare bellezza. Ci siamo scambiati i saluti, quindi ognuno si è seduto.

La pianura era immersa in una tale calma che la si sarebbe detta abbandonata da ogni creatura vivente. In mezzo a quel silenzio, il capo ha preso la parola e, dopo aver declinato i suoi titoli, ha detto: "Perché l'uomo bianco non viene nel mio villaggio, dove c'è cibo e dove potremo discorrere tranquillamente all'ombra? Vuole farmi la guerra?".

Ho protestato le mie intenzioni pacifiche, tuttavia egli insisteva. Allora, siccome il sole ci dardeggiava con tutta la sua forza, ci siamo recati alla residenza del capo, che era il secondo del regno.

Alle due sono tornati i messi, dicendo che sì, il capo di Kawanga aveva ricevuto dieci doti, ma per conto suo particolare, non per conto del re! Mentre facevo le mie rimostranze per un comportamento simile, il capo dal mantello rosso si è messo a raccogliere sottili fascette di cannucce. Quando ho finito di parlare, me ne ha presentate dieci.

"Tante cannucce", ha detto, "tanti doti".

Ogni fascetta era di 10 cannucce: totale 100 doti, 400 metri di stoffa! Ho offerto il decimo.

"Dieci doti al re dell'Uhha! Non partirete finché non mi darai l'intera somma".

Senza dargli risposta, mi sono ritirato nel capanno che mi era stato preparato. Bombay, Asmani, Mabruki e Chowpereh sono stati chiamati a consulto.

"Mi batterò", ho detto loro, "e passeremo". Erano atterriti. Bombay, con accento supplichevole, mi ha scongiurato di pensare bene a quello che stavo per fare, perché una guerra con i Wahha non poteva tornare che a nostro danno. "L'Uhha è un paese piano; non possiamo nasconderci in nessun luogo. Ogni villaggio insorgerà contro di noi. E come possono 85 uomini combattere con migliaia di indigeni? Ci ucciderebbero tutti in pochi minuti: e quando sarai morto, come potrai andare a Ujiji? Pensa a questo, padrone, e non gettare la tua vita per pochi brandelli di stoffa".

"Sì, Bombay; ma questo si chiama furto. Dobbiamo lasciarci derubare? Dobbiamo dargli tutto quello che ci chiede? In tal caso potrebbe chiedere tutta la stoffa, tutti i fucili e non vederci muovere un dito per combattere le sue pretese. Posso uccidere da me solo questo prepotente e i suoi ufficiali, e voi potete ammazzare tutti quelli che rimangono senza darvi gran pena. Se questo capo e i suoi ufficiali fossero morti, non avremmo tanti fastidi, e potremmo partire senz'altro per Ujiji".

"No, no, caro padrone, non stare a crederlo neppure un istante".

"Bene, allora dimmi quel che dobbiamo fare. Di certo non dobbiamo essere derubati".

"Paga al capo quel che chiede e andiamo via di qua. Questo è 1'ultimo luogo in cui ci tocca pagare, poiché fra quattro giorni saremo a Ujiji".

Tutti erano dello stesso parere.

"Allora vai, Bombay, offri prima 20 doti, poi 30, poi 40; non cedere che lentamente e non andare al di là di 80, o combatterò".

La disputa è durata fino alle nove di sera, fermandosi a 65 doti.

Allo spuntare del giorno eravamo in cammino, abbattuti e silenziosi. La nostra provvista di stoffa era molto diminuita; ne rimanevano nove balle, appena sufficienti, se facevamo economia, a farci arrivare all'Oceano Atlantico, aiutati dalle perline che erano ancora intatte. Dopo quattro ore di marcia ci fermiamo. Vedo arrivare due uomini da parte del fratello del re:

"30 doti, o non si passa".

Non oso dire a che punto è salita la mia collera; era rabbiosa. Battermi e morire, piuttosto che cedere. Ma a quattro giorni da Livingstone! Cielo misericordioso! Che fare? Per l'ultima volta, si diceva. Me lo avevano già detto due volte, e avevo ancora cinque capi da incontrare! Ma bisognava partire.

"Vai, Bombay, e dai il meno possibile".

Ho fatto avanzare i due uomini che avevano reclamato il tributo, e ho domandato loro se c'era mezzo di evitare l'imposta gettandosi nei boschi. Dopo lunghe discussioni, uno di loro ha accettato di servirci da guida sino alla frontiera. Condizioni: 40 metri di stoffa, partenza notturna e nel più gran silenzio, per non destare nessuno.

A mezzanotte i miei uomini sono usciti dal campo a piccoli gruppi; alle tre eravamo nella macchia. Camminavamo tutti coraggiosamente, senza lamentarci, anche se eravamo insanguinati dalle erbe taglienti. Malgrado la stanchezza non ci siamo fermati sino alla riva del Rusugi. Dei portatori di sale, scorgendoci, hanno gettato i loro carichi e via a gambe, gridando, verso i villaggi, che potevano essere a una distanza di sei chilometri. I miei uomini hanno ripreso i loro fardelli, quindi siamo corsi a nasconderci in una giungla che ci stava dirimpetto. Appena entrati nella macchia, la moglie di uno della carovana si è messa a gridare come una disperata, senza che si potesse indovinarne il perché.

"Falla tacere, o siamo perduti" viene a dirmi la guida.

Le ho messo la mano sulla bocca; peggio: gridava più forte. Lo spavento era al colmo; il marito, livido di collera, ha sguainato la daga e mi ha chiesto il permesso di ucciderla. Ho preso la frusta:

"Vuoi tacere, sì o no?".

"No".

Ho colpito una volta, due volte. Soltanto alla nona ha cessato di gridare. Le abbiamo posto un fazzoletto sulle labbra, le abbiamo legato le mani e la carovana si è rimessa in cammino. Niente campo, niente fuoco; nessuno si è lamentato. Siamo giunti così al Rugufu, ampio corso d'acqua poco profondo, vicino al quale ci siamo fermati. Un rombo lontano ha colpito il mio orecchio. "È il fulmine?" ho chiesto. Mi hanno risposto che era il Kabogo, un'alta montagna situata sulla riva occidentale del Tanganika, nella quale si aprivano caverne profonde dove andavano a frangersi le onde. Molte barche vengono ingoiate dai flutti nelle vicinanze di quelle caverne, ed è costume degli arabi e degli indigeni che vi navigano gettare nel lago stoffe e perline a Mubungu (dio del lago). Secondo le credenze del luogo, quelli che fanno offerte vanno immuni, ma chi non paga il tributo affoga certamente.

Il cielo cominciava a imbiancarsi quando siamo usciti dalla giungla. Si rivedeva il sentiero; la nostra guida si credeva fuori dall'Uhha; ha gettato un grido di gioia che gli uomini hanno ripetuto. A un tratto sono apparsi i primi casotti di un villaggio: la guida si era sbagliata. Ho fatto scannare i polli e le capre, che ci potevano tradire, e tutti hanno ripreso la via della macchia. Nell'istante in cui l'ultimo di noi passava, un indigeno è uscito dalla capanna, gettando un grido d'avvertimento seguito di lì a poco da rumori lontani.

È stato il nostro ultimo allarme

9 novembre. Continuiamo in silenzio la nostra marcia in mezzo alle giungle ed entriamo nell'Ukaranga. Qui la strada è piana, perciò, presa nuova lena, affrettiamo il passo, sapendo vicina la fine delle nostre fatiche: siamo alla vigilia del giorno tanto sospirato! Tutto è dimenticato, tutto è perdonato, i neri volti dei componenti della carovana sono raggianti di gioia.

I Wakaranga di un picolo villaggio ci vengono incontro per salutarci. Che differenza dai turbolenti Wavinza! Come è bello l'Ukaranga, tutto coperto di verdeggianti colline e pittoresche capanne. Ha qualcosa dell'aspetto del Maryland.

Il sole sta calando; abbiamo camminato per nove ore, ma nessuno è stanco. Siamo a Niamtaga; il capo si presenta, mi fa dare tre montoni grassi, farina, miele, birra ed è contentissimo degli 8 metri di stoffa che lo prego di accettare.

Mentre scrivo il mio diario, dico a Selim di approntarmi il nuovo costume di flanella, di dar l'olio agli stivali, di dare il bianchetto al mio elmetto (solitopi) e di ravvolgervi intorno una veletta nuova, affinchè possa presentarmi nello stato più decente possibile innanzi all'uomo bianco dalla barba grigia, e innanzi agli arabi di Ujiji. Buona notte; venga il giorno di domani, poi vedremo quel che vedremo.

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Pagina 227

CAPITOLO 18



Primo colloquio con Livingstone. Faccio la parte di un giornale annuale. Un brindisi con champagne Sillery. La cuoca Halimah. Mi sveglio in un letto. Espongo la mia missione a Livingstone. Come Livingstone ha perduto i denti. Impressioni. Felice combinazione.


Ciò che Livingstone e io dicemmo in quel primo colloquio non saprei ripetere, tanta era la mia emozione. Osservavo ogni suo capello, ogni ruga della sua fronte, il pallore dei suoi lineamenti, e cercavo di leggergli nell'animo. Le sue labbra mi sembravano di quelle che non sanno mentire. Aveva tanti fatti da narrarmi, che incominciò dalla fine, lasciando da parte gli avvenimenti di cinque o sei anni prima. Ma quel racconto aumentava via via, prendendo le proporzioni di una storia meravigliosa. Gli arabi si ritirarono, dando prova di somma delicatezza. Mandai Bombay con loro, perché li informasse su quanto volevano sapere dell'Unyanyembe.

Dopo aver dato ordini per l'approvvigionamento della carovana, chiamai Kaif-Halek, uno dei soldati della carovana di Livingstone che avevo condotto da Kwihara, e gli feci consegnare al dottore il pacco delle lettere a lui dirette. Erano le famose lettere del 1° novembre 1870, che venivano rimesse 365 giorni dopo! E chi sa quanto tempo ancora sarebbero rimaste nell'Unyanyembe se non fossi stato mandato in Africa in cerca di Livingstone! Mentre il dottore apriva con mano convulsa le due lettere dei figli, il suo volto si rianimava; poi si rivolse a me, dicendomi di raccontargli le novità.

"No, dottore", dissi, "leggete prima le vostre lettere, che sono sicuro dovete essere impaziente di scorrere".

"Ah!" rispose, "ho aspettato lettere per anni e ho imparato a pazientare: vi garantisco che posso ancora aspettare qualche ora. Datemi le notizie generali. Come va il mondo?".

"Probabilmente ne saprete già molto. Sapete che il canale di Suez è un fatto compiuto? Che è aperto e che vi si fa un commercio regolare tra l'Europa e l'India?".

"Non ho inteso nulla della sua apertura. Bene! Questa è una grande novità! Altro?".

Ben presto mi trovai impegnato a fare la parte di un periodico annuale. Non c'era bisogno di esagerare o di dar notizie da un soldo la riga, notizie a sensazione: il mondo aveva visto e provato molto, negli ultimi anni. La ferrovia del Pacifico era stata ultimata, Grant eletto presidente degli Stati Uniti, l'Egitto inondato dagli scienziati, la ribellione di Creta repressa. In Spagna, una rivoluzione aveva cacciato Isabella dal trono e nominato un reggente; il generale Prim era stato assassinato, Castellar aveva elettrizzato l'Europa con le sue idee avanzate sulla libertà dei culti, la Prussia aveva umiliato la Danimarca e annesso lo Schleswig-Holstein e poi, alleata con l'Italia, aveva soggiogato l'Austria, costringendola a lasciare il Veneto. I suoi eserciti si trovavano in quel momento intorno a Parigi.

"L'uomo del destino" era prigioniero a Wilhelmshoe, la regina della moda, l'Imperatrice dei francesi, era fuggiasca e il fanciullo nato in mezzo alla porpora aveva perduto per sempre la corona imperiale destinata al suo capo. La dinastia napoleonica abbattuta dai prussiani Bismarck e von Moltke e la Francia, il superbo impero, umiliato nella polvere.

Quante novità straordinarie per un uomo che usciva dai recessi profondi delle vergini foreste del Manyuema! Mentre Livingstone ascoltava una delle pagine più ricche di avvenimenti della storia umana, sul suo volto raggiava la viva luce della civiltà.

Poco dopo la partenza degli arabi, giunsero da parte loro doni in vivande e, quantunque il dottore si lamentasse della mancanza d'appetito e del suo stomaco indebolito, mangiò come un giovane vigoroso e affamato, ripetendo a ogni istante:

"Mi avete ridato la vita! Mi avete ridato la vita!".

"Ah, per San Giorgio, quale dimenticanzal... Selim, corri a cercare quella bottiglia che sai e i bicchieri d'argento".

Avevo conservato una bottiglia di champagne Sillery espressamente per questa occasione. Nel presentarne un bicchiere colmo al dottore, dissi:

"Dottor Livingstone, alla vostra salute!".

"E alla vostra", mi rispose.

Mai un brindisi fu più cordiale e amichevole. Halimah, la cuoca del dottore, si trovava in uno stato di esaltazione difficile a descriversi. Continuava a guardare dalla porta, sorpresa di vedere un altro bianco in casa.

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Pagina 255

CAPITOLO 21



Che cosa pensava il dottore circa il fiume. L'alto Nilo. Sorgenti del Congo. Lunghezza del Nilo, secondo l'ipotesi di Livingstone. Vallata longitudinale. Stazione del dottore. Il Rua e il Manyuema. Milioni di uomini sconosciuti. Suddivisioni del paese. Industrie. Quantità favolosa d'avorio. Miniere di rame. Sabbie aurifere. Popolazione. Bellezza delle donne. Schiavitù. Armi da fuoco. Amore del commercio. Orribile attentato. Odio contro gli arabi.


Per quanto sia incompleto, speriamo che questo breve saggio dei lavori di Livingstone sappia dimostrare la vastità delle nuove scoperte compiute dall'illustre viaggiatore, oltre alla loro importanza sotto l'aspetto geografico.

Come ammette Livingstone, il fiume che, sotto diversi nomi, va da un lago all'altro dirigendosi verso nord sarebbe la parte superiore del Nilo. Le profonde curve che descrive a ovest e a sud-ovest gli avevano all'inizio ispirato alcuni dubbi, che furono lenti a dissiparsi. Aveva cominciato con il supporre che fosse il Congo, ma poi scoprì che questo originava dal Kassai e dal Kwango, due fiumi che nascono nel versante occidentale della catena di monti che separa i due bacini. Quindi, dopo aver risalito lo Chambezi fino alla sorgente, dopo aver seguito il Luapula ed essersi accertato che, malgrado le sue divergenze, il Webb scorreva a nord, e in una vallata fiancheggiata su ambo i lati da alte montagne, fu convinto che quella era la parte meridionale del fiume d'Egitto. Cosi risultò che il Nilo avrebbe una lunghezza di quarantadue gradi di latitudine, il che ne farebbe, dopo il Mississipi, il più lungo fiume del mondo.

Quella grande vallata al di là dell'equatore, che in questa ipotesi diverrebbe la vallata dell'alto Nilo, riceve da occidente fiumi importanti che partono da grandi distanze, come la Lufira e il Lomami, e da oriente il Lindi e il Luamo. Il dottore crede che non abbia affinità di sorta con il Kassai, il Kuango e il Lubilash, che invece vanno a formare il Congo.

Prima di discutere questo problema, che sarà poi sciolto dalle nuove ricerche del dottore, bisognerà conoscere con precisione l'altezza dei diversi punti in questione. Certo, se Livingstone si è fermato, come crede, a 610 metri sul livello dell'oceano, conviene credere che il Webb mantenga lo stesso livello per il corso di otto gradi di latitudine prima di raggiungere il fiume delle Gazzelle, che è il ramo più vicino al Nilo Bianco la cui altitudine non sia maggiore. Livingstone è ripartito per mettere in chiaro questo fatto. Se le sue deduzioni sono erronee, sarà il primo a riconoscerlo.

Il Webb attraversa le province di Rua, l'Uruha di Speke, e di Manyuema, e vi si espande in numerosi laghi. Fra il Tanganika nella zona di Rua e le sorgenti presenti del Congo, limitrofe al Manyuema, vivono milioni di persone che non hanno mai supposto l'esistenza dei bianchi, i quali, da parte loro, non avevano mai sentito parlare di loro prima dell'arrivo del dottore in quelle lontane regioni. Le due vaste regioni - il Rua si estende su sei gradi di latitudine e non se ne conosce la lunghezza - non sono organizzate in regni come l'Uganda e il Karagwah. In esse, ogni villaggio è soggetto a un capo indipendente e non ha nulla in comune con il centro abitato vicino. Il più intelligente di quei piccoli capi ignora che cosa esista a trenta leghe (150 chilometri circa) dalla sua frontiera, fatto che avrebbe creato grandi difficoltà al compito del dottore. Sotto quest'aspetto, le popolazioni che Livingstone aveva incontrato altrove sembravano incivilite, a confronto delle ultime. Ma sotto l'aspetto industriale, gli abitanti del Manyuema erano di molto superiori a tutti gli indigeni che aveva incontrato fino ad allora. Sono esperti fabbricanti d'armi, come si può vedere dall'incisione dove sono rappresentate le loro daghe e i loro utensili. Compongono con erbe finissime tessuti che equivalgono almeno a quelli fabbricati in India con lo stesso materiale; inoltre conoscono l'arte di tingerli in vari colori, per esempio in nero, giallo, o azzurro cupo. Gli Zanzibariti, colpiti dalla bellezza di quelle stoffe, le scambiano volentieri con i loro tessuti di cotone. Quasi tutti gli indigeni del Manyuema che vidi portavano eleganti casacche fatte con i tessuti del loro paese.

Le due regioni sono anche ricche in avorio. La febbre che attrae laggiù gli speculatori per comperarvi i preziosi denti d'elefante è la stessa che attira in California, in Australia, al Capo di Buona Speranza e altrove i cercatori di diamanti e di pepite d'oro.

Fu un arabo, circa quattro anni or sono, a farne la scoperta: era il primo commerciante che fosse andato nel Manyuema. Ne tornò con una tale quantità d'avorio e rese una relazione così prodigiosa del numero di denti che si potevano trovare, che da allora le antiche strade del Karaguah, dell'Uganda, dell'Ufipa e del Marungu si spopolarono.

Gli abitanti del paese, ignorando il valore di quell'articolo prezioso, lo usavano per fabbricare le case: le ossature e i pilastri d'avorio erano comuni in tutta la provincia. All'udirne i racconti, si cessava di provare meraviglia per il palazzo di re Salomone.

L'arrivo degli arabi era stata una rivelazione per gli ingenui possessori di quel tesoro. Il prezzo dei denti si era presto elevato, pur restando sempre a buonissimo mercato. A Zanzibar, per un frasilah d'avorio (35 libbre, o 15,75 chilogrammi) si pagavano da 50 a 60 dollari, secondo la qualità. Nell'Unyanyembe, 450 grammi si potevano ancora avere per 1-10 dollari, mentre nel Manyuema si ottenevano, della qualità più scelta, per sei o sette centesimi.

Il Rua possiede altresì miniere ricchissime di rame; quelle del distretto di Katanga, scavate da secoli, ora sono abbandonate. Nel letto d'un fiume fu trovata sabbia aurifera, le cui pagliuzze hanno la dimensione del disco di un pisello, mentre le pepite sono in forma di bastoncini. Due arabi avevano iniziato a lavarle, ma il processo insufficiente che avevano adottato non permise loro di trarne risultati vantaggiosi.

Infine, in quelle terre vive una popolazione attiva, bella e socievole. Gli speculatori, tuttavia, guastano il terreno con la loro avidità e quelli cattivi, che sono il maggior numero, corrompono il paese con i loro crudeli intrighi.

Gli schiavi del Manyuema, per la loro bellezza e bontà, hanno un prezzo maggiore degli altri. Le donne, specialmente, sono per lo più bellissime; a eccezione dei capelli, non hanno nulla del tipo negro. Hanno una carnagione chiara: nel nord della provincia la loro pelle non è più bruna di quella delle portoghesi o delle meticce della Luisiana. Hanno il naso ben fatto e occhi magnifici, le labbra ben tagliate, carnose senza essere grosse, e difficilmente hanno i denti sporgenti. Sono svelte, buone nuotatrici, e vanno a raccogliere le ostriche sul fondo del Webb, dove abbondano.

Queste belle donne, molto intelligenti, sono ricercatissime dai meticci della costa, che le fanno loro spose. Gli Omanesi, di razza pura anch'essi, non disdegnano di prenderle in moglie. Da ciò i mostruosi vantaggi che fecero aggiungere al trasporto dell'avorio quello della merce vivente. L'aspetto terribile è che il primo si compera, mentre la seconda si prende. E in che modo! I rapaci che vogliono impadronirsi di quei disgraziati non discutono sui mezzi. Chi potrebbe frenarli? Sono invincibili per quei popoli che non hanno mai visto armi da fuoco e si lasciano travolgere dal terrore alla prima scarica. Credono che quegli stranieri si siano impadroniti del fulmine e che gli archi e le frecce siano impotenti contro di loro.

Ma di certo non mancano di coraggio. Se non fosse per il prestigio di quelle armi "soprannaturali", e a ogni modo impari, il loro paese sarebbe chiuso agli speculatori. I loro guerrieri non ne temerebbero né le spade né le lance. Oggi non possono far altro che vivere nella paura e sottomettersi. Il dottore narra cose strazianti su di loro. Mi raccontò, fra gli altri, un fatto orribile accaduto sulla riva del Webb.

Come la maggior parte degli africani, i Wamanyema hanno una grande passione per il commercio. Il mercanteggiare, che a noi dà tante tribolazioni, per loro è una pratica attraente: si inebriano di gioia se riescono a far ribassare il prezzo di un oggetto, o a guadagnare una perla con una lunga lotta di parole. A questo gioco si appassionano soprattutto le donne, che sono espertissime, e siccome si fanno più belle man mano che si animano disputando, il mercato attira molti uomini.

In mezzo a una simile scena, tranquilla e allegra, un meticcio arabo chiamato Tagamoyo irruppe con la sua banda e fece sparare contro la folla. Al primo colpo quegli infelici fuggirono. Erano 2000 persone in corsa verso le loro piroghe, che si urtavano l'un l'altra. La banda non desisteva dal fuoco. Molti disperati saltarono nell'acqua profonda e furono preda dei coccodrilli. Ma la maggior parte di quelli che perirono furono uccisi dai fucili. Il dottore stima che il numero dei morti ammonti a 400 tra uomini, donne, fanciulli, ma quello degli schiavi non fu inferiore.

Questo attentato orribile è un saggio dei tanti altri di cui Livingstone fu testimone. È quindi facile comprendere l'odio che perseguita gli arabi in quelle contrade un tempo tranquille, le cui suddivisioni interne, d'altra parte, accrescono l'audacia e facilitano le imprese dei rapinatori.

Dovunque siano andati, gli speculatori si sono comportati nello stesso modo. Ora, da Bagamoyo a Ujiji, la loro condotta è differente, perché sono stati costretti a cambiarla. Le tribù stanno acquistando coraggio, hanno anch'esse dei fucili e stanno iniziando le rappresaglie. Molti gruppi tribali cominciarono a servire come ausiliari, traendo il vantaggio di essere al sicuro dalle rapine e di estendere le loro conquiste. Ma in seguito, quando gli speculatori stabilirono il loro dominio e il campo fu sgombro del popolo di cui avevano invidiato il territorio, i beni, e le persone, questi rivolsero le armi contro gli imprudenti che avevano favorito le loro usurpazioni. Malgrado le loro scorte sempre numerose, gli arabi viaggiano impauriti. A ogni passo incontrano un pericolo: i Wagogo li taglieggiano, i Waseguhha li arrestano; la strada del Karaguah è difficilissima; Mirambo li perseguita, li attacca, li batte e, dietro di lui, Swaruru domanda loro la tassa con il fucile alla mano.

Questi crudeli speculatori furono la causa per cui tutti i bianchi, di qualunque nazione, si attirarono l'odio degli africani, e quindi pericoli da tutte le parti. Malgrado la stima che ispirava Livingstone nel Manyuema, come dovunque fu conosciuto, più volte fu sul punto d'essere assassinato per il solo fatto che veniva scambiato per un Arabo.

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