Copertina
Autore George Steiner
Titolo Dopo Babele
SottotitoloAspetti del linguaggio e della traduzione
EdizioneGarzanti, Milano, 2004 [1984], Saggi , pag. 616, cop.fle., dim. 135x210x40 mm , Isbn 978-88-11-67751-2
OriginaleAgter Babel. Aspects of language and translation [1975]
TraduttoreRuggero Bianchi, Claude Béguin
LettoreRenato di Stefano, 2004
Classe linguistica , critica letteraria , semiotica , comunicazione
PrimaPagina


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Indice

Ringraziamenti                            7
Prefazione alla seconda edizione          9

I.   La comprensione come traduzione     23
II.  Linguaggio e gnosi                  78
III. La parola contro l'oggetto         145
IV.  Le pretese della teoria            287
V.   Il moto ermeneutico                354
VI.  Topologie della cultura            491


Selezione bibliografica                 563
Indice analitico                        585

 

 

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Pagina 12

Dopo Babele premette che la traduzione è formalmente e praticamente implicita in ogni atto di comunicazione, nell'emissione e nella ricezione di ogni singolo atto di significazione, sia nel più ampio senso semiotico sia negli scambi più specificamente verbali. Capire significa decifrare. La percezione dell'intenzione di significare è una traduzione. Di conseguenza, i mezzi e i problemi essenziali dell'atto della traduzione a livello di struttura e di esecuzione sono tutti presenti negli atti del discorso, della scrittura e della codificazione pittoriale all'interno di qualsiasi lingua. La traduzione fra lingue diverse è un'applicazione particolare di una configurazione e di un modello fondamentali del discorso umano, persino quando questo discorso avviene in un'unica lingua. Questo postulato generale è stato accettato quasi da tutti. Tento di illustrarlo tramite l'osservazione delle numerosissime difficoltà incontrate all'interno della stessa lingua da quelli che si sforzano di comunicare attraverso gli spazi del tempo storico, delle differenze sociali, delle variazioni di sensibilità culturale e professionale. Più particolarmente, invito il lettore a considerare i dilemmi di traduzione inadeguata suscitati dalle differenze radicali tra i costumi linguistici, enunciati o inespressi, delle donne e degli uomini. Su questo punto, non sono la socio-linguistica, la psico-linguistica, e nemmeno l'antropologia ad illuminarci meglio, bensì gli scandagli intuitivi dei poeti, dei drammaturghi e dei romanzieri che strutturano le convenzioni della comprensione velata o mancata che vigono fra uomini e donne, fra donne e uomini, nei tratti di dialogo che chiamiamo amore o odio. È un tema cardinale per la nostra percezione di noi stessi e della società. Certe correnti recenti del femminismo e dei women-studies hanno malmenato o banalizzato la trama complessa e delicata dei dati disponibili. Per quanto io possa giudicare, i suggerimenti d'indagine contenuti in questo libro non sono stati affatto seguiti, o soltanto in misura minima.

Ma benché noi «traduciamo» ad ogni istante quando parliamo e riceviamo segnali nella nostra lingua, è ovvio che la traduzione nel senso più lato e più usuale avviene quando s'incontrano due lingue. Perché mai devono esistere due lingue diverse? Anzi, perché mai sono state parlate, ad occhio e croce, più di ventimila lingue su questo piccolo pianeta? Questa è la domanda che pone Babele. Perché l' homo sapiens sapiens, geneticamente uniforme sotto tutti gli aspetti, sottoposto a costrizioni biologico-ambientali e a possibilità di evoluzione identiche, deve parlare migliaia di lingue incomprensibili fra loro, alcune di esse a distanza di soltanto pochi chilometri? I vantaggi materiali, economici e sociali dell'uso di una singola lingua sono ovvi. Le barriere spinose create dalla mutua incomprensione, dalla necessità di acquisire una seconda o una terza lingua, spesso di impressionante difficoltà e «stranezza» a livello fonetico e grammaticale, sono evidenti. Questa sfida alla riflessione, profonda e elementare, viene quasi sempre ignorata, perché informe o insolubile, dalla maggior parte dei linguisti universitari (così come la famosa questione delle origini del linguaggio umano è stata, fino a poco fa, esclusa dai dibattiti «scientifici»).

In Dopo Babele prendo in considerazione l'analogia darwiniana sulla pletora di speci organiche. Esistono forse paralleli strutturali tra le diecimila specie di insetti che possiamo trovare in un angolo dell'Amazzonia, diciamo, e la proliferazione da capogiro di lingue parlate nel subcontinente indiano o in quelle stesse zone della giungla amazzonica? A un primo livello, il paragone non regge. Il paradigma darwiniano si fonda sui vantaggi dell'evoluzione. Quando emergono attraverso la competizione, le varie forme di vita, per quanto specializzate, per quanto microscopiche siano le loro differenze, trovano la loro collocazione nell'ambiente. La loro proliferazione migliora le possibilità di adattamento e di progresso biologico. Nessun vantaggio del genere è legato all'apparentemente anarchica molteplicità di lingue incomprensibili fra loro. Al contrario: a nostra conoscenza, non esiste mitologia in cui la frammentazione di una lingua originaria unica (motivo adamitico) in schegge, in una cacofonia non comunicante, non sia stata percepita come una catastrofe, una punizione divina per qualche mossa impenetrabile di ribellione o di arroganza dell'uomo caduto dalla grazia. Persino un esame superficiale rivela i disastri palpabili, vuoi economici, politici o sociali, suscitati dalla miriade di «balbettamenti dopo Babele».

Ma a un secondo livello i modelli darwiniani offrono un suggerimento fecondo. In Dopo Babele, suggerisco che la forza costruttiva della lingua nella concettualizzazione del mondo ha avuto un ruolo cruciale nella sopravvivenza dell'uomo di fronte a costrizioni biologiche ineluttabili, in altre parole di fronte alla morte. È questa miracolosa (mantengo l'aggettivo) capacità delle grammatiche a generare realtà alternative, frasi ipotetiche e, soprattutto, i tempi del futuro che ha permesso alla nostra specie di sperare, di proiettarsi ben al di là dell'estinzione dell'individuo. Perduriamo, e perduriamo creativamente, grazie alla nostra imperativa capacità di dire «no» alla realtà, di fabbricare finzioni di alterità, di una diversità sognata o voluta o aspettata dove la nostra consapevolezza possa trovare residenza. È in questo senso preciso che l'utopia e il messianismo sono figure sintattiche.

Ogni lingua umana traccia una planimetria diversa del mondo. C'è una compensazione vitale nell'estrema complessità grammaticale di quelle lingue (fra gli aborigeni australiani o nel deserto del Kalahari, ad esempio) parlate da uomini che vivono in contesti materiali e sociali di privazione e di sterilità. Ogni lingua - e non esistono lingue «minori» o «inferiori» - forma una serie di mondi possibili e di geografie della memoria. Sono i tempi del passato, con la loro sconcertante varietà, a costituire la storia. Perciò esiste, per quanto riguarda le risorse psichiche e la sopravvivenza dell'uomo, una logica «darwimana» immensamente positiva nell'eccesso di lingue parlate sul nostro pianeta, per altri lati incomprensibile e negativo. Quando muore una lingua, muore con essa un mondo possibile. In questo non c'è sopravvivenza dei più forti. Persino quando è parlata soltanto da una manciata di persone, dai sopravvissuti perseguitati di comunità sterminate, una lingua contiene in sé il potenziale illimitato di scoperta, di ri-composizioni della realtà, di sogni strutturati che noi chiamiamo miti, poesia, ipotesi metafisiche e discorso giuridico. L'accelerazione della scomparsa di lingue su tutta la terra, l'egemonia distruttrice di lingue dette «maggiori» che devono la loro efficacia dinamica alla diffusione planetaria del marketing di massa, della tecnocrazia e dei media è un punto fondamentale in Dopo Babele.

Paradossalmente, una simile tendenza all'uniformità caratterizza le pretese delle grammatiche trasformazionali generative. Paradossalmente, perché la posizione politica di Noam Chomsky è stata estremamente anti-imperialista. L'assioma delle strutture profonde universali del cervello (benché in modo mai definito e, anzi, dichiaratamente al di là dell'indagine razionale) respinge inevitabilmente nel campo dell'incidentale, del superficiale, i dati della molteplicità e della differenza. In tutto Dopo Babele, il mio rifiuto delle pretese trasformazionali generative si basa sull'incapacità di queste grammatiche di fornire esempi convincenti di «universali» nelle lingue naturali, e sulla fondamentale inutilità del progetto chomskiano per quanto riguarda la poetica e l'ermeneutica. Oggi le grammatiche generative si sono trincerate in un formalismo quasi assoluto, in un'astrazione analitica e meta-matematicamente algoritmica così esacerbata da non avere quasi più niente in comune con i reali «mondi del discorso» e con le differenze creative che li distinguono. L'«unitarismo» generativo è stato sostituito dall'appassionante teoria nostratiana, con la sua ricerca di un'unica Ursprache, di una lingua primordiale dalla quale derivano tutte le altre. Non sappiamo se esistono o meno dati che confermano l'esistenza di questa fonte comune; ciò che invece attrae il poeta, ciò che affascina e stupisce lo studioso della comprensione è quello che William Blake chiamava «la santità del particolare infimo».

Forse è colpa mia. Per quanto possa giudicare, il punto di vista «darwiniano» della necessità psichica della profusione delle varie lingue umane non è stato recepito né discusso. È un punto centrale in Dopo Babele.

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Pagina 16

Di conseguenza considero improprio l'uso attuale e ubiquito della parola e categoria «teoria» applicata alla poetica, all'ermeneutica, all'estetica (e persino alle scienze sociali, mi sembra). In questi campi, questo concetto non ha esistenza reale e nasconde la caratteristica soggettiva, imaginativamente trascendente (nel senso kantiano) di ogni discussione, proposta e scoperta in letteratura e nelle arti (ci sono senza dubbio elementi autenticamente teorici, vale a dire «formalizzabili», nell'analisi musicale). Non esistono «teorie della letteratura»; non esiste una «teoria della critica». Queste formule alla moda sono soltanto un bluff arrogante, un'appropriazione indebita, di una trasparenza patetica, dovuta all'invidia per il successo e il progresso della scienza e della tecnologia. Certamente, con buona pace dei nostri attuali maitres à penser in bizantinismo, non esistono «teorie della traduzione». Abbiamo invece descrizioni ragionate di procedimenti. Nei migliori dei casi, troviamo e cerchiamo di articolare, in alternanza, delle narrazioni di esperienza vissuta, delle notazioni euristiche o illustrative di un lavoro in fieri. Queste cose non hanno uno statuto «scientifico». I nostri strumenti di percezione non sono teorie o ipotesi di lavoro in un senso scientifico che sarebbe verificabile o refutabile, bensì quelle che chiamo «metafore di lavoro». Le migliori traduzioni non possono guadagnare niente dai diagrammi e grafici computerizzati e (matematicamente) puerili proposti da aspiranti teorici. La traduzione è, e sarà sempre, quella che Wittgenstein chiama «un'arte esatta».

Il modello in quattro tempi della mossa ermeneutica inerente all'atto della traduzione che viene discusso in Dopo Babele - «spinta iniziale- aggressione- incorporazione- reciprocità o restituzione» - non ha pretese teoriche. È la narrazione di un procedimento.

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Pagina 42

Questi esempi mirano a dimostrare un fatto assai semplice. Qualsiasi lettura completa di un testo tratto dal proprio passato linguistico e letterario è un atto multiplo di interpretazione. Nella grande maggioranza dei casi, tale atto non viene quasi compiuto o addirittura non viene consapevolmente riconosciuto. Nel migliore dei casi, il lettore comune si affiderà a quei puntelli necessari costituiti dalle note a piè pagina o dai glossari. Quando legge un qualsiasi brano di prosa inglese dal 1800 circa in poi e la maggior parte dei componimenti in versi, il lettore medio presume che le parole scritte sulla pagina, con poche eccezioni 'difficili' o stravaganti, significhino quello che significherebbero nel suo proprio idioma. Nel caso di 'classici' come Defoe e Swift, tale assunto può estendersi fino al primo Settecento e raggiungere quasi Dryden, ma si tratta, ovviamente, di una finzione.

Il linguaggio è soggetto a un mutamento perenne. Scrivendo su Clough nel 1869, Henry Sidgwick osservava: «Il suo punto di vista e l'abito mentale sono meno singolari in Inghilterra nel 1869 di quanto lo fossero nel 1859, e assai meno di quanto lo fossero nel 1849. Di anno in anno stiamo diventando più introspettivi e autocoscienti: la filosofia attuale ci porta a un'osservazione e a un'analisi attenta, paziente e imparziale, dei nostri processi mentali: scriviamo e diciamo sempre di più quello che veramente pensiamo e sentiamo, e non ciò che ci proponiamo di pensare o vorremmo sentire». In forma generalizzata, il commento di Sidgwick si applica a ogni decennio della storia della lingua e della coscienza inglese di cui abbiamo documentazione adeguata. In molti casi, un diagramma delle variazioni linguistiche dovrebbe rilevare punti assai più vicini nel tempo di un decennio. Il linguaggio - ed è questa una delle proposizioni fondamentali di alcune scuole di semantica moderna - è il modello più notevole di flusso eracliteo, in quanto si modifica a ogni istante nel tempo percepito. La somma degli eventi linguistici è non soltanto accresciuta ma alterata da ciascun nuovo evento. Due affermazioni prodotte in sequenza temporale non sono mai perfettamente identiche; benché omologhe, esse interagiscono. Quando pensiamo al linguaggio, l'oggetto della nostra riflessione si modifica nel corso del processo (così i linguaggi specialistici e i metalinguaggi possono avere un influsso notevole sul linguaggio quotidiano). In breve: nella misura in cui noi li sperimentiamo e li 'realizziamo' in progressione lineare, tempo e linguaggio sono intimamente collegati: si muovono - e la freccia non è mai nello stesso posto.

Come vedremo, vi sono esempi di mobilità bloccata o drasticamente ridotta: certe lingue sacre e magiche si possono conservare in uno stato di stasi artificiale, ma il linguaggio ordinario è letteralmente in ogni istante soggetto a un mutamento che può assumere parecchie forme. Nuove parole entrano a farne parte mentre le vecchie cadono in disuso. Convenzioni grammaticali si trasformano sotto il peso dell'uso idiomatico o per decreto culturale; la gamma dell'espressione consentita in rapporto a quella tabù varia ininterrottamente. A un livello più profondo, le dimensioni e le intensità relative del detto e del non detto si alterano. Questo è un punto assolutamente fondamentale ma assai poco compreso. Civiltà differenti e differenti epoche non producono necessariamente la stessa 'massa di linguaggio'; certe culture parlano meno di altre; alcune forme di sensibilità apprezzano il silenzio e l'elisione, altre invece premiano la prolissità e gli ornamenti semantici. Il linguaggio interiore ha una sua storia complessa, probabilmente irrecuperabile: sia per quantità che per contenuto significante, le divisioni tra ciò che diciamo dentro di noi e ciò che comunichiamo agli altri non sono mai le stesse nelle diverse culture o nelle varie fasi dell'evoluzione linguistica. Con l'intensificarsi della definizione del subconscio che caratterizza i modi di sentire occidentali postrinascimentali, tale 'ridistribuzione' della massa linguistica - dove il discorso pubblico è soltanto la punta dell'iceberg - è stata indubbiamente drastica. La polarità e la carica verbale dei sogni sono una variabile storica. Il linguaggio, in quanto specchio o controproposta del mondo - o, più plausibilmente, interpenetrazione del riflessivo col creativo lungo un' 'interfaccia' per noi priva di alcun modello formale adeguato - muta in maniera rapida e molteplice come la stessa esperienza umana.

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Pagina 49

Una cosa è chiara: ogni atto linguistico ha una determinazione temporale; nessuna forma semantica è atemporale: quando si usa una parola risvegliamo gli echi di tutta la sua storia precedente. Ogni testo è radicato in un preciso tempo storico; possiede ciò che i linguisti definiscono una struttura diacronica. Leggere in maniera totale significa recuperare il più possibile i valori e le intenzionalità immediate in cui di fatto si presenta un discorso dato.

Esistono strumenti per tale impresa. Il vero lettore è un maniaco del dizionario, [...]

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Pagina 57

Senza interpretazione, nel significato molteplice ma genericamente unitario del termine, non potrebbe esistere la cultura, ma soltanto un rozzo silenzio alle nostre spalle. In breve, l'esistenza dell'arte e della letteratura, la realtà della storia vissuta in una comunità, si basa su un interminabile, anche se assai spesso inconsapevole, atto di traduzione interna. Non è eccessivo dire che possediamo la civiltà perché abbiamo imparato a tradurre dal tempo.

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Pagina 66

Nella maggior parte delle società e in tutto il corso della storia, la condizione delle donne è stata simile a quella dei bambini. Ambedue i gruppi sono mantenuti in uno status di inferiorità privilegiata. Entrambi devono subire forme evidenti di sfruttamento - sessuale, legale, economico - pur beneficiando di una mitologia di particolare riguardo. Così, il sentimentalizzare vittoriano della superiorità morale delle donne e dei bambini coesisteva con forme violente di asservimento erotico ed economico. Sotto tale pressione sociologica e psicologica, tutte e due le minoranze hanno sviluppato codici interni di comunicazione e di difesa (donne e bambini costituiscono un'autodefinita minoranza simbolica anche quando, in seguito a guerre o ad altre circostanze speciali, il loro numero supera quello dei maschi adulti nella comunità). Vi è un mondo linguistico femminile proprio come ve n'è uno infantile.

Si sfiora qui una delle aree più importanti, anche se meno comprese, dell'esistenza biologica e sociale. Eros e linguaggio si intrecciano ovunque. Relazione sessuale e relazione verbale, copula e copulazione, sono sottoclassi del processo comunicativo in generale. Nascono dall'esigenza vitale dell'io di raggiungere e comprendere, nei due sensi fondamentali di 'capire' e 'contenere', un altro essere umano. Il sesso è un atto intensamente semantico. Come il linguaggio, esso è condizionato dalle convenzioni sociali, dalle regole di comportamento e dalle esperienze precedenti. Parlare e fare l'amore significa mettere in atto una doppia e caratteristica universalità: le due forme di comunicazione sono entrambe modalità universali della fisiologia umana e dell'evoluzione sociale. È probabile che sessualità e linguaggio dell'uomo si siano evoluti in stretta interdipendenza. Insieme essi generano la storia dell'autocoscienza, il processo, presumibilmente millenario e caratterizzato da innumerevoli regressi, tramite il quale abbiamo elaborato il concetto di 'io' e 'gli altri'. Di qui la tesi dell'antropologia moderna secondo la quale il tabù dell'incesto, che pare fondamentale per l'organizzazione della vita comunitaria, sia inseparabile dall'evoluzione linguistica. Si può proibire soltanto ciò che ha un nome. I sistemi di parentela, che codificano e classificano il sesso in funzione della sopravvivenza sociale, sono analoghi alla sintassi. Funzioni seminali e funzioni semantiche (vi è forse, in origine, un legame etimologico?) determinano la struttura genetica e sociale dell'esperienza umana. Insieme, costruiscono la grammatica dell'esistenza.

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Pagina 76

Ho cercato di ribadire un punto rudimentale ma decisivo: la traduzione interlinguistica è l'oggetto saliente di questo volume, ma è anche un'apertura, una via d'accesso a un'indagine sul linguaggio stesso. La 'traduzione' in senso stretto è un caso particolare del rapporto di comunicazione che ogni atto linguistico riuscito traccia all'interno di un dato linguaggio. A livello interlinguistico, la traduzione porrà numerosi problemi, chiaramente insolubili; ma i medesimi problemi abbondano, a un livello più nascosto o convenzionalmente trascurato, in sede intralinguistica. Il modello 'dal trasmittente al ricevente' che rappresenta ogni processo semiologico e semantico è ontologicamente equivalente al modello 'dalla lingua-fonte alla lingua-ricevente', usato nella teoria della traduzione. In entrambi gli schemi vi è 'nel mezzo' un'opera di decifrazione interpretativa, una funzione di codificazione-decodificazione o sinapsi. Quando due o più lingue sono connesse tra loro in maniera articolata, le barriere intermedie saranno ovviamente più cospicue e, quindi, l'impresa di raggiungere l'intelligibilità sarà più consapevole. Ma i 'moti spiritali', per usare l'espressione dantesca, sono rigorosamente analoghi. Allo stesso modo sono analoghe, come vedremo, le cause più frequenti di incomprensione o (ed è lo stesso) di insuccesso nel tradurre correttamente. In breve: all'interno delle lingue o tra di esse, la comunicazione umana equivale alla traduzione. Studiare la traduzione significa studiare il linguaggio.

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Pagina 98

Labirinti, ruderi circolari, gallerie, Babele (o Babilonia) sono delle costanti nell'arte del nostro terzo cabalista moderno. Sono individuabili nella poesia e nelle opere in prosa di Borges tutti i motivi presenti nella mistica del linguaggio dei cabalisti e degli gnostici: l'immagine del mondo come concatenazione di sillabe segrete, il concetto di un idioma assoluto o di una lettera cosmica - alpha e aleph - che sottende il tessuto lacerato delle lingue umane, l'ipotesi che la totalità della conoscenza e dell'esperienza sia prefigurata in un tomo definitivo che contiene tutte le permutazioni possibili dell'alfabeto. Borges avanza la convinzione occulta che la struttura spazio-temporale ordinaria e sensibile s'intrecci con cosmologie alternative, con realtà multiformi e coerenti nate dal nostro linguaggio e dalle libere energie insondabili del pensiero. La logica delle sue favole sta nel rifiuto della causalità normale. La riflessione gnostica e manichea (e la parola 'riflessione' ha in sé l'idea di un'azione di specchi) offrono a Borges il tropo fondamentale di un 'antimondo'. Correnti contrarie di tempo e relazione soffiano come alti venti silenziosi attraverso il mondo instabile e a sua volta, forse, congetturale che abitiamo.

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Pagina 105

La teoria linguistica verte decisamente sul problema se la traduzione, soprattutto tra lingue diverse, sia o no possibile. Nella filosofia del linguaggio sono sostenibili, e sono stati sostenuti, due punti di vista radicalmente opposti. Il primo afferma che la struttura fondamentale del linguaggio è universale e comune a tutti gli uomini. Le differenze tra le lingue umane sono soprattutto superficiali. La traduzione è fattibile proprio perché quegli universali profondi, genetici, storici, sociali, da cui derivano tutte le grammatiche, si possono localizzare e riconoscere come attivi in ogni idioma umano, per singolari o bizzarre che siano le sue forme superficiali. Tradurre è scendere al di sotto delle differenze esterne delle due lingue per farne intervenire in maniera vitale principi essenziali analoghi e, alla radice, comuni. Qui la posizione universalistica sfiora da vicino l'intuizione mistica di un perduto linguaggio primevo o paradigmatico.

L'opinione contraria può essere definita 'monadistica'. Essa sostiene che le strutture universali profonde sono o irraggiungibili da un'indagine logica e psicologica, oppure di un ordine talmente astratto e generalizzato da essere quasi banali. Che tutti gli uomini noti all'uomo usino il linguaggio in qualche forma, che tutte le lingue di cui siamo a conoscenza siano in grado di nominare gli oggetti percepiti o di indicare l'azione, sono verità indubbie. Ma appartenendo alla classe «tutti i membri della specie hanno bisogno dell'ossigeno per mantenersi in vita», esse non gettano luce, se non in un senso quanto mai astratto e formale, sui modi in cui effettivamente opera il linguaggio umano. Tali modi operativi sono così diversi, manifestano una storia di sviluppo centrifugo così incredibilmente complessa, pongono problemi così insolubili circa la loro funzione economica e sociale, che i modelli universalistici sono nel migliore dei casi irrilevanti e nel peggiore fuorvianti. Un atteggiamento 'monadistico' spinto all'estremo - troveremo grandi poeti pronti a condividerlo - porta logicamente a credere che un'autentica traduzione sia impossibile. Ciò che si suol chiamare traduzione è un insieme convenzionale di analogie approssimative, una similitudine rozzamente forgiata, appena appena tollerabile quando le due lingue o le due culture interessate appartengono allo stesso ceppo, ma totalmente spuria quando sono in gioco lingue tra loro remote e sensibilità lontanissime.

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Pagina 491

VI. TOPOLOGIE DELLA CULTURA



1
Questo studio è iniziato cercando di dimostrare che la traduzione in senso proprio, l'interpretazione dei segni verbali di una lingua tramite i segni verbali di un'altra, costituisce un caso particolare, intensificato del processo di comunicazione e di ricezione presente in ogni atto del discorso umano. I problemi epistemologici e linguistici fondamentali impliciti nella traduzione intralinguistica sono fondamentali proprio in quanto sono già impliciti in ogni discorso intralinguistico. In effetti, quello che Jakobson definisce 'riformulazione' (rewording) un'interpretazione di segni verbali tramite altri segni verbali della medesima lingua - pone lo stesso ordine di problemi della traduzione in senso proprio. Questo volume, pertanto, ha cercato di dimostrare che una 'teoria della traduzione' (nel senso 'inesatto', non formalizzato in cui ho tentato di definire un tale concetto) è necessariamente una teoria, o meglio un modello storico-psicologico, in parte deduttivo e in parte intuitivo, delle operazioni del linguaggio stesso. Una 'comprensione della comprensione', un'ermeneutica, includerà entrambi gli aspetti. Non è casuale, di conseguenza, che l'indagine metodica sulla natura dei processi semantici abbia inizio con l'invito kantiano a un'ermeneutica razionale e con lo studio condotto da Schleiermacher sulle strutture linguistiche e la traducibilità delle sacre Scritture ebraiche, aramaiche e greche. Studiare lo status del significato vuoi dire studiare la sostanza e i limiti della traduzione.

Tuttavia, questi argomenti, come pure i problemi filosofiCi in essi impliciti, non si limitano alla parola parlata o scritta. L'attuale disciplina (se così si può chiamare) della semiologia si rivolge a ogni mezzo e sistema segnico concepibile. Il linguaggio, essa sostiene, è soltanto uno fra un'infinità di meccanismi di comunicazione grafici, acustici, olfattivi, tattili, simbolici. In realtà, insistono i semiologi e gli studiosi della comunicazione animale ('zoosemiotica'), si tratta sotto molti aspetti di una specializzazione riduttiva, di una svolta evolutiva che ha garantito all'uomo il dominio sul mondo naturale ma lo ha anche isolato da un campo assai più vasto di consapevolezza somatico-semiotica. In questa prospettiva, la traduzione è, come abbiamo visto, una costante di sopravvivenza organica. La vita dell'individuo e della specie dipende dalla lettura e dall'interpretazione rapida e/o accurata di una rete di informazioni vitali. Vi sono un vocabolario, una grammatica, forse anche una semantica dei colori, dei suoni, degli odori, della materia e dei gesti, la molteplicità dei quali è pari a quella del linguaggio verbale e in cui si possono trovare dilemmi di decifrazione e di traduzione resistenti quanto quelli finora discussi. Pur essendo polisemico, il linguaggio verbale non può identificare, non parliamo di parafrasare, nemmeno una frazione dei dati sensoriali che l'uomo, divenuto com'è poco sensibile con taluni dei suoi sensi e condizionato dal linguaggio, è tuttavia in grado di registrare ancora. È questo il problema di ciò che Jakobson chiama la 'trasmutazione' (transmutation), l'interpretazione di segni verbali tramite segni di sistemi segnici non verbali (la freccia ricurva sul cartello segnaletico stradale, il 'mantello blu' al termine di Lycidas il cui colore codifica 'purezza' e 'speranza rinnovata').

Ma non c'è bisogno di andare direttamente o totalmente al di fuori del linguaggio. Vi è, tra la 'traduzione in senso proprio' e la 'trasmutazione', un vasto terreno di 'trasformazione parziale'. I segni verbali del messaggio o dell'enunciazione originale vengono modificati da uno di un'infinità di mezzi o da una combinazione di mezzi. Questi includono la parafrasi, l'illustrazione grafica, il pastiche, l'imitazione, la variazione tematica, la parodia, la citazione in un contesto che la rafforza o l'indebolisce, la falsa attribuzione (accidentale o deliberata), il plagio, il collage e numerosi altri. Questa zona di trasformazione parziale, di derivazione, di rienunciazione alternativa determina gran parte della nostra sensibilità e della nostra tradizione letteraria. È, assai semplicemente, la matrice culturale. In questo capitolo conclusivo, vorrei applicare il concetto di 'alternità' e il modello di traduzione proposto nella discussione precedente al problema più vasto del patrimonio di significato e di cultura ereditari. Fino a qual punto la cultura è la traduzione e la riscrittura di significati precedenti? Essendo intermediaria e onnipresente, la grande area delle 'trasformazioni' e delle ripetizioni metamorfiche è una zona in cui i segni verbali non sono necessariamente 'trasmutati' in sistemi segnici non verbali. Essi, al contrario, possono anche entrare in varie combinazioni con tali sistemi. Il caso esemplare è quello del linguaggio e della musica ossia del linguaggio nella musica.

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