Copertina
Autore Gian Antonio Stella
Titolo Carmine Pascià
Sottotitolo(che nacque buttero e morì beduino)
EdizioneRizzoli, Milano, 2008 , pag. 140, cop.ril.sov., dim. 13,5x18,8x1,5 cm , Isbn 978-88-17-02733-5
LettoreFlo Bertelli, 2009
Classe narrativa italiana , storia sociale , storia contemporanea d'Italia , paesi: Libia , paesi: Italia: 1900
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Indice


   I. Dove si narra d'una fucilazione,
      di galline sante e triccabballacche             7

  II. Dove Carmine Immacolato cresce
      mangiando fasuli e odiando i baroni            17

 III. Dove Carmine piglia moglie
      e alla leva estrae sfortunato il 213           29

  IV. Dove si parla dell'Africa romana, del sergente
      Rosina e di una sbronza sventurata             39

   V. Dove Carmine si sveglia su un dromedario
      prigioniero dei beduini e del Gran Senusso     59

  VI. Dove Carmine salva la vita sua
      togliendo due pensieri a Sayed er-Redà         73

 VII. Dove Husam parla del confino alle Tremiti
      e Carmine racconta i suoi dieci anni beduini   89

VIII. Dove Carmine ricorda la sera che al pozzo
      restò incantato dagli occhi neri di Teber     101

  IX. Dove Carmine per amore di Teber
      cade nella trappola degli italiani            111

   X. Dove Carmine affronta i fucilieri
      con un gesto che riscatta tutta la sua vita   125

Bibliografia                                        131
Ringraziamenti                                      135


 

 

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Pagina 7

Cap. I
Dove si narra d'una fucilazione,
di galline sante e triccabballacche



All'improvviso, mentre lo trascinavano a passo di corsa verso il plotone d'esecuzione, gli venne in mente la Madonna delle galline. Non c'era senso, pensò. Non c'era senso a correre così, ansimando trafelati sotto il sole, per raggiungere lo spiazzo dove erano schierati i soldati. E non c'era senso a ricordare adesso la Madonna delle galline.

Lo sapeva da tempo che non avrebbe mai visto il santuario di Pagani e la sua Vergine del Carmelo. L'aveva sognata per anni quella prima domenica dopo Pasqua in cui, gli avevano raccontato, la gente accorre da tutte le contrade salernitane per ballare nelle strade in un delirio di castagnette e caccavelle, scetavaiasse e triccabballacche. Non c'era stato viaggio attraverso il deserto in cui, nel silenzio assoluto del Sahara rotto soltanto dal fruscio del vento e dal placido ruminar del dromedario, non fosse stato colto da quella vertigine: il suono assordante delle tammurriate intorno alla statua della santissima Madre dai capelli rossi che percorreva le vie della contrada tra migliaia di braccia protese.

Per mille volte, schiacciato dalla solitudine perfetta del Grande Vuoto, perché questo aveva imparato che vuoi dire Sahara in arabo, si era visto lì. Immerso nel caos dei fedeli festanti che offrivano polli e colombelle e anatre e oche e perfino tacchini e pavoni dal petto blu in memoria di quella volta in cui alcune galline benedette, tanto, tanto tempo fa, razzolando in un cortile, avevano fatto emergere dalla terra (miracolo!) una tavóletta con l'immagine della Madonna. Sepolta chissà quanti secoli prima. Forse per sottrarla, sulla costa di Amalfi, alle razzie dei saraceni.

«Più svelti! Sergente! Più svelti!» urlò secco l'ufficiale, che non vedeva l'ora di chiudere la faccenda. Erano le otto e un quarto di mattina del 18 dicembre 1928.

I soldati, ancora un po' intirizziti dal gelo della notte sahariana che solo ora si stava stemperando, erano già schierati. Il fucile oliato. Il colpo in canna. Il collo della camicia e la cravatta a solino bagnati per la tensione. Mica facile, uccidere un uomo. Certo, era un traditore. Uno che, sia pure per mille motivi, era passato con gli arabi. Che aveva partecipato alla resistenza libica contro gli italiani, i suoi fratelli, i suoi commilitoni, combattendo dalla parte del Gran Senusso e del Leone del Deserto, Ornar el-Mukhtar. Però...

Da sotto il cappuccio del caffetano beige, mentre si lasciava sistemare docile docile a cavallo di una cassa di legno sul luogo fissato per l'esecuzione ai margini dell'oasi di Gialo, i polsi serrati dai pesanti ceppi di ferro, il condannato gettò ai fucilieri un'occhiata furtiva. Venata di ironia. Come volesse dire: «Coraggio, cumpa'! Coraggio...». Il tempo pareva non scorrere mai.

Mentre aspettava la scarica, il soldato Iorio, buttero e beduino, cristiano e musulmano, disertore ed eroe, pensò che era la seconda volta che veniva messo a morte. E gli tornò in mente la madre Carmela, che era analfabeta e non era mai uscita dal Cilento e non sapeva nulla di Virgilio e dell'Eneide, ma l'aveva cresciuto raccontandogli la leggenda popolare di Palinuro, il nocchiero di Enea che, bastonato dal sonno e dal vino, fu per un capriccio degli dei travolto dai flutti.

«Il vino...» sospirò, mentre avvertiva alle sue spalle lo scatto metallico dei caricatori. Quello lo aveva tradito. Il vino. Un rosso dal sapore aspro e dal colore scuro scuro.

Tutto era cominciato infatti una lontana sera del 1916 in cui a Tocra, in Cirenaica, nel campo militare tirato su dal 79° reggimento Roma, a pochi passi dalle rovine dell'antica colonia greca di Teuchira, si era preso per rabbia e per malinconia una sbronza epocale. Seguita da uno spaventoso mal di testa. Un mal di testa da incubo, che in una notte di luglio dal caldo soffocante, nella baracca che fungeva da prigione...


*****



Ma è meglio cominciare dal principio. E cioè dal registro parrocchiale della trecentesca chiesa di San Biagio di Altavilla Silentina, un paese che domina la piana del Sele, sdraiata tra gli Alburni, i monti del Cilento, e la costa del Tirreno, lungo la quale sorgono i templi di Paestum. Un paesotto come tanti del profondo Mezzogiorno. Con un castello normanno voluto dal primo feudatario Roberto il Guiscardo di Hauteville e gravido di leggende. Un po' di chiese e campanili. I resti di mura imponenti nelle quali si aprivano grandi porte fortificate. E tremila abitanti che per metà sognavano l'America e per metà rimpiangevano di essere così poveri da non potere nemmeno sognarla.

Fu lì che una mano elegante scrisse in bella grafia: «L'anno 1892, il giorno 8 dicembre, è stato battezzato nella chiesa di San Biagio dal rev.do Nicola Caruso il neonato Carmine Immacolato Antonio Iorio, di Francesco e Carmela Di Matteo». Il padre aveva solo diciotto anni, la madre era poco più che una bambina. Si erano sposati l'anno prima, in agosto. Stessa chiesa. Stesso prete. Stessa cerimonia. Povera. Senza festa. Senza pranzo. Col vestito da sposa preso a prestito da parenti e aggiustato da una cugina sarta con qualche sapiente cucitura.

Unico lusso, una foto ricordo. Lei seduta su una seggiola, composta, lo sguardo basso della brava ragazza. Lui in piedi, impettito, che le posava una mano sulla spalla in segno di protezione e di dominio mentre con l'altra reggeva fieramente un fucile da caccia, l'unica sua ricchezza. Sullo sfondo, il fotografo aveva messo l'immagine del colonnato del Bernini con la basilica di San Pietro: «Proprio come se foste andati in viaggio di nozze a Roma! A Roma!».

Viveva la famigliola in una casupola di pietra, ma forse sarebbe meglio dire un tugurio, a due passi dalla parrocchia. Una stanza arredata alla meno peggio alla quale si accedeva salendo una ripida scala di sassi sconnessi così stretta tra i muri della contrada che, anche ad avere un ombrello, e gli Iorio non ce l'avevano, non ci saresti mai passato se non tenendolo chiuso.

Fame. Freddo. Muri anneriti dal fumo del focolare. Dieci anni prima, la Commissione parlamentare sul mondo contadino presieduta da Stefano Jacini aveva dipinto un quadro da far accapponare la pelle. Denunciando appunto «nelle valli delle Alpi e degli Appennini, e anche nelle pianure, specialmente dell'Italia Meridionale, e perfino in alcune province fra le meglio coltivate dell'Alta Italia» la presenza di «tuguri ove in un'unica camera affumicata e priva di aria e di luce vivono insieme uomini, capre, maiali e pollame. E tali catapecchie si contano forse a centinaia di migliaia». Spiegando che quasi sempre «non vi è pavimento; i muri sono a secco, senza intonaco, il tetto è fatto di tavolato od anche di incannicciato coperto di tegole; e spesso una sola apertura serve da entrata, da finestra, da camino». Che «in un angolo vi è il focolare, nell'altro il letto della famiglia umana fatto di paglia». Che «escrementi ed immondizie sono gettati sulla pubblica via ed accumulati nei viottoli a quella adiacenti».

Il giovane Cesare Lombroso, mandato a far la naja nelle Calabrie, era rimasto inorridito: «Dappertutto luride sono le abitazioni dei poveri, talune sotto il livello della pubblica strada, gli altri piani impalcature di assi e di paglia dove a strati successivi come nelle stuoie dei nostri bozzoli o nelle cabine delle navi stanno accatastate intere famiglie; scarsa l'acqua, ignote le latrine, diffusa la scrofola; persino i cani sembrano soggetti a un destino maledetto: mai ne ho visto un numero così grande di malati, scabbiosi, mocciosi, tisici, idrofobi, brutti, scodati...».

Così era l'Italia, così il Cilento, così la piana del Sele. La vita, nel rapporto per la Commissione Jacini di Angelo Raffaele Passaro, un ingegnere liberale di Vallo della Lucania, era un calvario: «Pane bruno e duro, condito col sudore della fronte e con la scarsa quantità, è questo il cibo ordinario degli agricoltori: una magra minestra allieta il loro desinare nei giorni festivi».

Niente fabbriche se non una ferriera, una distilleria di alcol ricavato dai corbezzoli, un piccolo stabilimento di potassa. Un po' di botteghe, di caffè gonfi di fumo, di maniscalchi, di mulini schiacciati al pari dei clienti dalla tassa sul macinato, «una mano ferrea che con ferrei, anzi feroci modi strappa dalla bocca dei loro teneri pargoletti il tozzo di pane procacciato fra stenti infiniti».

Francesco Iorio lavorava a Persano, a una decina di chilometri, nel bosco di pioppi e querce, olmi e ontani [...]

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Pagina 74

Sayed er-Redà prese un foglietto e una matita, scarabocchiò qualcosa e passò l'appunto all'ometto. Poi piantò gli occhi scurissimi e penetranti sul prigioniero, aspettando una risposta. Era diverso dal fratello. Se quello aveva la faccia magra, con gli zigomi forti, una fronte alta e una barba nera né lunga né corta da mistico, Sayed Mohammed er-Redà era più paffuto e sotto il largo naso portava un paio di baffi molto curati. Sopra la jellaba, la tunica bianca, indossava una specie di corpetto blu e sopra ancora un piviale riccamente damascato.

Abd el-Ghaffar, foglietto alla mano, lesse due nomi. Carmine chinò la testa. Il fratello del Gran Senusso chiamò una guardia, quella arrivò con un Gewehr 1898, un fucile tedesco tirato a lucido che passava per essere molto preciso. Il fante lo esaminò in tutti i dettagli, guardò dentro la canna, passò il mignollo sul mirino, la bacchetta, l'alzo. Puntò Verso un punto immaginario e lo posò. Gli offrirono un Mauser da 7 millimetri, modello 1912, nuovissimo. Provò e posò anche quello. «Bellissimi fucili. Davvero. Ma vorrei il Carcano modello 91. Il nostro.»

Il giorno che glielo avevano consegnato, a La Spezia, se lo ricordava come fosse ieri. Il manuale in una mano e il moschetto nell'altra, il tenente Brustolon, un bellunese della Val Zoldana, aveva letto punto per punto tutte le istruzioni del libretto, Edizioni Voghera Enrico: «Canna: serve a contenere la carica e a dare direzione alla pallottola; è solcata da quattro righe ad inclinazione progressiva, volgente da sinistra a destra. Vi si osservano: la bocca, l'anima, il calibro di millimetri 6.5, la camera, le faccette...».

Lui, anche per l'accento del suddetto Brustolon, non aveva «inteso 'na mazza». Come funzionava il moschetto, però, l'aveva imparato subito. Da solo. Come se fra lui e il 91 ci fosse una sorta di intesa naturale.

Tre giorni più tardi, smessa la divisa grigio-verde e indossata una tunica caffelatte e una specie di calotta bianca chiamata takia in testa, affiancava uno dei luogotenenti di Sayed Mohammed er-Redà in sella a un cavallo arabo che aveva qualcosa dei «cavalli d'o Re» di Persano. A un certo punto, in una piana della quale non sapeva neppure il nome, tra Agedabia e Soluch, l'arabo gli indicò una tenda beduina. Scesero di sella, si piazzarono dietro un masso in cima a una collinetta e attesero. Un'attesa interminabile.

Carmine sapeva che sarebbe arrivato questo momento. Per tre giorni aveva ripetuto a se stesso che non aveva scelta. Che la sua vita dipendeva dall'accettare o meno di togliere la vita ad altri. Non era una guerra? Non l'avevano strappato a Lorenzina e ai suoi cavalli per portarlo a far la guerra, in mezzo a quei deserti, a gente mai vista prima? Qual era la differenza tra il fucile, le pallottole e gli ordini avuti dal Senusso Sayed Mohammed er-Redà e quelli ricevuti da Giovanni Giolitti o Antonio Salandra? Quali scrupoli si erano fatti Vittorio Emanuele III e la regina Elena prima di mandare lui a premere il grilletto contro uomini che se ne stavano a casa loro?

Il soldato Sergio Payer, in una lettera ai famigliari poco dopo l'occupazione della Tripolitania, l'aveva scritto come meglio non si poteva: «Ho il cuore come una pietra e non penso a nulla, guai se così non fosse: io sono qui per distruggere e non per farmi distruggere. La mia pelle voglio riportarla sana a casa e saprò sempre difenderla ferocemente». Questo gli avevano insegnato: «Soldato Iorio: tu non devi pensare a niente!». Il sergente Rosina glielo diceva tutti i giorni: «Soldato Iorio: tu non devi pensare a niente!».

Carmine ricordava commilitoni che scrivevano a casa vantandosi d'avere «sparato a un arabo che stava raccogliendo datteri su una palma e quello è caduto giù come un uccello». E i cappellani militari? I cappellani militari non benedivano forse i moschetti e le baionette ficcate nella pancia dei nemici? Da che parte stava, Dio? E poi, che scelta aveva, lui? Aveva disertato, ormai. Per sbaglio, ma aveva disertato. Cosa poteva spiegare, al tribunale militare, che era ubriaco? «Scusate, signor colonnello, stavo 'mbriaco...» Lo sapeva qual era il destino dei disertori. Aloisio Ognissanti, che si era sparato a un piede per avere una licenza e tornare a casa, era stato fucilato. E gli avevano detto che, da quando era cominciata la guerra sull'Isonzo, certi ufficiali erano arrivati a giustiziare dei soldati solo perché si erano fratturati con una martellata l'indice della mano destra.

Tutto questo pensava, il nostro fante, steso sulla sabbia col groppo in gola, i rigagnoli di sudore che gli scendevano lungo le tempie e il fucile che gli scottava tra le mani: «O lui o io. O lui o io». E si ritrovò a pregare la Madonna perché l'aiutasse a non sbagliare mira: «O gloriosa Vergine Maria, madre e decoro del monte Carmelo...».

«Quello!» indicò il suo accompagnatore. Dalla tenda, alto e magro, era uscito un beduino. Con la mano sinistra reggeva un bidone, nella destra aveva un pentolino dal manico lungo lungo. «Va a farsi il caffè...» immaginò Carmine. «O io o lui.» Si passò la manica della jellaba sugli occhi per asciugarsi il sudore, inquadrò l'uomo nel mirino, invocò l'aiuto della Madonna del Carmelo e sparò. Un colpo solo. Alla testa. Il nemico di Sayed Mohammed er-Redà si piegò sulle gambe, lasciò cadere bidone e pentolino e restò lì, la faccia nella sabbia, mentre il cammello bramiva terrorizzato e le capre scappavano qua e là scalciando nell'aria.

Rimontarono a cavallo, diedero di sprone e si allontanarono senza problemi. Il secondo «lavoro» era a qualche chilometro dalla costa. Questa volta non sapevano, però, dove fosse accampato l'uomo che doveva essere spento. Girarono per ore, inutilmente. Quando infine lo trovarono, Carmine era già meno tormentato dai pensieri. La vita aveva deciso così. Tornò a pregare la Madonna, inquadrò la vittima nel mirino e sparò. Un colpo solo, alla testa, anche stavolta. Schizzò uno zampillo di sangue. Carmine rabbrividì appena.

Il luogotente dei Senussi fece soddisfatto un cenno di assenso, risalirono in sella e tornarono ad Agedabia.

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Pagina 89

Cap. VII
Dove Husam parla del confino alle Tremiti
e Carmine racconta i suoi dieci anni beduini



«Così sei tu il famoso Giuseppe il Musulmano!» disse un signore alto e magro, entrando nel bugigattolo in cui Carmine, seduto a un tavolino, trafficava intorno a un otturatore. Il fante convertito alzò la testa, osservò guardingo l'ospite inatteso chiedendosi da dove fosse spuntato, posò il fucile, si pulì le dita con uno straccio e si portò la mano al petto in segno di saluto. Erano dieci anni che, morto il vecchio Abd el-Ghaffar che nei primi mesi gli aveva fatto da interprete con Sayed Mohammed er-Redà e con i suoi figli, non sentiva una parola di italiano. E mai avrebbe immaginato di poterla sentire lì, nel suo ultimo rifugio a Cufra, in quell'arcipelago di oasi verdi e fresche e ricche di pascoli e pozzi di acqua dolce e frutteti così isolate in mezzo al Sahara che i cammellieri impiegavano da Bengasi trentaquattro giorni di marcia. Più ancora del tempo che ci mettevano i vapori ad andare da Napoli all'America.

Certo, gli era capitato così, casualmente, di sentire parlare tra di loro dei soldati italiani presi prigionieri e trattenuti ad Agedabia o a Giarabub. Soldati che, non potendo fuggire avventurandosi nel Sahara, venivano lasciati liberi di muoversi e perfino di scattare qualche fotografia con le Kodak, purché stessero lontani dal pozzo quando le donne andavano a prendere l'acqua. Ma non aveva mai avuto voglia di avvicinarsi. E nessuno gli aveva mai rivolto la parola. Il nuovo arrivato diede pazientemente a Carmine il tempo di alzarsi, sgomberare un po' di posto sul tappeto, sistemarci un cuscino per offrirlo al visitatore: «Marhaban...». Benvenuto.

«Grazie» rispose quello, portando a sua volta la mano al petto, «puoi parlare in italiano. Immagino che possa farti piacere parlare la tua lingua.» Quindi, mentre Carmine faceva spallucce come se non gliene importasse poi molto, dopo tanto tempo, di riaprire una ferita che non si era mai del tutto rimarginata, si accomodò, si sistemò la tunica, tirò fuori una cartolina del Colosseo dove campeggiavano due cerchietti con Vittorio Emanuele III e la regina Elena. Il buttero la prese, ringraziò, spiegò che lui non l'aveva mai vista, Roma, neanche quando ci era passato col treno andando in caserma a La Spezia.

L'ospite indicò col dito le fotine del re e della moglie. «Curtatone e Montanara» rise. Voleva mostrarsi simpatico. Carmine non capiva. «Curtatone e Montanara» tornò a ridere l'arabo. E siccome il nostro non si capacitava della battuta, gli spiegò che in Italia avevano appiccicato ai due regnanti i nomi di quelle battaglie della Prima guerra d'indipendenza «perché lei, Elena, viene dal Montenegro, quindi è montanara, e lui è un nano, quindi corto corto».

«È alto un centimetro più di me» s'irrigidì un po' risentito il buttero.

«Ah...»

«Fa niente. Dimmi.»

E si presentò, infine. Disse di chiamarsi Husam ed-Din Nafìs, di essere originario di Sabratha, un paesotto ricco di rovine romane sulla litoranea che da Tripoli porta alla Tunisia, e di essere stato un funzionario statale agli sgoccioli della dominazione ottomana. Preso dagli italiani durante uno dei rastrellamenti seguiti alla strage di Sciara Sciat, che lui definiva «una santa ribellione popolare contro le truppe di occupazione con qualche eccesso dovuto alla crudeltà della guerra», era stato caricato su una nave e portato alle isole Tremiti.

«Era il 26 ottobre 1911. Il piroscafo si chiamava Serbia. Ci scaricarono lì, sull'isola di San Nicola, in più riprese, in milletrecento. Forse millequattro. Ammucchiandoci in camerate malsane. Nelle stalle. Nelle grotte. Tutti insieme. Senza pagliericci, senza coperte... Senza rispetto. Sani e malati, maschi e femmine.» C'erano giorni in cui ne morivano dieci. Colera. Tifo petecchiale. Fame. Gli abitanti del posto, terrorizzati, vivevano spruzzando dappertutto acido fenico, e i bottegai accettavano il denaro solo dopo averlo disinfettato in una bacinella dello stesso fenolo, e questo panico collettivo aveva fatto nascere leggende incredibili, come quella di un pescatore che, sfiorato appena da un pezzo di stoffa di uno degli arabi al confino, era defunto tra mille dolori la sera stessa.

Prima dell'Epifania del 1912 erano già morti di stenti, di fame, di freddo, quasi duecento deportati. Tra i quali due bambini di dieci anni e otto vecchi, uno dei quali aveva passato i novanta. A giugno l'elenco era salito a quattrocentotrentasette, oltre un terzo di quelli arrivati otto mesi prima. C'era tra questi perfino una piccola di tre anni, Khadija ibn Faraji. Ma il medico aveva compilato il telegramma senza sentire il bisogno di dirlo, che aveva tre anni: «Pregiomi informare codesto onorevole ministero che il 26 andante è deceduta l'araba a margine indicata per peritonite tubercolare».

Più avanti, mentre i superstiti delle Tremiti e dei confini di Ustica, Ponza, Favignana e Gaeta venivano rimpatriati, Husam ed-Din Nafis, che si era impratichito in fretta della lingua, aveva accettato di essere portato a Roma come interprete: «Volevo capire». E lì, per anni, aveva raccolto materiale di propaganda nazionalista, ritagliato giornali, comprato libri: «Volevo capire». Aveva messo da parte cartoline in cui il soldatino italiano salutava la sua bella sognando di piazzare la bandiera italiana in cima a un minareto («un minareto!») e un'altra dove un marinaio sbarcato sulle spiagge libiche raccoglieva la spada di un gladiatore romano il cui scheletro affiorava dalla sabbia. Aveva trovato il diario del tenente Stefano Longo, che reputava normalissimo che gli ufficiali della divisione Lequio usassero come mensa la moschea. Aveva recuperato un discorso dell'onorevole Valli che nell'aprile 1907 aveva tuonato alla Camera: «Fin dalle lotte tra i cartaginesi e i romani, e tra questi e i greci, l'unità geografica del Mediterraneo s'impose. Quindi non è un'idea imperialista, ma l'obbedienza a una legge storica, che ci fa interessare all'opposta sponda!».

Husam affondò la mano nella tasca e ne tirò fuori un libriccino dalla copertina color panna: «L'hai letto?».

«Non so leggere» rispose Carmine.

«L'ha scritto un giornalista della "Tribuna", Giuseppe Piazza. Si intitola La nostra terra promessa. È del maggio 1911. Ascolta, pagina 164: "Per carità, lasciamo ai salottini ovattati delle nostre damine antischiaviste, o magari all'atto di Bruxelles, l'incarico di considerare la schiavitù come una questione di umanitarismo o di sentimentalismo. Tale non è. La schiavitù è la forma, la necessità storica, il fondamento economico su cui poggia tutto l'ordinamento di questi popoli, costituzionalmente inavvezzi e inadatti al lavoro...".»

«Perché sei venuto?» lo interruppe Iorio.

«Te l'ho detto: voglio capire.»

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