Copertina
Autore Gian Antonio Stella
Titolo L'orda
Sottotitoloquando gli albanesi eravamo noi
EdizioneRizzoli, Milano, 2002 , pag. 286, dim. 140x223x20 mm , Isbn 978-88-17-87097-9
LettoreRenato di Stefano, 2002
Classe storia contemporanea d'Italia , storia sociale , storia criminale , paesi: Italia
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Indice

INTRODUZIONE
Bel paese, brutta gente
La rimozione di una storia di luci, ombre, vergogne   Pag. 7

CAPITOLO 1
Corda e sapone: «Dagli al dago!»
Il linciaggio di Tallulah e i pogrom anti-italiani
nel mondo                                                 15

CAPITOLO 2
«Allarme: c'invade l'orda oliva!»
Incubi, xenofobie e leggi restrittive dall'America
all'Australia                                             29

CAPITOLO 3
«Tribù di schiavi stupidi e vizzi»
La formazione degli stereotipi nella grande letteratura   45

CAPITOLO 4
«Defecano per terra come maiali»
Miseria e degrado igienico, sanitario, morale             63

CAPITOLO 5
Donne perdute nei bordelli del Cairo
La tratta delle biancbe e il business prostituzione       81

CAPITOLO 6
Troppi orchi nel paese della mamma
Il traffico di bambini, un secolo di lacrime e di orrori  91

CAPITOLO 7
Orecchie enormi: tipico assassino
I delitti di Gaetano Godino e i niņos di strada
in Argentina                                             107

CAPITOLO 8
Dinamitardi biondi e cattivelli
Quando erano i nostri anarchici a terrorizzare il mondo  117

CAPITOLO 9
Strage per un pugno di sale
Il massacro di Aigues-Mortes: «Ci rubano il lavoro»      135

CAPITOLO 10
Angeli caduti al passo del Diavolo
I nostri clandestini: via in massa oltre le Alpi e
gli oceani                                               149

CAPITOLO 11
Che ritmo, il mitra maccheroni!
L'italiano di Hollywood: gangster, gangster, gangster    165

CAPITOLO 12
«Non ne trovi uno onesto»
L'export di criminali luoghi comuni e imbarazzanti       175

CAPITOLO 13
Colpevoli o innocenti, tutti impiccati
La carneficina perbene della «brava gente di New Orleans»195

CAPITOLO 14
Cattolici, sozzi, creduloni
Le ostilità razziste contro la religiosità popolare
«pagana»                                                 211

CAPITOLO 15
Trentamila figli come Anna Frank
Il caso svizzero: cent'anni di disprezzo, referendum,
sfruttamento                                             225

APPENDICE 1
Aglio, coltello e peperoncino
I nostri emigrati visti da giornali e libri dei paesi
d'accoglienza                                            241

APPENDICE 2
«Wop, vedi alla voce guappo»
Piccolo dizionario dei nomignoli più insultanti          265

BIBLIOGRAFIA                                             269
 

 

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Pagina 7

INTRODUZIONE
Bel paese, brutta gente
La rimozione di una storia di luci, ombre, vergogne



La feccia dei pianeta, questo eravamo. Meglio: così eravamo visti. Non potevamo mandare i figli alle scuole dei bianchi in Louisiana. Ci era vietato l'accesso alle sale d'aspetto di terza classe alla stazione di Basilea. Venivamo martellati da campagne di stampa indecenti contro «questa maledetta razza di assassini». Cercavamo casa schiacciati dalla fama d'essere «sporchi come maiali». Dovevamo tenere nascosti i bambini come Anna Frank perché non ci era permesso portarceli dietro. Eravamo emarginati dai preti dei paesi d'adozione come cattolici primitivi e un po' pagani. Ci appendevano alle forche nei pubblici linciaggi perché facevamo i crumiri o semplicemente perché eravamo «tutti siciliani».

«Bel paese, brutta gente.» Ce lo siamo tirati dietro per un pezzo, questo modo di dire diffuso in tutta l'Europa e scelto dallo scrittore Claus Gatterer come titolo di un romanzo in cui racconta la diffidenza e l'ostilità dei sud-tirolesi verso gli italiani. Oggi raccontiamo a noi stessi, con patriottica ipocrisia, che eravamo «poveri ma belli», che i nostri nonni erano molto diversi dai curdi o dai cingalesi che sbarcano sulle nostre coste, che ci insediavamo senza creare problemi, che nei paesi di immigrazione eravamo ben accolti o ci guadagnavamo comunque subito la stima, il rispetto, l'affetto delle popolazioni locali. Ma non è così.

Certo, la nostra storia collettiva di emigranti - cominciata in tempi lontani se è vero che un proverbio del '400 dice che «passeri e fiorentini son per tutto il mondo», che Vasco da Gama incontrava veneziani in quasi tutti i porti dell'India e che Giovanni da Montecorvino trovò nel 1333 un medico milanese a Pechino - è nel complesso positiva. Molto positiva. Basti pensare, per parlare dei soli Stati Uniti, a Filippo Mazzei, che arrivò lì nella seconda metà del Settecento e fu tra gli ispiratori, con la frase «tutti gli uomini sono per natura liberi e indipendenti», della Dichiarazione d'indipendenza stesa dal suo amico Thomas Jefferson. A Edoardo Ferraro, che durante la guerra civile fu l'unico generale a comandare una divisione composta totalmente da neri liberati. A padre Carlo Mazzucchelli, che nel 1833 predicava tra i pellerossa e per primo mise per iscritto, con un libro di preghiere, la lingua sioux. A Lorenzo Da Ponte, che dopo aver scritto per Mozart i libretti delle Nozze di Figaro, del Don Giovanni e di Così fan tutte e aver fatto mille altri mestieri, finì a New York dove nel 1819, già vecchio, fondò la cattedra di letteratura italiana al Columbia College, destinato a diventare la Columbia University.

In 27 milioni se ne andarono, nel secolo del grande esodo dal 1876 al 1976. E tantissimi fecero davvero fortuna. Come Amedeo Obici, che partì da Le Havre a undici anni e sgobbando come un matto diventò il re delle noccioline americane: «Mister Peanuts». O Giovanni Giol, che dopo aver fatto un sacco di soldi col vino in Argentina rientrò e comprò chilometri di buona terra nel Veneto dando all'immensa azienda agricola il nome di «Mendoza». O Geremia Lunardelli che, come racconta Ulderico Bernardi in Addio Patria arrivò in Brasile senza una lira e finì per affermarsi in pochi anni come il re del caffè carioca, quindi mondiale. O ancora Fiorello La Guardia. che dopo essersi fatto la scorza dura in Arizona (ricordò per tutta la vita l'insulto di un razzista che deridendo gli ambulanti italiani che giravano con l'organetto gli aveva gridato: «Ehi, Fiorello, dov'è la scimmia?») diventò il più popolare dei sindaci di New York.

Quelli sì, li ricordiamo. Quelli che ci hanno dato lustro, che ci hanno inorgoglito, che grazie alla serenità guadagnata col raggiungimento del benessere non ci hanno fatto pesare l'ottuso e indecente silenzio dal quale sono sempre stati accompagnati. Gli altri no. Quelli che non ce l'hanno fatta e sopravvivono oggi tra mille difficoltà nelle periferie di San Paolo, Buenos Aires, New York o Melbourne fatichiamo a ricordarli. Abbiamo perduto 27 milioni di padri e di fratelli eppure quasi non ne trovi traccia nei libri di scuola. Erano partiti, fine. Erano la testimonianza di una storica sconfitta, fine. Erano una piaga da nascondere, fine. Soprattutto nell'Italia della retorica risorgimentale, savoiarda e fascista.

[...]

Di tutta la storia della nostra emigrazione abbiamo tenuto solo qualche pezzo. La straordinaria dimostrazione di forza, di bravura e di resistenza dei nostri contadini in Brasile o in Argentina. Le curiosità di città come Nova Milano o Nova Trento, sparse qua e là ma soprattutto negli Usa dove si contano due Napoli, quattro Venezia e Palermo, cinque Roma. Le lacrime per i minatori mandati in Belgio in cambio di 200 chili l'uno di carbone al giorno e morti in tragedie come quella di Marcinelle. I successi di manager alla Lee Jacocca, di politici alla Mario Cuomo, di uno stuolo di attori da Rodolfo Valentino a Robert de Niro, da Ann Bancroft (all'anagrafe Anna Maria Italiano) a Leonardo Di Caprio. La generosità delle rimesse dei veneti e dei friulani che hanno dato il via al miracolo del Nordest. La stima conquistata alla Volkswagen dai capireparto siciliani o calabresi. E su questi pezzi di storia abbiamo costruito l'idea che noi eravamo diversi. Di più: eravamo migliori.

Non è così. Non c'è stereotipo rinfacciato agli immigrati di oggi che non sia già stato rinfacciato, un secolo o solo pochi anni fa, a noi. «Loro» sono clandestini? Lo siamo stati anche noi: a milioni, tanto che i consolati ci raccomandavano di pattugliare meglio i valichi alpini e le coste non per gli arrivi ma per le partenze. «Loro» si accalcano in osceni tuguri in condizioni igieniche rivoltanti? L'abbiamo fatto anche noi, al punto che a New York il prete irlandese Bernard Lynch teorizzava che «gli italiani riescono a stare in uno spazio minore di qualsiasi altro popolo, se si eccettuano, forse, i cinesi». «Loro» vendono le donne? Ce le siamo vendute anche noi, perfino ai bordelli di Porto Said o del Maghreb. Sfruttano i bambini? Noi abbiamo trafficato per decenni coi nostri, cedendoli agli sfruttatori più infami o mettendoli all'asta nei mercati d'oltralpe. Rubano il lavoro ai nostri disoccupati? Noi siamo stati massacrati, con l'accusa di rubare il lavoro agli altri. Importano criminalità? Noi ne abbiamo esportata dappertutto.

Fanno troppi figli rispetto alla media italiana mettendo a rischio i nostri equilibri demografici? Noi spaventavamo allo stesso modo gli altri. Basti leggere i reportage sugli Usa della giornalista Amy Bernardy, i libri sull'Australia di Tito Cecilia o Brasile per sempre di Francesca Massarotto. La quale racconta che i nostri emigrati facevano in media 8,25 figli a coppia ma che nel Rio Grande do Sul «ne mettevano al mondo fino a 10, 12 e anche 15 così com'era nelle campagne del Veneto, del Friuli e del Trentino».

Perfino l'accusa più nuova dopo l'11 settembre, cioè che tra gli immigrati ci sono «un sacco di terroristi», è per noi vecchissima: a seminare il terrore nel mondo, per un paio di decenni, furono i nostri anarchici. Come Mario Buda, un fanatico romagnolo che si faceva chiamare Mike Boda e che il 16 settembre 1920 fece saltare per aria Wall Street fermando il respiro di New York ottant'anni prima di Osama Bin Laden.

[...]

E in questa doppia versione dei fatti può essere riassunta tutta la storia defl'emigrazione italiana. Una storia carica di verità e di bugie. In cui non sempre puoi dire chi avesse ragione e chi torto. Eravamo sporchi? Certo, ma furono infami molti ritratti dipinti su di noi. Era vergognoso accusarci di essere tutti mafiosi? Certo, ma non possiamo negare d'avere importato noi negli States la mafia e la camorra. La verità è fatta di più facce. Sfumature. Ambiguità. E se andiamo a ricostruire l'altra metà della nostra storia, si vedrà che l'unica vera e sostanziale differenza tra «noi» allora e gli immigrati in Italia oggi è quasi sempre lo stacco temporale. Noi abbiamo vissuto l'esperienza prima, loro dopo. Punto.

Detto questo, per carità: alla larga dal buonismo, dall'apertura totale delle frontiere, dall'esaltazione scriteriata del melting pot, dal rispetto politicamente corretto ma a volte suicida di tutte le culture. Ma alla larga più ancora dal razzismo. Dal fetore insopportabile di xenofobia che monta, monta, monta in una società che ha rimosso una parte del suo passato. Certo, un paese è di chi lo abita, lo ha costruito, lo ha modellato su misura della sua storia, dei suoi costumi, delle sue convinzioni politiche e religiose. Di più: ogni popolo ha il diritto, in linea di principio ed entro certi limiti, di essere padrone in casa propria. E dunque di decidere, per mantenere l'equilibrio a suo parere corretto, se far entrare nuovi ospiti e quanti. Di più ancora: in nome di questo equilibrio e di valori condivisi (la democrazia, il rispetto della donna, la laicità dello stato, l'uguaglianza di tutti gli uomini...) può arrivare perfino a decidere una politica delle quote che privilegi (laicamente) questa o quella componente. In un mondo di diffusa illegalità come il nostro, possono essere invocate anche le impronte digitali, i registri degli arrivi, la sorveglianza assidua delle minoranze a rischio, l'espulsione dei delinquenti, la mano pesante con chi sbaglia.

La xenofobia, però, è un'altra cosa. «Ma perché questa parola deve avere un significato negativo?», ha sbuffato testualmente Silvio Berlusconi a Porta a Porta nel maggio 2002. Gli risponde il vocabolario Treccani: «Xenofobia: sentimento di avversione per gli stranieri e per ciò che è straniero, che si manifesta in atteggiamenti razzistici e azioni di insofferenza e ostilità verso le usanze, la cultura e gli abitanti stessi di altri paesi». Più sbrigativo ancora il significato di xenofobo: «Chi nutre odio o avversione indiscriminata verso tutti gli stranieri».

Nessuna confusione. Una cosa è la legittima scelta di un paese di mantenere la propria dimensione, le proprie regole, i propri equilibri, un'altra giocare sporco sui sentimenti sporchi dicendo come Umberto Bossi che «nei prossimi dieci anni porteranno in Padania 13 o 15 milioni di immigrati, per tenere nella colonia romano-congolese questa maledetta razza padana, razza pura, razza eletta». Una cosa è sbattere fuori quei musulmani che puntano al rovesciamento violento della nostra società, un'altra spargere piscio di maiale sui terreni dove dovrebbe sorgere una moschea. Una cosa irrigidire i controlli sugli albanesi che ormai rappresentano un detenuto su tre fra gli stranieri rinchiusi nelle carceri italiane, un altro dire che tutti gli albanesi sono ladri o papponi.

Vale per tutti, dall'Australia alla Patagonia. Ma più ancora, dopo decenni di violenze e stereotipi visti dall'altra parte, dovrebbe valere per noi. Che dovremmo ricordare sempre come l'arrivo dei nostri emigrati coi loro fagotti e le donne e i bambini venisse accolto dai razzisti locali: con lo stesso urlo che oggi campeggia sui nostri muri. Lo stesso urlo, la stessa parola. Quella che prende alla pancia rievocando i secoli bui, la grande paura, i barbari, Attila, gli Unni con la carne macerata sotto la sella: l'orda.

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Pagina 58

Non una città, una regione, una comunità sembrano salvarsi dai verdetti di Dickens. Sensibilissimo verso i poveretti inglesi, feroce fino al razzismo con gli italiani. I genovesi vivono in case sporche «e affatto sprovviste di fogne, se il mio naso merita mai d'esser creduto; ed esalano una fragranza peculiare, simile al puzzo di un pessimo cacio conservato entro panni assai caldi». Le donne «sono di ottimo carattere, tuttavia, cortesi e operose. Ma l'operosità non le ha affrancate dalla sporcizia, perché le loro abitazioni rimangono estremamente sudicie e la loro occupazione abituale della domenica mattina, di bel tempo, è di starsene sedute sull'uscio a cercarsi a vicenda i pidocchi nei capelli. [...] Le contadine, nudi i piedi e le gambe, son sempre a lavar panni alle vasche pubbliche o dovunque si trovi un fosso o un corso d'acqua, tanto che non si può fare a meno di chiedersi, tra cotanta sporcizia, chi mai li indossi quando poi sono puliti».

La gente di Liguria è «squallida e patita». Le vecchie «rinsecchite dai capelli ispidi e grigi raccolti al sommo del capo [...] sono d'una bruttezza così marcata che a vederle qua e là girare sotto anditi semibui col fuso in mano e a sentirle bisbigliare insieme negli angoli del vicinato, appaiono come un popolo di streghe, con la differenza che loro non possono certo essere sospettate di possedere la scopa o qualsiasi altro arnese per la pulizia». Ferrara è «torva» e «la gente che vi si vede passare durante il giorno è così sparuta che davvero ci sarebbe da credere che i suoi cittadini siano piuttosto l'erba che cresce nelle piazze».

E Pisa? «Con la sua torre, è la settima meraviglia del mondo», ma «può pretendere di essere almeno la seconda o la terza per i mendicanti che vi si incontrano. Questi appostano lo sfortunato visitatore a ogni svolta, lo scortano a tutti gli usci dietro i quali si dilegua e giacciono in attesa di lui, con grande stuolo di rincalzo, a ogni porta per dove sanno che dovrà uscire. Il cigolio dei cardini è segnale a un grido generale; e il momento in cui egli appare, vien circondato e assalito da mucchi di stracci e di corpi deformi.» E va già meglio che a Livorno. La quale, scrive l'autore dei popolari Racconti di Natale, è un luogo «prospero, attivo, pratico, dove l'ozio è scacciato dal commercio» ma guastato dalla «cattiva fama di essere un ricettacolo di malandrini, e fino a un certo punto bisogna convenire che la cosa è vera. Non molti anni or sono esisteva in città un'associazione di maniaci sanguinari che non ce l'avevano contro nessuno in particolare, ma uscivano la notte per le strade ad assassinare la gente a pugnalate, persone a loro completamente sconosciute, per il solo piacere e l'emozione dei gioco».

Sulla strada verso sud, ecco Radicofani: «Gli abitanti sono tutti mendicanti: appena vedono giungere una carrozza, si levano e calano come uccelli da preda». Un viaggio da incubo: «Attraversiamo i paesi più rovinati e sbrindellati che si possano immaginare. Non c'è una casa in essi che abbia una finestra sana, non un contadino che mostri l'abito senza toppe, non una miserabile bottega in cui si veda qualcosa da mettere sotto i denti. [...] Uomini e bambini si vestono di tutto ciò che trovano. Sporchi e rapaci come cani, i soldati».

La città eterna lo incanta e lo schifa: «La via terminava in uno spiazzo dove si sarebbero visti cumuli d'immondizie, mucchi di terraglie infrante e di rifiuti vegetali, se non fosse che a Roma simile mercanzia si getta dappertutto, senza accordare preferenze ad alcun sito particolare». Una delle cose che più lo colpiscono è l'esecuzione di un condannato, ghigliottinato in piazza: «Le mie tasche vuote furono "saggiate" parecchie volte dai galantuomini che erano lì tra la gente presso il patibolo mentre il cadavere veniva sistemato nella cassa. Fu uno spettacolo orrido, immondo, volgare e rivoltante; una scena che non significò altro che macellazione e non destò che appena un momentaneo interesse per l'unico sventurato attore. [...] I giocatori del lotto, che speculano su tutto, si mettono nei posti più comodi per contare le gocce di sangue che sprizzano di qua e di là; e poi puntano su quel numero».

Via via che scende, il quadro è più fosco: «Prendi nota di Fondi, in nome di tutto quello che è miserabile e sordido. Un immondo canale di fango e di rifiuti serpeggia lungo il mezzo della squallida via, alimentato da sconci rivoletti che colano da povere case. Non esiste porta o finestra o imposta in tutto l'abitato; non un tetto, un muro, un palo, un pilastro che non sia rovinato, sgangherato e fradicio. [...] Il fatto poi che i magri cani che si aggirano furtivi per la misera via riescano a rimaner vivi e a non essere divorati dalla gente è davvero uno degli enigmi del mondo. I paesani son facce torve, scavate! Tutti mendicanti. [...] Ti vengono addosso a branchi, facendo ressa e dandosi impedimento a vicenda. Chiedono con insistenza la carità per amor di Dio, per amor della Vergine, per amor di tutti i Santi».

Ma che dire di Napoli, città che quotidianamente «si risveglia di nuovo coi Pulcinella, i borsaioli, i comici e i mendicanti; con gli stracci, le marionette, i fiori, la vivacità, la sporcizia e la universale degradazione»? Come descrivere una città dove vanno tutti pazzi per il lotto? «Certe persone che hanno un particolare talento pei sogni fortunati sono ricercatissime dal prossimo. [...] Mi è stato raccontato di un cavallo imbizzarrito che sbalzò di sella il cavaliere a un angolo della strada riducendolo in fin di vita. Dietro il cavallo correva intanto a incredibile velocità un altro uomo, uno sconosciuto così lesto che si trovò sul posto appena dopo la caduta. Costui si gettò in ginocchio accanto al disgraziato che giaceva moribondo, gli prese la mano con l'espressione del più vivo dolore e disse: "Se ancora sei vivo, dimmi una parola, una sola! Se ancora ti rimane un soffio, dimmi quanti anni hai, fammeli giocare al lotto, per amore del Cielo!"». Insomma: come trovare la sintesi di ciò che sono i napoletani? «Bambini con un naturale amore per lo sporco, l'aglio e l'olio.»

Onestamente: che idea poteva farsi degli italiani, pochi anni prima dell'inizio della Grande Emigrazione, un lettore del Daily Mirror pronto a far propria ogni parola del grande Charles Dickens? Ecco: oltre alla sacca coi poveri bagagli fatta col lenzuolo vecchio, i nostri emigrati furono costretti a caricarsi sulle spalle anche questo.

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Pagina 84

Ovvio. Perché andare per il sottile se perfino il regolamento voluto nel 1860 da Cavour consentiva alle adolescenti di sedici anni di iscriversi come ospiti dei bordelli? E se addirittura le nuove regole emanate nel 1888 da Francesco Crispi erano destinate a veder presto aggirato il divieto di «assumere» ragazze con meno di ventun anni purché la scelta di vendersi in un lupanare fosse esplicitata «spontaneamente»?

L'adescamento, racconta Paulucci, avveniva allora nelle contrade italiane con in Ghana o in Moldavia oggi: «Erano avvisi pubblicati da giornali, promesse fàtte a voce o per lettere, di posti di istitutrici, di cameriere, di bambinaie a condizioni particolarmente vantaggiose, e sempre a viaggio pagato. Nella rete tesa alla loro ingenuità cadevano le misere, che sciolte dai lacci erano gettate nelle cupide braccia della prostituzione. Alcuni grandi porti dell'Atlantico, del Baltico e del Mediterraneo assumevano il tragico aspetto che avevano al tempo di Erodoto i mercati della capitaie della Caldea, dove convenivano da ogni paese convogli di capi di bestiame umano».

E quale era, stando alla drammatica denuncia del filantropo Ferdinand Dreyfus davanti alla Société des prisons nel 1902, il porto «più importante per l'imbarco della merce destinata all'America del Sud»? Genova. Lì stava la maggior parte degli «scafisti» di allora. Impegnati, per usare ancora le parole di Paulucci de Calboli, in una tratta «quasi calcata su quella dei negri. [...] Come una volta sulle piazze d'Angola, del Capo Verde o di Minas era diverso l'articolo preferito dal consumatore orientale e occidentale, e mentre vi erano paesi che chiedevano esclusivamente schiavi Fetits e Kredjés, ve n'erano altri che per ragioni differenti non volevano che l'"ebano" dell'Ousagara e dell'Ongogo, così oggigiorno le varie qualità dell"avorio" europeo hanno diversi compratori sul mercato mondiale».

E come un tempo la Compagnia portoghese della Guinea prendeva col Regno spagnolo l'impegno a rifornire entro la tal data «10.000 tonnellate di negri», così ora «le agenzie che fanno la tratta delle bianche [...] potevano all'alba del XX secolo stipular regolari contratti con le case di prostituzione del mondo intero per provvederle di qualsiasi numero di soggetti, di nazionalità, di tipo e di età».

Da Genova venivano spedite le italiane dirette ai casini di Montevideo o di Buenos Aires, dove secondo la baronessa di Montenach, fondatrice dell'Opera di Friburgo, c'erano «2200 creature disonorate, vittime di speculatori, che vivono ammonticchiate in una sola strada della capitale argentina, e purtroppo in gran parte italiane». A Genova venivano caricate, stando alla denuncia del governo tedesco per bocca del barone von Dirksen, migliaia di donne strappate «dall'Austria-Ungheria, dalla Polonia, dalla Germania e anche dalla Francia». E ancora a Genova, scrive Paulucci, c'erano alberghi «dove un carico di merce umana è tenuto in pronto per essere spedito al primo avviso».

Ragazze e ragazzine, denuncia la Nuova Antologia: «Queste fanciulle hanno dai sedici ai venticinque anni. Partono in gruppi di cinque, otto o dieci per battello e si dicono domestiche o Kellnerinen (cameriere). Negano se alcuno le interroga sul loro conto di essere vittime di inganni e sono scortate da persona più anziana, che è quasi sempre un uomo. [...] I commessi viaggiatori delle case malfamate dell'America del Sud che hanno Genova come punto d'imbarco non arrivano alla dozzina: per non essere troppo facilmente riconosciuti dall'equipaggio e dalla polizia, questi commessi viaggiatori si servono sovente di un proprio dipendente che accompagna il carico».

Ma Genova era solo il numero uno, dei porti di partenza. Poi c'erano Napoli, Messina, Trieste, Brindisi, Catania... Da dove mandavamo le nostre donne nei bordelli di Algeri, Porto Said, Tripoli, Bengasi, Malta: «La Sicilia invia i suoi prodotti a Tunisi e le province napoletane, segnatamente quella di Benevento, provvedono l'Egitto», scrive Paulucci de Calboli. Non c'era mercato che noi italiani non rifornissimo: «Parallela alla corrente mediterranea che trasporta in Africa le miserie meridionali abbiamo quella transoceanica, pure fortissima, che traduce al di là dell'Oceano l'onta settentrionale d'Italia».

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Pagina 135

CAPITOLO NOVE
Strage per un pugno di sale
Il massacro di Aigues-Mortes: «Ci rubano il lavoro»



E il governo? Cosa fa il governo parigino? Altro che imbarazzi per la strage: pensi a proteggere piuttosto i lavoratori francesi «da questa merce nociva, e peraltro adulterata che si chiama operaio italiano». A difenderli contro «l'insolenza e la brutalità degli stranieri che li spogliano». Al diavolo scrupoli e cautele: «L'italiano non nutre nessuno e mangia da tutti». Non aveva certo sensi di colpa, il quotidiano Le Jour, nel commentare il 21 agosto 1893 il massacro dei nostri immigrati compiuto quattro giorni prima da una folla inferocita di operai francesi ad Aigues-Mortes, tra i paesaggi stupendi e infernali della Camargue. Nove italiani morti e decine di dispersi. Alcuni dei quali non avrebbero mai più dato segno di vita, lasciando immaginare di essere davvero affondati fuggendo, come avevano raccontato in lacrime i loro compagni, nelle paludi. Eppure il giornale non ebbe dubbi sulla parte con cui schierarsi.

Così come non affiorarono dubbi nella redazione di La Lanterne, che attaccava il parroco del paesino, don Mauger, colpevole di aver tentato di difendere le sue pecorere italiane e chiedeva la mano pesante «contro un'orda di affamati che a casa loro languiscono nella miseria». Né in quella di L'Autorité, che si augurava maggior determinazione del govemo di Parigi nel difendere «il lavoro nazionale, i francesi, operai e non, contro l'invasione straniera».

«Gli italiani cominciano a esagerare con le loro pretese. Presto ci tratteranno come un paese conquistato», scrisse il settimanale Le Memorial d'Aix. «Fanno concorrenza alla manodopera francese e si accaparrano i nostri soldi a vantaggio del loro paese.» Per non parlare, insisteva, del resto: «La presenza degli stranieri in Francia costituisce un pericolo permanente, spesso questi operai sono delle spie; generalmente sono di dubbia moralità, il tasso di criminalità è elevato: del 20 per mille, mentre nei nostri non è che del 5».

L'aria era tale che perfino il procuratore generale di Nimes, come sottolinea Enzo Barnabà nel suo recente Morte agli italiani!, dava per scontato che la posizione dei nostri fosse quella degli intrusi in casa d'altri: «Gli abitanti della zona vedono con dispiacere questi stranieri che, meno esigenti e con minori bisogni, vengono a toglier loro un lavoro che a loro dovrebbe esser affidato e li obbligano ad accettare condizioni meno favorevoli. Si lamentano anche del temperamento rissoso degli italiani che, per il minimo litigio, prendono in mano il coltello o la pistola. Riassumendo, c'erano dei fermenti di discordia già vecchi tra francesi e italiani che manovravano per escludersi l'un l'altro dal lavoro delle saline». Ma ripartiamo dall'inizio.

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Pagina 158

E come ci andavano, in giro per l'Europa? Ovvio: indesiderati e clandestini. Come i musicanti, che all'inizio partivano in particolare dall'Appennino parmense e piacentino (con scimmie «culo rosso», cani, orsi, serpenti, pappagalli o perfino dromedari ammaestrati) e che, per quanto i bambini che avevano comprato fossero pochissimo tutelati dalle autorità europee e americane, avevano comunque problemi a dimostrare che i loro piccoli schiavi erano stati ceduti da genitori consenzienti.

Tutta la storia dell'emigrazione italiana, come possono spiegare Emilio Franzina e ogni specialista della materia, è una storia «anche» di clandestinità. Certo, i più noti sono i «fuoriusciti» che lasciarono l'Italia di Mussolini e che, al di là della propaganda del regime di allora e del revisioniamo di oggi, non furono quattro gatti come Carlo e Nello Rosselli, Luigi Sturzo o Sandro Pertini. Erano tanti. Ce lo dimostra, scrive Paolo Borruso sul Giornale di Storia Contemporanea, lo stesso Archivio Centrale dello Stato: «Le schedature operate dalla polizia politica fascista riguardavano 28.000 italiani provenienti dagli ambienti socialisti, comunisti, anarchici e repubblicani; ma i dossier dei "sovversivi" registrati dal Casellario Politico Centrale sono 150.000 e si riferiscono a oppositori reali o sospetti del regime».

L'emigrazione clandestina, ha scritto lo storico Ruggero Romano, è sempre stata parallela a quella ufficiale. Sempre. Fin dal primissimo esodo in America quando, all'elenco dei passeggeri ufficiali delle navi, andava aggiunto «un numero almeno pari di clandestini». Clandestini erano i bambini venduti alle vetrerie francesi. Clandestine le ragazzine esportate verso i bordelli di tutto il mondo. Clandestini gli spazzacamini. Clandestina la larga parte degli operai emigrati agli albori del secolo in Germania: nel 1905 - scrive Adriana Lotto in Lavoro minorile ed emigrazione nel Bellunese - «secondo le statistiche della "Protezione della Donna Italiana all'estero", nell'impero tedesco vi sarebbero 22.228 donne italiane [...] e 75.937 uomini. Ma secondo i regi consoli italiani le cifre non rappresenterebbero che un quarto del numero effettivo degli operai emigrati presenti in Germania. Gli altri tre quarti sarebbero costituiti da operai sprovvisti di passaporto o provenienti non direttamente dall'Italia ma dalla Svizzera, dalla Francia, dall'Austria». Insomma, spiega la Lotto, «clandestini in senso stretto».

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Nel 2001, dice il nostro ministero della Giustizia, gli immigrati extracomunitari in Italia hanno commesso il 38% di tutti i reati denunciati (il 30% delle rapine, il 21% dei tentati omicidi, il 12% degli omicidi) e hanno rappresentato circa un terzo dei 53.000 detenuti nelle carceri della penisola. Diceva un secolo fa, nel 1904, il Report of the Commissioner of immigration, che gli stranieri detenuti da New York alla California erano il 23,7%. Ma negli stati del Nord Atlantico, dov'era concentrata la grande maggioranza dei nostri emigrati, la percentuale saliva al 32,7%.

Strillano oggi gli xenofobi nostrani, a dimostrazione dell'«invasione barbarica», che degli stranieri ospiti delle carceri nazionali il 31% è albanese. Spiegava nell'ottobre 1921 Tommaso Sassone nel saggio Italy's Criminals in the United States sulla rivista Current History, che tra i detenuti stranieri delle carceri newyorkesi di Auburn, Clinton, Great Meadow e Sing-Sing i nostri erano i più numerosi: «Su 928 rinchiusi in questi penitenziari nel 1920, gli italiani sono 378, cioè circa il 40%. [...] Secondi vengono i russi con 171. [...] I crimini più comuni tra gli italiani sono le aggressioni, le rapine, i sequestri di persona, gli omicidi». Come stupirsi dunque, si sfogava lo studioso, se «gli italiani vengono ormai così evidentemente identificati in America con il ricatto, il rapimento, l'assassinio, le bombe?».

Né le cose andavano meglio con i minorenni: dei giovani stranieri in prigione nel 1904 in tutti gli Usa, gli italiani (in larga parte siciliani) erano il 28,2%. Percentuale che saliva negli Stati nord-orientali al 34%. Insomma: i dati erano tali che il siciliano Colajanni, infischiandosene del turbamento che avrebbe scatenato tra i benpensanti con lo scomodo paragone, cercò un parallelo con una sola altra comunità di emarginati: i neri.

Davanti a un panorama come questo, il Report denunciava preoccupatissimo: «Noi dobbiamo combattere una criminalità medievale con metodi anglosassoni. Contro di essa le nostre leggi sono fiacche». L'America del Nord, ringhiava Bingham, «pare diventata la terra promessa dei delinquenti italiani!». «Sono fortemente e interamente contrario alla politica detta delle porte aperte. [...] A meno di qualche seria iniziativa, questa ondata [di immigrati] avvelenerà o quanto meno inquinerà le sorgenti stesse della nostra vita e del nostro progresso. Ospitiamo nelle nostre città più grandi un numero enorme di stranieri fra i quali proliferano il crimine e le malattie», dichiarava il commissario generale all'Immigrazione Frank P. Sargent. E non c'era articolo o polemista xenofobo che non citasse Charles Dickens il quale, passato per i Five Points, era rimasto sconvolto dalle «viuzze rigurgitanti infamia e sporcizia» e ne aveva parlato come dei «Cinque Punti degli assassini».

Quando ci va lo scrittore Giuseppe Giacosa, a cavallo tra Ottocento e Novecento, resta senza fiato: «Č impossibile descrivere il fango, il pattume, la lercia sudiceria, l'umidità fetente, l'ingombro, il disordine». «Al numero 36 di Cherry Street in uno stabile di cinque piani (due gabinetti per piano)», scrive Giuseppe Dall'Ongaro nella biografia su madre Francesca Cabrini, «si ammassano 800 persone in stanze di metri 2,70 per 4,20.» «Dove l'uomo non potrebbe vivere, secondo le teorie scientifiche», sogghigna perfidamente il prete irlandese Bernard J. Lynch in un rapporto al vescovo, «l'italiano si ingrassa».

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[...] Tre anni dopo, nel 1972, quello di Briga avrebbe giudicato con la stessa «imparzialità» la strage di Mattmark.

Ricordate? Ottantotto operai, quasi tutti stranieri di cui 55 italiani, che lavoravano in un cantiere sotto il ghiacciaio dell'Allalin, rimasero sepolti il 30 agosto 1965 da una gigantesca frana. Si accertò che il ghiacciaio aveva già dato evidentissimi segni di smottamento. Che i responsabili del cantiere lo sapevano. Che ciò non li aveva dissuasi dal fare costruire i baraccamenti proprio sotto la linea di caduta. Che non avevano previsto alcun servizio di monitoraggio per controllare se per caso un pezzo di montagna si fosse mossa. Eppure il pubblico ministero, pur accusando del disastro 17 persone, fu clemente: non solo rinunciò a chiedere ogni forma di pena detentiva (che per l'omicidio colposo prevedeva fino a tre anni), ma propose per tutti multe dieci volte inferiori a quelle fissate dal codice. Uno schifo. Superato dalla sentenza: tutti assolti e spese processuali a carico dello Stato. Il capolavoro, però, doveva ancora venire. E sarebbe arrivato appunto nell'ottobre 1972 col verdetto d'appello: tutti assolti e spese per metà a carico dei parenti dei morti. Imparassero a non rompere le scatole.

Tutto rimosso, abbiamo. Tutto cancellato. Come i cartelli affissi in molti bar con scritto: «Vietato l'ingresso ai cani e agli italiani». O come la sentenza che nel 1974, l'anno in cui Claudio Baglioni cantava E tu, Mario Monicelli girava Romanzo popolare e Pippo Baudo faceva Senza rete, vide il tribunale di Zurigo chiudere in una sola udienza (una!) il processo a Gerhard «Gerry» Schwizgebel, un balordo alto due metri e pesante 130 chili che nel 1971 aveva ammazzato a pugni e calci un bellunese, Alfredo Zardini, venuto a cercar fortuna nella dolce Helvetia lasciando a Cortina d'Ampezzo la moglie e un figlioletto.

Era asfissiato dalla malinconia, quella sera, Zardini. Aveva bevuto, camminato ore e ore nella notte, bisticciato con una puttana tedesca, vomitato e pianto. Finché era finito, alle cinque di mattina, in un caffé che non sapeva avere una pessima fàma. «Gerry» l'aveva visto entrare e l'aveva preso di punta. Un insulto buttato là, una risposta brusca. Il colosso gli era piombato addosso e l'aveva fàtto a pezzi. Quindi l'aveva sollevato come uno straccio e, con l'aiuto di altri avventori, l'aveva buttato fuori, sul marciapiede. Lasciandolo agonizzare lì, nella neve, per due ore. Senza che uno solo dei clienti che andavano e venivano si chinasse a vedere. All'arrivo dell'ambulanza era morto.

Diciotto mesi: questa fu la condanna per il gigante omicida. Ma solo perché i giudici, come avrebbe spiegato il Corriere, lo riconobbero colpevole, oltre che di eccesso colposo di legittima difesa, anche di furto continuato, violazione della legge sugli stupefacenti e omissione di soccorso. E perché erano intestati a suo nome, negli archivi di polizia, 150 rapporti per reati violenti. Sennò se la sarebbe forse cavata con meno.

Guai a toccargli i merli però, agli svizzeri. Lo dicevano già i regolamenti stabiliti dopo la Grande Caccia all'italiano del 1896. Tre giorni di furia selvaggia che, scatenata dalla morte di un arrotino tedesco ucciso da un italiano (poi condannato a tre mesi perché perfino la magistratura elvetica aveva dovuto riconoscere che si era trattato di legittima difesa dopo un'aggressione), avevano visto migliaia di persone assaltare i bar, i negozi, le case dei nostri emigrati, spaccare le ossa a tutti i malcapitati, attaccare le stazioni di polizia per liberare i più fanatici dei loro che erano stati arrestati, seminare un panico tale da spingere le autorità a organizzare addirittura dei treni speciali per rimpatriare i nostri, terrorizzati.

Die Italianer-Revolt in Zurich fu il titolo dell'opuscolo stampato a ricordo del pogrom. Come se i protagonisti, e non le vittime, fossero stati gli italiani. E le nuove norme decise dalla municipalità, in linea con la tesi del sindaco secondo il quale i disordini andavano interpretati come una «esplosione degli offesi sentimenti di diritto della nostra popolazione indigena», puntarono a regolamentare la convivenza dettando ai nostri come dovevano comportarsi per non urtare la suscettibilità dei padroni di casa.

Con un secolo di anticipo sul sindaco Gianfranco Gentilini - che dopo aver visto vicino alla stazione di Treviso «decine di negri seduti sulle spallette del ponte e altri extra-comunitari sulle panchine» avrebbe fatto togliere le panche e conficcare spuntoni nelle spallette così che non «ci potesse più posare sedere umano» - gli indesiderati ospiti vennero messi in riga così: fu vietato calpestare i prati pubblici (art. 30); sostare sui marciapiedi intralciando il passaggio (art. 67); ballare nei locali pubblici senza l'autorizzazione dell'ispettore di polizia se non per sei domeniche l'anno (art. 94); scrivere o disegnare graffiti sulle pareti dei locali o sui muri pubblici (art. 117); bighellonare alticci per la strada (art. 118); tenere bambini nelle osterie o mandarli a elemosinare (art. 120). «In sostanza lo spazio pubblico venne riservato alla circolazione delle merci», spiega nel suo saggio sul pogrom anti-italiano lo studioso Hans Looser. «I singoli potevano usufruire di percorsi ristretti.»

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