Copertina
Autore Gian Antonio Stella
Titolo Avanti popolo
SottotitoloFigure e figuri del nuovo potere italiano
EdizioneRizzoli, Milano, 2006 , pag. 288, cop.ril.sov., dim. 145x225x23 mm , Isbn 978-88-17-01379-6
LettoreRiccardo Terzi, 2006
Classe politica , satira , biografie
PrimaPagina


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Indice

VII Introduzione
    Paese a dieta, governo sovrappeso

  3 Vittorio Agnoletto
    L'ordinatino che sguazza tra i disordini

  9 Giuliano Amato
    L'«Eta Beta» che voleva fare il camionista

 19 Antonio Bassolino
    Lo chiamavano il «Tony Blair of Afragola»

 27 Pier Luigi Bersani
    Metti Gregorio Magno con Vasco Rossi...

 35 Fausto Bertinotti
    E Castro gli disse: «Hai fatto l'estremista, eh?»

 44 Rosy Bindi
    La pasionaria che affascina il visagista delle dive

 51 Emma Bonino
    Burka, Pannella e cha-cha-cha

 57 Rita Borsellino
    «Curriti! Curriti! Cu-Rita!»

 63 Massimo, Paolo e Tommaso Cacciari
    Troppe sinistre per una famiglia sola

 69 Francesco Caruso
    Non c'è pace tra gli Ulivi

 75 Paolo Cento
    Casse vuote? Ci pensa «er Piotta»

 81 Sergio Chiamparino
    Il nipote di «Barba Lenin» inviso ai duri e puri

 89 Massimo D'Alema
    «Il Migliorino», Togliatti e il piede di porco

 99 Vincenzo De Luca
    Il podestà rosso e la ruspa ottimista

105 Elidio De Paoli
    Il saddamita di culto padano

110 Antonio Di Pietro
    Tutta una vita da Mercedes a Mercedes

119 Oliviero Diliberto
    Con Boldi sì, con Bondi no

126 Luis Dürnwalder
    Falce, martello e braghe di cuoio

133 Piero Fassino
    Dal Botteghino ai botteghini di Broadway

140 Francantonio Genovese
    «Mister Magoo», nipote di zio Nino

147 Franco Giordano
    L'uomo che abbaiava ai gatti

154 Rosa Iervolino Russo
    La «Zia della Patria» sopravvissuta al Lupo Alberto

160 Vladimir Luxuria
    Quella damigiana galeotta in sacrestia

166 Franco Marini
    «Scintillone» ha cambiato cravatte

174 Clemente e Sandra Mastella
    Potere e torroncini dei Clinton di Ceppaloni

181 Giorgio Napolitano
    E al Quirinale tornò il sosia di Umberto

196 Tommaso Padoa-Schioppa
    Eppure anche le tasse hanno il loro bello

203 Arturo Parisi
    Il chierichetto più testardo di don Masia

210 Alfonso Pecoraro Scanio
    Scusi, perché parla tanto? «Mi applico»

219 Romano Prodi
    «Sono come Ercolino Sempreinpiedi, ma non dondolo»

228 Marco Rizzo
    Il comunista che bacchetta i comunisti

234 Francesco Rutelli
    «Il Piacione» che non piaceva a Frate Indovino

243 Livia Turco
    Sposò il Pci con un vestitino rosso

251 Walter Veltroni
    Il sindaco del Paese dei Balocchi

261 Valerio Zanone
    «Voi liberal, io liberale»

269 Ringraziamenti

271 Indice dei nomi

 

 

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Pagina VII

Introduzione
Paese a dieta, governo sovrappeso



Tranquilli, disse allegro Romano Prodi: «Stavolta non è venerdì 17!». Certo che l'aveva notato anche lui che per uno scherzo del destino il suo nuovo governo giurava il 17 maggio esattamente come dieci anni prima, nel '96. Ma non nel quinto giorno della settimana. Vuoi mettere? Come si dice in Emilia Romagna: «Ad vénar s't'a t'pnaeré, di sturb t' passaré». Se di venerdì ti pettinerai, dei bei guai tu passerai. Lo dicono anche in Sicilia: «Maliditta chidda trizza / ca di vinniri s'intrizza». Maledetta quella treccia che di venerdì s'intreccia. Ciò sancito, fece l'occhiolino.

E finalmente vignettisti, scrittori satirici, cabarettisti, showman e imitatori orfani del «migliore dei governi di tutte le epoche» e del «presidente più simpatico del mondo» tirarono un sospiro di sollievo. Se l'erano vista brutta, alla prospettiva di un governo «seeerio e coeso, coeso e seeerio». Provateci voi, a fare il loro mestiere senza ministri così bulli da scommettere come Umberto Bossi che la guerra in Iraq sarebbe durata «il tempo di fumarsi un buon toscano». Senza responsabili delle Infrastrutture grondanti di conflitti d'interesse, come Pietro Lunardi, che invece di mandar gli spazzaneve sulle autostrade paralizzate diceva agli italiani di «imparare a stare al mondo». Senza volantini stampati per ordine di Maurizio Gasparri con soldi pubblici e distribuiti negli stadi per spiegare quanto fosse bella la tivù digitale guardacaso lanciata da Mediaset. Senza bellemore di coscialunga quali Daniela Garnero (fu) Santanché promosse a relatrici della Finanziaria perché appena elette «visto che un po' di conoscenza della materia naturalmente ci vuole» avevano passato «tutto il mese di agosto a prendere lezioni private con un professore universitario» in Costa Smeralda.

E soprattutto senza Lui, il Cavaliere. Senza le sue corna ai vertici europei, le sue battute sui «kapò», le sue barzellette sui malati di Aids che fanno le sabbiature per abituarsi a stare sotto terra, le sue piscine abusive per la nababbo-terapia, le sue leggine ad personam, il suo tentativo di cambiar perfino le regole napoleoniche sui cimiteri per portare la salma di suo padre nel mausoleo di Arcore.

Oddio, non che il Professore promettesse solo noia e pizzichi come temeva Giuliano Ferrara: nei suoi anni d'oro aveva movimentato la scena guidando un pellegrinaggio con codazzo di potenti a Canneto Sabino per vedere un ulivo di millecinquecento anni («L'Ulivo!»), promesso che avrebbe fatto lui «anche la Finanziaria del 2027» e buttato lì battute irresistibili tra le quali almeno una merita di essere ricordata: «Nel Polo volano polpette avvelenate sotterranee». «Aria nuova!» esultarono i Giannelli e i Cornacchione, i Crozza e le Dandini entusiasti per le new entry.

«Tutto qui?» si chiesero invece a sinistra. Per cinque anni, apparsi via via più lunghi, spossanti, interminabili, «il bello e generoso popolo della sinistra» aveva aspettato. Soffrendo in comunione di sentimenti con Nanni Moretti per «lo spettacolo penoso» di quei vertici che non avevano fatto «un'autocritica degli errori commessi» e «non sanno parlare alla testa e all'anima delle persone». Riconoscendosi nelle parole d'ordine di Francesco Saverio Borrelli: «Resistere, resistere, resistere». Allagando piazza San Giovanni per tributare trionfi perfino al compagno Federico Orlando, per decenni braccio destro di quel destro (redento) di Indro Montanelli, e palpitare con Giuliano Giuliani, il papà del ragazzo ucciso durante il G8 genovese, che ammoniva: «Ci sono troppi Carli nel mondo!». Sbalordendo di se stesso il giorno dell'immensa adunata con Sergio Cofferati al Circo Massimo: «Ammazza, quanti siamo!». Ridendo al Palavobis di Milano, bacinella troppo piccola per contenere tutti, intorno a Dario Fo e le sue storielle su un immaginario «Ubu Roi» che era uguale identico a Silvio Berlusconi e faceva «Hup! Hup!». Prendendo coraggio vittoria dopo vittoria (le comunali a Verona, la presa del Friuli, le europee, la riconquista di Bologna, le regionali...) fino a credere che sì, arrivava davvero la Nuova Era Prodiana.

Certo, la sigla ricordava la Nep, la Nuova Politica Economica leninista. Ma bastava per sognare. Ci credevano sul serio, che si potesse tenere tutto insieme. Proibizionisti e teorici del libero spinello. Giustizialisti e garantisti. Sindaci indulgenti con gli abusivi e ambientalisi furenti. Cattolici rigidi sulle «staminali» come Paola Binetti, presidente del Comitato Scienza e Vita, e radicali come Daniele Capezzone favorevoli alla massima libertà di ricerca. Custodi della legalità come Sergio Chiamparino e spettinate erinni incazzose come l'ex deputata Dacia Valent autrice sul web di inviti a votare i Comunisti italiani anche se lei (sarcasmo, dice) sarebbe «più per la rivoluzione, l'abbattimento del sistema e l'eliminazione dei nemici di classe». Vecchi dicì come Ciriaco De Mita che si dilettano in forbiti ragionamenti sulla differenza tra «cavallo e cavallinità» e intellettuali provocatori come Aldo Busi che dicono d'aver votato per anni la sinistra «turandosi il culo». Sindacalisti come Savino Pezzotta contrari all'abolizione della legge Biagi e delegati della Cgil come Valter Ferrarato che dice frasi come questa: «Non siamo ipocriti. La classe operaia non arriverà mai al potere attraverso libere elezioni, quindi prima o poi le masse popolari dovranno organizzarsi in modo cruento». Laici insofferenti alle interferenze della chiesa come Enrico Boselli e neoconvertiti come Francesco Rutelli che, dice il padre francescano Enzo Fortunato, «porta sempre in tasca una piccola immagine del poverello di Assisi».

Ogni tanto qualche scettico Grillo Parlante chiedeva: scusate, ma come pensate di conciliare questo e quello? E loro, ruotando orizzontalmente il dito indice per rimandare all'agognata Nep: ci pensiamo «dopo». La flessibilità del lavoro? «Dopo.» Le unioni di fatto? «Dopo.» Lo smaltimento delle scorie? «Dopo.» La riforma scolastica? «Dopo.» Gli inceneritori? «Dopo.» Le privatizzazioni e lo statalismo insieme? «Dopo.» La lotta all'immigrazione clandestina senza la Bossi-Fini? «Dopo.» Fino all'ultimo: la soglia minima dei grandi patrimoni da colpire con la tassa di successione? «Dopo.»

E alla fine è arrivato, il «dopo». E a sinistra si sono chiesti: tutto qui? Neanche il tempo di smaltire la delusione per la «vittoria mutilata» (quel vantaggio incolmabile dei sondaggi buttato via con la sicumera che ormai fosse già fatta e con le sparate sulle tasse e le candidature spesso di puro potere e la scelta di rifiutare le liste civiche perché tanto non erano necessarie ed era meglio contarsi...) e già montavano le domande: ma come, avete avuto cinque anni di tempo all'opposizione e non avete concordato tutti insieme, «prima» e a freddo, chi farà il presidente della Camera e del Senato? Cinque anni e non avete pensato a come uscire dall'ingorgo istituzionale? Cinque anni e non avete deciso chi mandare al Quirinale? Cinque anni di frizzi e lazzi su quelli di prima e non avete pensato a come marcare subito, in modo netto e vistoso, una differenza?

«Un grande governo per un grande paese» avevano promesso. Grande? No: grasso. Obeso. Di cotica pesante. E chi li aveva mai visti tutti insieme, in un secolo e mezzo di storia patria, un premier, 2 vicepremier con ministero allegato e 23 ministri (totale: 26) più 10 viceministri più 66 sottosegretari per un totale di 102 poltrone, sofà e sgabelli ministeriali? Usciva stracciato perfino quell'«Andreotti VII» che per anni era stato additato, per i suoi 101 membri del governo, come la feccia clientelare della Prima Repubblica spazzata via dal virtuoso venticello nuovista.

Era questo l'esecutivo promesso con lo slogan «Domani è un altro giorno»? Un governo con 95 cariche più del primo della nostra storia, dove Cavour reggendo anche gli Esteri e la Marina aveva in tutto 7 ministri? Con 60 membri più del primo governo di Alcide De Gasperi, che si era inizialmente tenuto gli Interni, gli Esteri e l'Africa italiana e aveva fatto giurare 17 ministri e 24 sottosegretari per un totale, lui compreso, di 42? Più folto perfino delle ultime due squadre di Silvio Berlusconi che era arrivato a toccare quota 98 spingendo gli scandalizzatissimi leader dell'Ulivo e degli alleati a dirne severamente peste e corna?

Neanche il tempo che il Cavaliere nominasse i titolari della sua squadra, nel 2001, e Di Pietro aveva tuonato: «Per soddisfare gli appetiti di partiti e correnti è stata stravolta la riforma Bassanini aumentando il numero dei ministeri. Il che lascia facilmente prevedere che cosa accadrà, con l'infornata di sottosegretari!». «Avevano promesso semplificazione e invece c'è una gran confusione, con la moltiplicazione delle poltrone da spartire per accontentare tutti» aveva concordato, levando grave il sopracciglio, Francesco Rutelli. Troppi ministri, troppi: «Dovevano essere 12 e sono più del doppio, con una valanga di sottosegretari». Per non dire di Pier Luigi Bersani che se n'era uscito con una battuta destinata a essere rimpianta: «Complimenti per la fantasia, manca solo il ministero per la Felicità!».

Sono anni, in realtà, che torna e ritorna il tormentone dei tagli dei ministeri. Aveva cominciato Giovannone Spadolini e da allora non c'è stato candidato, capopartito o «brindellone», per dirla con Luciano «Boss» Moggi, che non abbia giurato che lui sì, avrebbe ridotto le poltrone. L'aveva promesso Berlusconi (Grande Opera fallita sia nel '94 sia nel 2001), l'aveva promesso Prodi: «Penso a una quindicina di ministeri». L'aveva promesso Massimo D'Alema che una sera aveva platealmente estratto a «Porta a porta» il programma dell'Ulivo: «Le leggo la tesi numero 9 dove è scritto: "Ridurre i ministeri e i ministri"».

L'Ulivo era riuscito perfino a farla, la riforma. Bella pronta per il Cavaliere avviato a vincere le elezioni del 2001 e già allora perplesso. Franco Bassanini, autore di quella svolta istituzionale mai applicata, ridacchiava: «Capisco che chi ha fatto troppe promesse preferirebbe avere molte più poltrone da distribuire. Ma con la riforma il numero dei ministri sarà dimezzato rispetto ai governi degli anni Settanta e Ottanta di cui Pisanu ha forse nostalgia». E aggiungeva esaltando il Giappone: «Li hanno ridotti, lì, da 23 a 13!». Evviva.

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Pagina 57

Rita Borsellino
«Curriti! Curriti! Cu-Rita!»



«Curriti! Curriti! Cu-Rita!» Al folgorante sms trasmesso di telefonino in telefonino tra le sinistre italiane eccitatissime per la vittoria alle primarie dell'Unione, non si associò Francesco Rutelli. Che da Roma gelò gli entusiasmi siciliani con la battuta più feroce che potesse dire: «Ci vorrebbe uno Sciascia del 2000». Fu lì che Rita Borsellino ebbe la conferma di quanto già temeva: per la presidenza della Regione Sicilia avrebbe dovuto correre contro Totò Cuffaro e la sua batteria di lanciamissili, bombarde, schioppi e cannoncini costituita dalla più grande rete di rapporti politici, amicali, parrocchiali, sanitari e clientelari mai vista, da sola.

Oddio, non del tutto sola: almeno le apparenze dovevano essere salvate. E infatti non le sarebbe mancato qualche conforto dei leader dell'Unione venuti ora l'uno ora l'altro a fare un comizio o ad abbracciarla pubblicamente come Romano Prodi in una sala da cento posti. Una sala che bastava da sola a dimostrare come i partiti, a Roma, non avessero nessunissima fiducia nel fatto che Rita potesse smuovere folle oceaniche o, almeno, cuffariane. Francesco Rutelli no. Lui, che come leader della Margherita avrebbe dovuto far da garante per i moderati, non si sarebbe manco preoccupato di salvare le apparenze. Non un comizio nell'isola, non un incontro, non una dichiarazione di incoraggiamento che non fosse pelosamente obbligata. Il gelo.

Un gelo che diceva: la Sicilia è la Sicilia, perché sognare? Lui l'aveva proposto, il suo candidato «elettoralmene forte»: Fernando Latteri. Il rettore dell'università di Catania che nella biografia presentata ai lettori della sinistra ricordava di avere insegnato «traumatologia della strada» e aver diretto il pronto soccorso del Cannizzaro e di essere Medaglia d'Oro della Croce rossa e un mucchio di altre informazioni compresa la firma apposta sotto 303 pubblicazioni scientifiche tranne due dettagli: di essere stato deputato della Dc e di aver parteggiato, prima della conversione dovuta alla mancata candidatura a sindaco di Catania, per Forza Italia. Un errore, secondo un pezzo della sinistra: perché la gente avrebbe dovuto votare un simil-Cuffaro se c'era già Cuffaro? La Margherita, con Franco Marini, aveva insistito: «Il nostro candidato è più efficace». Non lo volete? Arrangiatevi.

Ed era tutto lì, nella battuta rutelliana su Sciascia. Traduzione: coi professionisti dell'antimafia non si va da nessuna parte. Lei, la liberale eroina delle sinistre, a sentire tirare in ballo quella storia, sospirò: «Lo ricordano tanti, quell'articolo sul "Corriere" sui "professionisti dell'antimafia" che se la pigliava anche con mio fratello. Non ricordano però la seconda puntata. E cioè che Sciascia e Paolo si incontrarono qualche tempo dopo a Marsala e pranzarono insieme. Mio fratello era rimasto di sale all'accusa di essere uno che faceva carriera combattendo la mafia. Ricordo il suo dolore. Si spiegarono. Sciascia, che era stato male informato, capì. E si rammaricò». Lei no, non sperava che anche Rutelli finisse per chiedere scusa: «Lasciamo stare».

Paolo Cirino Pomicino fu ancora più duro: «Con tutto il rispetto verso la persona, chi usa i morti per accreditare una propria capacità politica è fuori da ogni canone democratico e forse anche morale. In particolare, poi, quando si usa il cadavere di un servitore dello stato i cui orientamenti politici erano di segno nettamente opposto a quelli praticati oggi dalla sorella del morto». «Non voglio neppure rispondere» disse lei. «Sono provocazioni troppo basse. Sono tredici anni che giro parlando di legalità e chiunque mi abbia sentito anche una volta sola tutto può dire meno che io sfrutti per "carrierismo" il nome di mio fratello. Men che meno che io sia giustizialista. Non ho invocato vendette neanche per Totò Riina. Mai.» E i giustizialisti che, secondo gli avversari, gridavano: «Viva la Borsellino! Viva la ghigliottina!»? «Capita spesso che si scambi il giustizialismo con l'ansia di giustizia, che sono cose diverse. Credo di essere abbastanza preparata per sapere distinguere.»

Eppure, nonostante lo scetticismo e il gelo romani, che la sera della sconfitta contro Cuffaro avrebbero fatto piangere di rabbia i ragazzi del comitato «Rita presidente» nella loro decrepita sede dentro lo storico mercato del Capo («Non ci hanno mai creduto: abbiamo perso perché non ci hanno mai creduto!»), un pezzo di Sicilia ha vissuto davvero, nel 2006, una primavera difficile da dimenticare. Se la politica è anche sogno, la Sicilia ha sognato.

«Cu-ffaro no! Cu-Rita sì!!!» diceva uno slogan coniato sul blog della Borsellino giocando sulla preposizione sicula «con». Una botta di genio che riassumeva tutto: non c'era alternativa più alternativa di quella tra Totò «Vasa Vasa» e la sorella del giudice ammazzato in via D'Amelio. Bastava vederla girare per i quartieri disperati e incattiviti delle orrende periferie siciliane. Tra i carretti di arance degli abusivi e i cortili ingombri di vecchie cose sudicie tra cui giocavano i bambini e i muri scheggiati dei bombardamenti americani che nessuno ha mai stuccato e insomma il caos sgarruppato di città e persone che hanno spesso perduto il rispetto di se stesse. Con la voce da dietro i capannelli che urlava: «Travaglio! Ci devi dare travaglio!». E altre che si aggiungevano: «Il travaglio vogliamo!», «Rita, facci travagliare!». E lei, miracolo!, che rispondeva: «Non vi prometto il lavoro. Non vi prometto la casa. Non vi prometto l'acqua. Sono promesse che vi fanno gli altri. Io no. Io vi prometto rispetto. E vi dico che lavorerò sodo. Sarà dura. E sarà lunga. Perché ci vorrà del tempo, tanto tempo, per recuperare. Possiamo cominciare, però».

E chi l'aveva mai visto prima, in Sicilia, un politico che non promette l'acqua? Che non giura che sì, certo, «spessatamente» i soldi per gli acquedotti sono stati misteriosamente mangiati e i fori delle condotte sono stati aggiustati male e i pozzi abusivi che succhiano le falde sono stati tollerati «ma adesso basta, è il momento del riscatto: "Vi dugnu l'acqua! L'acqua vi dugnu!". Esistono leggende. su queste promesse. Come quella dell'assessore Vincenzo Lo Giudice «Mangialasagna» poi in cella per mafia. Che faceva «'u commissariu» all'emergenza idrica, irrompeva nei paesi circondato di portaborse e galoppini, estraeva un bastone che gli aveva regalato un rabdomante forse sudamericano o forse asiatico e declamava: «Acqua, acqua! Dove sei, acqua? L'acqua vi dugnu!».

Risatine degli scettici: e che se ne faceva la Sicilia di una politica che non promette svincoli e medicine gratis e case di ricovero con la cassata la domenica («tutte le domeniche!») e rave party per i giovani e internet point e buoni benzina e una spintarella al concorso e un posto da vigile e centravanti uruguagi per la squadra del cuore e tram elettrici e sopraelevate? Una candidata che invece di «vasare» sulle guance uno a uno tutti gli elettori, baciava solo i bambini e invece che farsi palpeggiare nell'amata calca plebea stringeva la mano alle persone col pudore quasi britannico di certe signore siciliane? Che tra i primi obiettivi, nel caso, avesse avuto «la fortuna o la disgrazia, non so bene» di essere eletta, si proponeva di portare l'educazione civica in tutte le scuole perché «come diceva don Milani ogni parola in più ti aiuta a riscattarti»?

Eppure questa è la forza di Rita Borsellino, nella Sicilia di oggi. Essere vista come una marziana. Ed esserlo, per molti aspetti, davvero. Basti pensare a come, lei erede d'una dinastia di farmacisti conservatori, lei sorella di un magistrato vantato dalla destra come eroe destrorso («Vergogna: è vero che giovanissimo era segretario del Fuan ma mio fratello rifiutava l'etichetta di destra da vivo, figuratevi da morto»), lei che si sente una liberale e non nasconde di avere in gioventù votato per il partito monarchico, è riuscita a diventare a sessant'anni la Giovanna d'Arco, argentea ma salda, bella e gentile, di tutta la sinistra non cuffariana.

Nata e cresciuta alla Kalsa, uno dei quartieri storici più degradati del capoluogo siciliano «abitato da gente misera ma perbene», racconta di aver visto negli anni del sacco di Palermo «la deportazione di quella gente in quartieri mostruosi come lo Zen o il Cep. Dove quel tessuto umano dignitoso venne distrutto dalle scelte criminali di Ciancimino e complici». Ne è convinta: non fu un errore ma una scelta precisa, «perché quando la gente sta male ed è ostaggio della necessità di chiedere favori per avere le cose che le spetterebbero di diritto, si vende spesso l'unica cosa che può vendere: il voto».

Se la ricorda bene, la Kalsa, dove crebbe anche Giovanni Falcone. Abitava in piazza Magione, ha raccontato nel libro Rita Borsellino. La sfida siciliana di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza: «Accanto c'erano i catoi, locali umidi abitati da proletari e sottoproletari». Il quartiere «delle strade che s'incrociano e delle strade che divergono» dove due giovani come Giovanni e Paolo diventano magistrati andando incontro allo stesso destino e altri «diventano picciotti, killer al servizio della mafia, la mafia delle cosche e quella più occulta della borghesia imprenditoriale e politica, la mafia "bianca", la più invisibile, la più insospettabile».

[...]

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Pagina 126

Luis Dürnwalder
Falce, martello e braghe di cuoio



«Ho preso un sacco di fischi! Bene bene! Vuoi dire che ho parlato chiaro!» disse soddisfatto Luis Dürnwalder. Eravamo alla fine degli anni Ottanta e i duri e puri del secessionismo sudtirolese che avevano organizzato il raduno al Brennero coi cugini del Tirolo austriaco erano fuori dalla grazia di Dio dalla rabbia. Come poteva un tedesco venire lì a dire che «l'autodeterminazione è un principio irrinunciabile» ma era «assurdo spostare i confini»? Gli urlarono «Verräter!» (traditore) e gli preconizzarono catastrofi elettorali: «I sudtirolesi ti puniranno, maledetto!».

Alcuni lustri più tardi, il presidente della Provincia di Bolzano è così popolare e tiene così saldo tra paffute dita lo scettro del potere da permettersi tutto. Perfino di sorridere sulla proposta di Francesco Cossiga di concedere al Sud Tirolo un referendum sull'autodeterminazione: «Ma no, è solo una bella provocazione, sarei più felice se ci desse una mano a cambiar la legge perché gli Schützen del Nord possano venire alle adunate da noi coi loro schioppi». E perfino di avere una compagna come Heike Müller che, forte di un nome, un cognome e una chioma da vivandiera degli Schützen, si prende il lusso di intonare nelle serate buone le amatissime canzoni in napoletano: «Staje luntana da 'stu core / a te volo cu 'o penziero...». E tutti in coro: «Ninte voglio e ninte spero...». E via coi calici di Gewürztraminer fino alla cantata finale da ola e lucciconi: «Wohl ist die Welt so gross und weit...».

Mai vista, da queste parti, una coppia così. «Herr und Frau Vulkan» li chiama ridendo qualche amico. Il signore e la signora Vulcano. Lui si alza all'alba, arriva in ufficio alle sei e un quarto, riceve fino alle otto e mezza chiunque si mette in fila, e tira diritto fino a sera accumulando giunte, rinfreschi, riunioni, brindisi, pranzi, incontri con gli agricoltori, adunate con gli Schützen o delegazioni estere e appuntamenti su e giù per la provincia che conosce valle per valle, borgo per borgo e maso per maso, per poi finire a tirar tardi sotto le volte della Felsenkeller, la cantina sociale della Provincia dentro la montagna a Laimburg che talvolta magnifica strizzando l'occhiolino e calcando apposta, lui che se vuole parla un italiano perfetto, sulle consonanti taglienti: «Per farre quezta belizzima grotta abbiamo usato diecimila chili di tritolo. Si sa che noi tirolesi col tritolo abbiamo esperienza! Ah! Ah!».

Non ride: tuona. Lei, occhi azzurri e capelli biondi, ha un bel po' di anni meno di lui ma pare non essersi posta troppo il problema di Gerda, l'ex moglie che qualche anno fa piantò Kaiser Luis urlandogli in faccia: «Ho sposato te, non tutti i sud-tirolesi, addio!».

Se lui non ha un minuto libero, lei non ha un secondo. Le ore che le lascia il lavoro di medico, infatti, le riempie fino all'orlo facendo una quantità di cose inimmaginabili: suona il pianoforte, strimpella la chitarra, monta un cavallo, tira di boxe, va in palestra per mantenersi in forma come cintura nera di kick-boxing, scia, cucina, organizza serate con gli amici in cui passa dalle canzoni popolari pugliesi a quelle scandinave e trova pure il tempo di andar per botteghe a scegliere le cravatte e le camicie per il suo orso personale, al quale ha dato una sistematina.

«Dürni», come viene chiamato con un'affettuosa amputazione del cognome, non ha mai badato troppo a certe cose. Semmai si è sempre vantato, al contrario, di avere quella durezza furba da contadino: «Scarpe grosse e cervello fino». Figlio di un agricoltore montanaro di Falzes, in Val Pusteria, è rimasto legato al paese come un'edera a un muretto e ci passa oggi le vacanze in una bella casa dove, quando è presente, issano la bandiera sul pennone: il Presidente c'è.

[...]

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