Copertina
Autore Daniel A. Stelmic
Titolo L'enigma del papa mago
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2010, Eretica speciale , pag. 398, cop.fle., dim. 15x21x2,2 cm , Isbn 978-88-6222-135-1
LettoreGiovanna Bacci, 2010
Classe narrativa italiana , storia medievale , misteri
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Indice


PRINCIPIUM                                        3
Gerberto va in pace                               5

CONTINUATIO                                      15


PARTE PRIMA — Lantelmo e il Santo                17

1. Lantelmo                                      19
2. Noviziato                                     35
3. Per ludum et iocum                            58
4. Pietro il santo                               66
5. La fuga                                       77
6. In cammino                                    84
7. Cluny                                         94
8. Il ritorno                                   107
9. Lantelmo a Rossena                           122


PARTE SECONDA — Lantelmo in balia degli eventi  145

1. La strada si fa pericolosa                   147
2. La Terrasanta                                158
3. Il quadrato numerico                         166
4. La cattura                                   172
5. Figlio adottivo                              186
6. La cattività mediorientale                   196
7. La caduta di Acri                            211
8. Ruggero e il busto                           221
9. Tre anni in mare                             247


PARTE TERZA — Lantelmo fra demoni e angeli!     261

1. Celestino V                                  263
2. Il cane e l'agnello                          285
3. L'inseguimento continua                      307
4. Lantelmo fra eresia e inquisizione           328
5. A Rerum Extremarum Principio Omnium          342
6. Agarthi                                      356
7. Il nome di Dio                               366


CONCLUSIO                                       387

... su Pietro 'a Maiella                        389
... su Baptiste                                 390

EPILOGUS                                        391


 

 

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Pagina 19

1. Lantelmo

Qui si parla di Lantelmo, dei suoi interessi, di uno strano libro, e si descrive del suo incontro con Dio.


Judica me, Deus, et discerne causam meam de gente non sancta: ab homine iniquo, et doloroso èrue me.

Queste sante parole pronunciate dal re Davide hanno sempre aperto i miei giorni: possano guidarmi, ora, nel resoconto della mia vita...


Io sono Lantelmo da Rotopium.

Nacqui in Contrada Nuova, un borgo di poche casupole sorto sul sentiero che da Rotopium porta a Vercelli, nella primavera dell'anno del Signore 1256 e precisamente il giorno 4 del mese di giugno, la domenica di Pentecoste. L'anno che vide i miei natali fu terribile e ricordato per decenni: la sterilità colpì ogni femmina di animale e molte donne non portarono a termine il parto. Mio padre mi disse che per tutto l'anno piovve dieci giorni soltanto e la carestia colpì ogni regione portando fame ovunque; ogni strato della popolazione fu colpito dalla penuria di cibo; abbienti e meno abbienti diventavano smunti come i più poveri e se si trovava in vendita un poco di cibo, il mercante poteva alzare il prezzo a suo piacimento. Dopo essersi cibata di quadrupedi e uccelli, la gente, sotto la stretta mortale della fame, cominciò a nutrirsi di ogni sorta di carne, persino di cavalli e anche di bestie morte, rettili e rane. Alcuni uomini, resi dalla fame simili a bestie immonde, si costrinsero, ahimè, a divorare carne umana! Storie, che parvero più simili a invenzioni, narrarono di chi si avventurava da solo per i sentieri di campagna: non ritornavano più, ghermiti e uccisi da bande fameliche, cotti sul fuoco come fossero vitelli. Altri si organizzarono nel rapimento dei pargoli: adescandoli con un frutto o altre leccornie, li inducevano a seguirli in posti appartati, li trucidavano e li divoravano. In molti villaggi persino i morti furono dissepolti e la loro carne marcescente usata per calmare la fame. Per la santissima Grazia divina, Rotopium e i paesi vicini furono soltanto sfiorati da quella devastazione, ma oltre la città di Vercelli, nelle contrade più vicine ai monti, accadde tutto ciò che la mia penna ha appena vergato.

La mia famiglia era povera, ma non troppo; mio padre, Giacomo, che Dio l'abbia in gloria, lavorava come falegname e prestava la sua umile opera per chiunque ne avesse bisogno, amici, signori e anche monaci; in cambio del suo modesto ma preciso lavoro, egli riceveva ciò di che sostentare Anna, sua moglie e mia madre, mia sorella Clara e me. Mia madre, che il Signore non mi tolga mai il suo dolce ricordo, ci allevava con grazia, senza mai farci mancare nulla, istruendoci sui nostri doveri e alleviando i momenti tristi con il suo amore. Purtroppo un'epidemia di febbre che colpì il nostro villaggio dopo l'Epifania del 1260, strappò la nostra dolce mamma dalla vita terrena, così come decine di altri paesani. Fu un momento tragico per tutti, ma soprattutto per me; lei era la luce della notte, il fuoco al quale riscaldarmi, il prato fiorito sul quale riposare e la speranza di un altro giorno felice. Mio padre Giacomo si trovò in una disgraziata situazione: il suo lavoro, a volte, lo portava per molti giorni fuori casa e nonostante mia sorella Clara mi fosse maggiore per dieci anni, non aveva fiducia nel lasciarci soli; erano troppi i malviventi in giro e circolavano storie di rapimenti di bambini da parte di loschi individui in combutta con i mori; così, pensando giustamente al bene di Clara e del suo piccolo Lantelmo, accettò le proposte di due suoi conoscenti, Gaudenzio, signore di Lomello e dom Luigi da Caresana, decano della badia dei santi Andrea e Valeriano, priorato situato nei pressi di Rotopium, sulla strada chiamata Reale che porta a Rosasco. All'epoca, Clara aveva già quattordici anni e fu richiesta come sposa dal signore di Lomello per il suo terzogenito, Adelmo, un ragazzotto per bene, appassionato di cavalli e bravo addestratore. In principio fu restia a obbedire alla richiesta di nostro padre ma, conosciuto Adelmo, nacque in lei la scintilla dell'amore e tutto si sistemò.

Io ero ancora molto piccolo, ma dom Luigi mi conosceva bene e sapendo la situazione della mia famiglia, mi richiese per insegnarmi la dottrina cristiana, assicurandomi così un futuro da monaco cluniacense. Infatti, la badia dei santi Andrea e Valeriano o più semplicemente il priorato di San Valeriano, come lo si conosceva in paese, era un bene dell'ordine cluniacense sin dal lontano 1082. La chiesa aveva origini ancora più antiche; si raccontava che addirittura Carlo Magno la cedette definitivamente a papa Adriano I nel 781 in seguito agli accordi di Roma, nei quali si generò lo Stato della Chiesa. Successivamente, il signore di Lomello si impossessò della costruzione, richiedendo una nuova consacrazione e dedicandola al Santo Salvatore e ai santi Matteo apostolo e Valeriano martire. Nel tempo, il priorato passò di mano in mano finché, nel 1082, una serie di atti di donazione trasferì la proprietà della badia di San Valeriano da una famiglia longobarda del luogo al prete Pietro, detto Donadio, il quale, a sua volta, la donò ai monaci cluniacensi di Lomello. In quegli anni, i cluniacensi impegnarono molte delle loro risorse, economiche e politiche, nella formazione di un'organica provincia, la Lombardia, in grado di proporre una mediazione fra l'Impero e la Chiesa nel periodo più acceso della lotta per le investiture, un modello di quiete monastica che potesse risolvere le varie contraddizioni umane. Ai tempi in cui passai sotto la protezione di dom Luigi, il priorato di San Valeriano era il secondo per grandezza e importanza della Lomellina ed il gonfalone araldico delle due chiavi e della spada in campo rosso di Cluny trionfava sopra il pesante portone d'ingresso.


Gli anni passarono, e nel 1265 anche il mio caro papà fu chiamato in cielo. Cadde durante la costruzione di una nuova chiesa a Rotopium, dedicata a san Michele arcangelo, mentre cercava di posizionare la trave portante del tetto. Per noi figli fu una vera disgrazia, ma lo fu anche per tutto il paese: un incidente mortale durante la costruzione di una chiesa risultava essere presagio di sventura, così, da ogni borgo e persino dalle vicine città di Vercelli e Novara arrivarono sacerdoti e diaconi per la consacrazione di una pieve non ancora terminata. Dopo quel fatto, persi di vista anche mia sorella Clara e soltanto saltuariamente, grazie all'interessamento di dom Luigi, potei conoscere la sua sorte e scriverle lettere alle quali non ricevetti mai risposta.

L'anno successivo, in vicinanza del mio decimo compleanno, dom Luigi, un giorno di maggio, decise di farmi conoscere il priorato. Fino ad allora avevo vissuto in essa, giocato negli orti e studiato la dottrina nello scriptorium senza minimamente interessarmi del luogo che mi ospitava e, quel giorno, il mio caro precettore giudicò opportuno colmare le mie lacune sul mondo circostante, cominciando per l'appunto dal priorato che mi era casa. Era un caldo pomeriggio e dopo aver eseguito i miei compiti di studio e di lavoro, avevo raggiunto l'orto. Laggiù, tutto indaffarato a schiacciare insetti dalle rose, c'era Andrea, il giovane giardiniere e ortolano, uno dei tanti monaci laici incaricati di compiere i lavori pesanti del priorato. In effetti, una delle conseguenze dell'antica riforma cluniacense verteva sul fatto che, nell'abbazia generale e in ogni priorato, i monaci chierici dovevano assolvere compiti esclusivamente inerenti all'uffizio divino e di ricopiatura dei manoscritti.

I cluniacensi sono agnelli incontaminati e immacolati, fortissimi guerrieri, esercitatissimi combattenti della battaglia divina; essi devono difendersi dai nemici con lo scudo della fede e ferirli con la lancia della parola di Dio. In osservanza della nuova regola, nel cenobio venivano invitati artigiani e manovali che, denominati monaci laici, servivano l'abbazia lavorando i terreni e svolgendo mansioni pesanti, quali quelle di falegname, fabbro, ortolano e così via. Nel cenobio era d'obbligo il silenzio; ai monaci chierici era consentito l'uso della voce soltanto per pregare o cantare inni, ma quando si trovavano in libertà dai canoni dell'uffizio divino, avevano il vincolo della taciturnità. Esisteva un codice composto da 296 segni manuali, grazie al quale gesticolare e comunicare ai confratelli ogni cosa mantenendo la più assoluta pace. Chi violava queste regole veniva condannato a espiare la colpa con l'isolamento assoluto nella propria cella, luogo ove il monaco giungeva persino a infliggersi punizioni corporali con il cilicio oppure ancor più pesantemente con strumenti di tortura leggera come fruste o verghe di legno. I monaci laici e gli ospiti dell'abbazia, che conoscevano il linguaggio dei segni, dovevano sottostare alla regola del silenzio, mentre chi non ne era al corrente poteva parlare ma a bassissima voce e solamente per richieste importanti. Io avevo imparato il linguaggio gestuale alla perfezione, ma il più delle volte preferivo utilizzare la voce.

Il priore era un uomo meraviglioso, e interpretava la regola del silenzio in modo abbastanza tollerante, lasciando correre le mie intemperanze giovanili e soprattutto perdonando i monaci chierici che discutevano con me.

"Benvenuto Lantelmo!" disse Andrea, felice di vedermi, coprendosi la bocca e parlando con voce flebile: "Anche oggi vieni ad ammirare le nostre rose?":

"Sono così belle..." dissi annusandone una, appena mondata dai pidocchi.

"Sono belle, ma difficili" continuò Andrea, raccogliendo un piccolo annaffiatoio e versando un liquido verdastro sui boccioli. "Bisogna curarle ogni giorno e, a inizio estate, anche più volte al giorno. I pidocchi volano e ritornano all'alba e al crepuscolo, dopo il tramonto, sono anch'essi creature di Dio, ma ne farei volentieri a meno".

"Cosa metti sui fiori?" domandai, incuriosito.

"È una pozione contro i pidocchi, un segreto di Luigi, ma a te posso svelarlo: un liquido ottenuto facendo macerare per tre giorni, durante la luna nuova, acqua, foglie di pesco e ortiche. L'odore è nauseante, ma la sua efficacia è proverbiale":

Volli annusare l'intruglio, ma mai l'avessi fatto! Il mio naso fu colpito da un lezzo di strame decomposto, misto all'odore pungente che emanano i semi di pesca; feci alcuni passi indietro e se non rividi il mio pranzo fu solo per miracolo.

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Pagina 58

3. Per ludum et iocum

Qui si narra del codice XXXIV, della scoperta di un mistero e dell'arrivo di tre personaggi.


Il giorno seguente all'esecuzione del corpo di Sinibaldo, dopo Compieta, ero nella mia cella intento a meditare sulla difficoltà di essere monaco. Il sonno tardava a venire forse a causa del freddo pungente o del russare dei miei fratelli, così decisi di non sforzarmi in una vaga ricerca del riposo. Accesi la piccola candela di sego e presi dal tavolino il libro donatomi da Ludovico. Quando le mie palpebre avrebbero cominciato a socchiudersi, allora avrei assecondato il sonno, ma soltanto allora. Peo non apprezzava quelle levate serotine e ogniqualvolta mi alzavo nel cuore della notte, esternava alcuni squittii di rimprovero e tornava nella sua crepa.

Il codice nelle mie mani dimostrava in ogni parte la sua vetustà. Il cuoio della copertina era logoro e in alcuni punti mancavano ampi lembi di pelle. La legatura, molto precaria e sfilacciata, faceva fatica a tenere insieme le poche pagine e i fogli secchi e in alcune zone macchiati di muffa, denotavano una discontinuità nella manutenzione. In compenso le parole erano comprensibili e chiare, scritte in un buon latino, di certo vergate con inchiostro di prima qualità ottenuto con nero fumo, che non sbiadisce nel tempo. Non vi erano miniature o disegni, ma il testo, qua e là, era sottolineato e accompagnato, sui bordi, da annotazioni scritte dalla mano di Gerberto. Sulla prima pagina appariva un quadrato composto da venticinque caselle, ognuna delle quali ospitante una lettera. Eccone una riproduzione:

R O T A S
O P E R A
T E N E T
A R E P O
S A T O R

Quelle cinque parole potevano essere lette in ogni modo: da sinistra a destra, da destra a sinistra, dal basso in alto e dall'alto in basso e sempre si ottenevano le solite cinque: rotas, opera, tenet, arepo e sator. Nelle pagine successive, in tutto dodici, un certo Marzius narrava una vicenda avvenuta al tempo dell'imperatore romano Tiberio Claudio Nerone, vicenda che vide come protagonisti due fratelli e i loro amici.

Costoro si chiamavano Tullio e Simplicio, ed erano appassionati di giochi di parole, tanto da indire gare e ritrovi, il cui unico scopo era di risolvere i loro strepitosi indovinelli o anagrammi. Un giorno di primavera, precisamente il 5 ante calende Maius dell'undicesimo anno di Tiberio, il nostro 27 aprile del 25 dopo Cristo, alla vigilia delle feste dette Floralia in onore di Flora, dea della primavera, Tullio e Simplicio organizzarono un concorso a enigmi, mettendo in palio ben dieci pecore del loro allevamento di famiglia. Vista la posta in gioco, si presentarono in molti e quando i due fratelli proposero il loro indovinello, i concorrenti, circa cinquanta, cominciarono ad arrovellarsi. L'indovinello diceva appunto: Rotas Opera Tenet Arepo Sator, con le cinque parole sistemate in un quadrato, e la domanda posta dai fratelli era: "Chi è Arepo?":

Già di per sé, il quadrato suscitò enorme stupore, in quanto era comprensibile da ogni parte lo si leggesse, ma la risoluzione alla domanda su chi fosse Arepo si dimostrò ostica. Passarono i giorni e nessuno riuscì nella prova. Il termine per rispondere al quesito era stato fissato per il 5 ante nonas Maius, sei giorni dopo, alla fine delle Floralia. Tullio e Simplicio risultarono vincitori, perché nessuno dei partecipanti riuscì nell'impresa di risolvere l'indovinello; ma la soluzione era sempre stata sotto gli occhi di tutti. Infatti Tullio divise il quadrato in due parti, mantenendo la lettera N in comune:

R O T A S
O P E R A
T E _ _ _
_ _ N _ _
_ _ _ E T
A R E P O
S A T O R

Quindi anagrammò le due suddivisioni e ottenne per entrambe:

A PATER OSTER O
N
A PATER OSTER O

Poi sistemò le parole trovate in una croce con la lettera N come punto centrale, così:

A
 
P
A
T
E
R
A PATERNOSTER O
O
S
T
E
R
 
O

La risposta alla domanda: "Chi è Arepo", era così svelata. Il misterioso Arepo altri non era che il loro padre, Apicio Ostiense, le cui iniziali del nome erano appunto A e O.

La cosa strana era che il quadrato in questione era conosciuto da molto tempo in ambiente monastico. Lo si utilizzava per far divertire i bambini fra un dovere e l'altro, però tutti, ai miei tempi, conoscevamo il quadrato con le parole invertite: Sator Arepo Tenet Opera Rotas e non viceversa. Quel libro svelava finalmente l'origine del gioco di parole, ma favoriva la nascita di un nuovo mistero: perché nacque come Rotas Opera Tenet Arepo Sator e passò alla storia come Sator Arepo Tenet Opera Rotas? La risposta alla domanda era proprio nel codice XXXIV, ma non fra la narrazione di Marzius, bensì nei bordi ingialliti dal tempo e colmi di annotazioni. Gerberto utilizzò il libercolo per qualche motivo sconosciuto. Le note, molte delle quali numerate, che seguivano le frasi originali del testo, parlavano di fatti completamente estranei al tema del libro: vi erano versetti del Vangelo di Matteo, frasi poetiche inventate forse dallo stesso Gerberto e annotazioni spontanee sul suo umore, e anche la descrizione dell'abbazia di Bobbio... ma un'unica frase pareva discostarsi totalmente da quelle numerose considerazioni senza alcun filo logico, una frase scritta in inchiostro rosso e posta al termine del racconto di Marzius: Explicatio est A Rerum Extremarum Principio Omnium.

Che la soluzione sia all'origine degli elementi è ciò che viene insegnato in ogni monastero, abbazia, convento o semplice chiesa del mondo intero. Dio è l'origine di tutte le cose, per cui Egli è la soluzione. Il fatto bizzarro era che le lettere maiuscole della frase scritta da Gerberto componevano proprio la parola AREPO... la soluzione era Arepo? Che mai avrà voluto dire?

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Pagina 196

6. La cattività mediorientale

Trascorrono i primi sei anni. Lantelmo si ritrova fra fede e amore, quindi ritorna alle due pergamene e un'illuminazione lo porta a scoprirne il segreto; infine, l'incontro con uno strano tipo cambierà molte cose.


Trascorsero sei lunghi anni, senza che nulla giungesse a modificare il mio stato di prigioniero-figlio. Mi accorsi di essere divenuto uomo: era la primavera del 1281 quando entrai in una specie di crisi mentale. La mia vita galleggiava sopra un mare calmo, scrollata, si fa per dire, solamente da un leggero vento di brezza, che null'altro apportava sennonché noia e inutilità. Alì era fermo sulla sua decisione e, più di una volta al mese, rispondeva alla mia domanda, l'unica che sentivo lecita fare: "Quando potrò andarmene?".

"Finché non avrò raggiunto i pascoli celesti!".

Alì non pareva contrariato da quella mia pedissequa questione, anzi, quando tardavo a formularla egli pareva preoccupato e alcune volte mi rispondeva senza aver udito alcuna domanda.

Quando la crisi giunse, mancavano cinque mesi al compimento dei ventitré anni. Avevo imparato i numeri nuovi e le loro formule; sapevo calcolare la superficie e il volume di ogni figura piana e di ogni solido regolare e irregolare; alternavo la giornata fra studio e preghiera, preghiera e studio e avevo imparato l'arabo in modo da comprenderlo e parlarlo come fosse una seconda lingua madre. Quel giorno, l'oasi pareva trasformata dalle bizze del tempo: un'aria fredda da settentrione aveva ingiallito le foglie delle palme, portando con sé persino la pioggia. L'erba ne aveva trovato giovamento e mille fiori nacquero a colorare lo spoglio deserto tutt'intorno a Mofaghaa. Fu uno spettacolo entusiasmante persino per gli anziani e addirittura Ibrahim, del quale scoprii la vera età, ottant'anni, aveva assistito alla fioritura del deserto soltanto tre volte. Mi trovavo nel sentiero che dalla casa di Alì conduceva verso l'esterno dell'oasi e seguivo l'acqua del ruscello che, di lì a poco, sarebbe stata fagocitata dal terreno. Piccoli pesci azzurri si rincorrevano fra le piante acquatiche e due lucertole saettarono sui miei piedi, in preda a una lotta solo apparentemente violenta. Pregavo ad alta voce e quando terminai la mia orazione, percepii una risata. Mi bloccai e, voltando il capo in ogni direzione, tentai di scorgerne l'autore.

"Ehi, sono qui!" disse una voce di ragazza ma, nonostante gli sforzi, non riuscii a capire dove ella fosse nascosta.

"Chi sei? Ti prendi gioco di me?" domandai al vento.

"Sono quassù, alza gli occhi!" era una voce familiare ma alla quale non riuscivo a dare ancora un volto. Portai lo sguardo al cielo e l'azzurro fu interrotto dalla chioma di una grossa acacia dai fiori gialli e, sopra un ramo, accovacciata e sorridente, vidi Zamira, una nipote di Alì che ogni tanto soleva passare dalla grande casa per aiutare le mie sorelle nelle faccende quotidiane. Il fratello di Alì, nonché padre di Zamira, era morto molti anni prima in battaglia per mano delle spade templari. Alì ne sposò la moglie, ma la costrinse ad abitare con le tre figlie in una baracca ai piedi della collina, quasi fuori l'oasi. Zamira aveva poco meno della mia età, capelli neri come la gemma dello stagno, pelle ambrata come i datteri maturi e un volto angelico sempre sorridente.

La sua vista mi agitò. Tempo addietro avevo già notato i suoi sguardi penetranti e fugaci, ai quali rispondevo con un cenno della mano e nulla più, ma quel giorno il suo ardire superò ogni limite. Guai, infatti, alle ragazze ancora da maritare che si intrattenevano con un uomo di nascosto: rischiavano la fustigazione!

"Cosa fai lassù, sei impazzita?" sussurrai, temendo che il vento potesse condurre al villaggio i nostri discorsi. Zamira in un battito d'ali saltò dal ramo, piombando fra le mie braccia e facendomi crollare a terra. Grazie a Dio, nessuno si fece male. Zamira mi aiutò ad alzarmi e, cautamente, mi portò fra il sipario di un cespuglio. Sorrise, quindi mi accarezzò il viso. Il suo tocco morbido e proibito mi fece palpitare. Addirittura, vedendomi pietrificato dall'imbarazzo, mi prese la mano destra e se la portò sul cuore stringendomela forte, poi avvicinò il volto profumato, mi diede un piccolo bacio sul naso e corse via. Vedendola allontanarsi, il desiderio di poterla riabbracciare si fece a ogni passo più forte; il cuore prese a saltarmi nel petto come fossi inseguito da un brigante e le gambe mi parvero della stessa consistenza della polpa di un dattero maturo, tanto che crollai in ginocchio, mantenendo lo sguardo fisso su Zamira finché una curva del sentiero la nascose ai miei occhi.

Dunque, sono queste le sensazioni dell'amore che un uomo prova per una donna. Mai, nemmeno quando in estasi sognavo la mia dolce mamma, avevo provato sintomi così coinvolgenti. Come mi capitava spesso pregando, avevo soltanto un pensiero nella mente, ma quella volta era un pensiero carnale, fisico, e siccome l'amore vero altro non è che la più pura delle preghiere e le nostre preghiere quotidiane sono la via per raggiungere l'amore vero, Zamira, agli occhi della mia anima, altro non era ché un angelo e tale doveva rimanere!

Non avevo ancora preso i voti e chissà quando li avrei potuti prendere, ma avevo promesso la mia vita a Cristo e anche se molti anni erano trascorsi dal giorno della tonsura e la mia chierica era coperta dai capelli, ero sempre un novizio cluniacense, sperduto forse, confuso, rinchiuso, tentato dai fatti ad abbandonarmi al naturale svolgimento della vita, ma ero e dovevo rimanere sempre un monaco. Dio doveva essere il mio scopo; doveva rimanere il mio unico motivo di vita e, dal momento che Dio è amore, nessuno avrebbe potuto amarmi di più. Così tentavo di risolvere quella crisi obbligandomi a pensare a Dio e a non curarmi delle intenzioni di Zamira e della mia carne. Ma sta scritto: 'la carne è debole', e io potei constatare che il termine debole è soltanto un blando sinonimo... la carne sorregge l'anima come l'acqua di un ruscello riesce a mantenere a galla un bue... la carne ama trastullarsi con gli scrupoli dell'anima al solo fine di eluderli... non resiste a nulla e tende a far precipitare anche l'anima... la carne è neve al sole estivo... è un fiore di campo in balia del gelo invernale... ma la carne è astuta, finge di resistere allo spirito per poi tradirlo nel momento più critico!

Tutte queste parole sono per definire, o meglio, giustificare la sconfitta del mio spirito a favore della carne!

Era estate piena, la noia pervadeva ogni dove. Gli abitanti del luogo passavano il tempo a dormire, mentre a me la preghiera non bastava più. Durante una notte in cui anche i grilli desideravano il silenzio, vagavo per l'argine del ruscello in cerca di refrigerio, ma invece della frescura, trovai Zamira.

Ella ridusse il mio spirito a un silente pozzo vuoto, ove neppure l'eco potrebbe propagarsi. Inebriò i miei sensi e mi donò sensazioni primordiali, mi fece uomo, io che fino ad allora ero stato soltanto un fanciullo.

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Pagina 217

"Sai nuotare Baptiste?" domandai, stringendolo per le spalle.

Egli annuì leggermente.

"Bene, io non so quasi stare a galla, dovrai aiutarmi!".

"Perché non una di queste!" gesticolò, indicando un'altra volta le navi genovesi.

Io rimasi in silenzio e potei udire, come tutti di lì a poco, un sibilo terribile. In pochi istanti, un dardo infuocato colpì la prima nave genovese, trapassandone lo scafo come fosse di pergamena; cominciò un incendio e gli spaventati marinai si buttarono in mare. Quasi contemporaneamente, all'altra nave toccò la medesima sorte.

"Ecco perché!" esclamai verso Baptiste. "Muoviamoci, ora!".

Corremmo lungo il grande molo, sbraitando e agitandoci in modo da farci notare sul "Falco" e quando giungemmo al termine del pontile, qualcuno si accorse di noi. La nave era a poco più di una pertica e si stava inoltrando verso il mare aperto, verso la salvezza!

"Buttiamoci, Baptiste!" non appena urlai quelle due parole, il mio compagno si lanciò, raggiungendo ben presto le onde azzurre, penetrandole a piedi uniti. Attesi la sua riemersione, quindi posi sotto la tonaca la mia sacca da viaggio e, col cuore fra le mani, mi tuffai. Alcuni istanti dopo un colpo di catapulta rovinò sulla punta del molo, schiantandosi in una miriade di proiettili grandi quanto un pugno e ardenti come le fiamme dell'inferno. Quando riemersi fui raggiunto a una spalla da uno di quegli appiccicosi frammenti. Grazie a Dio, l'acqua spense le fiamme e con gesti energici riuscii a ripulirmi, ma dovevo raggiungere la nave! Dal castello di poppa, alcuni uomini osservavano la nostra arrancante avanzata in un mare agitato dal vento, poi qualcuno lanciò una lunga cima, al termine della quale c'era un grosso galleggiante di sughero. La nave non si fermò, ma la cima era molto lunga e, rilasciata lentamente da alcuni uomini, fu la nostra salvezza. Fummo issati a bordo in poco tempo e accolti dai marinai come eroi. Ci offrirono abiti asciutti e lenirono il dolore della scottatura alla spalla con olio di oliva; io controllai se il mio tesoro fosse intero. Lo era e quando il trambusto dovuto alla nostra impresa terminò, ci raggiunse il capitano.

In silenzio, quell'uomo dall'aspetto teutonico ma dal volto tipico dei popoli meridionali d'Italia, si fece avanti fra due ali di marinai. Gli uomini dell'equipaggio, venti persone, lo osservavano con fiera ammirazione, mentre i passeggeri, per lo più templari e ospitalieri, in fuga da Acri assediata, si limitavano ad assistere con indifferenza al suo incedere marziale.

"Benvenuti a bordo!" esclamò con le mani aperte in un chiaro segno di fratellanza.

"A nome mio e del mio compagno, purtroppo privo della lingua, voglio ringraziarti, capitano, e consegnare le nostre vite al tuo servizio, come profondo segno di riconoscenza per averci salvati. Che Maria, madre di Misericordia, possa esaudirti ora e sempre!".

Il mio intervento giunse al cuore di quell'uomo di mare, penetrandone la scorza temprata dagli anni e dalle mille imprese.

"Chi sei, dunque, mio buon naufrago;" continuò il capitano, accompagnandomi, con Baptiste, all'interno del castello "che mi saluti come un monaco?".

In breve raccontai la mia storia dall'imbarco a Pisa sino alla partenza dall'oasi, usando poche e semplici parole ma tenendo nascosto il vero motivo scatenante di quella vicenda.

"Ora posso conoscere il tuo nome, mio valoroso comandante?" domandai, curioso anche di sapere la rotta della nave sulla quale ci trovavamo.

"Io sono frate Ruggero da Flor, cavaliere del Tempio e comandante di questa gloriosa nave varata col nome di 'Falco' a Genova e poi battezzata dal gran maestro del Tempio, Guglielmo di Beaujeu, 'Falco del Tempio' ma detta da noi, affettuosamente, il 'Falcone!'".

Ruggero era alto e ben messo, di complessione robusta, braccia al pari delle cosce di un ragazzino e gambe imponenti come soltanto i teutonici hanno. Vestiva la tonaca rossa con la croce bianca e, quando era bardato di tutto punto, faceva davvero impressione. Aveva occhi marroni e grandi, sovrastati da una fronte ampia e delimitata verso il basso da rade sopracciglia nere. I lineamenti del viso erano chiaramente mediterranei, di certo ereditati dalla madre, originaria di Brindisi. I suoi modi gentili lo facevano assomigliare a un saggio abate, capace con poche parole di calmare qualsiasi diatriba, ma era di più: Ruggero, nel momento del bisogno, metteva da parte la sua indole bonaria, trasformandosi in un perfetto comandante. Ogni suo ordine era chiaro e appropriato e tutti lo ascoltavano con attenzione; guai a chi osava farsi ripetere una richiesta!

Il "Falco" era diretto verso meridione, nel porto di Athlit, detenuto dai fratelli ospitalieri e ritenuto zona franca persino dai saraceni. Laggiù, nell'entroterra, c'era Chateau Pelérin, il castello dei pellegrini. Il "Falco" doveva far scendere donne e bambini ad Athlit, in modo che raggiungessero il castello e proseguire per la Cilicia, precisamente alla rocca di Roissel, posta a poche miglia a settentrione di Antiochia, sede provvisoria del Gran Capitolo del Tempio nonché rifugio del maestro.

Acri fu perduta in pochi giorni, dopo la nostra avventurosa partenza. I templari e gli ospitalieri difesero la roccaforte con sprezzo della loro stessa vita... fu un vero massacro! I saraceni riesumarono il peggio della loro tradizione barbarica, torturando, crocefiggendo, impalando e squartando ogni prigioniero soldato. Al priore della commenda templare di Acri fu riservata una sorte tremenda: furono abbassati fino a terra, con l'aiuto di grossi buoi, due alberi cresciuti a una pertica l'uno dall'altro. Erano piante tipiche di quella zona, alte, con pochi rami laterali ed estremamente flessibili ma resistenti alla rottura quanto il nervo di toro. Le estremità dei due alberi vennero fissate al terreno con robuste corde, in modo da distare fra loro soltanto quattro piedi; all'albero di destra legarono il braccio e la gamba destri del priore, mentre a quello di sinistra, le altre due membra. Al malcapitato ma fiero guerriero di Dio, reo di aver comandato la resistenza cristiana di Acri, fu domandato di abiurare Cristo e di abbracciare l'Islam come unica e vera religione rivelata, ma il priore, recitando il Pater Noster, si immolò senza minimo dubbio alla causa di nostro Signore. Simultaneamente vennero recise le corde di tenuta e, veloci come il fulmine, le due piante si riportarono alla loro primitiva postura. Per un breve periodo di tempo, le due cime rimasero agganciate al corpo del priore ed egli stesso pareva un angelo dalle immense ali ma poi, quando la forza e la resistenza degli alberi ebbe la meglio, il povero templare fu diviso in due e tutto ciò che vi era al suo interno fu scaraventato verso l'alto per poi ricadere come tetra pioggia sui malvagi e perfidi esecutori.

Ogni quanto, mio caro lettore, i tuoi occhi increduli hanno sinora letto sulla fine del priore di Acri, mi è stato fedelmente riportato da un certo Erasmo, fratello del Tempio, che per amore della propria vita, abiurò la fede in Cristo Signore e dimorò per dodici anni a Gerusalemme, per poi ritornare nel paese di Mortara agli inizi del XIV secolo.

Durante la battaglia di Acri, perse la vita da valoroso combattente e da timorato servitore di Dio anche il gran maestro del Tempio Guglielmo di Beaujeu, e quella scomparsa cacciò i fratelli superstiti nel più cupo sconforto.

La caduta di Acri nella primavera del 1291 e la conseguente uccisione del gran maestro hanno, in un certo senso, dettato l'epitaffio di morte del Tempio!

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1. Celestino V

Qui si parla del conclave più lungo e Lantelmo ritrova un vecchio amico. Celestino si racconta e Lantelmo scopre il codice di Gerberto ma, nel giorno di santa Lucia, il papa rinuncia!


Il 4 aprile 1292 morì a Roma Niccolò IV, il papa delle missioni, iniziatore di un'opera di evangelizzazione dei territori dell'Europa orientale, dell'Armenia e persino della Cina grazie al viaggio del francescano Giovanni da Montecorvino, che penetrò nel Celeste Impero passando attraverso la Persia e l'India.

In quegli anni, la situazione politica italiana era estremamente complessa e tutto fuorché tranquilla. Nelle regioni centro-settentrionali proseguivano efferati e senza sosta gli scontri fratricidi fra guelfi e ghibellini e nel meridione si facevano implacabili le lotte fra angioini e aragonesi. Ma nemmeno in Laterano, ombelico del mondo cristiano, la situazione era tranquilla, in quanto le due fazioni cardinalizie degli Orsini e dei Colonna continuavano ad affrontarsi malamente all'interno del conclave appena aperto in Santa Maria Maggiore; per di più, la definitiva perdita dei Territori latini di Terrasanta aveva portato un alone di sconforto in ogni ambito religioso occidentale. Nel corso del 1292 e del 1293, il conclave si spostò in diverse sedi romane: da Santa Maria Maggiore si trasferì nell'estate a Santa Sabina, per poi riunirsi, verso l'autunno, nel Tempio di Minerva, evidenziando un clima disagevole fra i cardinali e un'intesa ben lungi a venire fra le due illustri famiglie dell'egemonia ecclesiastica. Nel giugno del 1293, a causa delle precarie condizioni igieniche della città eterna, dove scorrazzavano più topi che cristiani, divampò una breve quanto violenta pestilenza. Molti videro in quell'epidemia un segno di Dio, che non apprezzava le beghe degli umani e anche per il fatto che lo stesso morbo aveva interessato Roma nel 1287, quando, allo stesso modo di sei anni più tardi, si stava svolgendo l'elezione del papa. I morti cominciarono a farsi numerosi e la malattia colpì anche due cardinali elettori. Uno di loro, il francese Giovanni Cholet, cardinale di Santa Cecilia morì e subito dopo le esequie all'unanimità si decise la sospensione del conclave. Finita l'epidemia, i cardinali si divisero: i Colonna e i loro affiliati rimasero a Roma, gli Orsini con i loro accoliti si ritirarono a Rieti, mentre il cardinale Benedetto Caetani riparò a Viterbo, dopo un periodo di sosta nella nativa Anagni. Le diatribe fra le due famiglie continuarono sino a ottobre, quando, di comune accordo, i cardinali scelsero la sede vescovile di Perugia ma, nonostante il campo neutro, nessuna delle due fazioni voleva cedere il passo e ognuna confidava nello sfiancamento dell'altra. Il conclave galleggiò in questo modo sino al primo giorno di primavera del 1294, quando, a prendere in mano l'iniziativa del collegio cardinalizio, sopraggiunse Carlo II d'Angiò. Il francese cominciò un'opera di convincimento tale che, in poco più di tre mesi, ogni cardinale a parte Caetani si ritrovò d'accordo sul nome del nuovo papa e il 5 luglio si procedette all'elezione definitiva!


All'alba del 6 novembre 1294, doppiammo il capo Moro dell'isola di Nisida e in poco tempo fummo a Napoli. Appena imboccato il porto, notammo una vera moltitudine affollare gli ampi spazi nei pressi del castello senza nome, detto semplicemente Nuovo, voluto da Carlo I d'Angiò e terminato pochi anni prima del nostro arrivo. Nessuno, a bordo, riuscì a spiegarsi quella confusione; non poteva trattarsi di una rivolta, visto il vociare allegro della gente, ma chi mai avrebbe potuto infondere un tale entusiasmo in così tante persone? Soltanto un grande uomo e quando attraccammo al molo secondario, scoprimmo la verità.

"Evviva lu papa!" gridò una donna, affrettandosi a raggiungere il muro di folla con due bimbi per mano.

"Lunga vita a Celestino!" urlò un uomo, correndo nella medesima direzione.

Sapevo che il nuovo papa era stato eletto nel mese di luglio di quello stesso anno dopo più di due anni di sede vacante, e sapevo anche che il pontefice non aveva mai messo piede a Roma... ma cosa ci facesse a Napoli, città angioina e capitale del regno che più di tutti minacciava lo Stato della Chiesa, non potevo immaginarlo. Seguito da Baptiste, scesi dall'"Olivetta" e tentai di penetrare quella muraglia di gente festante per raggiungere il castello e chissà, vedere il nuovo capo della Cristianità affacciarsi alle minute finestre del mastio.

Pareva di dover forzare una colonna di soldati. Nessuno lasciava il passo se non spintonato oppure scagliato a terra e, man mano che si procedeva, la folla si faceva sempre più serrata e impaziente.

"Baptiste!" urlai, per poter essere udito, nonostante la vicinanza. "Di qua non si passa, proviamo dal retro, chissà!".

Baptiste annuì e approfittando di un calo di tensione fra la gente stremata, raggiungemmo presto l'ala occidentale del castello. Alcuni videro il nostro tentativo e, pensando che il papa si dovesse affacciare in quella zona, si riversarono con noi, liberandosi con calci e pugni dai loro avversari... ma il papa non aveva intenzione di mostrarsi: ce lo comunicò un soldato angioino a cavallo, uscito dal portale secondario del castello.

"Il papa non si farà vedere!" gridò con marcato accento francese. "Tornate nelle vostre case!".

Ma nessuno lo prese sul serio, tanto che, dopo aver ripetuto per un paio di volte il suo annuncio, dovette fuggire dai fedeli inferociti e delusi per la notizia.

"Nun ce la faremo mai!" annunciò un uomo dagli abiti puliti e di buona fattura, probabilmente un nobile di basso rango.

"Chi è il nuovo papa?" gli domandai. "È un Orsini oppure un Colonna?".

"Lu papa nun appartiene a nisciuna delle due fazioni!" esclamò, mostrando un viso radioso. "Chillo è ‘nu monaco, n’eremmita!".

"Come?" ribadii, incredulo.

"Ma sì..." continuò l'uomo. "È arrivato ieri da Casalnuovo per la porta Capuana, accumpagnato dallu re Carlo ‘n persona...".

"Ma chi è?".

"Lu nome nun lo ricordo, ma se dice che pruenga dalli monti della Terra de Lavoro, da Sulmona o giù de lì..."

"Toh, guarda," mi rivolsi a Baptiste "proprio dalle parti di un mio vecchio amico, fra‘ Pietro ’a Maiella... ".

"È lui, è lui!" urlò l'uomo, interrompendomi.

"Dove, dove?" chiesi, pensando che il mio interlocutore avesse scorto il papa affacciarsi a qualche pertugio del castello.

"Ma no!" riprese. "Lu nome dellu papa è chillo che hai detto mo tu, Pietro ’a Maiella!".

"Oh Signore benedetto!" invocai, portando gli occhi al cielo. "Ne sei sicuro?".

"Sì, sì," confermò. "Lu nome da papa è Celestino IV o V, V, sì V ma lu nome da frate è chillo ch'hai detto!".

Ed era proprio così.

Il caro Pietro, compagno della mia prima avventura e maestro di vita oltre che di preghiera e d'amore, era divenuto papa Celestino V! Una capriola tanto ardua non era mai stata fatta dallo Spirito Santo e l'elezione di papa Pietro confermava le profezie di Gioacchino da Fiore in merito alla venuta di un papa angelico che avrebbe trasportato la Sposa di Cristo nella quarta età dello Spirito. Un uomo in grado di domare i demoni, in rapporto diretto con Cristo, lontano dai giochi di potere, capace di trasformare la Chiesa, di ripulirla dal suo abbrutimento secolare purificandola con la forza della propria santità. Questi era il papa angelico di Gioacchino e Pietro ne ricalcava perfettamente la descrizione. Era un miracolo... ma io non conoscevo ancora i retroscena di quella strana elezione; non conoscevo gli artefici di quella bizzarria, né i loro motivi ma, tantomeno, nel mio sbalordimento completo, conoscevo i sentimenti di Pietro, le sue paure, le sue ansie, il suo disagio.

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