Autore Robert Louis Stevenson
Titolo Lettera al dottor Hyde
EdizioneSellerio, Palermo, 1994, La memoria 305 , pag. 66, cop.fle., dim. 12,2x16,7x0,5 cm , Isbn 978-88-389-1020-3
OriginaleFather Damien [1890]
CuratoreAthos Bigongiali
TraduttoreOrsola Nemi, Henry Furst
LettoreRenato di Stefano, 2019
Classe classici inglesi












 

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Indice


Lettera al dottor Hyde

Stevenson nell'Isola dei Lebbrosi
di Athos Bigongiali                             11

Lettera aperta al Reverendo dottor Hyde
di Honolulu                                     37

Alla Reverenda Suor Marianna,
Superiora della « Casa Bishop », Kalaùpapa      61

Note                                            63


 

 

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Pagina 9

Cento anni fa, il 3 dicembre del 1894, moriva a Vailima, nelle Samoa Occidentali, Robert Louis Stevenson. Aveva quarantaquattro anni. Era un grande scrittore ed era un uomo leale e generoso.

Mi piacerebbe essergli stato amico. Mi consola il pensiero che gli sono amico.

Non ho idea di quanti conoscano la Lettera al dottor Hyde di Robert Louis Stevenson. La mia conoscenza è recente e fortuita. In un indice bibliografico, una volta, avevo trovato un Dr. Hyde and Mr. Stevenson: edito, se non sbaglio, a Tokio. Mi aveva incuriosito, ma il libro si rivelò irreperibile, e comunque non avevo affatto pensato all'esistenza di un vero dottor Hyde, al quale Stevenson aveva scritto, il 25 febbraio del 1890, una vera lettera.

Le pagine che in questo libro precedono il testo della Lettera non hanno altro scopo che raccontare i fatti che ne motivarono la stesura; il luogo dei fatti è il mondo degli arcipelaghi dei Mari del Sud; il tempo è la breve vita felice di Robert Louis Stevenson e della sua famiglia nei Mari del Sud.

Scrivendo queste pagine mi sono sentito molto fortunato. Ci sono stati momenti in cui mi è parso di far parte della famiglia Stevenson, e in tale intimità da sentirmi autorizzato ad accedere, e usare, la loro corrispondenza. E ricopiare Stevenson è stato, tra tutti, il momento più bello.

A. B. - Pisa, febbraio 1994

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Pagina 39

sydney, 25 febbraio 1890


Signore,

Probabilmente non Vi ricorderete che ci siamo incontrati, che ci siamo scambiati alcune visite, e che abbiamo conversato; da parte mia, con interesse. Vi ricorderete che mi avete usato diverse cortesie, per le quali ero pronto a esserVi riconoscente. Ma vi sono doveri da anteporre alla gratitudine, e offese che giustamente dividono gli amici e tanto più i conoscenti. La Vostra lettera al Reverendo H. B. Gage è un documento che, dal mio punto di vista, se Voi mi aveste riempito di pane quando morivo di fame, se aveste vegliato mio padre quando giaceva sul letto di morte, mi assolverebbe tuttavia dai legami della gratitudine. Voi ne sapete abbastanza, senza dubbio, sul processo di canonizzazione, per sapere che cento anni dopo la morte di Damiano apparirà un uomo incaricato della dolorosa funzione di advocatus diaboli. Quando quel nobile fratello mio e di ogni fragile argilla avrà riposato un secolo, uno l'accuserà, uno lo difenderà. È insolita la circostanza che l'avvocato del diavolo sia un volontario, o che sia membro di una setta direttamente rivale, e si affretti ad assumere la sua antipatica funzione prima che si siano raffreddate le ossa del morto; insolita e di un gusto che lascio al giudizio dei miei lettori; insolita e per me suggestiva. Se ho imparato gli elementi del mestiere che insegna ad adoperare parole per comunicare la verità e per suscitare l'emozione, Voi, signore, mi avete finalmente fornito un soggetto. Poiché è necessario, nell'interesse dell'umanità e per la causa della pubblica decenza in ogni regione del mondo, non solo che Damiano sia riabilitato, ma che Voi e la Vostra lettera siate messi in piena luce, nei Vostri veri colori, davanti alla pubblica opinione.

Per farlo adeguatamente, bisogna ch'io cominci citandoVi liberamente: poi proseguirò criticando il Vostro scritto da diversi punti di vista, divini e umani. In questo modo io tenterò di ritrarre nuovamente, e con maggiore chiarezza, il carattere del santo scomparso che Voi Vi siete compiaciuto di avvilire e, fatto ciò, mi congederò da Voi per sempre.




Lettera di C. M. Hyde al Reverendo H. B. Gage


Honolulu, 2 di agosto del 1889

Caro fratello,

in risposta alle Sue domande riguardo al Padre Damiano, io posso solo rispondere che noi, i quali conoscemmo l'uomo, siamo stupiti degli stravaganti elogi dei giornali, quasi che egli fosse un santissimo filantropo. La semplice verità è che egli fu uomo rozzo e sporco, testardo e bigotto. Egli non fu mai mandato a Molokai, ma vi andò senza ordine; non si fermò nella colonia dei lebbrosi (prima di diventarlo egli stesso), ma circolava liberamente attraverso l'intera isola (poco meno di metà dell'isola è dedicata ai lebbrosi) e veniva spesso a Honolulu. Egli non ebbe parte alle riforme e ai miglioramenti inaugurati, che furono l'opera del nostro comitato di salute, secondo l'occasione e secondo i mezzi forniti. Non era un uomo puro nei suoi rapporti con le donne, e la lebbra di cui morì bisogna attribuirla ai suoi vizi e alla sua trascuratezza. Altri hanno fatto molto per i lebbrosi, i nostri pastori, i medici governativi, e così via, però mai con l'idea cattolica di meritarsi la vita eterna. Suo ecc.

C. M. Hyde




Per trattare come si deve una lettera così straordinaria, io debbo ricorrere sin dall'inizio alla mia privata conoscenza del firmatario e della sua sètta. Ciò può offendere altri; certo non Voi che tanto Vi siete dato da fare per raccogliere pettegolezzi sui Vostri rivali. Questo è forse il momento in cui io posso spiegarvi meglio il carattere di ciò che state per leggere: vi concepisco come un uomo al di là e al di sotto dei riguardi della cortesia: «Con quella stessa misura con la quale avrete misurato, vi sarà dato». Con Voi, finalmente, io godo di sentire tra le mie mani il nudo acciaio che Vi trafigge. E se alcuna delle cose che dirò dovesse offendere altri Vostri colleghi che rispetto e di cui mi ricordo con affezione, io posso soltanto esprimere loro il mio rammarico; non sono libero, sono ispirato dalla considerazione di interessi assai più vasti; e quel dolore che può essere inflitto da qualsiasi mia parola dev'essere invero insignificante di fronte al dolore con cui leggeranno la Vostra lettera. Non è il boia, è il criminale che reca disonore alla casa.

Voi, signore, appartenete a una sètta (credo alla mia sètta, e a quella per la quale í miei antenati lavorarono), quella che, nelle isole Hawaii, ha goduto, e in parte non ha saputo approfittare, di condizioni eccezionalmente vantaggiose. I primi missionari vennero; trovarono che il paese si era già da solo liberato della sua vecchia fede sanguinaria; appena arrivati, furono abbracciati con entusiasmo; i pochi fastidi che ebbero derivarono assai più dai bianchi che dagli hawaiani; e per questi ultimi essi stavano (per usar una rozza figura) nelle scarpe di Dio. Questo non è il luogo per esaminare la misura e le cause del fallimento, più o meno certo. Un elemento solo è essenziale ed ha bisogno di essere chiaramente discusso qui. Nel corso della loro vocazione evangelica, essi, o troppi fra essi, si arricchirono. Può essere una novità per Voi sentire che le case dei missionari sono additate allo scherno sulle strade di Honolulu. Sarà almeno una novità per Voi sapere che quando io restituii la Vostra cortese visita, il mio vetturino commentò la grandezza, il gusto e il lusso della Vostra casa. Sarebbe certamente stata una novità per me se quel pomeriggio qualcuno mi avesse detto che avrei dovuto vivere per dare alla stampa una cosa simile. Ma Voi vedete, signore, in quale modo Voi abbassate un uomo superiore al Vostro proprio livello; sarebbe necessario che coloro i quali devono giudicare fra Voi e me, fra Damiano e l'avvocato del diavolo, capissero come la Vostra lettera sia stata compilata in una casa capace di suscitare, e con molta ragione, l'invidia e i commenti dei passanti. Io credo (per impiegare una espressione Vostra che ammiro) che «bisogna attribuire» a Voi di non avere mai visitato la scena dove Damiano visse e morì. Altrimenti ve ne ricordereste, e se aveste guardato intorno nelle Vostre belle stanze anche la Vostra penna si sarebbe fermata.

La Vostra sètta (e ricordateVi, se c'è una sètta che mi rivendica, è anche mia) non è stata dal punto di vista mondano senza successi nel regno di Hawaii. Quando la disgrazia visitò i suoi innocenti parrocchiani, quando la lebbra piombò e prese radice nelle Otto Isole, c'era una bella occasione di meritarsi questa buona fama. A quella prospera missione e a Voi, uno dei suoi ornamenti, Dio aveva finalmente mandato l'occasione. So di toccare qui un nervo acutamente sensibile. So che altri fra i Vostri colleghi contemplano l'inerzia passata della Vostra chiesa, e l'invadente e decisivo eroismo di Damiano, con qualche cosa che si può chiamare rimorso. Io sono sicuro che questo è il caso Vostro; sono persuaso che la Vostra lettera fu ispirata da una certa invidia non essenzialmente ignobile, unico segno umano da scoprirsi in quell'atto. Voi pensavate all'occasione perduta, al giorno passato; a ciò che si sarebbe dovuto concepire e che non si concepì; al servizio dovuto e non reso. «Tempo fu», disse la voce nel Vostro orecchio, nella Vostra comoda stanza, dove stavate seduto furente mentre scrivevate; e se le parole scritte erano basse [...]

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