Copertina
Autore Robert Louis Stevenson
Titolo Nei mari del Sud
SottotitoloRagguaglio di esperienze e di osservazioni nelle isole Marquesas, Paumotu e Gilbert, nel corso di due crociere sul panfilo Casco (1888) e sullo scuna Equator (1889)
EdizioneEditori Riuniti, Roma, 2002 [1992] , pag. 368, dim. 140x210x20 mm , Isbn 978-88-359-5134-6
OriginaleIn the South Seas [1896]
PrefazioneEmilio Cecchi
TraduttoreCorrado Alvaro
LettoreRenato di Stefano, 2002
Classe classici inglesi , viaggi , mare , natura , scienze umane
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Indice

PREFAZIONE di Emilio Cecchi 9

LE MARQUESAS

   L'APPRODO A UN'ISOLA 19
   FACCIAMO DELLE AMICIZIE 25
   L'ABBANDONATO 34
   LA MORTE 41
   SPOPOLAMENTO 50
   CAPI E TABÙ 58
   HATIHEU 67
   IL PORTO D'ENTRATA 76
   LA CASA DI TEMOANA 84
   UN RITRATTO E UNA STORIA 92
   IL "PORCO-LUNGO".
        UN ALTO-LUOGO CANNIBALE 101
   STORIA DI UNA PIANTAGIONE 111
   CARATTERI 122
   IN UNA VALLE DI CANNIBALI 129
   I DUE CAPI D'ATUONA 135

LE PAUMOTU

   L'ARCIPELAGO PERICOLOSO.
        ATOLLI IN DISTANZA 145
   FAKARAVA: UN ATOLLO DA VICINO 152
   UNA CASA DA AFFITTARE IN UN'ISOLA
        BASSA 162
   PECULIARITÀ E SETTE ALLE PAUMOTU 171
   UN FUNERALE PAUMOTUANO 181
   STORIE DI CIMITERI 185

LE OTTO ISOLE

   LA COSTA DI KONA 203
   UNA CAVALCATA NELLA FORESTA 213
   LA CITTA RIFUGIO 219
   KAAHUMANU 224
   I LEBBROSI DI KONA 230

LE GILBERT

   BUTARITARI 237
   I QUATTRO FRATELLI 243
   ATTORNO ALLA NOSTRA CASA 252
   STORIA DI UN TABÙ 261
   STORIA DI UN TABÙ (SEGUITO) 269
   LA FESTA DEI CINQUE GIORNI 279
   MARITO E MOGLIE 292

LE GILBERT - APEMAMA

   IL MERCANTE REALE 301
   FONDAZIONE DELLA CITTA DI EQUATOR 309
   UN PALAZZO CON MOLTE DONNE 318
   LA CITTA Di EQUATOR E IL PALAZZO 325
   RE E SUDDITI 333
   IL LAVORO DEL DIAVOLO 343
   IL RE DI APEMAMA 355

 

 

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Pagina 24

Più tardi nella giornata, mentre ero seduto a scrivere il mio diario, la mia cabina fu addirittura invasa dai Marquesani; tre generazioni di pelle bruna, accoccolati con le gambe incrociate sull'impiantito, che mi guardavano in silenzio, con certi occhi enigmatici. Tutti i Polinesiani hanno occhi grandi, lucenti ed umidi come quelli di certi animali e di certi italiani. Mi prese una specie di disperazione; stavo seduto in un angolo della cabina, indifeso, sotto il fuoco insistente di quelle pupille, assediato da una folla silenziosa; e provavo una specie di furore pensando che non potevo comunicare con loro, come fossero delle belve o dei sordomuti o gli abitanti di un pianeta sconosciuto.

Per un ragazzo di dodici anni traversare la Manica è come cambiare cielo; per un uomo di ventiquattro traversare l'Atlantico significa appena un lieve cambiamento di alimentazione. Ma io ero ormai uscito fuori dall'ombra dell'Impero Romano, che ci ha dominato dalla culla con le rovine dei suoi monumenti, le cui leggi e la cui letteratura ci assediano da ogni parte, piene di divieti e di costrizioni. Ora potevo vedere cosa mai potessero essere gli uomini i cui padri non avevano mai letto Virgilio, né mai erano stati conquistati da Cesare né mai erano stati governati dalla sapienza di Gaio o di Papiniano. D'un tratto m'ero messo al di là della zona amica delle lingue sorelle dove è così facile rimediare alla maledizione di Babele; ed ecco i miei nuovi simili sedevano davanti a me, muti come immagini. Mi sembrava che nei miei viaggi ogni rapporto umano dovesse essere escluso; e che una volta tornato a casa (perché in quei giorni pensavo ancora al ritorno) i miei ricordi non sarebbero stati che un album d'immagini senza testo. Anzi, mi domandavo persino se i miei viaggi sarebbero durati ancora; forse erano destinati a finire bruscamente, forse quel Kauanui, che poi doveva diventarmi amico, e che, io guardavo là, seduto in silenzio, con gli altri, benché personaggio di una certa importanza, poteva scattare sulle cosce, e, lanciando un segnale lacerante, assalire il battello e macellare l'equipaggio per servirlo poi a tavola.

Niente di più naturale di queste preoccupazioni, e niente di più fondato. Nella mia esperienza delle isole non ebbi mai più una così minacciosa accoglienza; se me ne toccasse una simile oggi, ne sarei ancor più allarmato e mi sorprenderebbe dieci volte di più. La maggior parte dei Polinesiani è gente con la quale ci si intende facilmente, franca, amante dei bei modi, sensibile alla più piccola attenzione, come cani affezionati e scodinzolanti; ed anche tra i Marquesani, da cosi poco e così imperfettamente liberati da una sanguinosa barbarie, dovevamo trovare tanti amici, e almeno uno di loro doveva piangere sinceramente la nostra partenza.

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Pagina 34

L'ABBANDONATO



Sulle bellezze di Anaho si potrebbero scrivere dei volumi. Ricordo di essermi svegliato, certe volte, alle tre del mattino e già l'aria era dolce e odorosa. Il flusso del mare prorompeva nella baia e sembrava colmarla, poi scemava. Lento, profondo, silenzioso, era il rullio del Casco: di quando in quando una carrucola strideva come un uccello. Dalla parte dell'oceano, il cielo era lucente di stelle e il mare era tutto rischiarato dal loro riflesso. Guardando da quella parte avrei potuto cantare col poeta hawaiano:

    Ua maomao ka lani, ua kahaea luna
    Ua pipi ka maka o ka hoku.

    I cieli erano chiari, alti e distesi
    Molti erano gli occhi delle stelle.

E poi mi volgevo dalla parte della terra, delle raffiche passavano alte su noi, le montagne si stagliavano rudi e nere; avrei potuto credermi trascinato a diecimila leghe di là, ancorato in un lago della Scozia: quando fosse tornato il giorno avrei scorto i pini, le lande, le verdi felci, e i tetti di terra sprigionanti il fumo della torba; e le prime parole straniere che avrebbero colpito le mio orecchie sarebbero state gaeliche e non kanaka.

E il giorno, quando arrivò, portò miraggi e pensieri nuovi. Ho veduto sorgere il giorno in molti luoghi del mondo; è stata una delle più grandi gioie della mia vita, ma l'alba che mi ha fatto maggíore impressione l'ho veduta brillare sulla baia di Anaho. Le montagne scoscese strapiombavano sul porto con ogni varietà di superfici e d'inclinazione, praterie, picchi e foreste. Ognuna con un suo colore, zafferano, zolfo, garofano, rosa. Tutto aveva la lucentezza della seta; sui toni più chiari sembrava fluttuare un'efflorescenza; e un vellutato solenne appariva su quelli più scuri. La luce era la stessa di tutte le mattine, incolore e pura, e su quello sfondo da gioielleria si staccavano i più minuti particolari. Intanto, attorno al villaggio, sotto le palme dove indugiava l'ombra azzurra, i bracieri di gusci di noci di cocco e un tenue filo di fumo tradivano la ripresa delle faccende quotidiane; lungo la riva uomini e donne, giovani e ragazze, tornavano dal bagno in acconciature vistose, rosse, turchine e verdi, come ci piaceva vederne nei disegni colorati cari alla nostra fanciullezza. D'improvviso il sole superò le colline a oriente e lo splendore del giorno fu su tutto.

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Pagina 103

Si trova traccia di cannibalismo da un capo all'altro del Pacifico, dalle Marquesas alla Nuova Guinea, dalla Nuova Zelanda alle Hawaii; qui nella pienezza della sua pratica, là con scarse ma significative sopravvivenze. I casi più dubbi sono quelli di Hawaii. Noi rintracciamo le cronache del cannibalismo ad Hawaii soltanto nella storia di una guerra in cui sembra essere stato un'eccezione come nel caso di quei montanari banditi che caddero sotto la mano di Teseo. A Tahiti sopravvive un solo particolare, ma che appare decisivo. Nei tempi storici, quando un sacrificio umano era fatto nel marae, gli occhi della vittima venivano cerimoniosamente offerti al capo; ghiottoneria per il principale invitato. Tutta la Melanesia ne sembra contaminata. In Micronesia, nelle Marshall, dove la mia conoscenza non è maggiore di quella dei turisti, non potei trovarne alcuna traccia ed anche nella zona delle Gilbert ho lungamente e inutilmente cercato. Mi dissero, naturalmente, di uomini che furono mangiati in tempo di carestia, ma questo non valeva per le mie ricerche perché la stessa cosa, per la stessa causa, avviene presso tutte le razze e generazioni di uomini. Alla fine, in certe note manoscritte del dottor Turner, che fui autorizzato a consultare a Malua, trovai una prova capitale: nell'isola di Onoatoa la punizione dei ladri era d'essere uccisi e mangiati. Come ci potremo spiegare l'universalità di questa pratica su di una distesa così vasta, tra popoli di civiltà così varia e malgrado tutti gli incroci di sangue diverso? Quale circostanza è comune a tutti loro, tranne quella di aver vissuto su delle isole prive, o quasi, di nutrimento animale? Il mio appetito non ha mai potuto provarmi che l'uomo dovesse vivere soltanto di vegetali. Nelle isole, quando le nostre provviste scemavano, io aspettavo con impazienza il giorno nel quale l'economia ci avrebbe permesso di aprire una latta di miserabile montone. E almeno in un dialetto dell'oceano, una parola particolare denota che l'uomo è "affamato di pesce" quando ha raggiunto lo stadio nel quale i vegetali non possono più soddisfarlo, e la sua anima, come quella degli ebrei nel deserto, implora le pentole di carne. Aggiungansi a questo le prove della superpopolazione e la carestia immanente già ricordata e credo che troveremo qualche motivo di indulgenza per i cannibali isolani.

È giustizia osservare i due lati di ogni questione; ma io sono ben lontano dal fare l'apologia di questa depravazione peggio che bestiale. Le razze superiori polinesiane, come i Tahitiani, gli Hawaiani e i Samoani, hanno superato quest'usanza e alcune di esse l'avevano in parte dimenticata prima che gli alberi maestri di Cook o di Bougainville comparissero nelle loro acque. Essa non sopravviveva che in qualche bassa isola dove la conservazione della vita era difficile e fra selvaggi inveterati come quelli della Nuova Zelanda o delle Marquesas. I Marquesani avevano congiunto il cannibalismo alla trama stessa della loro vita; il "porco-lungo" era, in certo modo, il loro mezzo di scambio e il loro sacramento; era il compenso dell'artista, illustrava gli eventi pubblici, ed era il pretesto e l'attrazione di una festa. Oggi scontano la pena di questa sanguinosa mescolanza. Il potere civile, nella sua crociata contro il cannibalismo, ha dovuto esaminare, una dopo l'altra, tutte le arti e tutti gli spassi marquesani; li ha trovati, uno dopo l'altro, li ha segnati nella lista di prescrizione. L'arte del tatuaggio era soltanto loro, con la sua squisita esecuzione, con la bellezza e la minuziosità dei suoi disegni; niente adorna più splendidamente un bell'uomo. È possibile che questo in principio faccia un poco soffrire, ma credo che non sia così penoso dopo qualche tempo, e sono sicuro che a lungo andare sia meno doloroso dell'ignobile usanza delle donne europee di stringersi nel busto. E adesso hanno creduto bene di vietare quest'arte. Le loro canzoni e le loro danze erano innumerevoli (e la legge ha dovuto abolirne a dozzine). Adesso essi affrontano con le mani vuote il tedio delle loro inutili giornate; e chi avrà pietà di loro? I meno severi diranno che sono stati giustamente serviti.

La sola morte non bastava alla vendetta marquesana: bisognava mangiare la carne. Il capo che aveva catturato Mr. Whalon desiderava mangiarlo, e credeva di aver giustificato il suo desiderio dicendo che era una vendetta.

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Pagina 111

STORIA DI UNA PIANTAGIONE



Taahauku, sulla costa sud-ovest dell'isola di Hiva-oa - Takuku, dicono i bianchi per negligenza - potrebbe esser chiamato il porto di Atuona. È uno stretto e piccolo ancoraggio, situato fra scogli bassi e scoscesi e che s'apre sopra una vallata boscosa; un piccolo forte francese, adesso in disuso e deserto, domina la vallata e il passaggio. La stessa Atuona, all'entrata della baia, è contornata da un cerchio di montagne che dominano l'immediata incastonatura di Taahauku e danno alla scena il suo carattere saliente. Si crede che le montagne non siano più alte di quattromila piedi; ma neppure Tahiti con ottomila e Hawaii con quindicimila offrono uno spettacolo simile a queste montaqne cosi ripide e malinconiche. La mattina, quando il sole sorge proprio davanti ad esse, i monti si alzano come una vasta muraglia, verde al sommo - se per caso le cime sono sgombre - e qua e là coi fianchi striati di corsi d'acqua, stretti come crepacci. Verso il pomeriggio la luce cade più obliquamente e i contorni della catena acquistano maggior rilievo, gole profonde si colmano d'ombre e guglie enormi e contorte s'innalzano orlate dal sole. Ad ogni ora del giorno esse colpiscono lo sguardo per qualche bellezza nuova e lo spirito per la loro tristezza minacciosa. Le montagne che dividono e fanno deviare la perpetua corrente dei venti alisei sono, certamente, responsabili del clima. Una forte corrente d'aria soffia giorno e notte sul porto. Giorno e notte le stesse nubi fantastiche e slegate fuggono per il cielo, la stessa triste cappa di pioggia e di vapore cade e s'eleva attorno alla montagna. I venti terrestri soffiano impetuosi e freddi e il mare, come l'aria, è in tumulto perpetuo. Le onde s'ingolfano nello stretto porto come capre in un recinto, irrompono lungo i due lati, alte nell'uno, basse nell'altro, facendo fumare e rimbombare un certo sfiatatoio come un cannone; e finalmente si esauriscono sulla riva.

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Pagina 152

FAKARAVA: UN ATOLLO DA VICINO



Poco prima di mezzogiorno noi rasentavamo la costa della nostra destinazione, Fakarava: l'aria era molto chiara, il mare levigato. Eppure eravamo accompagnati continuamente da un mormorio lungo la spiaggia, come dal rumore di un treno lontano. L'isola è molto estesa, la laguna inclusa è di trenta miglia per dieci o dodici, e il sentiero di corallo che loro chiamano terra è di ottanta o novanta miglia (circa) per ogni furlong. La parte che noi costeggiavamo era tutta emersa; la boscaglia d'un verde bellissimo, la massa delle cime degli alberi di cocco ininterrotta - contrassegno, se lo avessi saputo, dell'intervento dell'uomo. Una volta di più, e una volta ancora senza saperlo, eravamo a portata di voce di creature simili a noi, e quella baia vuota non era che ad un tiro di pistola dalla capitale dell'arcipelago. Ma la vita in un atollo, a meno che esso sia chiuso, è soltanto sulle rive della laguna, là sono situati i villaggi, là navigano le piroghe, o sono in secco; e i lidi dell'oceano sono luoghi maledetti e deserti, adatti solo per stregonerie e naufragi, e considerati dagli indigeni come un luogo di convegno di spettri assassini.

Finalmente potemmo scoprire una breccia nella lunga barriera; i boschi cessarono; una punta scintillante s'avanzò nel mare e un bassofondo smeraldino indicò il punto d'entrata. Mentre ci avvicinavamo, trovammo un po' di corrente di mare - il mare particolare della laguna ha qui il suo principio e la sua fine, e qui, tra le mascelle dell'entrata, si misura in una vana contesa col più maestoso respiro del Pacifico. Il Casco accusò appena una scossa, ma vi sono tempi e circostanze in cui queste entrate dei porti interni vomitano torrenti che rigettano, smantellano e inghiottono i battelli. Perché, immaginate una laguna perfettamente chiusa meno che in un punto, e questo di larghezza appena navigabile; immaginate che la marea e il vento abbiano assieme ingolfato per ore, in questa ripiegatura di corallo, una grande quantità d'acqua; e poi la marea cambia e il vento cade - la cataratta aperta di qualche nostro grande serbatoio potrà darvi l'immagine di questo irresistibile flusso.

Eravamo appena entrati nel canale d'ingresso che tutte le teste si sporgevano fuori bordo. Perché le acque che scorrevano sotto bordo cambiavano ad ogni momento assumendo sorprendenti sfumature azzurre e grige, e nella loro trasparenza il corallo ramificava e fioriva, ed i pesci del mare interno navigavano, visibili sotto di noi, macchiati e striati, e perfino con becchi come pappagalli. Spesso ho pagato per vedere delle curiosità; mai nessuna fu così strana come questo primo spettacolo visto dal parapetto del battello, nella laguna di Fakarava. Ma non s'illuda il lettore. In seguito sono penetrato, credo, in una dozzina di atolli nelle differenti parti del Pacifico e l'esperimento non si è mai ripetuto. Questa tinta squisita e questa trasparenza del giorno sottomarino, e questi bassifondi di pesci iridati non mi hanno più incantato.

Prima che avessimo distolto gli occhi da questo spettacolo incantatore, la goletta aveva slittato tra i pilastri degli scogli e già entrava nel mare interno. Le rive che lo contengono sono così poco alte, e il lago stesso è cosi grande, che da ogni parte sembrano estendersi quasi senza interruzione fino all'orizzonte. Qua e là, dove lo scoglio aveva un'insenatura, come un anello con sigillo intorno a un dito, v'era qualche pennellata di palme; qua e là la verde muraglia del bosco correva, compatta, per la lunghezza di qualche miglio; e dalla parte del porto, sotto i più alti ciuffi d'alberi, splendeva qualche cosa di bianco: Rotoava, la metropoli delle Paumotu. Vi arrivammo in tre bordate e gettammo l'ancora vicino alla spiaggia, nelle prime acque calme dacché avevamo lasciato San Francisco; esse erano profonde 5 tese, e si sarebbero potuti osservare tutto il giorno la gomena evanescente, i rami di corallo e i pesci multicolori.

Fakarava fu scelta a sede del governo per considerazioni soltanto nautiche. È situata eccentricamente; la produzione, anche per un'isola bassa, povera; la popolazione non molta né - per dei Bassi Isolani - industriosa. Ma la laguna ha due buoni passaggi, uno sotto vento, uno contro vento, così che con ogni corrente d'aria si può uscire ed entrare, e questo vantaggio, per un governo d'isole disperse, fu decisivo. Un molo di corallo, un imbarco a gradini, il fanale del porto sopra un pilastro di sostegno e le due spaziose case del governo chiuse da un bello steccato, danno al lato nord di Rotoava un'aria di grande importanza. Questa è confermata, da una parte da una prigione vuota e dall'altra da una gendarmeria coperta di affissi in tahitiano: avvisi giudiziari di Papeete e proclami repubblicani di Parigi, firmati (un poco in ritardo) "Jules Grévy, Perihidente". Verso il fondo una chiesa cattolica col campanile domina la città; e in mezzo, su di un morbido tappeto di sabbia di corallo bianco, sotto un arieggiato baldacchino di alberi di cocco, le case degli indigeni s'innalzavano in gruppi irregolari, ora situati sulla riva della laguna per amore del fresco, ora sotto le palme per amore dell'ombra.

Non c'era un'anima in vista. Salvo il rumore delle onde nella parte più lontana, sembrava che avreste potuto sentire uno spillo cadere in qualunque parte di quella capitale. C'era qualcosa d'impressionante in quel silenzio inaspettato, qualcosa di ancora più impressionante in quell'inaspettato rumore. Davanti a noi un mare si stendeva fino all'orizzonte, increspato come un lago interno; ed ecco dietro di noi un altro mare assaltava con furia continua il lato inverso della posizione.

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