Copertina
Autore Joseph E. Stiglitz
Titolo I ruggenti anni Novanta
SottotitoloLo scandolo della finanza e il futuro dell'economia
EdizioneEinaudi, Torino, 2004, Gli struzzi 588 , pag. 336, cop.fle., dim. 135x208x22 mm , Isbn 978-88-06-17063-9
OriginaleThe Roaring Nineties [2003]
TraduttoreDaria Cavallini
LettoreRenato di Stefano, 2004
Classe economia finanziaria , storia contemporanea , globalizzazione
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Indice

  IX Premessa alle edizioni straniere
  XV Prefazione
XXIX Ringraziamenti
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    I ruggenti anni Novanta

  3 I.   Boom e declino: i semi della distruzione

  9 I semi della distruzione
 11 Il perché di questi insuccessi
 18 I fallimenti americani all'estero
 22 La politica del fallimento
 24 Insegnamenti

 28 II.  Miracoli o errori fortunati?

 30 L'economia in primo piano
 32 L'eredità di Clinton:
    gioca con le carte che hai in mano
 35 Un po' di storia
 39 La battaglia per ridurre il deficit
 44 La riduzione del deficit a posteriori

 54 III. Il ruolo della Fed nel gonfiare la bolla

 56 Parole contro realtà
 58 Esuberanza irrazionale ed efficienza del mercato
 61 Greenspan si difende
 63 Reminiscenze
 67 Ripresa e atterraggio morbido
 74 Insegnamenti

 83 IV.  Deregulation senza freni

 87 Come la deregulation delle telecomunicazioni
    ha contribuito alla grande bolla speculativa
 95 Uno sguardo d'insieme sulla deregulation
100 Assistenza di stato e ipocrisia degli imprenditori
105 Insegnamenti

109 V.   Contabilità creativa

114 Diritti di opzione e shareholder value
119 Incentivi, sí, ma quali?
120 Corso base di truffe contabili
125 La Securities and Exchange Commission
129 Esperienze in altri paesi
131 Insegnamenti

135 VI.  Il ruolo delle banche

140 Come approfittare del boom del mercato
142 Gli analisti
148 Il principio della fair disclosure
149 Le Ipo
151 Traffici loschi
152 La legge Glass-Steagall
155 Fusioni
158 Un caso da manuale: WorldCom
161 Esperienze in altri paesi
162 Insegnamenti

168 VII. I tagli fiscali, ovvero
         come alimentare la frenesia


177 VIII.Il rischio come stile di vita

178 Che ne è stato della new economy?
    La nuova arma a doppio taglio
184 Aiutare a gestire il «rischio pensione»
188 La riforma della previdenza sociale
193 Gestire il rischio
195 Insegnamenti

198 IX.  Prime avvisaglie di globalizzazione

201 Iniquità dei trattati commerciali
209 Promuovere la stabilità globale
222 Trionfo e sconfitta del Washington Consensus
224 Ciò che è stato e ciò che sarebbe potuto essere

235 X.   Il caso Enron

236 Il crac
241 La deregolamentazione dell'elettricità
249 Iniziative imprenditoriali all'estero
252 La Enron e il capitalismo dei compari
    American style

261 XI.  Miti da sfatare

262 Il mito della riduzione del deficit
262 Il mito della guerra
263 Il mito dell'eroe
264 Il mito della mano invisibile
266 Il mito della finanza
267 Un altro mito: troppo Stato fa male
268 Il mito del capitalismo globale
269 Il mito del capitalismo trionfante targato Usa
270 Strategie di lungo periodo

273 XII. Verso un nuovo idealismo democratico:
         visioni e valori

274 Contro che cosa ci battevamo
278 Le nuove sfide dei democratici
281 I programmi per l'efficienza e la crescita
285 I valori dell'idealismo democratico
285 La giustizia sociale
289 Politica e potere
293 L'individuo e la società
299 La formazione
301 La globalizzazione
304 Conclusione

309      Epilogo

312 Cattiva gestione dell'economia
319 Cattiva gestione degli scandali societari
320 Cattiva gestione della globalizzazione
325 Una lezione per l'Europa
330 La ricetta americana
 

 

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Pagina IX

Premessa alle edizioni straniere


Quando sono venuti a galla i problemi dell'economia americana descritti qui, molti all'estero hanno pensato che fosse stata fatta giustizia: non si erano mai fidati del capitalismo American style. Pur invidiando - forse - i lauti compensi dei loro omologhi americani, numerosi amministratori delegati di grandi aziende in Europa e in Asia li giudicavano a dir poco disdicevoli. Non sembrava che i chief executive officers (Ceo) americani fossero poi tanto meglio dei loro compatrioti, eppure l'America andava a gonfie vele. Forse, alla base di tale successo c'erano proprio i Ceo e questo poteva fornire una sorta di giustificazione ai loro stipendi. Ma le buste paga continuavano ad aumentare, e con esse i dubbi, mentre l'economia americana scivolava verso la recessione e i prezzi delle azioni crollavano. Serviva quindi un'altra motivazione: ora bisognava premiarli non per produrre crescita, ma per prevenire il declino. L'interesse suscitato dai fallimenti delle aziende statunitensi si giustifica non solo con la diffusa sensazione di avere sempre saputo che qualcosa non andava, ma anche con il desiderio di trarre insegnamento dall'esperienza americana.

Al tempo stesso, negli Stati Uniti, i difensori del capitalismo americano cercavano di minimizzare la gravità della situazione. Secondo loro, tutto dipendeva dalla stampa che insisteva troppo sulle vicende di bancarotta di certe aziende e da qualche investitore sprovveduto che, avendo perso il proprio denaro, era alla ricerca di qualcuno a cui dare la colpa. Il pericolo, ripetutamente sottolineato dagli amministratori delegati delle grandi aziende, era che una reazione sproporzionata potesse condurre a un eccesso di regolamentazione.

Nell'ultimo anno, tuttavia, è stato necessario rivedere entrambe le posizioni. Gli scandali e la corruzione permeavano il sistema americano del libero mercato molto piú di quanto non fosse apparso fino ad allora. E sebbene gli episodi verificatisi in altre parti del mondo siano forse di minore gravità, ogni paese ha avuto la sua Enron: Parmalat in Italia, Vivendi in Francia, Ahold nei Paesi Bassi. La natura dei peccati, però, era diversa. Nel caso di Parmalat, sembra si sia trattato di una vera e propria frode, di quelle all'antica, ma non è ancora chiaro se le grandi banche internazionali siano state incapaci di intuirlo oppure abbiano aiutato l'azienda di Collecchio a mettere in atto la truffa. Tutti questi scandali sono legati da un filo rosso: le nuove tecniche di contabilità e finanza creativa sopravanzano ormai per finezza qualsiasi possibile sistema di controllo.

[...]

In breve, i problemi di cui parlo in questo libro non sono stati risolti. Semmai, sembrano piú diffusi e piú radicati di quanto non avessi pensato in un primo tempo. Se certi paesi si sono risparmiati gli scandali aziendali, contabili e finanziari, i piú hanno comunque subito le conseguenze del ciclo economico associate alla deregulation e al totale svincolamento dei mercati da qualsiasi norma. Le situazioni piú gravi sono quelle registrate in America Latina e nell'Est asiatico, dove la deregulation e le privatizzazioni hanno alimentato un'euforia irrazionale, che ha portato a forti aumenti di capitale, specie a breve termine, per trasformarsi poi improvvisamente in un altrettanto irrazionale pessimismo.

Ho scritto questo libro in parte per stimolare gli americani a non ripetere gli errori del passato, ma anche per aiutare i non americani a capire che cosa è andato storto da noi e a evitare che le stesse cose possano succedere altrove. Nel corso degli anni Novanta, con l'economia statunitense in pieno trionfo, alcuni paesi hanno provato la tentazione di venirci dietro. Come spiego nel capitolo IX, l'America si è spinta addirittura oltre: ha cercato di blandire, convincere e persuadere gli altri paesi a seguire il suo esempio, o meglio, una visione tutta particolare del capitalismo americano che differiva in alcuni aspetti essenziali da quanto effettivamente succedeva negli Stati Uniti. Per esempio, il Tesoro diceva che gli altri paesi avrebbero dovuto adeguarsi a noi in materia di contabilità e governo dell'impresa, ma non eravamo certo il modello giusto a cui ispirarsi. Proprio il nostro ministero, infatti, aveva assunto posizioni che mettevano in pericolo i principì base della corporate governance e della contabilità.

Il vento ha cominciato a spirare in un'altra direzione. Gli anni Novanta segnano l'apice della finanza e del fondamentalismo del mercato. Chi, allora, ha sposato queste idee oggi è restio ad abbandonarle. Il problema - dicono - è che le riforme non sono state realizzate con sufficiente convinzione. Il problema, invece, è come sono state realizzate. Ma, per fortuna, stiamo cominciando a rinsavire. Il problema non riguarda soltanto l'attuazione delle idee, ma le idee stesse. Se questo libro ha un messaggio da trasmettere, il messaggio è semplicemente questo: occorre trovare un equilibro tra il ruolo dello Stato e quello del mercato. Un paese soffre se ha troppe regole, ma anche se ne ha troppo poche, se lo Stato investe troppo, ma anche se investe troppo poco. Lo Stato può contribuire a stabilizzare l'economia, ma politiche sbagliate possono peggiorare le fluttuazioni. Le politiche di liberalizzazione dei mercati finanziari dettate dal Fondo monetario internazionale - e che il Tesoro degli Stati Uniti continua a imporre - hanno aggravato l'instabilità dei paesi in via di sviluppo. Alla fine, l'ha dovuto riconoscere persino l'Fmi.

Questa nuova consapevolezza suggerisce che i paesi devono sentirsi piú liberi di scegliere le politiche economiche da seguire. Non c'è un solo modo per fare le cose. Il sistema perfetto non esiste. La storia raccontata qui evidenzia alcune pecche della versione americana del capitalismo, ma ho potuto dire ben poco su alcuni dei problemi piú radicati: le enormi disuguaglianze, le moltitudini di persone che vivono in carcere, l'ansia e l'insicurezza dei piú, inclusi i milioni di cittadini senza assicurazione sanitaria, l'apparente disinteresse per il deterioramento dell'ambiente. Altri paesi potrebbero optare per un sistema economico e sociale piú sensibile a queste e altre dimensioni del vivere civile scegliendo un modello di economia di mercato diverso da quello in auge al momento negli Stati Uniti. In questo modo, potrebbero creare una società piú giusta, con maggiori tutele e servizi piú adeguati in ambito sanitario e scolastico, specie per le fasce di popolazione piú svantaggiate.

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Pagina XVII

Abbiamo assistito a una battaglia ideologica tra coloro che auspicano un ruolo minimalista dello Stato e chi invece ritiene che il governo debba svolgere un ruolo importante ma limitato, non solo nella correzione dei guasti e dei limiti del mercato, ma anche teso al raggiungimento di una maggiore giustizia sociale. Io sono tra questi ultimi, e lo scopo che mi prefiggo con questo libro è spiegare perché, pur essendo al centro del successo della nostra economia, i mercati non funzionano bene da soli (lo Stato è un partner importante) e, soprattutto, non riescono a risolvere da soli tutti i problemi.

Questo libro, quindi, non si limita a ripercorrere la storia economica degli anni Novanta. Non è tanto una storia del passato, quanto del futuro: spiega a che punto sono gli Stati Uniti e gli altri paesi industrializzati e in quale direzione devono muoversi. Molte istituzioni fondamentali della nostra società hanno perso credibilità, in certi casi in maniera irrimediabile: la Chiesa, gli amministratori delegati delle grandi società, la Corte suprema, i professionisti della contabilità, le banche. In questo libro, mi occupo soltanto delle istituzioni economiche, ma non posso fare a meno di pensare che quanto accade al loro interno si riflette e influisce su ciò che avviene altrove.

Sia la sinistra sia la destra hanno perso la bussola. I presupposti intellettuali dell'economia del laissez-faire, cioè l'idea che i mercati - da soli - possano funzionare in maniera equa ed efficiente sono venuti meno. Dopo la crisi mondiale post 11 settembre, abbiamo capito la necessità di un'azione congiunta. Gli scandali societari che hanno scosso l'America e, in misura minore, l'Europa hanno fatto capire anche ai conservatori che lo Stato ha un compito importante da svolgere. Lo sgretolamento dell'Unione Sovietica e la fine, con essa, della guerra fredda hanno invece demolito le fondamenta economiche della sinistra: l'appoggio al socialismo, almeno quello di vecchio stampo, è venuto meno persino nei paesi in cui aveva goduto di grande forza in passato.

La sfida, oggi, è trovare il giusto equilibrio tra Stato e mercato, tra azione collettiva e locale, tra livello nazionale e globale, oltre che tra azione pubblica e privata. A mano a mano che cambiano le circostanze economiche, questo equilibrio deve essere ridisegnato. Lo Stato deve intraprendere nuove attività e abbandonare quelle vecchie. Siamo entrati in un'era di globalizzazione in cui i paesi e i popoli del mondo sono molto piú integrati di prima. Ma la globalizzazione di per sé comporta un mutamento di questo equilibrio: abbiamo bisogno di una maggiore azione collettiva a livello internazionale e non possiamo ignorare i problemi di democrazia e giustizia sociale che si presentano nell'arena globale.

I profondi cambiamenti che hanno caratterizzato le nostre economie e le nostre società negli ultimi quindici anni hanno messo in crisi l'equilibrio tra Stato e mercato, e non siamo riusciti a dare una risposta adeguata. I problemi divenuti di attualità negli ultimi anni sono, in parte, un riflesso di questa perdita di equilibrio. Questo libro cerca di proporre un sistema di riferimento che ci aiuti a ritrovare l'equilibrio perduto.

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Pagina 11

Il perché di questi insuccessi.

Analizzando oggi gli anni Novanta dal punto di vista privilegiato che è quello del nostro tempo, mi chiedo: dove abbiamo sbagliato? Penso che le ragioni principali siano due.


Quale ruolo per lo Stato?

Per dodici anni, durante le amministrazioni Reagan e Bush padre, la politica economica nazionale era stata plasmata dagli ideologi del libero mercato, che idealizzavano il settore privato demonizzando regole e programmi di governo. Bill Clinton e molti suoi collaboratori si identificavano nei cosiddetti New democrats - un ampio gruppo di parlamentari, accademici ed esperti di politica secondo cui, in passato, il Partito democratico si era dimostrato eccessivamente incline alle soluzioni burocratiche e troppo poco sensibile all'impatto delle proprie politiche sul mondo degli affari e sul mercato.

Al tempo stesso, era ormai chiaro che non sempre i mercati funzionavano bene. Per esempio, producevano troppe cose di un tipo - come l'inquinamento dell'atmosfera - e troppo poche di un altro tipo, come investimenti nel settore dell'istruzione, della sanità e della cultura. Inoltre, non erano in grado di regolarsi da soli; si verificavano enormi oscillazioni nel livello dell'attività economica, con periodi prolungati di disoccupazione elevata, durante i quali milioni di persone non riuscivano a trovare un posto di lavoro. I costi economici e sociali di questi periodi erano enormi.

[...]

La crescita a buon mercato.

Per mettere a fuoco gli avvenimenti economici che hanno segnato gli anni Novanta è necessario ammettere - con noi stessi e con il resto del mondo - che ci eravamo illusi di poter ottenere la crescita a buon mercato, non con l'«economia voodoo» di Reagan che credeva di aumentare il gettito fiscale riducendo le tasse, ma con la vacuità dell'economia della bolla speculativa. Anziché ridurre i consumi per finanziare l'espansione, gli Stati Uniti hanno contratto debiti esteri sempre piú ingenti, anno dopo anno, al ritmo di oltre un miliardo di dollari al giorno. L'abbiamo fatto per colmare il divario sempre piú profondo tra i nostri risparmi e gli investimenti - un dislivello che si manifestò seriamente già sotto la presidenza Reagan, ma che poi è aumentato con Bush padre e Bill Clinton e ha oggi raggiunto nuove dimensioni con Bush figlio.

Abbiamo effettuato alcuni validi investimenti a lungo termine - sia nel settore pubblico sia in quello privato - ma troppi sono confluiti in dispendiose iniziative private come dotcom che non hanno avuto successo o cavi a fibre ottiche che non erano necessari, il tutto nel contesto di una corsa alle telecomunicazioni nella quale volevamo dominare per ottenere quello che si pensava sarebbe stato un monopolio. Non è ancora chiaro in quale misura i cosiddetti investimenti privati degli anni Novanta siano riconducibili a un puro e semplice spreco di denaro, ma anche considerando che solo una minima parte dell'erosione del valore delle azioni di borsa sia dovuta a investimenti sbagliati, si tratta comunque di una cifra nell'ordine di diverse centinaia di miliardi di dollari.

Per contro, solo una percentuale esigua degli investimenti è confluita a finanziare progetti pubblici nel settore della scuola, delle infrastrutture o della ricerca di base.

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Pagina 18

I fallimenti americani all'estero.

Il boom e il declino dell'economia internazionale sono stati ancora piú decisi che in America, e i due fenomeni sono strettamente collegati. Con la fine della guerra fredda e l'arrivo della globalizzazione, abbiamo avuto l'opportunità di creare un nuovo ordine internazionale basato sui valori americani, che riflettesse il nostro modo di vedere l'equilibrio tra Stato e mercato, che promuovesse la giustizia sociale e la democrazia su scala mondiale. L'amministrazione Clinton vanta al proprio attivo alcuni importanti successi nella creazione di un nuovo ordine economico internazionale con il Nafta (il trattato di libero commercio del Nord America) che unisce Messico, Stati Uniti e Canada nella piú grande area di libero scambio del mondo, e con la conclusione della tornata negoziale - il cosiddetto Uruguay round - che ha dato luogo alla creazione dell'Organizzazione mondiale del commercio (Omc/Wto), finalizzata a regolare le transazioni internazionali. Questi accordi promettevano nuovi vantaggi per la nostra economia, come ridurre il costo della vita, stimolare la crescita economica e creare posti di lavoro grazie all'accesso a nuovi mercati. Erano anche in programma nuovi accordi commerciali - tra le nazioni del Nord e Sud America, e le nazioni della regione Asia-Pacifico.

Ma se ripensiamo a questi successi, ora che assistiamo alle proteste in corso in tutto il mondo, ora che sentiamo diffondersi sentimenti antiamericani, è chiaro che qualcos'altro non era andato per il verso giusto. Alla base delle proteste si celano sintomi piú profondi. Spesso la globalizzazione non aveva portato i vantaggi promessi. Fatta eccezione per l'Asia - che in massima parte non aveva seguito le ricette per la crescita e lo sviluppo propugnate dagli Stati Uniti -, la povertà era in aumento, e in alcuni stati in modo drammatico. Con una crescita che in America Latina negli anni Novanta - il decennio della riforma e della globalizzazione - si attestava poco oltre la metà dei valori registrati negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, non c'è da meravigliarsi che serpeggiasse il malcontento. Il divario tra ricchi e poveri - sia tra gli Stati Uniti e i paesi in via di sviluppo sia tra i ricchi e i poveri di questi ultimi - continuava ad aumentare. Molti di coloro che hanno migliorato le loro condizioni economiche si sentono però piú vulnerabili. L'Argentina era considerata lo studente modello in materia di riforme. Analizzando il disastro che ha colpito questa nazione, i paesi in via di sviluppo si chiedono: se questo è il risultato, che ne sarà di noi? La disoccupazione e il senso di vulnerabilità aumentano, i frutti di quella poca crescita economica che resta vanno a finire in modo sproporzionato nelle tasche dei ricchi e, inevitabilmente, il senso di ingiustizia sociale cresce.

Il decennio in cui l'economia americana ha influito maggiormente su quella mondiale è stato anche un decennio di crisi continue che si sono succedute un anno dopo l'altro. Siamo sopravvissuti a queste crisi. Forse ne abbiamo anche tratto giovamento, per esempio con la diminuzione dei prezzi di alcuni generi di importazione, e forse le nostre banche d'investimento ci hanno guadagnato, ma queste crisi hanno provocato enormi sofferenze nei paesi che le hanno attraversate. La transizione annunciata dei paesi ex comunisti all'economia di mercato, che avrebbe dovuto condurre a una prosperità senza precedenti, ha portato invece a una povertà mai vista prima. La transizione si è rivelata un tale disastro che, nell'estate del 1999, il «New York Times» si chiedeva: Chi ha perso la Russia?. E anche se la Russia non era nostra e non potevamo quindi «perderla», le statistiche facevano riflettere: con l'efficiente capitalismo che andava a sostituire un comunismo ormai moribondo e decadente, la produzione avrebbe dovuto schizzare alle stelle. Invece, il Pil è sceso del 40 per cento e la povertà è decuplicata. E i risultati sono stati simili negli altri paesi che hanno effettuato la transizione economica seguendo i consigli del Tesoro degli Stati Uniti e del Fondo monetario internazionale (Fmi). Nel frattempo, la Cina - che invece è andata per la propria strada - ha dimostrato che esisteva una via alternativa alla transizione che permetteva sia di ottenere la crescita promessa dai mercati sia di ridurre in modo significativo la povertà.

[...]

Ancora una volta dovevamo chiederci quali fossero stati i nostri errori e perché li avessimo commessi. Abbiamo sbagliato in quello che abbiamo fatto e in quello che non abbiamo fatto; e abbiamo sbagliato per il modo in cui abbiamo agito. Gli accordi internazionali, per esempio, erano lo specchio delle nostre preoccupazioni e dei nostri interessi: abbiamo costretto gli altri paesi ad aprire i loro mercati dei capitali, diciamo, ai nostri strumenti finanziari sintetici e ai nostri flussi di capitali speculativi, ben sapendo quanto tutto questo avrebbe potuto destabilizzarli. Ma Wall Street lo pretendeva, e quello che Wall Street chiede, ottiene.

Ai paesi in via di sviluppo è stato chiesto di aprire i mercati a qualsiasi forma immaginabile di importazione, inclusi i prodotti in cui l'azienda Usa eccelle, vale a dire servizi finanziari e software. Nel frattempo, da parte nostra, abbiamo provveduto a tenere in piedi barriere commerciali e ingenti sovvenzioni a favore delle aziende agricole americane, negando l'accesso ai nostri mercati agli agricoltori del Terzo mondo. Il nostro consiglio tipo a un paese caduto in miseria e vittima della recessione era di tagliare le spese benché noi americani avessimo periodicamente fatto ricorso alla spesa in disavanzo per uscire dai periodi di contrazione economica.

Questi non sono gli unici casi di ipocrisia manifesta di cui abbiamo dato prova all'estero. Anche negli anni Novanta del riassestamento dei bilanci, noi americani abbiamo mantenuto ingenti deficit commerciali - oltre un miliardo di dollari al giorno - benché nel frattempo predicassimo agli altri di contenere il disavanzo; evidentemente, ai ricchi si poteva perdonare di vivere al di sopra dei propri mezzi, ai poveri no. Abbiamo rimproverato i paesi in via di sviluppo perché non rispettavano le leggi sulla proprietà intellettuale che anche noi avevamo violato quando eravamo in via di sviluppo (fino al 1891 gli Stati Uniti non hanno tutelato i diritti degli autori stranieri).

Particolarmente strano è stato il contrasto tra i palliativi adottati all'estero dall'amministrazione Clinton e le battaglie che conduceva in patria. In casa nostra, difendevamo la previdenza sociale pubblica contro la privatizzazione, tessendo le lodi dei costi delle transazioni piú contenuti, della sicurezza del reddito che forniva, e di come avesse praticamente eliminato la povertà tra gli anziani. All'estero, cercavamo di imporre la privatizzazione. In patria, sostenevamo che la Fed dovesse tenere sotto controllo la crescita e la disoccupazione, oltre all'inflazione - e con un presidente eletto sulla base di un programma mirato all'occupazione, non poteva fare diversamente. Negli altri paesi, sollecitavamo le banche centrali a occuparsi esclusivamente d'inflazione.

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Pagina 83

Capitolo quarto

Deregulation senza freni


Forse la Fed non ha fatto tutto quanto era nei suoi poteri per evitare che la bolla speculativa crescesse a dismisura, ma di sicuro non l'ha creata. Le bolle non sono altro che manifestazioni dell'euforia ingiustificata che talvolta minaccia un'economia - un ottimismo irrazionale, spesso seguito da un altrettanto irrazionale pessimismo. Per questo, è spesso difficile prevedere l'inizio di una bolla, o sapere quando finirà. Vi sono comunque alcune circostanze in cui aumentano le probabilità che le crisi economiche o le recessioni gravi possano danneggiare un'economia. Negli ultimi trent'anni, il mondo ha registrato quasi un centinaio di crisi, molte delle quali provocate da una qualche forma di deregolamentazione a tappe forzate. Sebbene la contrazione economica del 2001 sia solo una forma lieve rispetto a queste malattie piú virulente, è indubbio che sia stata provocata in massima parte dalla deregulation degli anni Novanta.

La deregolazione del settore delle telecomunicazioni ha aperto le porte alla bolla del sovrainvestimento che è poi scoppiata con tanto fragore nel 2001; quella del settore elettrico ha condotto alla manipolazione del mercato che ha colpito l'economia californiana, cuore pulsante di gran parte dell'innovazione americana; quella del settore bancario - in particolare con l'abrogazione della legge Glass-Steagall - ha dato luogo a nuovi conflitti d'interessi, quando invece sarebbero serviti maggiori controlli per risolvere quelli esistenti e quelli in fase di formazione che tanto avrebbero contribuito a indebolire la fiducia nei nostri mercati mobiliari. Una regolazione permissiva del settore contabile ha poi fornito l'occasione e gli incentivi per diffondere informazioni fuorvianti o sbagliate.

I mercati sono una cosa delicata, e gli errori sono costati cari, sebbene gli Stati Uniti siano un paese abbastanza ricco da poter affrontare conseguenze del genere con relativa facilità. Altrove, i governi costretti a riparare agli errori della deregulation, in particolare nei settori bancario e finanziario, hanno dovuto utilizzare in alcuni casi una quota ingente del Pil. Il Cile, a vent'anni di distanza, sta ancora pagando le conseguenze della crisi bancaria dei primi anni Ottanta, e il sistema bancario messicano non si è ancora del tutto ripreso dalla crisi del decennio successivo. Eppure, malgrado gli innumerevoli insegnamenti che ci impartisce la storia, la deregulation è stata di nuovo il tema prediletto della politica degli anni Novanta. Naturalmente, in alcuni casi si è dimostrata utile, ma deve essere maneggiata con cura, al contrario di quanto è avvenuto in molti casi.

Va da sé che un fenomeno complesso come una recessione ha molte cause: la cattiva gestione della Fed può contribuire, insieme alla deregulation e alle modifiche delle leggi fiscali, a creare e gonfiare una bolla che alla fine scoppia. Nel capitolo II abbiamo visto che la deregolamentazione portata avanti da Ronald Reagan nel settore delle casse di risparmio, associata alla devastazione dei bilanci delle banche provocata dall'aumento dei tassi d'interesse a livelli inusitati da parte della Fed, contribuí alla bolla immobiliare che, al suo scoppio, non solo costò ai contribuenti americani oltre 100 miliardi di dollari, ma condusse anche alla recessione del 1990-91.

Per certi versi, la bolla degli anni Novanta fu comunque diversa dalle precedenti. C'erano alcune ragioni fondamentali di ottimismo, forse non quell'ottimismo sfrenato che aveva caratterizzato gli ultimi anni del boom, né l'euforia irrazionale del mondo delle dotcom, ma pur sempre di ottimismo si trattava. Gli investimenti nella ricerca che il paese effettuava da molti anni cominciavano a dare buoni frutti. Le tecnologie avanzate finalmente rendevano. La produttività era in aumento. La globalizzazione offriva ai consumatori americani capi di abbigliamento ed elettronica a basso costo, e sebbene molti stabilimenti venissero trasferiti all'estero, il paese creava nuovi posti di lavoro altamente retribuiti, principalmente nel terziario, in numero nettamente superiore ai posti di lavoro persi nell'industria. La disoccupazione era in calo, ma aumentava la concorrenza, e questo teneva a freno l'inflazione. Inauguravamo una nuova era, mettendo in discussione una delle costanti di sempre dell'economia, e cioè che un basso livello di disoccupazione alimenta l'inflazione. Ma c'era il rovescio della medaglia in questa pur rosea situazione: i salari reali non crescevano come di solito avviene in una fase di ripresa. I consumi, invece, tenuti a galla da prezzi dei beni piú elevati, si mantenevano a livelli soddisfacenti. E salari bassi, crescita elevata e produttività in aumento potevano significare una cosa sola: profitti piú alti. E i profitti piú alti, uniti a tassi d'interesse modesti, hanno portato al boom dei mercati finanziari. L'economia era davvero fiorente, ma in realtà la bolla avrebbe potuto essere evitata.

Se c'era un momento in cui mettere da parte la deregulation, o gestirla con particolare cautela, ebbene erano proprio gli anni Novanta. I democratici avevano sempre rallentato la corsa sfrenata alla deregulation. Ora anche noi ci eravamo gettati nella mischia, talvolta premendo sull'acceleratore ancora di piú di quanto non avesse fatto l'amministrazione Reagan.

La domanda di deregolazione si faceva sentire da tempo. Condotta nel modo giusto, essa contribuisce a far si che i mercati funzionino in modo competitivo. Ci sono sempre delle aziende che cercano di approfittare di posizioni dominanti: l'ideale è che la regolamentazione impedisca ad alcune aziende di trarre vantaggio dalla propria posizione monopolistica quando la concorrenza è limitata perché esiste un «monopolio naturale», un mercato dove ci sarebbero comunque solo un paio di aziende, anche se nessuno facesse nulla di particolare per evitare l'ingresso di rivali o eventualmente sbarazzarsene. La regolamentazione aiuta a limitare i conflitti d'interessi e gli abusi, affinché gli investitori possano contare su un mercato in grado di assicurare un gioco leale, e sulla tutela dei loro interessi da parte dei soggetti preposti. Ma l'aspetto negativo di tutto questo è che la regolamentazione limita i profitti e, per questo, deregulation significa profitti piú elevati. Negli anni Novanta, chi intravedeva i guadagni sostanziosi legati alla deregulation non esitava a investire per ottenerla, stanziando milioni di dollari a favore di campagne elettorali e lobbisti. Tra le aziende che hanno speso di piú per esercitare pressioni politiche attraverso le lobby alla fine degli anni Novanta ci sono quelle impegnate a favore della deregulation nei settori bancario e delle telecomunicazioni e contro le norme ambientali e il risparmio energetico. Gli sforzi per evitare l'approvazione di regole davvero necessarie sono stati altrettanto appassionati: il settore della contabilità ha speso 15 milioni di dollari a fini lobbistici tra il 1998 e il 2000, contribuendo alla campagna elettorale di oltre il 50 per cento dei deputati e il 94 per cento dei senatori.

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Pagina 100

Assistenza di stato e ipocrisia degli imprenditori.

La deregulation è stata forse motivata piú dal tentativo di aumentare i profitti che non da una sincera preoccupazione per l'efficienza dell'economia americana. Dopotutto, abbiamo poi visto la vera faccia di chi premeva per la deregulation e un ruolo sempre piú marginale per lo Stato: è bastato analizzare gli atteggiamenti di queste persone sul tema delle sovvenzioni alle imprese e la protezione del governo. In qualità di presidente del Consiglio dei consulenti economici, ho osservato tre costanti in coloro che si rivolgevano a noi per chiedere aiuto.

Innanzitutto, gli imprenditori generalmente sono contrari ai sussidi, per tutti tranne che per se stessi. Quando si parla del loro settore, sciorinano una moltitudine di argomenti a sostegno dell'intervento statale. Dalla concorrenza sleale dall'estero alla flessione dell'economia interna, le storie erano infinite. In secondo luogo, tutti erano favorevoli alla concorrenza, in ogni settore, purché non fosse il loro. Anche qui, non mancavano le tesi volte a dimostrare perché la concorrenza nel loro settore sarebbe stata distruttiva, o perché doveva essere gestita con cautela. Terzo, tutti erano a favore della lealtà e della trasparenza, in ogni settore, tranne naturalmente che nel proprio, dove la trasparenza avrebbe potuto introdurre inutili fattori di disturbo, erodere il vantaggio competitivo, e via di seguito.

La maggior parte delle imprese considerava quindi qualsiasi aiuto economico o altra forma di intervento statale perfettamente giustificati (e non riteneva di dover motivare questi interventi con lo strano linguaggio degli economisti), ma il Consiglio, di solito, li guardava con sospetto.

Tuttavia, ciò che sarebbe potuto rimanere entro i confini di un dibattito accademico si è trasformato in una controversia molto tesa all'interno della Casa Bianca, costantemente impegnata a far quadrare il bilancio. Eravamo stati costretti ad abbandonare molti dei programmi annunciati da Clinton nella campagna elettorale, tra cui gli investimenti nella didattica e nella sanità e gli avanzamenti scientifici che ci avrebbero consentito di mantenere il nostro vantaggio tecnologico. Il presidente aveva sottolineato l'importanza della riforma dell'assistenza pubblica, e la maggior parte dei membri della sua amministrazione voleva un programma in grado di aiutare i disoccupati a reinserirsi nel mondo del lavoro, e per questo occorrevano istruzione, formazione e assistenza all'infanzia e, di conseguenza, finanziamenti. Ma a causa delle ristrettezze del bilancio, capimmo perfettamente che l'unica riforma dell'assistenza pubblica che saremmo riusciti a ottenere avrebbe forse tolto ad alcuni i sussidi, senza aiutarli a trovare lavoro.

Se eravamo arrivati al punto di dover tagliare i fondi per l'assistenza ai poveri, era ancora piú urgente eliminare quella ai ricchi, e in particolare le sovvenzioni e i tagli fiscali concessi alle imprese, il cosiddetto corporate welfare. Mentre il segretario del Lavoro Robert Reich guidava la carica per eliminare le agevolazioni alle imprese, il Consiglio si assunse l'incarico di redigere un elenco completo degli sgravi fiscali e delle sovvenzioni che si potevano ritenere ingiustificati.

L'iniziativa, però, seminò discordia. Il Tesoro si oppose con veemenza all'idea, sostenendo che il termine stesso corporate welfare sapeva di lotta di classe e che l'attacco contro le agevolazioni alle imprese era incoerente rispetto all'immagine «pro business» che i neodemocratici cercavano di trasmettere. Da parte mia, la pensavo in modo totalmente diverso. Al contrario, ritenevo che l'attacco sferrato al corporate welfare fosse perfettamente coerente con il nostro tentativo di dare vita a una nuova filosofia imperniata attorno ai mercati. E proprio perché credo nei mercati che ritenevo pericoloso sovvenzionarli. Queste agevolazioni distorcono le modalità di impiego delle risorse. Le agevolazioni fiscali concesse da Reagan all'America delle ciminiere e al settore immobiliare ebbero la conseguenza di indebolire il paese. Dovremmo fare in modo che tutti abbiano le stesse possibilità - e il corporate welfare va esattamente nella direzione contraria. I New democrats non erano contrari al mercato, e di certo non erano fautori di una regolamentazione fine a se stessa. Talvolta i mercati falliscono e, quando ciò accade, occorre che intervenga lo Stato. Ma quando i mercati funzionano, non c'è bisogno di alcun intervento statale.

Per quanto ci potessimo impegnare, l'opposizione del Tesoro combinata con la politica del Congresso ci impedí di intervenire in modo significativo sul corporate welfare e, da allora, non sono stati compiuti passi avanti. Siamo riusciti a far tirare la cinghia ai poveri e a farla allentare ai ricchi.

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L'agricoltura costituisce un altro esempio della filosofia dei «due pesi e due misure» alla base del programma di liberalizzazione voluto dagli Stati Uniti. Pur insistendo affinché gli altri paesi riducessero le loro barriere ai nostri prodotti ed eliminassero le sovvenzioni per i beni in concorrenza con i nostri, gli Stati Uniti hanno mantenuto sia le barriere nei confronti dei prodotti provenienti dai paesi in via di sviluppo sia le sovvenzioni di stato. Gli aiuti all'agricoltura incentivano i coltivatori americani a produrre di piú, deprezzando i raccolti che per molti paesi poveri costituiscono l'unica fonte di reddito. Per esempio, i soli sussidi per il cotone, versati a 25 000 agricoltori americani - perlopiú benestanti -, superano il valore del cotone effettivamente prodotto, che subisce quindi una forte diminuzione di prezzo. I coltivatori americani, che rappresentano un terzo della produzione mondiale complessiva - malgrado i costi di produzione negli Stati Uniti siano il doppio del prezzo internazionale, fissato in 42 centesimi di dollaro per libbra -, hanno guadagnato a scapito dei 10 milioni di agricoltori africani che dipendono dal cotone per i loro magri introiti. Diversi paesi africani hanno perso tra l'1 e il 2 per cento del loro reddito totale, pari a un importo superiore a quello che questi stessi paesi hanno ricevuto dagli Stati Uniti sotto forma di aiuti esteri. Il Mali, per esempio, ha ricevuto aiuti per 37 milioni di dollari, ma ne ha persi 43 a causa della depressione dei prezzi.

Mickey Kantor, rappresentante commerciale degli Stati Uniti nei primi anni della presidenza Clinton e responsabile di negoziare gli accordi commerciali, esemplifica sia il successo a breve termine sia i problemi a lunga scadenza legati a quei primi risultati positivi. Kantor aveva diretto la campagna presidenziale di Clinton. Era devoto, pieno di energie e affascinante. Aveva una formazione giuridica e, pur non essendo esperto di politica economica internazionale, sapeva come concludere accordi commerciali graditi alle aziende americane. Negoziava duro finché non riusciva a ottenere le migliori condizioni per gli Stati Uniti. Ma pur essendo perfetta nei tribunali di casa nostra, un'aggressività del genere non giova agli interessi del paese quando è l'opinione pubblica mondiale a emettere il verdetto.

Una delle nuove aree in cui Kantor ha negoziato con estrema durezza è stata quella dei diritti di proprietà intellettuale, come i brevetti e i copyright. Al pari dei servizi, anche questi costituivano una fonte di introiti sempre piú importante per le aziende americane. Durante l' Uruguay round, obbedendo agli ordini delle case farmaceutiche americane, insisté per garantire la massima protezione possibile alla proprietà intellettuale. L'Ufficio per l'intervento nel settore della Scienza e della Tecnologia (Ostp) e il Consiglio dei consulenti economici si opposero a questa posizione. I diritti di proprietà intellettuale devono bilanciare gli interessi degli utenti della conoscenza con quelli dei produttori. Un regime troppo rigoroso in materia di proprietà intellettuale può di fatto influire negativamente sul ritmo dell'innovazione; dopotutto, la conoscenza è l'elemento essenziale nella produzione di altra conoscenza. Sapevamo che la tesi secondo cui, senza diritti di proprietà intellettuale, la ricerca sarebbe rimasta soffocata era semplicemente erronea; anzi, la ricerca e la produzione di idee che stavano alla base della maggior parte dei progressi tecnologici, dai transistor ai laser, dai computer a Internet, non erano protette da diritti di proprietà intellettuale, eppure gli Stati Uniti erano il paese leader anche in quei settori.

I brevetti rappresentano spesso la privatizzazione di una risorsa pubblica, di idee nate perlopiú da ricerche finanziate con denaro pubblico. Creano un potere monopolistico e interferiscono con l'efficienza nel breve periodo. Le economie di mercato dànno risultati efficienti solo quando esiste concorrenza, e i diritti di proprietà intellettuale indeboliscono le fondamenta della concorrenza stessa. In alcuni casi, i vantaggi derivanti dalla maggiore ricerca indotta potrebbero giustificarne il costo; ma ciò che serve è un attento bilanciamento tra costi e benefici, vale a dire i vantaggi di una ricerca piú vasta indotta da diritti di proprietà intellettuale piú rigidi e gli svantaggi creati dal potere monopolistico e da mercati sempre meno efficienti. Le case farmaceutiche che auspicavano l'introduzione di diritti di proprietà intellettuale piú stringenti non erano interessate a questo genere di equilibrio; ritenevano semplicemente di garantirsi profitti piú elevati. Il Consiglio dei consulenti economici e l'Ufficio per l'intervento nel settore della Scienza e della Tecnologia si preoccuparono - a giusta ragione, quando finalmente fu reso noto l'accordo - che il rappresentante degli Stati Uniti ai negoziati commerciali di Ginevra non stesse perseguendo quel delicato equilibrio, ma si facesse interprete solo delle esigenze delle case farmaceutiche.

Il Consiglio dei consulenti economici sospettava anche che queste nuove protezioni potessero condurre a un aumento dei prezzi dei farmaci nei paesi in via di sviluppo, privando i poveri e i malati delle cure di cui avevano disperato bisogno. Temevamo, siglando il trattato dell' Uruguay round, di mettere la firma anche sulla condanna a morte di migliaia di poveri che, nel Terzo mondo, avevano bisogno di farmaci salva vita. Le nostre preoccupazioni si dimostrarono fondate e lo sdegno dell'opinione pubblica contribuí a gettare dei dubbi sul modo in cui veniva gestita la globalizzazione.

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