Copertina
Autore Jacopo Storni
Titolo Sparategli!
SottotitoloNuovi schiavi d'Italia
EdizioneEditori Riuniti, Roma, 2011, report , pag. 336, cop.fle., dim. 14x20,8x2,2 cm , Isbn 978-88-359-9050-5
PrefazioneEttore Mo
LettoreLuca Vita, 2012
Classe paesi: Italia: 2010
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Indice


  9 Prefazione di Ettore Mo

 15 Introduzione

    Gli schiavi

 25 Vittoria: lavoro in cambio di sesso
 37 Rosarno: peggio di prima
 51 Sikh Sabaudia: ortaggi e crudeltà
 65 Valeriu: operaio edile nei cantieri lager
 79 Simon: facchino in cooperativa
 89 Rosso pomodoro, rosso sangue: da Foggia a Potenza

    I baraccati

105 Roma: nella "buca degli afghani"
121 Ponticelli: baraccopoli italiana
133 Triboniano: vita da rom
147 Somali di Firenze: occupanti per sempre

    I disperati della strada

161 Jasmine: baby prostituta
175 La tribù dei "piedi neri": i mendicanti di via Colombo
189 Vu cumprà: Mohamed e la mafia dei falsi
201 Gazim: una vita sul marciapiede

    I perseguitati

215 Navtej: fuoco all'indiano di Nettuno
231 Coccaglio: un "Bianco Natale" senza clandestini
243 Cassibile: la tendopoli dei sudanesi

    I prigionieri

255 Lamezia Terme: nell'inferno del Cie peggiore d'Italia
267 Kamel: tra i mille di Sollicciano

    I morti

283 El Hadji: lavoro nero, morte bianca
293 Sani in patria, malati in Italia
305 Lampedusa: il cimitero degli immigrati

315 Conclusioni


    Appendici
329 Dicono di loro
331 I numeri dell'immigrazione

333 Riferimenti bibliografici


 

 

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Pagina 15

Introduzione



«Ci accusate di delinquenza e terrorismo, ma i veri terroristi siete voi. Tutti voi». E se Mohamed avesse ragione? Seduto tra fango e lamiere — nel bel mezzo di una squallida baraccopoli italiana — sputava sentenze.

«Voi italiani avete paura degli immigrati. Ci credete malviventi, ci chiamate clandestini. E intanto ci opprimete, ci sfruttate, ci schiavizzate. Non vi è mai venuto il dubbio che, forse, i veri criminali siete voi? Vi scandalizzate per i caporali di Rosarno, che reclutano braccianti africani per due lire. Ma tutti voi, indirettamente, vi comportate allo stesso modo».

Ma che colpa abbiamo noi? Noi, italiani brava gente, cosa c'entriamo coi drammi dell'immigrazione? Forse niente. O forse siamo terribilmente responsabili.

Quasi un milione di immigrati, in Italia, vive in condizioni disumane. Baraccati, senzatetto, schiavi, prostitute, prigionieri, clochard, mendicanti, morti ammazzati: un esercito di miseria e disperazione che affolla l'Africa di casa nostra, il Terzo mondo d'Italia. Vivono di stenti quotidiani, di cronici supplizi. Talvolta ridotti alla fame, spesso senza dimora, oppressi, abbandonati, ricattati, inascoltati, discriminati, sfruttati. Invisibili.

Sono circa 25 mila le donne straniere vittime di tratta. Arruolate dalla mafia internazionale, battono i marciapiedi delle nostre periferie. Partono dai loro paesi con un sogno in tasca, ma si ritrovano confinate in fatiscenti baracche o in appartamenti sovraffollati. Vengono picchiate, derise, spesso torturate. Costrette ad abusi fisici vergognosi. La loro anima è sgretolata, ma le loro gambe, quotidianamente sulle strade, sono saldamente sorrette da nove milioni di clienti. Tutti italiani. Giovani, vecchi, padri di famiglia: «Mi portò in auto, dove aveva il seggiolino del figlio» mi ha raccontato una giovane prostituta nigeriana.

Nei nostri cantieri edili lavorano in condizioni disumane circa 150 mila immigrati. Sono quasi tutti in nero, condizione attuabile, in Italia, grazie all'impossibilità di mettere mano a un sistema irregolare che fa comodo a tutti.

Faticano dodici ore al giorno per tre euro l'ora. Uno sfruttamento immane e disumano, dove l'uomo diventa un animale che traina la speculazione del mattone, la lussuriosa e incontinente sete venale di costruttori, imprenditori, caporali. E allora sudore e fatica, fatica e sangue, come quello di chi, per non morire di fame, è disposto a tutto, anche a lavorare in condizioni estreme, in contesti allucinanti dove la sicurezza sul lavoro è meno di un optional.

E succede che lo schiavo si infortuna, spesso gravemente. A volte muore. E tutte le volte, la litania morale si ripete: «Questa disgrazia si poteva evitare». Lavoro nero, morte bianca.

Le morti sul lavoro avvengono quasi sempre per irresponsabilità di una parte del mondo produttivo, che tenta di ridurre i costi costringendo i soggetti più vulnerabili, come gli immigrati, ad accettare condizioni di lavoro insostenibili.

E poi ci sono i servi dell'agricoltura. Circa 400 mila quelli che in Italia lavorano in condizioni durissime. Come quelli di Rosarno, ormai tristemente famosi, così famosi che ormai non fanno più notizia. Nelle campagne del Mezzogiorno migliaia di immigrati, tramortiti e schiavizzati da viscide crudeltà mafiose, coltivano gli alimenti che ornano le nostre tavole.

I guineani si arrampicano sugli alberi per arpionare le arance nella Piana di Gioia Tauro. I polacchi si accartocciano per agguantare i pomodori del Tavoliere pugliese. Le romene sudano dentro le serre intorno a Ragusa arrotondando lo stipendio con una prestazione sessuale al datore di lavoro. I sudanesi si spaccano la schiena per raccogliere le patate nei dintorni di Cassibile, intransigente paesino siciliano che combatte gli immigrati perché «la loro presenza allontana i turisti».

Ma non succede soltanto al sud. Settecento chilometri più a nord, a due passi da Roma, lo scenario si ripete. La terra da coltivare è quella dell'Agro Pontino, gli schiavi da spremere sono gli indiani.

Gli immigrati, a volte, li imprigioniamo. In virtù del reato di clandestinità, una sorta di equiparazione tra immigrazione e delinquenza, sono nati i Centri di identificazione ed espulsione, ferree prigioni dove convivono uomini colpevoli soltanto di essere stranieri, puniti perché clandestini, uguale criminali.

In Italia sono quasi duemila gli immigrati detenuti nei tredici Cie. Dormono ammassati in stanze fatiscenti, circondati da sbarre e metallo, in spazi angusti, claustrofobici, dove i pestaggi degli agenti penitenziari anneriscono le cronache. Gli atti di autolesionismo sono all'ordine del giorno, così come i tentati suicidi e le tentate evasioni.

Condizioni simili si trovano negli istituti penitenziari: gabbie sovraffollate che seminano rabbia e dove la rieducazione è un eufemismo. Il 38 per cento dei nostri detenuti è straniero, la maggior parte in cella per piccoli reati. Nessun crimine è giustificabile, ma può essere almeno comprensibile quando la delinquenza è la naturale conseguenza dell'emarginazione, quando non hai soldi per vivere e vai a rubare, quando non hai neanche un letto su cui dormire e vai a spacciare. È il percorso inevitabile di molti extracomunitari: ladri e spacciatori perché nullatenenti. Molti provano a cercare lavoro, ma senza regolari documenti è un'odissea. Basterebbe un'assunzione e arriverebbero anche i documenti ma il prezzo da pagare, per molti datori di lavoro, è troppo alto.

Lo stato di clandestinità, da quando è reato, ha provocato conseguenze ancor più drammatiche. La prima, la più inquietante, è un generale allontanamento dei migranti dagli ospedali. Il motivo? Gli immigrati irregolari hanno paura di essere denunciati dai medici, incentivati dal Governo a "segnalare i clandestini". E così, finisce che gli immigrati, da sani che erano alla partenza, si ammalano in Italia. Finisce che un raffreddore diventa una polmonite e una banale ferita si trasforma in un'infezione.

Poi ci sono gli immigrati vittime di atti criminali a sfondo razzista. Un'aggressione xenofoba ogni giorno, ricordano le statistiche, due al giorno soltanto a Roma. Come quelle contro i bengalesi: derisi, umiliati e picchiati nei quartieri popolari della capitale, dove bande di bulli sprizzano odio e razzismo da tutti i pori e arrivano ad appiccare il fuoco su corpi innocenti. C'è odore di razzismo anche nelle ordinanze leghiste del Nord Italia: vedi Coccaglio, nel bresciano, dove il sindaco leghista ha lanciato la campagna "un Bianco Natale senza i clandestini", avviando un'operazione porta a porta per scovare gli immigrati irregolari.

Infine, ci sono gli immigrati delle baraccopoli. Sono posti lugubri, agghiaccianti, vere fogne d'Italia. Tra lamiere, fango e umidità, si dorme distesi sul cemento o in stamberghe sovraffollate all'inverosimile. L'accoglienza abitativa, spesso, è un miraggio impossibile per chi vive la strada. La mole di drammi condensata nelle baracche italiane è ugualmente acuta a quella dissipata dai sobborghi keniani. Magari non vi si muore di fame, ma la malnutrizione è cronica. Così come è cronica la malnutrizione dei clochard che popolano i marciapiedi delle nostre città (sono soprattutto immigrati), ridotti sulla strada da vite sature di fallimenti. E poi ci sono i mendicanti, inanimati fantasmi che si aggirano tra strade e semafori, vestiti di stracci e raggirati dal racket dell'elemosina.

Quelli appena descritti sono gli immigrati protagonisti del libro, uomini e donne che si nascondono nelle viscere lamentose del Terzo mondo italiano, lager di umanità che cola a brandelli a due passi da casa nostra. È un mondo più grande di quanto si possa immaginare, un inferno sconfinato in cui ribolle una bella fetta del popolo extracomunitario. Mappa alla mano, le situazioni al limite sono innumerevoli. Quelle descritte in questo libro sono soltanto le più emblematiche.

Ma perché una parte d'Italia è Terzo mondo? Perché non cambia niente? Perché, nella dolce atmosfera del Bel Paese, proliferano servi e baraccopoli, lager e prigionieri? A tutti questi perché, cerchiamo di rispondere. Non con responsi preconfezionati, non con ricette in politichese, ma soltanto dando voce a chi non l'ha mai avuta e osservando la questione con l'occhio delle vittime, ascoltando le loro storie, viaggiando tra le pieghe e le piaghe dell'Italia, scendendo negli inferi dell'immigrazione per coglierne fatti e sentimenti, sogni e sbagli, gioie e dolori. Storia dopo storia, la voce degli immigrati finisce per diventare specchio dell'Italia, un'Italia egoista che esilia ai margini della società i relitti umani del nuovo millennio, quelli che si ritrovano davanti ciò da cui hanno tentato di fuggire: fame, indigenza e ostilità.

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Pagina 315

Conclusioni



«Questo libro è soltanto una carrellata di orrori». Molte case editrici mi hanno risposto così. «È soltanto una sequela di disumanità, manca una robusta tesi di fondo». Inutile fasciarsi la testa: il libro non andava bene, non poteva essere pubblicato. Eppure, mi ripetevo, gli orrori in serie che mi vengono criticati affliggono quasi un milione di esseri umani in tutta Italia. «Manca qualcosa di forte» mi è stato detto. Eppure, questa è gente che soffre la fame. Persone scarnificate: senza casa, senza famiglia, senza soldi, senza cibo, senza documenti. Senza un posto in cui lavarsi. Senz'anima, senza più speranza. Vite di scarto, fantasmi. Emarginati dal sistema, schiavi per necessità, delinquenti per non soccombere.

Vivono in Italia, ma sembra Terzo mondo: una sofferenza inaudita per queste latitudini. I loro habitat sono lontani anni luce dalla nostra quotidianità. Mondi paralleli, dove aleggiano gli spettri della schiavitù, la disperazione delle favelas, l'odore della morte. «Se questa non è roba forte» mi dicevo, «cosa posso inventarmi per trovare un editore?».

Alla fine l'ho trovato: Editori Riuniti ha scommesso sul mio viaggio, li ringrazio vivamente.

È stato un viaggio lungo quasi due anni. Intenso, emozionante, umano e disumano. Un percorso non soltanto antropologico tra le vittime dell'immigrazione, ma anche un viaggio sociologico nel cuore degli italiani, saldamente presenti negli ingranaggi di ogni storia, determinanti nella vita di ogni immigrato. Nelle viscere dei drammi migratori, ho scovato le nostre peggiori malattie. È stato un viaggio rivelatore, grazie al quale ho compreso finalmente anche i motivi per cui questo libro non andava bene. Non andava bene perché siamo noi che non andiamo bene. È la società che rifiuta di recepire il degrado circostante. Non vuole proprio saperne. È come se gli immigrati fossero un corpo estraneo.

Il Terzo mondo d'Italia è una vera emergenza umanitaria, eppure resta impalpabile. È una piaga che, diventando routine, perde la sua essenza emergenziale. È come se assistessimo a un processo di banalizzazione della drammaticità, dove banalizzare significa invitare all'omertà.

In questo viaggio ho visto un'Italia arroccata su se stessa, incapace di assorbire ogni flusso esterno, almeno finché questo non diventa un'insidia. Ecco perché gli immigrati fanno notizia soprattutto quando delinquono. Oppure quando "rubano" il nostro lavoro. Spesso sono numeri da statistica o "pericoli sociali".

Lo abbiamo sentito anche durante i subbugli nel Nord Africa, quando giornali e telegiornali ci hanno parlato dell'emergenza clandestini: «C'è il timore che possano arrivare fino al Nord Europa» spiegavano i giornalisti riferendosi ai migranti tunisini. E i politici: «Ogni regione deve prendersi la sua parte di immigrati»; ma le regioni ribattevano: «Noi ne abbiamo già tanti, non possiamo prenderne altri». Neanche fossero lebbrosi. Sono persone, ma sembrano rifiuti. Siamo terrorizzati dall'invasione degli africani, ma non pensiamo mai che loro, molto spesso, nei loro paesi sono ancor più terrorizzati di noi dalla quotidianità: qualcuno scappa dalla guerra, qualcun altro dalla miseria, qualcun altro, semplicemente, vuole vivere una vita più dignitosa. C'è qualcosa di male in questo?

Gridando all'esodo biblico, abbiamo invocato aiuto all'Europa, ma non ci siamo accorti che la Germania ospita un numero di rifugiati sei volte maggiore al nostro, il Regno Unito il quintuplo, la Francia il quadruplo. Sono soprattutto iracheni, afghani, kosovari, serbi, indiani.

La fobia dell'invasione regala il meglio di sé quando il "forestiero" arriva proprio sotto casa nostra. Lo abbiamo visto durante il trasferimento dei tunisini da Lampedusa. Ovunque si decidesse di trasferirli, impazzivano le proteste. «Clandestini trasferiti da Lampedusa a Manduria»: rivolte dei cittadini a Manduria; «Clandestini trasferiti da Lampedusa a Coltano»: proteste, presidi e donne incatenate a Coltano; «Clandestini trasferiti da Lampedusa a Kinisia»: proteste e manifestazioni a Kinisia. Sono spuntati comitati anticlandestini come funghi, ovunque. Qualcuno s'è incatenato, qualcun altro ha sfoderato striscioni, altri si sono armati di megafono scoprendosi improvvisamente attivisti incalliti: tutto purché i clandestini stiano lontani da casa nostra. Ci vestiamo di militanza, chiusi in un recinto d'ignoranza, aggrovigliati nelle maglie del respingimento preventivo.

In questo pellegrinaggio nel lato oscuro dell'immigrazione ho sentito spesso ripetere, dai politici di ogni ideologia, la seguente frase: «Prima di dare una casa agli immigrati, dobbiamo pensare ai nostri giovani disoccupati». Una frase sacrosanta per la maggior parte degli italiani. Eppure, è quanto di più inumano possa esistere. Perché dovremmo pensare prima ai disagi di un giovane disoccupato italiano piuttosto che a quelli di un immigrato che vive in una baraccopoli? Perché viene prima la casa di un nostro connazionale e poi si pensa alla sistemazione di un immigrato?

Perché è naturale che sia così, si risponderà con naturalezza. Ma è la risposta più contro natura che possa esistere, una risposta che nasconde una sorta di suddivisione razziale, una studiata programmazione dell'assistenza in base alla provenienza. E cosa c'è di più innaturale che frammentare la specie umana a seconda del paese d'origine? Ecco perché quello che manca è un po' di coraggio.

Manca soprattutto a quelle frange politiche che, nel vento caldo del buonismo, sbandierano principi di solidarietà e fratellanza. Manca il coraggio di equiparare (concretamente) italiani e africani, italiani e indiani, italiani e musulmani, italiani e immigrati. Tutti. È giusto porre attenzione ai disagi che attanagliano gli italiani, che sono tanti, ma è altrettanto giusto prendere consapevolezza che esistono, proprio sotto casa nostra, questioni molto più urgenti delle nostre. Non possiamo permetterci di dare priorità ai nostri problemi, seppur gravissimi, mettendo in secondo piano la fame delle baraccopoli o la schiavitù di cantieri e campagne. Emergenze da Terzo mondo, non malesseri da paese avanzato.

La politica spesso concorre a emarginare i migranti. Tra destra e sinistra, in questi ultimi anni, non ci sono state particolari differenze. Entrambi gli schieramenti, attraverso scelte e mancanze, hanno contribuito ad affollare il Terzo mondo d'Italia. Ma la politica, è fondamentale sottolinearlo, non fa altro che lasciarsi guidare dall'orientamento collettivo.

Il popolo italiano è conosciuto per il suo profondo senso dell'accoglienza, un popolo tradizionalmente altruista e generoso.

Non sempre è vero: attraversando la parte più cupa del paese, ho conosciuto un'Italia inchiodata nell'egoismo e nel "familiarismo", dove germoglia l'intolleranza verso qualsiasi esperienza trascenda l'interesse personale.

Dunque non dobbiamo stupirci se il Governo, di riflesso a questo egoismo insito in ognuno di noi, intraprende strade avverse agli extracomunitari.

Mi chiedo: cosa succederebbe, ad esempio, se domani il Governo decidesse di alzare le tasse per incrementare le risorse all'accoglienza e all'integrazione degli immigrati? Rischierebbe di sollevare diffusi malcontenti popolari e, magari, di non essere rieletto.

L'accoglienza degli immigrati ha un costo che pochi sono disposti a pagare, un costo che potrebbe mettere in discussione i nostri privilegi ossificati e irrinunciabili. È una forma di egoismo intimo e primordiale che non riguarda soltanto l'Italia, ma accomuna tutto l'Occidente.

Questo la politica lo sa, e agisce di conseguenza. Tanto gli immigrati non votano. Pace, se poi continuano a rimanere emarginati.

Sarà impossibile risolvere il "problema" dell'immigrazione fin quando continueremo a edificare la nostra ricchezza sulle spalle dei migranti; fin quando il lavoro nero rappresenterà il 10 per cento del Pil italiano e scoraggerà le assunzioni; fin quando le prostitute straniere potranno contare su nove milioni di clienti; fin quando non ci apriremo al dialogo; fin quando ci ostineremo a ritenere gli italiani cittadini di serie A; fin quando chiameremo altri esseri umani clandestini; fin quando il linguaggio politico-mediatico continuerà a segregare anziché unire; fin quando non spenderemo un settimo delle risorse che la Germania riserva alle politiche d'integrazione; fin quando non saremo disposti a rinunciare a una piccolissima parte del nostro benessere per dare un tetto ai profughi di guerra; fin quando non saremo disposti — per dirla con il filosofo E.R. Schumacher — a vivere più semplicemente per permettere agli altri, semplicemente, di vivere.

Mi chiedo ancora: perché in Italia le sanatorie esistono soltanto per colf e badanti? Perché gli immigrati operai e quelli braccianti ne sono esclusi?

Servirebbe meno ipocrisia.

Tutto questo non significa essere buoni con tutti a prescindere: servirebbero anche pene più efficaci per gli immigrati che delinquono. Allo stesso tempo, però, ci vorrebbero maggiori attenzioni per l'esercito degli emarginati.

Ma soprattutto, servirebbe il coraggio della conoscenza e non l'ovvietà del pregiudizio.

I pregiudizi sono pericolosi. Producono stereotipi, rappresentazioni generalizzate. Siamo propensi a conoscere standardizzando. È più facile, più veloce. Capita spesso anche a me.

Prima di entrare nel campo rom a Milano ero pieno di scetticismo. Pensavo che la maggior parte dei rom fossero delinquenti. Mi sbagliavo.

Prima di scrivere questo libro, credevo anche che molte prostitute esercitassero il mestiere per scelta. Così come i barboni, li immaginavo volontariamente sulla strada. Sbagliavo anche in questi casi. E poi ci sono gli schiavi dell'agricoltura.

Non pensavo potessero esistere realtà schiaviste così inquietanti. Ritenevo molti migranti fannulloni, adagiati sul loro vittimismo. Poi, osservandoli da vicino, ho imparato a smontare pregiudizi e rappresentazioni sbrigative.

Non sappiamo niente di questa gente. Non sappiamo niente gli uni degli altri. I politici non si avventurano mai nelle baraccopoli, non si sporcano le mani. Non vanno neppure nelle campagne degli schiavi, mai a parlare coi mendicanti. Eppure servirebbe il coraggio di guardarli in faccia e ascoltare quello che hanno da dire.

In questo libro parlano soltanto le vittime. Mi sono commosso ad ascoltare le loro storie. Ma non perché sono più sensibile: è successo solo perché ho parlato con loro.

Impossibile negare che le difficoltà dei migranti, in parte, siano figlie dell'arretratezza culturale dei rispettivi paesi di provenienza.

Impossibile negare l'immobilismo, l'inerzia e la mancanza d'intraprendenza di una percentuale, seppur limitata, di extracomunitari. Ma non sono questioni irrisolvibili. Anzi, potrebbero essere risolte attraverso l'attuazione di seri piani d'integrazione che prendano le mosse dall'educazione culturale e dalla formazione sociale e che siano in grado di incanalare gli immigrati sulla via dell'autonomia. L'intera società ne beneficerebbe. Dovrebbero essere queste le risposte da offrire a chi non ha le gambe culturali per riscattarsi dalla miseria. Ma in tutto ciò, l'Italia ha molta strada da percorrere.


Per molti immigrati le frontiere sono muri invalicabili. Aprirle indistintamente sarebbe un gesto leggendario e forse suicida.

Ma cosa ci sarebbe di tanto clamoroso nell'aprire la propria porta anziché alzare un muro insuperabile condannando un altro essere umano a soffrire nel supplizio delle sue stanze?

«Forse confini e guardie» spiega Joseph Carens, docente di Scienze Politiche all'Università di Toronto, «possono essere giustificati come un modo per tenere fuori criminali, sovversivi o invasori armati. Ma la maggior parte di coloro che cercano di entrare non appartengono a tali categorie. Essi sono persone normali e pacifiche, che cercano solo l'opportunità di costruire vite decenti e sicure per sé e le proprie famiglie».

E poi, mi chiedo, perché un italiano è libero di andare in Africa come e quando vuole, mentre un africano deve dimostrare un reddito minimo per ottenere anche soltanto un visto turistico?

Da una parte l'Occidente è corresponsabile della povertà che attanaglia il Sud del mondo, dall'altra costringe gli immigrati a rimanere in quel Sud del mondo, negando loro il diritto all'emigrazione. Un accanimento quasi maniacale.

Per uscire da questo accanimento, bisognerebbe cominciare ad affrontare il problema alla radice, aiutando il Sud del mondo (seriamente) a evadere dalla gabbia della povertà.

È vero che efficaci aiuti allo sviluppo potrebbero gravare sulle nostre economie e sulle nostre vite ingorde, ma dovremmo avere il coraggio epico della rinuncia per far vivere chi muore.

E poi, la crescita dei paesi sottosviluppati è l'unico modo per evitare esodi d'immigrati. Perché è naturale — e sacrosanto — che un essere umano scappi dalla miseria.

Finché esisteranno fame e guerra, sarà impossibile arginare le pretese migratorie di chi sceglie di fuggire dalla povertà. Se non vogliamo gli immigrati, cerchiamo almeno di capire perché scappano e aiutiamoli a non aver più bisogno di fuggire. Altrimenti, ben venga l'invasione.

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I numeri dell'immigrazione



1. Senzatetto: 100 mila

2. Schiavi edili: 150 mila

3. Schiavi agricoli: 400 mila

4. Nei Centri di identificazione ed espulsione: 2 mila

5. In carcere: 24 mila

6. In carcere per reato di clandestinità: 3 mila

7. Prostitute: dalle 20 alle 50 mila

8. Mendicanti under 18: 20 mila

9. Morti sul lavoro nel 2010: 60

10. Morti in mare (verso l'Italia): 4 mila

11. Aggressioni xenofobe: 1 al giorno

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