Autore Elizabeth Strout
Titolo Olive, ancora lei
EdizioneEinaudi, Torino, 2020, Supercoralli , pag. 268, cop.rig.sov., dim. 14x22x2 cm , Isbn 978-88-06-24490-3
OriginaleOlive, Again [2019]
TraduttoreSusanna Basso
LettoreAngela Razzini, 2020
Classe narrativa statunitense












 

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Indice


    3     L'arresto

   20     Travaglio

   38     Pulizie

   61     Bambini senza madre

   84     D'aiuto

  107     Luce

  127     La passeggiata

  134     Pedicure

  154     Esuli

  177     Poeta

  197     Gli ultimi giorni della Guerra civile

  217     Cuore

  241     Amica


  265     Ringraziamenti


 

 

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Pagina 3

L'arresto


Nel primo pomeriggio di un sabato di giugno, Jack Kennison inforcò gli occhiali da sole, sali sulla sua decapottabile aperta, si fece passare la cintura di sicurezza sulla grossa pancia e parti alla volta di Portland, a quasi un'ora di macchina, pur di non incontrare Olive Kitteridge lí nell'alimentari di Crosby nel Maine. Lei, o quell'altra che aveva visto due volte nel negozio, quella che parlava del tempo mentre lui se ne stava con la bottiglia in mano. Del tempo, figuriamoci. Anche l'altra, di cui non ricordava il nome, era rimasta vedova.

Guidando, si senti a poco a poco quasi calmo e, una volta a Portland, parcheggiò e si fece una passeggiata fino al lungomare. L'estate era cominciata e, pur facendo ancora fresco a metà giugno, il cielo era sereno e affollato di gabbiani nella zona del porto. C'era gente a spasso, molti giovani con bambini e carrozzine, e sembravano tutti presi a conversare. Il fatto lo colpí. Con quanta disinvoltura davano per scontato l'essere insieme, il parlarsi tra di loro! Sembrava che nessuno si degnasse di notarlo, il che gli ricordò una cosa che sapeva anche prima, sebbene ora la registrasse diversamente: che era giusto un vecchio panciuto, non certo uno che si fa guardare. Ed era quasi una liberazione. Per molti anni della sua vita era stato un bell'uomo, alto, asciutto, in giro per il campus di Harvard, e allora sí che la gente lo notava, per tutti quegli anni aveva visto gli studenti lanciargli occhiate rispettose, e anche le donne, anche loro lo guardavano. Alle riunioni di dipartimento metteva soggezione a tutti; gliel'avevano detto i colleghi e lui sapeva che era vero, anche perché aveva voluto che lo fosse. Percorse oziosamente una delle banchine su cui affacciavano nuovi edifici residenziali e si disse che forse avrebbe dovuto trasferirsi li, dove sarebbe stato circondato dall'acqua, e dalla gente. Estrasse il cellulare, lo controllò e se lo rimise in tasca. Era sua figlia che avrebbe voluto sentire.

Da uno degli appartamenti usci una coppia; avevano su per giú la sua età, lui anche la pancia, magari non grossa come la sua, e lei sembrava nervosa, ma il modo in cui stavano insieme gli fece pensare che fossero sposati da anni. - È finita, ormai, - senti la donna dire, poi disse qualcosa lui, e allora lei: - No, è finita -. Gli passarono accanto (senza vederlo) e quando si voltò a guardarli di nuovo un attimo dopo, lo stupí constatare che la donna aveva preso l'uomo sottobraccio mentre percorrevano la banchina, in direzione della piccola città.

Jack si fermò al fondo del pontile a guardare l'oceano; prima da una parte, poi dall'altra. La brezza di cui solo adesso si accorgeva formava piccole creste di schiuma bianca sull'acqua. Era il punto di approdo del traghetto in arrivo dalla Nuova Scozia, l'avevano preso anche lui e Betsy una volta. Si erano fermati tre notti in Nuova Scozia. Cercò di ricordare se Betsy lo avesse preso sottobraccio; forse. Perciò adesso la mente gli procurò l'immagine di loro due che scendevano dal traghetto, e di sua moglie che lo teneva sottobraccio...

Si girò per andarsene.

- Che coglione -. Pronunciò quella parola ad alta voce e vide un ragazzino poco lontano voltarsi a guardarlo stupefatto. Questo voleva dire che lui era un vecchio che parlava da solo su una banchina a Portland, Maine; lui, Jack Kennison, con i suoi due dottorati: proprio non si spiegava come fosse successo. - Wow! - Anche questo lo disse forte, ma a una certa distanza dal ragazzino, ormai. C'erano delle panchine e si sedette su una vuota. Prese il telefono e chiamò la figlia; non era ancora mezzogiorno a San Francisco, dove stava lei. Si stupí di sentirla rispondere.

- Papà, - disse. - Stai bene?

Lui guardò il cielo. - Ah, Cassie, - disse. - Volevo solo sapere come stai.

- Tutto a posto, papà.

- Okay, bene. Bene. Mi fa piacere.

Ci fu silenzio per un attimo, poi lei disse: - Dove sei?

- Oh. Sono a Portland, sulla banchina.

- Come mai? - chiese lei.

- Niente, ho pensato di fare un giro a Portland. Uscire un po' di casa, sai -. Jack strizzò gli occhi in direzione dell'acqua.

Un altro silenzio. Poi lei disse: - Okay.

- Cassie, ascolta, - disse Jack. - Volevo solo dirti che so di essere uno stronzo. Lo so. Volevo dirtelo. So di essere uno stronzo.

- Papà, - fece lei. - Dài, papà. Secondo te cosa dovrei dire?

- Niente, - rispose lui dolcemente. - Non c'è niente da dire. Volevo solo farti sapere che lo so.

Ci fu un altro silenzio, prolungato questa volta, e Jack ebbe paura.

Lei disse: - Ti riferisci a come hai trattato me, o alla storia con Elaine Croft per tutti quegli anni?

Abbassò lo sguardo sulle assi del pontile, e sulle tavole di legno consumato vide le sue scarpe sportive nere, un modello da vecchio. - Tutte e due, - disse. - Oppure, scegli tu.

- Oh, papà, - disse lei. - Oh, papà, non so cosa fare. Che cosa dovrei fare per te?

Scosse la testa. - Niente, bambina. Non devi fare proprio niente. Volevo solo sentire la tua voce.

- Papà, stavamo uscendo.

- Ah sí? Dove andate?

- Al mercato dei contadini. È sabato, andiamo al mercato dei contadini, il sabato.

- Okay, - disse jack. - Andate, andate. Non ti preoccupare. Ci parliamo un'altra volta. Allora, ciao.

Gli parve di sentirla sospirare. - D'accordo, - disse. - Ciao.

Tutto qui! Tutto qui.

Jack rimase seduto a lungo su quella panchina. Passava gente, poi magari per un po' non passava nessuno, ma lui riusciva solo a pensare a sua moglie Betsy e aveva voglia di urlare. Una sola cosa gli era chiara: si era meritato tutto.

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Pagina 44

Il sabato pomeriggio Kayley andava in bici alla casa di riposo oltre il ponte, dove stava Miss Minnie. Faceva freddo a metà marzo, ma c'era pochissima neve, e la bici di Kayley traballava sui piccoli rami caduti sul marciapiede; aveva le mani fredde perché era senza guanti. Una volta Miss Minnie abitava nell'appartamento sopra a quello dove stavano ora Kayley e sua madre; Miss Minnie ci aveva abitato per anni ed era stata la prima persona a cui Kayley aveva fatto le pulizie. Era una vecchia piccolissima, con enormi occhi scuri, e Kayley era rimasta stupefatta da quanta sporcizia si fosse accumulata in casa col tempo, specie in cucina. E cosí si era messa a fregare e fregare, mentre Miss Minnie sbirciava dalla porta e le diceva: «Oh, ma che bel lavoro che fai, Kayley!» Batteva le mani, Miss Minnie, tanto era entusiasta del suo lavoro, e Kayley le voleva bene, per questo. Miss Minnie le dava sempre un bicchiere di succo d'arancia, quando aveva finito, e poi si sedeva a tavola con lei e si sporgeva verso Kayley e le faceva un mucchio di domande sulla scuola e le amiche; nessuno le chiedeva piú quelle cose, da quando era morto suo padre.

Dopo che le era venuto l'ictus, l'autunno prima, Kayley andava a trovare Miss Minnie alla casa di riposo, anche se era un posto buio e c'era cattivo odore. Miss Minnie non finiva piú di ringraziarla. «E di che? - diceva Kayley. - Mi fa piacere vederla», e dopo le prime visite cominciò a salutare Miss Minnie con un bacio quando andava via e vedeva la gioia negli enormi occhi scuri della vecchia.

Kayley chiuse la bici a chiave dietro la casa di riposo, e mentre faceva il giro per raggiungere l'ingresso, vide uscire Mrs Kitteridge. - Ehi, ciao, - le disse Mrs Kitteridge; era grande e grossa e la prima volta che Kayley l'aveva incontrata lí, un mese prima, le aveva fatto un po' paura. Adesso Mrs Kitteridge le teneva la porta aperta e le disse: - Sei proprio brava a venire a trovare qualcuno qui dentro. Santo Dio, spero proprio che mi sparino un colpo, quando arriverò a questo stadio.

Kayley disse: - Lo so. Anch'io. Nel senso, spero che sparino un colpo anche a me.

Mrs Kitteridge inforcò gli occhiali da sole e, squadrando Kayley da capo a piedi, disse: - Be', per un po' puoi stare tranquilla -. Lasciò chiudere la porta e rimasero insieme sotto il pallido sole di marzo. - A proposito, ho curiosato un po' e ho scoperto che sei figlia di Callaghan. Ho avuto le tue sorelle in classe anni fa. Tuo padre era il nostro postino. Un brav'uomo, mi spiace che se ne è andato.

- Grazie, - disse Kayley. Le si era di colpo scaldato un po' il cuore, al pensiero che quella donna sapesse chi era suo padre. Disse: - È venuta a trovare la sua amica?

Mrs Kitteridge fece un lungo sospiro, alzando gli occhi al cielo da sopra gli occhiali scuri. - Sí. Orribile. Tutta la storia. Però, ascolta, - disse, tornando a guardare Kayley adesso, - l'altra volta hai detto che facevi le pulizie per Miss Minnie, e io ho un'altra vecchia che cerca qualcuno per le pulizie. Bertha Babcock. È una vecchia megera, ma con te non sarà cosí orrenda. Le dico di cercarti?

- Mi ha già trovata, - disse Kayley. - Lavoro da lei il mercoledí pomeriggio. Ho cominciato da poche settimane.

Mrs Kitteridge scosse la testa in un gesto che sembrò solidale.

Kayley disse: - Adesso faccio le pulizie anche da Mrs Ringrose. La mia insegnante di inglese.

- Lo so chi è. Un'altra megera. Be', buona fortuna -. E Mrs Kitteridge si avviò, sventolando una mano sopra la testa.


La casa di riposo era buia, e come sempre c'era cattivo odore. Miss Minnie dormiva, perciò Kayley sedette sull'unica sedia della stanza. Sul tavolino da notte di Miss Minnie c'era la foto di un giovanotto in divisa, e accanto alla foto un mazzolino di viole finte. La stessa foto e le stesse viole che prima erano accanto al letto di Miss Minnie, nel suo appartamento. La foto era del fratello; Kayley lo aveva scoperto un giorno che Miss Minnie aveva preso la foto e se l'era stretta al petto dicendo a Kayley che lui era morto nella guerra di Corea. Kayley ci era rimasta male; avrebbe preferito di gran lunga che fosse un uomo di cui Miss Minnie era stata innamorata, anziché un parente.

Kayley adesso era li seduta ad aspettare che Miss Minnie si svegliasse. Entrò un'infermiera, un donnone in uniforme celeste, e disse: - Ha dormito tutto il pomeriggio. È depressa. Dorme sempre di più -. Kayley e la donna guardarono insieme Miss Minnie, poi Kayley si alzò e disse: - Va bene. Può solo dirle che sono passata? Per favore?

La donna guardò l'ora. - Finisco il turno tra un'ora. Se si sveglia prima, glielo dico.

- Le lascio un biglietto, - disse Kayley, e il donnone andò a prendere un pezzo di carta e una matita e Kayley scrisse in caratteri grossi. SALVE MISS MINNIE! SONO IO, KAYLEY. SONO PASSATA A TROVARLA MA DORMIVA. TORNO UN'ALTRA VOLTA!

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Pagina 84

D'aiuto


Solo quando la casa dei Larkin venne rasa al suolo da un incendio la gente seppe che Louise Larkin non abitava piú lí. Il giornale diceva che stava nella casa di riposo di Golden Bridge. - Il che significa che si è completamente rimbambita, - disse Olive Kitteridge a Jack Kennison, alzando gli occhi dal giornale. - Comunque, che roba triste, questa del marito -. Il marito di Louise Larkin era morto nell'incendio; a quanto pare occupava solo il primo piano della casa, e il fuoco si era propagato dalla cucina. C'era di mezzo una storia di droga, secondo l'articolo che Olive stava leggendo. Il titolo diceva: Uomo di ottantatre anni muore nel rogo domestico: sospettati due tossicodipendenti.

L'indomani il giornale confermò l'ipotesi dei tossicodipendenti. Si era già provveduto all'arresto. Due drogati, ritenendo che l'edificio fosse disabitato, si erano introdotti nella proprietà per rubare - essenzialmente rame - e avevano involontariamente appiccato l'incendio mentre cucinavano metanfetamine. Entrambi erano riusciti a tirarsi fuori dalla casa in fiamme ma quando, alle quattro del mattino, i vigili del fuoco furono avvisati dell'emergenza, non c'era piú molto che potessero fare. La casa era grande, ma anche vecchia e di legno, quindi aveva preso fuoco come un cerino. Adesso ne rimanevano le rovine carbonizzate, che si vedevano entrando in macchina nella cittadina di Crosby nel Maine; proprio una brutta storia.

Era autunno e le foglie già erano cambiate, ma non ancora cadute, e gli aceri intorno a casa Larkin urlavano i loro colori stupendi, anche se, a essere sinceri, quel posto era triste a vedersi già molto prima di andare praticamente distrutto dal fuoco. L'erba era alta fino alle ginocchia e nessuno pareggiava piú gli arbusti, che ormai oscuravano i finestroni maestosi sulla facciata. Non c'è da stupirsi se la gente si stupí, scoprendo che Roger Larkin abitava da sempre lassú. Ma che modo terribile di morire! Bruciato vivo mentre due drogati si cucinavano i loro intrugli immondi al piano di sotto. Si fecero tante chiacchiere, naturalmente. I Larkin si erano sempre creduti meglio degli altri; il figlio era finito in carcere per quel delitto orrendo; Louise era stata una bella donna, questo in paese era noto, di mestiere faceva la psicologa della scuola, ma non si era mai piú ripresa, da quando il figlio aveva ucciso quella donna con ventinove pugnalate. E la figlia, dov'era? Chissà.


Jack e Olive uscivano dal paese in macchina e, passando davanti alla casa bruciata dei Larkin, Olive disse guardando dal finestrino: - Dio, che triste, che triste -. Poi sporse un po' il collo e disse: - Oh, c'è qualcuno parcheggiato laggiú. Dietro l'albero. Di chi è quella macchina?


Era della figlia dei Larkin.

Suzanne era arrivata da Boston la sera prima, aveva preso una stanza alla Comfort Inn, poco fuori Crosby, prenotandola a nome del marito. La mattina aveva fatto un giro in casa - o a quello che ne restava - e aveva chiamato l'unica persona che ancora conosceva in paese, che tra l'altro era la stessa persona che aveva chiamato lei per informarla dell'accaduto: l'avvocato di suo padre, Bernie Green. Si era offerto di andarla a prendere, perché Suzanne non ricordava piú come arrivare da lui.

Aiuto aiuto aiuto aiuto. Suzanne non riusciva piú a pensare altro da quando aveva visto il rudere spettrale della casa, in piena luce. Restava soltanto un angolo dell'edificio, a parte un mucchio di macerie e vetri rotti e assi annerite. Il cielo era basso di nuvole inquiete e spesse come una trapunta. Seduta in macchina, con le ginocchia che non volevano saperne di stare ferme, si tormentava le pellicine intorno alle unghie; dal parabrezza vedeva che anche il tronco dell'acero era carbonizzato. Aiuto aiuto aiuto.

Quando Bernie imboccò il vialetto e passò con le ruote sulle chiazze di cenere nera, Suzanne ebbe la sensazione di fluttuare verso la sua macchina; conosceva quell'uomo da quando era bambina. Era alto, un po' sovrappeso; scese dalla macchina e apri la portiera dalla parte del passeggero, lei sali sussurrando: - Bernie, - mentre lui diceva: - Ciao, Suzanne -. Andarono a casa di lui, senza una parola; all'improvviso si sentiva timida.

- Assomigli a tua madre, - disse Bernie, quando fu nel suo ufficio al primo piano di casa, in River Road. - Siediti, Suzanne -. Le indicò una sedia con un cuscino di velluto rosso. - Vuoi darmi il cappotto? - domandò Bernie, e Suzanne scosse il capo.

- Come sta tua madre? Lo sa? - Bernie si lasciò andare di peso sulla sedia dietro la scrivania.

Suzanne si portò il dorso della mano alla bocca e, sporgendosi, disse: - È completamente andata, Bernie. Ieri sera, quando le ho detto che ero sua figlia, mi ha spiegato che sua figlia era morta.

Bernie si limitò a guardarla, socchiudendo gli occhi. Dopo un attimo chiese: - Come va il lavoro, Suzanne? Sempre in procura?

- Si, si, il lavoro va bene. Quello va bene, - rispose Suzanne, abbandonando la schiena. Una minuscola parte di lei cominciava a rilassarsi.

- In quale sezione?

- Protezione all'infanzia, - disse Suzanne, e Bernie annui. Suzanne disse: - C'è da star male, col mio lavoro. Sto seguendo un caso... - Suzanne agitò appena una mano. - Lasciamo perdere. È sempre cosí, ma mi piace quello che faccio.

Bernie la osservava.

Dopo qualche minuto, Suzanne disse: - Sai, credo che mio padre non mi abbia mai considerata un vero avvocato. Sai cosa intendo, no?

- Ma tu sei un vero avvocato, Suzanne.

- Oh, lo so, lo so. Dicevo per lui, sai, per l'Illustre Signor Banchiere, una cosa come lavorare in procura e per di piú nella sezione di protezione all'infanzia... non so proprio. Comunque era fiero di me, suppongo -. Cercò gli occhi di Bernie, che frattanto aveva abbassato lo sguardo.

- Ma senz'altro, Suzanne.

- Si, ma a te non l'ha mai detto? Che era fiero di me? - chiese Suzanne.

- Dài, Suzanne, - disse Bernie, aprendo gli occhi stanchi. - Lo so bene che era fiero di te.

Suzanne rivolse lo sguardo verso la finestra lontana, coi tendoni bianchi e la mantovana rossa in cima; dall'apertura fra un tendone e l'altro si vedevano le nuvole rincorrersi sopra il fiume. Suzanne tornò a guardare Bernie. - Bernie, posso dirti una cosa? - Lui sollevò le sopracciglia in segno di incoraggiamento. - Quando ero piccola avevo un cane di peluche, si chiamava Snuggles. Lo adoravo, era morbidissimo. E due anni fa, quando sono venuta quassú ad aiutare mio padre a ricoverare mia madre in casa di riposo, ho scoperto... Insomma, non sapevo che Snuggles ci fosse ancora, ma mia madre ci si era molto affezionata. E ieri sera, quando sono stata a trovarla, lei dormiva tutta abbracciata a Snuggles e il personale, le assistenti, mi hanno detto che adora quel cane, dorme con lui e non lo perde di vista un momento -. Suzanne si morse l'interno di una guancia, spingendosi la carne con un dito.

Bernie disse: -- Oh, Suzanne, - dando in un lungo sospiro.

La pancia di Suzanne gorgogliò; le girava un poco la testa. Non aveva buttato giú niente dalla mattina presto, a parte una tazza di caffè, ma era contenta di sentirsi crescere dentro la voglia di chiacchierare. Guardandosi intorno, notò che l'ufficio di Bernie era piú piccolo di come lo ricordava. La vista spettacolare sul fiume, in compenso, le era rimasta impressa. Nell'angolo c'era un grosso orologio a pendolo, fermo. Suzanne incrociò una gamba sull'altra e dondolò un poco il piede; lo stivale di camoscio marrone batté contro la scrivania. - Mia madre... - Suzanne si interruppe. - Non so se lo sapevi... aveva un problema con l'alcol. A essere sincera, credo sia sempre stata un po' matta. Secondo me Doyle ha preso da lei, ne sono convinta.

- A proposito, Doyle come sta? - Bernie lo chiese come se niente fosse, con le mani in grembo.

- Be', è sotto farmaci -. Suzanne dovette aspettare un momento prima di poter continuare; la vicenda di suo fratello le si era scavata dentro e se ne stava sepolta sotto la cassa toracica. - Perciò sta bene, se si esclude che sembra uno zombie. Il che non è male, dovendo stare rinchiuso là dentro per il resto della vita. Prima che lo sedassero, passava la giornata a piangere. Tutto il santo giorno piangeva, poverino.

- Ahi che sventura, - disse Bernie. Scrollò il capo e Suzanne provò una fitta di profondissimo affetto per quell'uomo che conosceva dalla piú tenera infanzia. Notò che aveva gli occhi azzurri, occhi grandi e acquosi, da vecchio. - Torniamo un attimo a tua madre, Suzanne. Dunque ieri non ti ha riconosciuta? E non si ricorda piú niente, dell'incendio? Non ha idea che tuo padre sia morto? Si ricorda ancora qualcosa di Doyle?

Seduta contro lo schienale, Suzanne dondolava il piede in aria. Disse: - No, non credo che abbia la minima idea di mio padre, e vuoi che ti dica la verità? - Suzanne guardò dritto negli occhi l'uomo di fronte a lei. - Io non gliel'ho detto.

- Ti capisco, - disse Bernie. - Che senso avrebbe?

- Ecco, appunto, - disse Suzanne. - Che senso avrebbe? Mio padre andava a trovarla e mi ha riferito che lei diventava molto aggressiva... - Suzanne passò una mano nell'aria. - Ma chi lo sa. Comunque, Doyle non l'ha nominato, perciò non l'ho nominato neanch'io.

- No, - disse Bernie, gentile. - No, no, certo.

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Suzanne domandò: - Come sei uscito da... dove sei nato, a proposito?

- Ungheria -. Bernie si appoggiò un attimo le mani sulla faccia. Avrebbe voluto farle i complimenti per tutto ciò che era riuscita a combinare nella vita, dirle che era stata brava ad aiutare ogni giorno tanti bambini col suo lavoro in procura, e ad allevare i suoi figli, a restare accanto a Doyle. E invece rispose alla domanda: - Sono venuto via da bambino; uno zio venne in America e i miei vollero che partissi con lui; dissero che mi avrebbero raggiunto presto. Ma non lo fecero.

- Non sapevo che eri nato in Ungheria. Hai qualche sicordo dei tuoi genitori?

Bernie si guardò intorno prima di rispondere. Era passato tanto tempo dall'ultima volta che aveva parlato con qualcuno di quelle cose. - Be', mi ricordo di mio padre che legge la Torah. Di mia madre che apparecchia la tavola. E mi ricordo di una volta che ero a letto malato e mi leggeva le storie.

- Oh, Bernie -. La voce di Suzanne pareva un po' piú forte adesso. - Bernie, posso chiederti ancora una cosa?

- Certo, Suzanne.

- Tu ce l'hai una fede? Fede religiosa, intendo.

Bernie ebbe una reazione fisica a quelle parole, come se una piccola ondata gli avesse attraversato il petto. Aspettò che passasse, poi disse: - Sai, da tanti anni sono un ebreo laico, e non credo di avere una fede nel senso stretto del termine.

- Ma? - disse Suzanne. - Perché c'è un «ma»... te lo sento nella voce.

A quel punto Bernie si senti invadere da una esitante solennità. Come se gli si chiedesse di offrire una parte di sé che esulava completamente dal suo campo come avvocato, ed era qualcosa che non aveva concesso mai a nessuno, tranne che a sua moglie, piú o meno, anni prima. - D'accordo, - disse. - Il «ma» è questo: ma ho fede? Ebbene sí. Il problema è che non saprei descriverla. Ma è comunque una fede a modo suo. È fede.

- Puoi parlarmene, Bernie? Ti prego, dimmi.

Bernie si portò una mano sul collo. - No, Suzanne, non ci riesco. Perché non ho parole per descriverla. È piú una specie di consapevolezza - ce l'ho praticamente da tutta la vita - che esiste qualcosa di molto piú grande di noi -. E qui ebbe la sensazione di un fallimento, di non essere riuscito a dire quel che voleva.

Suzanne disse: - Ce l'avevo anch'io. Per anni ho avuto esattamente la stessa sensazione che hai descritto. E anch'io non saprei definirla -. Bernie non fece commenti, e Suzanne prosegui: - Quando ero bambina, ed ero sola... passavo molto tempo da sola, sai, se non ero a scuola... facevo lunghe passeggiate e avevo dentro una sensazione profonda e capivo - nel modo in cui solo un bambino può capire certe cose - che aveva a che fare con Dio. Non Dio nel senso di una specie di figura paterna, non so nemmeno io come dire...

- Lo so, - disse Bernie.

- E ho continuato a provare questa sensazione ogni tanto anche crescendo, fino a quando sono stata adulta; non l'ho mai detto a nessuno, che ci sarebbe stato da dire?

- Ti capisco perfettamente, - disse Bernie.

- Però sono anni ormai che non la provo, e allora mi chiedo: Mi sono inventata tutto? Eppure io so che non è cosí, Bernie. Non ne ho mai parlato con mio marito, non l'ho mai detto a nessuno. Ma tutte le volte che qualcuno dice di essere ateo, dentro di me sento una fitta di irritazione, e quelli naturalmente forniscono tutte le loro brave ragioni, sai?, i bambini che si ammalano di cancro, i terremoti che ammazzano la gente, e cosí via. Ma quando li sento, in cuor mio penso: Stai bussando alla porta sbagliata -. E aggiunse: - Anche se non so dire quale sia quella giusta... né come è meglio bussare.

Seduto alla sua scrivania, Bernie provò una sorta di incredulità: tutto quel che Suzanne diceva gli risultava perfettamente comprensibile.

Poi Suzanne aggiunse: - Non so perché non mi capita piú di provarla, quella sensazione.

Bernie rivolse lo sguardo al fiume; era cambiato, come al solito, si era fatto piú verde, adesso che le nuvole si alzavano piú in alto nel cielo. - Tornerà.

Suzanne disse: - Sai una cosa, Bernie? Ci ho pensato tanto. Ma proprio tanto. E alla fine questa è la frase che, sí, insomma, la frase che mi è venuta in mente, una cosa tutta mia, intendiamoci, ma continua a passarmi in testa. Io credo che il nostro compito... forse addirittura il nostro dovere... sia di... - La sua voce si fece calma, matura. - Di sopportare il peso del mistero con tutta la grazia possibile.

Bernie tacque per molto tempo. Infine disse: - Ti ringrazio, Suzanne.

E dopo un altro po' Suzanne disse: - L'unica altra persona con cui ho parlato di questa sensazione, come dire, di Dio, o di qualcosa di molto piú grande di noi... be', comunque, è stato il mio analista schifoso, dopo, sí, insomma, dopo che avevamo cominciato... Be', vuoi sapere che cosa ha detto? Ha detto, Non essere ridicola, Suzanne. La vita ti ha disorientata quando eri bambina e adesso ti metti in testa che quel che provavi era Dio. Eri semplicemente una bambina disorientata, tutto qui. Non lo trovi agghiacciante, Bernie?

Bernie lanciò un'occhiata al soffitto - Agghiacciante? Sí. Era un uomo molto limitato, Suzanne.

- Lo so, - disse Suzanne. Poi disse: - Davvero pensi che non dovrei dire di lui a mio marito? Davvero credi che possa tenermelo dentro da sola?

- La gente vive tenendosi dentro le cose, - disse Bernie. - Ogni giorno. Trovo pazzesco quel che la gente è capace di tenersi dentro -. E aggiunse: - Del resto, Suzanne, hai appena finito di dirmi che tuo marito non sa della tua esperienza con... questo tale di cui dicevamo.

- Hai ragione, - disse Suzanne. - Sei cosí intelligente, Bernie. Ti voglio bene.

Bernie disse: - Anch'io ti voglio bene, Suzanne -. Moriva dalla voglia di dirle che si sentiva molto meglio adesso, che dopo averle parlato cosí il suo disagio si era attenuato. Invece disse: - Ancora una cosa. Mi devi ascoltare.

- Ti ascolto, = disse Suzanne.

Lui disse: - Adesso riagganci e ti fai un bel pianto. Un pianto come non ne hai mai fatti in vita tua. E quando hai finito, ti mangi qualcosa. Scommetto che non hai buttato giú niente in tutto il giorno.

- È vero, hai ragione. Sí, adesso mangio, te lo prometto. Ma di piangere non ho piú voglia, Bernie. Mi sento... mi sembra che potrei praticamente mettermi a cantare.

- E allora canta.


E seduta in macchina nell'area di sosta all'imbocco dell'autostrada, Suzanne non si mise a cantare. Ma restò li per un po', a riflettere sulla loro conversazione. Pensò che non l'avrebbe mai dimenticata, era come se qualcuno avesse mandato in frantumi delle immense finestre sopra di lei - come dovevano aver fatto i vigili del fuoco nella sua casa di quando era bambina - e adesso, intorno e sopra di lei, si spalancava il mondo in tutta la sua grandezza, di nuovo disponibile, proprio lí, a portata di mano. Osservò la madre e il bambino risalire in macchina, ridendo insieme di qualche cosa. Davanti a lei c'era un piccolo acero, dalle foglie rosa su tutta la chioma. - Oh, Bernie, - sussurrò. - Caspita.


Seduto alla scrivania, Bernie fissava il fiume. Si sentí pervaso da una specie di silenzioso stupore. In qualche modo, Suzanne era rimasta indenne; la schiettezza con cui gli aveva parlato era un dono di non piccole proporzioni. Suzanne era un'innocente, le era naturale come respirare, e adesso Bernie aveva la sensazione che l'innocenza di lei gli fosse scrosciata addosso lavando via certe incrostazioni di ansia accumulate in anni di professione. Tra un momento sarebbe sceso a dire a sua moglie che non occorreva stare in pensiero per Suzanne. Sui dettagli della loro conversazione non avrebbe detto nulla; il modo in cui Suzanne gli era stata d'aiuto sarebbe rimasto segreto. Trascurabile, peraltro, si disse alzandosi, considerando il genere di segreti che la gente è capace di tenersi dentro per anni.

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Si erano fatti quella casa vent'anni prima. A Cindy allora pareva immensa. Durante la costruzione la imbarazzava guardare il getto in cemento dello scantinato, gli svettanti pali due per quattro; erano troppo giovani, lei e Tom, per una casa cosí grande. Cindy era cresciuta appena fuori Crosby in una casa piccolissima; in pratica non avevano un soldo, lei e sua madre e le sue due sorelle. Il padre aveva abbandonato la famiglia anni prima, e la madre di Cindy faceva il turno di notte in ospedale come infermiera non diplomata; non era stato facile. Ma Cindy aveva avuto fortuna; era riuscita a frequentare l'università, lavorando e studiando, e grazie a qualche prestito. Lí aveva conosciuto il marito, che tuttora lavorava nell'ufficio amministrativo dell'impianto siderurgico dove era stato assunto al tempo. Soltanto in seguito Cindy si era resa conto che la casa che si erano costruiti aveva di fatto dimensioni normali, con le sue tre camere di sopra, e cucina, soggiorno e sala da pranzo di sotto. Qualche anno dopo aggiunsero il garage, adiacente alla casa, ma anziché piú grande, la fece sembrare per qualche ragione piú piccola. Una casa di dimensioni perfette: per anni l'aveva pensata cosí. Poi, man mano che i ragazzi entravano nell'adolescenza, a Cindy cominciò ad apparire banale, e chiese a Tom se non la si poteva tinteggiare di un bel turchese. I ragazzi non erano d'accordo; lei lasciò perdere e la casa era rimasta bianca negli anni.

Cindy si coricò a letto a guardare dalla finestra le cime degli alberi dai rami spogli; c'era quello strano sole morbido che riesce a insinuarsi in un pomeriggio nuvoloso di febbraio, chissà come... I rami spogli parevano crescere, estendersi, anziché rattrappirsi.


Quando vide Tom sulla soglia della camera da letto, con la sua faccia aperta, premurosa, assolutamente inutile, disse: - Sai cosa mi torna in mente da un po'?

- Che cosa, amore? - Tom entrò nella stanza e le prese la mano. - Che cosa ti torna in mente?

- Quanto desideravo tinteggiare la casa di turchese, e poi non l'abbiamo mai fatto, perché i ragazzi... e anche tu... dicevate di no, che a voi non andava.

Il faccione di Tom parve espandersi ancora agli occhi di lei, quando disse: - Be', amore mio, facciamolo adesso. Possiamo far tinteggiare la casa come ti pare. Dài, perché no?

Cindy scosse la testa.

- No, dico sul serio -. Tom chinò il capo verso di lei. - Sarebbe bello, no, amore? Dài, tinteggiamo casa.

- No -. Scosse ancora la testa e distolse lo sguardo.

- Amore...

- Oh, Tom. Piantala. Per favore. Ho detto di no. Non ci mettiamo a dipingere casa, adesso -. E dopo un attimo aggiunse: - Tesoro, potresti staccare la ghirlanda che è ancora appesa alla porta?

- Lo faccio subito, - disse. - Contaci, amore.


Prima di ammalarsi, Cindy aveva lavorato nella biblioteca del Comune. Adorava i libri, Dio, quanto li amava. Toccarli, annusarli e godersi il mezzo silenzio della biblioteca, e anche i vecchi che a volte si fermavano la mattinata intera, solo per avere un posto dove stare. Le piaceva aiutarli a entrare in rete sul computer, o a cercare la rivista che volevano leggere. Ma soprattutto adorava consegnare i volumi in prestito, commentando quelli che a lei erano piaciuti; la gente tornava a parlarle di quello che aveva letto su suo suggerimento. Cindy leggeva di tutto e ancora adesso sul suo comodino c'erano pile di volumi, come sul davanzale, qualcuno addirittura per terra. Non aveva quasi preferenze specifiche e a volte la cosa le era sembrata strana; leggeva da Shakespeare ai gialli di Sharon McDonald, dalle biografie di Samuel Johnson a drammaturghi vari, dai romanzetti rosa su su fino... alla poesia. In cuor suo era convinta che i poeti sedessero piú o meno alla destra di Dio.

Da giovane Cindy ci aveva pensato, a scrivere poesia: che idea balzana. Ma la poesia le era piaciuta sin da bambina; in terza elementare la maestra le aveva regalato una copia della raccolta di Poesie per piccoli di Edna St Vincent Millay, e quando la sua sorellina gliel'aveva scarabocchiato tutto con la matita rossa, Cindy l'aveva picchiata. Quel ricordo la faceva sempre stare malissimo, per via di ciò che era successo dopo alla sua sorellina. Cindy comunque aveva imparato a memoria le poesie prima che fossero scarabocchiate in rosso e, facendolo, aveva avuto la sensazione di essere portata in un mondo lontanissimo dalla sua piccola casa. In parte dipendeva dal fatto che la maestra le aveva detto che anche Edna St Vincent Millay era cresciuta nel Maine, a un'ora appena da lí; e che da piccola era stata povera. La maestra l'aveva detto con grande delicatezza, e solo anni dopo Cindy aveva capito che era stato per aiutarla a superare la sua condizione di bisogno. Qualche poesia Cindy l'aveva anche scritta, ma soltanto per sé; non ne capiva niente, per la verità. L'anno prima era stata nominata poeta laureato degli Stati Uniti Andrea L'Rieux, che aveva due anni meno di lei, e Cindy provava un orgoglio tanto vasto quanto segreto al pensiero che una persona di Crosby avesse ottenuto un riconoscimento simile. A essere sinceri, non sempre Cindy capiva le poesie di Andrea. Ma era roba forte; questo almeno lo sapeva. Le poesie parlavano molto della vita di Andrea e, leggendole, Cindy capí che lei non sarebbe mai riuscita a fare altrettanto. Non avrebbe mai potuto scrivere di sua madre in quel modo, scrivere della ripugnanza che provava vedendo le sue guance risucchiate in dentro mentre tirava il fumo da una sigaretta, né avrebbe potuto scrivere certe cose su di sé.

Lei avrebbe scritto della luce di febbraio. Di come cambiava l'aspetto del mondo. Stavano sempre tutti a lamentarsi, di febbraio; che faceva freddo e nevicava e il clima era umido perlopiú, e la gente aveva voglia di primavera. Ma per Cindy la luce del mese era sempre stata un mistero, e tale restava tuttora. Perché in febbraio le giornate cominciavano davvero ad allungarsi e, a ben guardare, uno poteva accorgersene. E vedeva come, verso sera, il mondo sembrasse spaccarsi come un melograno e la luce residua filtrare tra i rami nudi, come una promessa. C'era una promessa, dentro quella luce, ed era una cosa fantastica. Sdraiata sul letto, Cindy riusciva a vederlo anche adesso, l'oro dell'ultima luce che squarciava il mondo.

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