Copertina
Autore Elizabeth Strout
Titolo Olive Kitteridge
EdizioneFazi, Roma, 2009, Le strade 158 , pag. 384, cop.fle., dim. 14x21,2x2,4 cm , Isbn 978-88-6411-033-2
OriginaleOlive Kitteridge [2008]
TraduttoreSilvia Castoldi
LettoreAngela Razzini, 2009
Classe narrativa statunitense
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Pagina 9

Farmacia



Per molti anni Henry Kitteridge era stato farmacista nella città vicina, e ogni mattina guidava attraverso strade piene di neve, oppure fradice di pioggia, oppure dove d'estate i lamponi selvatici protendevano i loro germogli novelli dai cespugli lungo l'ultimo tratto della cittadina, prima di svoltare nella strada più larga che portava alla farmacia. Ormai in pensione, si sveglia ancora presto e ricorda come le mattine fossero sempre state il suo momento preferito, come se il mondo fosse il suo segreto: gli pneumatici che rombavano sommessi sotto di lui nella luce che filtrava attraverso la nebbia mattutina, il breve spettacolo della baia in lontananza sulla destra, e poi i pini, alti e sottili. Guidava quasi sempre con un finestrino un poco aperto perché amava l'odore dei pini e della densa aria salmastra, e d'inverno quello del gelo.

La farmacia era un piccolo edificio a due piani adiacente a un altro fabbricato che ospitava un negozio di ferramenta e una piccola drogheria. Ogni mattina Henry parcheggiava sul retro accanto ai grossi bidoni di metallo, e poi entrava per la porta posteriore e si aggirava per il negozio ad accendere le luci, azionare il termostato oppure, se era estate, i ventilatori. Poi apriva la cassaforte, metteva il denaro nel registratore di cassa, apriva la porta sul davanti, si lavava le mani e indossava il camice bianco. Il rituale era piacevole, come se il vecchio negozio, con i suoi scaffali coperti da dentifrici, vitamine, cosmetici, fermagli per capelli, e perfino aghi da cucito e biglietti di auguri, senza contare le borse dell'acqua calda di gomma rossa e le perette per i clisteri, fosse una persona autonoma, solida e affidabile. E qualunque evento spiacevole si fosse verificato in famiglia, qualunque disagio per il fatto che la moglie si alzava spesso dal letto nel cuore della notte e vagava per casa, tutto questo svaniva come una linea di costa mentre Henry si aggirava nell'ambiente sicuro della sua farmacia. Sul retro del locale, accanto ai cassetti e alle file di pillole, Henry era allegro quando il telefono squillava, quando la signora Merriman veniva a comprare la medicina per l'ipertensione, o il vecchio Cliff Mott la sua digitalina; o anche quando preparava il tranquillante per Rachel Jones, il cui marito era scappato la notte in cui era nato il loro bambino. Ascoltare faceva parte della natura di Henry, e molte volte nel corso della settimana gli capitava di ripetere: «Dio mio, sono così dispiaciuto», oppure: «Ma guarda, non è incredibile?».

Dentro di sé soffriva della silenziosa tensione di un uomo che per due volte nella sua infanzia aveva assistito agli esaurimenti nervosi della madre, la quale per il resto gli aveva sempre voluto un bene esasperato. Perciò se, come di rado accadeva, un cliente era infastidito per via del prezzo, o irritato dalla scarsa qualità di una benda o di una borsa del ghiaccio, faceva il possibile per rimediare con rapidità. La signora Granger aveva lavorato presso di lui per molti anni; il marito era un pescatore di aragoste, e la donna sembrava portare con sé la brezza gelida del mare aperto, e non era particolarmente ansiosa di compiacere un cliente diffidente. Mentre compilava le ricette, Henry era costretto a tendere l'orecchio per assicurarsi che la signora Granger non fosse alla cassa a respingere un reclamo. Più di una volta aveva provato la stessa sensazione mentre si assicurava che la moglie, Olive, non se la prendesse troppo con Christopher per via dei compiti, o perché non aveva sbrigato le faccende di casa; un continuo fluttuare dell'attenzione, il bisogno di accontentare tutti. Quando avvertiva un tono brusco nella voce della signora Granger, Henry abbandonava la sua postazione sul retro, andava al centro del negozio e parlava di persona col cliente. Per il resto la signora Granger svolgeva bene il suo lavoro. Henry apprezzava il fatto che non fosse una chiacchierona, tenesse alla perfezione l'inventario e non si desse quasi mai malata. Quando una notte morì nel sonno, Henry rimase esterrefatto, e si sentì vagamente responsabile, come se, dopo aver lavorato al suo fianco per tanti anni, non si fosse accorto di eventuali sintomi da lei mostrati, che lui, con le sue pillole, sciroppi e siringhe, avrebbe potuto alleviare.

«Un topo», disse sua moglie, quando assunse la ragazza nuova. «Sembra davvero un topo».

Denise Thibodeau aveva guance rotonde e occhi piccoli che sbirciavano oltre gli occhiali dalla montatura marrone. «Ma è un bel topolino», rispose Henry. «Un topolino intelligente».

«È impossibile che una persona incapace di tenere le spalle dritte sia intelligente», rispose Olive. In effetti le spalle strette di Denise erano incurvate in avanti, come nell'atto di chiedere scusa. Aveva ventidue anni ed era appena uscita dall'università statale del Vermont. Anche suo marito si chiamava Henry, e quando conobbe Henry Thibodeau, Henry Kitteridge rimase colpito da quella che gli parve un'inconsapevole eccellenza. Il giovanotto era robusto e aveva lineamenti marcati, e una luce negli occhi che sembrava conferire un baluginante splendore al suo volto onesto e ordinario. Faceva l'idraulico e lavorava nell'impresa dello zio. Lui e Denise erano sposati da un anno.

«Non è che muoia dalla voglia», disse Olive, quando Henry le propose di invitare la giovane coppia per cena. Henry lasciò cadere la cosa. In quel periodo suo figlio, che ancora non mostrava fisicamente i segni dell'adolescenza, era caduto preda di un broncio improvviso e ostinato: il suo umore era come un veleno che si spandeva nell'aria. Olive sembrava altrettanto cambiata e mutevole di Christopher, e tra i due scoppiavano violenti litigi che si trasformavano all'improvviso in una cortina di intimità silenziosa di fronte alla quale Henry, ignaro e stupefatto, si ritrovava invariabilmente escluso.

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Una piccola esplosione



Tre ore fa, mentre il sole brillava fulgido tra gli alberi e lungo il prato sul retro della casa, il podologo della cittadina, un uomo di mezza età di nome Christopher Kitteridge, ha sposato una donna che viene da fuori e si chiama Suzanne. È il primo matrimonio per entrambi, e la cerimonia è stata intima e piacevole, con una suonatrice di flauto e vasi di leggiadre rose gialle piazzati dentro e fuori della casa. Per ora l'educata allegria degli ospiti non dà segno di scemare e Olive Kitteridge, ferma accanto al tavolo da picnic, pensa che ormai sia ora che se ne vadano tutti quanti.

Per tutto il pomeriggio Olive ha lottato contro la sensazione di camminare sott'acqua: un sentimento tetro e spaventoso, dato che in realtà non è mai riuscita a imparare a nuotare. Infilando il tovagliolo di carta tra le assi del tavolo da picnic pensa: va bene, ne ho avuto abbastanza. Abbassa lo sguardo per evitare di rimanere bloccata da un'altra insulsa conversazione, fa il giro della casa e varca una porta che dà direttamente dentro la camera del figlio. Attraversa il pavimento di legno di pino scintillante al sole e si sdraia sull'enorme letto matrimoniale di Christopher (e di Suzanne).

Il vestito di Olive, naturalmente molto importante quel giorno dato che lei è la madre dello sposo, è di una leggera mussolina verde stampata a grandi gerani fra il rosso e il rosa, e Olive è costretta a sdraiarsi con cautela per non spiegazzarlo e per mantenere un aspetto decente nel caso qualcuno entri nella stanza. Olive è una donna grossa. Ne è consapevole, ma non è sempre stato così, e ancora le sembra di doversi abituare. È vero che è sempre stata alta, e spesso si è sentita goffa, ma il fatto di essere grossa si è manifestato con l'età; le caviglie si sono gonfiate, le spalle si sono arrotondate dietro il collo, e i polsi e le mani si sono ingrossati come quelli di un uomo. A Olive dispiace, ovviamente; a volte, dentro di sé, le dispiace molto. Ma a quel punto del gioco non ha intenzione di abbandonare la consolazione del cibo, il che significa che probabilmente in quel momento sembra una grassa balena addormentata avvolta in una sorta di benda velata. Ma il vestito ha funzionato bene, ricorda a se stessa, sdraiandosi e chiudendo gli occhi. Meglio degli abiti scuri e lugubri della famiglia Bernstein: sembravano gli invitati a un funerale invece che a un matrimonio, in quella luminosa giornata di giugno.

La porta interna della stanza del figlio è semiaperta e da lì arrivano voci e rumori provenienti dalla parte anteriore della casa, dove la festa continua: il ticchettio dei tacchi alti lungo il vialetto, il rumore aggressivo della porta sbattuta di un bagno. (Davvero, pensa Olive, per quale motivo non chiuderla con garbo?). Una sedia viene trascinata sul pavimento del soggiorno, e da lì, insieme alle risate soffocate e alle chiacchiere, si sentono l'aroma del caffè e una densa, dolce fragranza di torte appena sfornate, la stessa che si annusava nelle strade vicino al panificio della Nissen prima che lo chiudessero. Si sentono anche molti profumi, tra cui uno che per tutto il giorno a Olive è sembrato identico a quello dello spray antizanzare. Tutti quegli odori sono riusciti a farsi strada lungo il corridoio per aleggiare in camera da letto.

Fumo di sigaretta, pure. Olive apre gli occhi: qualcuno sta fumando una sigaretta nel giardino sul retro. Dalla finestra aperta sente un colpo di tosse, il rumore di un accendino. La casa è davvero sovraffollata. Immagina scarpe pesanti calpestare le aiuole dei gladioli e poi, nell'udire il rumore dello scarico di un gabinetto in fondo al corridoio, di fronte a lei compare per un attimo l'immagine della casa che crolla; le tubature che si rompono, le assi del pavimento che si sollevano, le pareti che si ripiegano su se stesse. Solleva un po' la schiena, si rassetta il vestito e posa un altro cuscino contro la testiera del letto.

Quella casa l'ha costruita lei stessa. Be', quasi. Lei ed Henry l'hanno progettata anni prima, e poi hanno lavorato fianco a fianco con il costruttore, perché volevano che Chris avesse un posto decente dove abitare una volta tornato dall'università. Quando sei tu ad aver costruito una casa provi per essa sentimenti diversi da quelli altrui. Olive ci è abituata perché le è sempre piaciuto creare oggetti: vestiti, giardini, case. (Le rose gialle le ha disposte lei stessa nei cesti quel mattino, prima del sorgere del sole). Anche casa sua, a qualche chilometro di distanza lungo la stessa strada, l'hanno costruita lei ed Henry anni prima, e Olive ha da poco licenziato la donna delle pulizie perché quella stupida ragazza trascinava l'aspirapolvere sul pavimento sbattendolo contro le pareti e giù per le scale.

Almeno Christopher apprezza quella casa. Negli ultimi anni loro tre, Olive, Henry e Christopher, se ne sono presi cura insieme, sradicando qualche albero, piantando lillà e rododendri, scavando i buchi per i pali della staccionata. Ora Suzanne (nella sua testa Olive la chiama il dottor Sue) prenderà il suo posto, e dato che viene da una famiglia piena di soldi, probabilmente assumerà una donna di servizio e un giardiniere. («Che belli quei nasturzi», aveva detto il dottor Sue qualche settimana prima, indicando le aiuole di petunie). Non importa, pensa ora Olive. Bisogna farsi da parte e lasciar spazio al nuovo.

Attraverso le palpebre chiuse Olive intravede una luce rossa che penetra obliquamente attraverso le finestre; avverte i raggi del sole scaldarle i polpacci e le caviglie sul letto, sente intiepidirsi sotto la sua mano la stoffa morbida del vestito, che è venuto davvero bene. Le fa piacere pensare alla fetta di torta ai mirtilli che è riuscita a infilare nella grande borsa di cuoio, al fatto che presto potrà tornare a casa e mangiarsela in pace, togliersi quella pancera e riportare le cose alla normalità.

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Concerto d'inverno



Nella macchina buia sua moglie Jane sedeva con il bel cappotto nero abbottonato fino al collo: íl cappotto che avevano comprato insieme l'anno prima, dopo aver girato per tutti quei negozi. Era stata dura; a un certo punto gli era venuta sete ed erano finiti a prendersi una coppa di gelato nel locale di Water Street, con la giovane cameriera arcigna che accordava sempre loro lo sconto per anziani anche se non gliel'avevano mai chiesto; avevano scherzato su questo, sul fatto che la ragazza, mentre sbatteva sul tavolo le loro tazze di caffè, non aveva idea che un giorno anche le sue braccia sarebbero state cosparse di macchie scure dovute alla vecchiaia, o che sarebbe stato necessario razionare le tazze di caffè perché la medicina per l'ipertensione ti spediva ogni momento in bagno a fare pipì; che la vita avrebbe acquistato velocità, e poi sarebbe trascorsa quasi tutta, lasciandoti senza fiato, davvero.

«Com'è divertente», disse in quel momento sua moglie, scrutando nella notte le case che scorrevano accanto a loro, tutte illuminate da innumerevoli decorazioni natalizie; e quelle parole spinsero Bob Houlton a sorridere mentre guidava. Sua moglie era soddisfatta e teneva le mani ripiegate in grembo. «Tutte quelle vite», disse. «Tutte quelle storie che non sapremo mai». Anche Bob sorrise e allungò il braccio per toccarle la mano guantata, perché sapeva già che quello sarebbe stato il pensiero di lei.

I piccoli orecchini d'oro scintillarono alla luce di un lampione mentre Jane voltava la testa. «Ti ricordi la nostra luna di miele», chiese, «quando tu insistevi per farmi appassionare a tutte quelle vecchie rovine Maya, mentre io volevo solo sapere quanti dei turisti sull'autobus a casa avevano i ponpon sulle tendine della doccia? E abbiamo litigato, perché dentro di te avevi paura di aver sposato una donna noiosa? Graziosa, ma noiosa».

Lui rispose di no, che non se lo ricordava affatto, e Jane sospirò profondamente per fargli capire che secondo lei invece sì; poi indicò una casa sull'angolo ricoperta di luce azzurra, nastri di luce azzurra che percorrevano l'intera facciata, e voltò la testa per continuare a osservarla mentre l'auto la superava.

«Sono scemo, Janie», disse Bob.

«Molto scemo», convenne Jane. «Ce li hai i biglietti?».

Lui annuì.

«È buffo dover comprare dei biglietti per entrare in una chiesa».

In realtà era stato sensato spostare il concerto nella chiesa di Saint Catherine dopo che l'ultima tempesta aveva fatto crollare il tetto del Macklin Music Hall. Nessuno era rimasto ferito, ma quel pensiero fece rabbrividire Bob Houlton; nella sua mente c'era l'immagine di lui e Jane seduti sui sedili rossi imbottiti, e del tetto che crollava, e loro due soffocavano e la loro vita insieme terminava in modo orribile. In quel periodo era incline a pensieri del genere. Quella sera aveva addirittura avvertito un senso di premonizione, ma non aveva intenzione di dirglielo; e poi Jane adorava guardare tutte quelle luci.

E in quel momento Jane Houlton era felice davvero. Mentre si muoveva appena dentro il suo bel cappotto nero, pensava che dopotutto la vita fosse un dono, che uno dei pregi dell'invecchiare fosse la consapevolezza che molti momenti non erano soltanto momenti, ma doni. E come era bello, davvero, che la gente facesse festa con tanto ardore in quel periodo dell'anno. Non importava che cosa la vita riservasse loro (alcune delle case accanto a cui passavano sarebbero state costrette a sopportare dolorose tribolazioni, Janie lo sapeva), nonostante tutto si sentivano spinti a fare festa perché in qualche modo sapevano, ciascuno alla sua maniera, che la vita era un dono da festeggiare.

Bob azionò la freccia ed entrò nel viale. «Be', è stato divertente», disse Jane, appoggiandosi allo schienale. In quei giorni si divertivano insieme, davvero. Era come se il loro matrimonio fosse stato un lungo e complesso pranzo di gala e ora fossero arrivati a quell'ottimo dessert. In centro le auto si muovevano lentamente sulla Main Street, oltrepassando i semafori con grandi festoni appesi in cima e le vetrine dei negozi dei ristoranti tutte illuminate. Appena superato il cinema Bob vide uno spazio libero per posteggiare lungo il cordolo del marciapiedi e fermò la macchina; ci volle un po' di tempo, dovette faticare per farsi largo in mezzo agli altri. Dietro di loro alcuni guidatori suonavano il clacson, seccati.

«Andate a quel paese!». Jane fece una smorfia nel buio.

Bob raddrizzò le ruote e spense il motore. «Aspetta qui, Janie, mentre faccio il giro».

Non erano più giovani, era quello il fatto. Continuavano a ripeterselo a vicenda, come se non riuscissero a crederci. Ma tutti e due nel corso dell'ultimo anno avevano avuto un leggero attacco di cuore; prima lei (raccontava di aver avuto la sensazione di avere mangiato troppe cipolle grigliate per cena quella sera). E poi lui, qualche mese dopo, e non aveva affatto avuto la stessa sensazione: gli era sembrato che qualcuno si fosse seduto pesantemente sul suo petto. Però la mandibola gli faceva male, proprio come a Jane.

Ora stavano bene. Ma lei aveva settantadue anni e lui settantacinque, e a meno che un tetto non cadesse loro addosso seppellendoli entrambi, presumibilmente sarebbe arrivato un momento in cui uno dei due avrebbe dovuto vivere senza l'altro.

Le vetrine dei negozi scintillavano di luci natalizie, e l'aria odorava di neve. Bob prese Jane sotto braccio e si incamminarono lungo la strada, dove le vetrine dei ristoranti mostravano le più varie composizioni di agrifoglio e ghirlande, e alcune vetrate avevano gli angoli dipinti di vernice spray bianca. «Guarda, i Lydia», disse Jane. «Saluta, caro».

«Dove?».

«Saluta, caro. Sono laggiù».

«È inutile che saluti se non vedo chi sto salutando».

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