Copertina
Autore Elizabeth Strout
Titolo I ragazzi Burgess
EdizioneFazi, Roma, 2013, Le strade 220 , pag. 448, cop.fle., dim. 14x21x3 cm , Isbn 978-88-6411-899-4
OriginaleThe Burgess Boys [2013]
TraduttoreSilvia Castoldi
LettoreAngela Razzini, 2013
Classe narrativa statunitense
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Pagina 9

Prologo



Io e mia madre parlavamo molto spesso della famiglia Burgess. «I ragazzi Burgess», li chiamava lei. Ne parlavamo soprattutto al telefono, perché io abitavo a New York e lei nel Maine, ma anche quando andavo a trovarla e alloggiavo vicino a casa sua. Mia madre non era stata in molti hotel, perciò divenne una delle nostre abitudini preferite: sedere in camera, tra le pareti verdi con gli stencil di rose rosa, a parlare del passato, di quelli che avevano lasciato Shirley Falls e di quelli che erano rimasti. «Stavo pensando ai ragazzi Burgess», diceva lei, tirando indietro la tenda per guardare le betulle.

Aveva un debole per i ragazzi Burgess. Credo che fosse perché tutti e tre avevano sofferto pubblicamente, e anche perché tanti anni prima era stata la loro insegnante al quarto anno di catechismo. Erano i suoi prediletti. Jim, perché sentiva che perfino allora era già arrabbiato e si sforzava di controllare la sua rabbia, e Bob, perché aveva il cuore grande. Non era molto interessata a Susan. «Non era simpatica a nessuno, per quanto ne so», mi disse un giorno.

«Da piccola era carina», ricordai. «Tutta riccioli, con gli occhi grandi».

«E poi ha avuto quel figlio matto».

«Che cosa triste».

«Ce ne sono tante di cose tristi», rispose mia madre. A quell'epoca eravamo tutte e due vedove e, dopo parole come quelle, di solito cadeva il silenzio. Poi una di noi diceva di essere tanto contenta che Bob Burgess alla fine avesse trovato una brava moglie. Era la seconda moglie di Bob e speravamo fosse l'ultima; ed era un ministro del culto della Chiesa Unitariana. A mia madre gli unitariani non piacevano, li considerava atei che non volevano rimanere esclusi dalle gioie del Natale. Ma Margaret Estaver veniva dal Maíne, perciò andava bene. «Bob avrebbe anche potuto scegliersi una newyorkese, dopo tanti anni che viveva lì. Guarda cos'è successo a Jim, che ha sposato quella snob del Connecticut», disse in un'altra occasione.

Naturalmente in passato avevamo parlato parecchio di Jim: di come aveva lasciato il Maine dopo essersi occupato dei casi di omicidio per l'ufficio del procuratore generale, di come avevamo sperato che si candidasse a governatore e del mistero della sua improvvisa decisione di non farlo; e poi, ovviamente, nell'anno del processo a Wally Packer, quando Jim compariva al telegiornale tutte le sere. Erano i primi tempi in cui venivano trasmessi i processi in televisione, e un anno dopo il caso O.J. Simpson avrebbe oscurato il ricordo del processo Packer, ma fino ad allora ci furono adoratori di Jim Burgess in tutto il paese che restarono stupefatti di fronte allo schermo quando riuscì a ottenere l'assoluzione per quel cantante soul dal volto gentile, la cui voce confidenziale («Toglimi dalle spalle questo peso, il peso del mio amore») aveva accompagnato la nostra generazione verso l'età adulta. Wally Packer, che secondo l'accusa aveva pagato qualcuno per ammazzare la fidanzata bianca. Jim riuscì a tenere il processo a Hartford, dove la questione razziale era molto importante, e la sua scelta dei membri della giuria fu definita brillante. Poi, con una pazienza eloquente e instancabile, si dedicò a descrivere quanto potesse essere ingannevole il tessuto che teneva insieme, o che in quel caso a suo dire non teneva insieme, le componenti fondamentali del comportamento criminale: l'intenzione e l'azione. Sui quotidiani nazionali comparve una serie di vignette, una delle quali mostrava una donna che fissava il proprio soggiorno disordinato e una didascalia che diceva: «Se ho intenzione di riordinare il soggiorno, quand'è che diventerà ordinato?». I sondaggi indicavano che la maggior parte dell'opinione pubblica riteneva, come me e mia madre, che Wally Packer fosse colpevole. Ma Jim fece un lavoro incredibile che lo rese famoso. (Alcune riviste lo indicarono come uno degli uomini più sexy del 1993, e mia madre, che pure detestava anche il minimo accenno al sesso, non gli serbò rancore). Si diceva che O.J. Simpson lo volesse nel suo "Dream Team". Si fece un gran parlare di questa storia in televisione, ma dato che la fazione pro-Burgess non rilasciò alcuna dichiarazione in proposito, il verdetto fu che Jim stava «dormendo sugli allori». Il processo Packer aveva fornito a me e mia madre un argomento di conversazione in un momento in cui non eravamo in buoni rapporti. Ma quel periodo ormai apparteneva al passato. Nel presente, quando me ne andai dal Maine le diedi un bacio e le dissi che le volevo bene. Lei mi rispose allo stesso modo.

Tornata a New York, una sera, mentre guardavo fuori dalla finestra del mio appartamento al ventiseiesimo piano, osservando il crepuscolo che cambiava la città e le luci che si accendevano come lucciole nella distesa di edifici che si estendeva di fronte a me, le telefonai. «Ti ricordi quando la madre di Bob lo aveva mandato dallo strizzacervelli? I bambini sparlavano di lui nel cortile della scuola. Dicevano: "Bobby Burgess va dal dottore dei matti"».

«I bambini sono tremendi», rispose mia madre. «Com'è vero Dio».

«È stato tanto tempo fa. A quell'epoca lassù nessuno andava dallo psichiatra».

«Le cose sono cambiate. I figli degli amici con cui vado a ballare sono tutti in cura dallo psicologo e, a quanto pare, prendono delle pillole. Devo dire che anche adesso la gente si guarda bene dal tenere la bocca chiusa su certe cose».

«Ti ricordi del padre dei Burgess?». Era una domanda che le avevo già rivolto. Lo facevamo spesso, avevamo l'abitudine di ripetere sempre le stesse cose.

«Certo. Era alto. Lavorava in fabbrica. Come caporeparto, credo. E poi lei è rimasta sola».

«E non si è mai più risposata».

«No, mai píù», ripeté mia madre. «Non so quante possibilità avesse a quell'epoca. Con tre bambini piccoli. Jim, Bob e Sue».

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Pagina 86

Abdikarim si massaggiò la fronte. Quella sera, da Ifo Noor, rabbi Goldman si era seduto insieme agli anziani e aveva chiesto loro di mettere in pratica l'autentico messaggio di pace dell'islam. Era una cosa insultante. Certo che l'avrebbero fatto. Rabbi Goldman aveva detto che molti abitanti della città sostenevano il loro diritto a stare lì, e che dopo il Ramadan lo avrebbero dimostrato con una manifestazione. Gli anziani non volevano una manifestazione. Radunare una folla di gente non era un bene. Ma rabbi Goldman dal cuore grande aveva detto che avrebbe fatto del bene alla città. Del bene alla città! Ogni parola equivaleva a una bastonata, che ripeteva che quello non era il loro villaggio, la loro città, il loro paese.

Fermo accanto al suo letto, Abdikarim strinse gli occhi per la rabbia, perché dov'erano i rabbi Goldman d'America quando la maggiore delle sue figlie era scesa per la prima volta in vita sua da un aereo a Nashville, insieme ai suoi quattro bambini, senza nessuno ad accoglierli, e le scale mobili erano così spaventose che riuscivano solo a fissarle, mentre i passanti li scansavano di lato, ridendo e additandoli? Dov'erano i rabbi Goldman d'America quando una vicina aveva regalato ad Aamuun un aspirapolvere, e lei, che non sapeva cos'era, non l'aveva mai usato, e la vicina aveva raccontato in città che i somali erano gente ingrata? Dov'erano i rabbi Goldman e i ministri Estaver quando la piccola Kalila aveva creduto che il distributore di ketchup di Burger King fosse fatto per lavarsi le mani? E quando sua madre aveva visto il guaio che aveva combinato e le aveva dato uno schiaffo, e una donna si era avvicinata e le aveva detto che in America non si schiaffeggiano i bambini? Dov'era il rabbino in quel momento? Il rabbino non poteva capire.

E naturalmente il rabbino, al sicuro a casa sua in compagnia della moglie preoccupata, non poteva capire che, mentre Abdikarim ricadeva pesantemente a sedere sul letto, non era la paura il sentimento che si levava in lui con maggior forza, ma il dispiegarsi del ricordo della vergogna di quella sera, quando si era infilato in bocca un pezzo di mufa e aveva provato il feroce, furtivo piacere di quel sapore. Nei campi profughi era costantemente affamato: la compagnia di quel bisogno continuo, estenuante, era come quella di una moglie. E adesso che era lì, era atrocemente doloroso accorgersi dell'avidità animale che provava ancora nei riguardi del cibo; era una cosa che lo degradava. Mangiare, defecare, dormire, erano tutti bisogni naturali. Il lusso di quella naturalezza era stato loro sottratto tanto tempo prima.

Tastando la stoffa del copriletto, mormorò: «Astaghfirullah», 'chiedo perdono', perché la violenza nella sua terra natale gli pareva una colpa del suo stesso popolo, che non aveva vissuto l'autentica esistenza dell'islam. Chiuse gli occhi e recitò l'ultima Alhamdulilah della giornata. Grazie, Allah. Tutto il bene veniva da Allah. Il male veniva dagli uomini che permettevano al germoglio della malvagità di crescere nei loro cuori. Ma per quale motivo fosse così, quel male senza limiti, come un tumore maligno, era la domanda in cui Abdikarim si imbatteva sempre. E la risposta era sempre la stessa: non lo sapeva.

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Pagina 100

Guidò con cautela, quasi fosse reduce da una malattia che lo aveva costretto in casa per settimane. Visto dal parabrezza il mondo sembrava molto lontano. Si fermò a un distributore di benzina che aveva anche un piccolo supermercato. Una volta dentro gli riversò davanti agli occhi un assortimento talmente variegato (occhiali da sole impolverati, pile, lucchetti con le relative chiavi, caramelle) che lui fu investito da un'ondata di confusione, ed ebbe quasi paura. Dietro il bancone c'era una giovane donna dalla pelle scura e dai grandi occhi neri. Nella sua mente instupidita a Bob sembrava fuori posto, come se fosse arrivata dall'India, ma non proprio. In un piccolo supermercato di Shirley Falls il commesso sarà sempre un bianco, quasi sempre sovrappeso; questo era ciò che la mente gli diceva di aspettarsi. Invece, lì dentro sembrava di essere in una minuscola istantanea di New York, dove il commesso avrebbe potuto essere chiunque. Ma quella giovane donna dagli occhi scuri lo stava fissando senza il minimo accenno di benvenuto, e Bob si sentì un intruso. Vagabondò stupidamente tra le corsie, talmente consapevole della diffidenza di lei da provare la sensazione di aver sgraffignato qualcosa, anche se non aveva mai rubato nulla da un negozio in tutta la sua vita. «Ehm, il caffè?», chiese, e lei gli indicò la macchinetta. Bob riempì un bicchiere di polistirolo, trovò una confezione di ciambelle ricoperte di zucchero a velo e poi vide sul pavimento i quotidiani del giorno prima: c'era suo nipote che gli sorrideva. Emise un gemito sommesso. Passò davanti al frigorifero e vide alcune bottiglie di vino; si fermò e ne prese una che tintinnò contro le altre mentre la tirava fuori per infilarsela sotto il braccio. Sperava di non trattenersi dopo aver parlato con Charlie Tibbetts nel pomeriggio, ma nell'eventualità di essere di nuovo bloccato a casa con Susan si sentiva meglio al pensiero di avere del vino. Posò la bottiglia sul bancone insieme al caffè e alle ciambelle e chiese le sigarette. La giovane commessa non lo guardò. Né quando fece cadere il pacchetto sul bancone, né quando gli disse quanto le doveva. In silenzio, gli fece scivolare davanti un sacchetto di carta e Bob capì che avrebbe dovuto riempirselo da solo.

Rimase seduto in macchina, con la bocca riscaldata dal caffè. Lo zucchero a velo delle ciambelle gli cadde sul cappotto e, quando tentò di scuoterlo via, lasciò delle strisce bianche. Mentre faceva retromarcia, con la tazza del caffè nell'apposito scomparto accanto alla leva del cambio, si rese conto di percepire un rumore e vi fu un breve buco temporale al rallentatore prima che capisse che quello che aveva udito era un urlo umano. Spense il motore dell'auto, che sobbalzò.

Gli parve di essere rimasto un'eternità a trafficare con la portiera prima di riuscire a scendere.

Una donna con una lunga veste rossa e una sciarpa velata che le copriva la testa e gran parte del viso era ferma dietro l'auto e gli gridava in una lingua che Bob non capiva. Agitava le braccia, poi allungò una mano e diede un colpo alla macchina. Bob avanzò verso di lei e la donna riprese ad agitare le braccia. A Bob sembrava che stesse succedendo tutto al rallentatore, nel silenzio. Vide che dietro la donna ce n'era un'altra, vestita allo stesso modo ma con colori più scuri, che muoveva la bocca, gridandogli contro; notò che aveva lunghi denti gialli.

«Sta bene?». Bob stava urlando. Le donne stavano urlando. Fu assalito dall'improvvisa sensazione di non riuscire a respirare e si sforzò di farlo capire alle altre due portandosi le mani al petto. Ed ecco comparire anche la commessa del supermercato, che aveva afferrato la mano della prima donna e le parlava nella lingua che Bob non capiva; solo allora si rese conto che la commessa doveva essere somala. La donna si voltò verso di lui e disse: «Hai cercato di investirla con la macchina. Vattene via, pazzo!».

«Non è vero», rispose Bob. «L'ho urtata?». Gli mancava il fiato. «L'ospedale è...». Indicò la direzione.

Le donne parlavano tra loro, in una serie di suoni rapidi e sconosciuti.

La commessa aggiunse: «Non andrà all'ospedale. Vattene».

«Non posso andarmene», rispose Bob, impotente. «Devo andare alla polizia a denunciare l'accaduto».

La commessa alzò la voce. «Perché alla polizia? Sono tuoi amici?».

«Ma se l'ho investita...».

«Non l'hai investita. Ci hai solo provato. Vattene».

«Ma c'è stato un incidente. Come si chiama?». Entrò in macchina per cercare della carta. Quando ne uscì le due donne dalle vesti e dalle sciarpe lunghe stavano correndo lungo la strada.

La commessa era tornata dentro il supermercato. «Vattene», gridò oltre la porta a vetri.

«Non l'avevo vista». Bob scrollò le spalle e alzò le mani.

Si udì il rumore del catenaccio che si chiudeva. «Vattene!», gridò di nuovo la commessa.

Guidando molto lentamente Bob tornò da Susan. Udì lo scroscio della doccia. Quando la sorella scese le scale in accappatoio, strofinandosi un asciugamano sui capelli, Bob disse, ancora senza fiato, fissando Susan che ricambiava lo sguardo: «Senti, dobbiamo telefonare a Jim».

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Pagina 147

Nel suo salone di bellezza preferito dell'Upper East Side Pam guardava la testa di una donna coreana china sui suoi piedi. Come sempre, era preoccupata al pensiero che gli strumenti non fossero stati sterilizzati bene, perché una volta che ti beccavi un fungo alle unghie non te ne liberavi più. Mia, la sua prediletta, quel giorno non c'era, e quest'altra, che le stava esfoliando con delicatezza le dita, non parlava inglese. C'era stato uno scambio di gesti e Pam, indicando la cassetta metallica, le aveva chiesto, a voce troppo alta: «Puliti? Sì?», prima di rilassarsi e lasciarsi andare ai pensieri, che coltivava da giorni ormai, sulla sua vita passata con la famiglia Burgess.

All'inizio Susan le era stata antipatica. Ma a quel tempo erano due ragazzine (avevano la stessa età dei figli delle sue amiche appena partiti per il college), e Pam aveva preso l'implacabile disprezzo di Susan nei riguardi di Bob come un affronto personale. Quella era un'epoca della sua vita in cui voleva che tutti provassero simpatia per tutti (e in particolare voleva che tutti provassero simpatia per lei). Quella era anche un'epoca in cui al campus di Orono dell'Università del Maine gli studenti, ogni volta che si incrociavano sui vialettí che si snodavano tra gli edifici e in mezzo agli alberi, si salutavano anche se non si conoscevano. D'altra parte erano in molti a conoscere Bob, sia per i suoi modi amichevoli, sia perché alcuni avevano conosciuto Jim, che ormai se n'era andato ma era stato presidente del consiglio studentesco, nonché uno dei pochissimi laureati dell'università a ottenere l'ammissione alla Scuola di Legge di Harvard, e per di più con una borsa di studio, il che aveva accresciuto la sua fama. I ragazzi Burgess erano noti quanto le querce e gli aceri sotto i quali passeggiavano gli studenti con i libri in mano (c'era ancora qualche olmo, però malato, con le foglie che avvizzivano in cima). Camminando di fianco a Bob e alla sua falcata disinvolta, Pam si sentiva sicura come non era mai stata in vita sua e, dentro di lei, sbocciò e crebbe l'entusiasmo per la vita universitaria; per la vita, punto e basta. Quell'entusiasmo subiva un affronto ogni volta che Susan faceva finta di non vederli, o entrava da un ingresso diverso dal loro nelle occasioni in cui tutti e tre erano diretti verso la sede del sindacato degli studenti. Susan allora era magra e carina e, quando li incontrava, voltava il viso dall'altra parte. Alla biblioteca Fogler era capace di passare davanti a Bob senza degnarlo neppure di un'occhiata. «Ciao, Suse», diceva Bob. Niente. Niente! Pam era inorridita. Ma Bob non sembrava turbato. «È sempre stata così».

Ma dopo i fine settimana e le vacanze trascorse in casa Burgess a Shirley Falls, dove la futura suocera, Barbara, la accoglieva con quello che, Pam lo aveva capito, era un atteggiamento amichevole (espresso soprattutto attraverso battute sarcastiche a spese altrui, proferite con volto granitico, lanciandole un'occhiata per includerla nello scherzo), Pam cominciò a dispiacersi per Susan. Era una sensazione sorprendente, forse la sua prima presa di coscienza del carattere prismatico del nostro sguardo sugli altri. Sentiva di aver visto fino ad allora solo la facciata di Susan, senza percepire affatto l'ampia luce bianca della disapprovazione materna che le brillava alle spalle. Era Susan a rappresentare più spesso il bersaglio delle cosiddette battute della madre; era Susan ad apparecchiare la tavola in silenzio mentre Barbara diceva a Bob che, a differenza della sorella, era entrato nell'elenco degli studenti migliori dell'anno: «Oh, Bobby, ovvio che ce l'hai fatta, l'ho sempre saputo che sei intelligente». Era Susan a portare i capelli lunghi con la riga in mezzo «come una stupida hippie figlia dei fiori». Era Susan, con la vita snella e i fianchi dritti, a sentirsi ripetere che un giorno o l'altro avrebbe fatto la fine di tutte le donne, trasformandosi in un barile di lardo.

La madre di Pam non era mai stata sprezzante nei suoi confronti, ma sembrava incerta nei riguardi dei propri doveri di genitrice, che compiva tenendosi a distanza, come se Pam, una ragazza che trascorreva ore della sua giovinezza a leggere nella biblioteca della città e a sfogliare le pubblicità delle riviste che ammiccavano alla vita là fuori, le avesse comunque chiesto uno sforzo eccessivo. Il padre, silenzioso e stempiato, appariva ancora meno adatto a guidare la figlia attraverso gli ostacoli più comuni della crescita. Era per sfuggire a quell'atmosfera arida che Pam trascorreva quasi tutte le vacanze dai Burgess, nella casetta gialla in cima a una collina non lontana dal centro della città. Era solo un po' più piccola di quella in cui Pam era cresciuta, ma i tappeti erano consumati, i piatti scheggiati, e nel bagno mancavano delle piastrelle. Tutti particolari che l'avevano turbata. Di nuovo, quella sensazione di scoperta: il suo ragazzo veniva da una famiglia povera. Il padre di Pam era proprietario di una piccola azienda di cancelleria e la madre dava lezioni di piano. Ma la loro casa nell'ovest del Massachusetts aveva sempre un'aria fresca ed era circondata da una campagna tranquilla e aperta; Pam non ci aveva mai neppure fatto caso. Quando vide quella dei Burgess, con il linoleum scolorito del pavimento che si arricciava agli angoli, gli infissi così vecchi e deformati che d'inverno li imbottivano con carta di giornale, l'unico bagno con il gabinetto rigato da macchie color ruggine e la tenda della doccia così sbiadita che non si capiva se un tempo fosse stata rosa o rossa, pensò alla famiglia povera della sua città natale, l'unica famiglia davvero povera che avesse mai conosciuto: avevano auto arrugginite sparse sul prato di casa, i bambini si presentavano a scuola sporchi, e Pam fu colta alla sprovvista: chi era quel ragazzo Burgess di cui si era innamorata? Era così anche lui? Al campus di Orono non le era parso diverso dagli altri: portava tutti i giorni gli stessi jeans, ma allora erano tanti i ragazzi che lo facevano; la sua stanza al dormitorio era disordinata, e la metà che gli apparteneva era spoglia, ma tante stanze nei dormitori maschili erano disordinate e spoglie. Solo che Bob era più presente degli altri ragazzi, più disinvolto, e Pam non aveva mai immaginato che lui e la sua sgradevole sorella venissero da un ambiente del genere.

Quella reazione non durò a lungo. In ogni stanza in cui entrava, Bob portava con sé ciò che lo rendeva Bob, e così la casa divenne rapidamente un luogo confortevole. La sera Pam sentiva la sua voce tranquilla mentre parlava sommessamente con Barbara, perché quei due, madre e figlio, rimanevano spesso svegli fino a tardi a chiacchierare. Spesso li sentiva pronunciare il nome di Jim, come se la presenza del fratello di Bob indugiasse nella casa, allo stesso modo in cui persisteva nel campus di Orono.

«Jim questo, Jim quello» era ciò che Pam aveva in animo di dirgli quando finalmente lo conobbe. Un venerdì pomeriggio di novembre, quando fuori era già buio, era seduto al tavolo di cucina e sembrava troppo grande per la casa, stravaccato all'indietro sulla sedia, con le braccia incrociate. Ma lei si limitò a dirgli: «Ciao». Lui si alzò e le strinse la mano, mentre con quella libera dava uno spintone a Bob. «Come stai, cialtrone?», gli disse, e Bob rispose: «Sei tornato, uomo di Harvard!».

La prima sensazione che provò Pam fu il sollievo di non sentirsi attratta dal fratello maggiore del suo fidanzato, perché si era accorta che per molte ragazze invece era così. Con i suoi capelli neri e la mascella perfetta, Jim possedeva una bellezza troppo convenzionale per i suoi gusti; ed era duro. Pam se ne accorse e si spaventò. Nessun altro sembrava rendersene conto. Quando Jim prendeva in giro Bob (con la stessa asprezza con cui Barbara prendeva in giro Susan), Bob rideva e incassava. «Da bambini», le raccontò Jim la prima sera, «questo tizio», fece un cenno col capo verso il fratello, «mi faceva impazzire. Impazzire. Mi fai ancora impazzire, accidenti!».

Bob alzò spensierato le spalle.

«Cosa faceva?».

«Tutto quello che mangiavo io, lo voleva anche lui. Quando la mamma gli chiedeva cosa preferiva per pranzo diceva: "Voglio la zuppa di pomodoro". Poi si accorgeva che io invece avevo chiesto quella di verdure e allora cambiava idea: "No, voglio quella". Qualunque cosa mi mettessi addosso, la voleva anche lui. Dovunque andassi, voleva venire con me».

«Accidenti. Dev'essere stato terribile». Pam stava facendo del sarcasmo, ma era come gettare un sassolino contro un parabrezza molto spesso; Jim era impenetrabile.

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