Autore Elizabeth Strout
Titolo Tutto è possibile
EdizioneEinaudi, Torino, 2017, Supercoralli , pag. 212, cop.rig.sov., dim. 14x22x2 cm , Isbn 978-88-06-22969-6
OriginaleAnything Is Possible [2017]
TraduttoreSusanna Basso
LettoreAngela Razzini, 2017
Classe narrativa statunitense












 

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Indice


    3     L'insegna

   26     Mulini a vento

   51     Crepe

   74     La teoria dello schiacciadito

   93     Mississippi Mary

  121     Sorella

  145     Il B&B di Dottie

  168     Candore accecante

  183     Il regalo


  207     Ringraziamenti


 

 

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Pagina 3

L'insegna


Tommy Guptill era stato un tempo proprietario di un caseificio ereditato dal padre e situato a un paio di miglia dal centro di Amgash, Illinois. Tutto ciò risaliva ormai a parecchi anni prima, ma a Tommy capitava ancora di svegliarsi con lo stesso terrore che aveva provato la notte in cui un incendio aveva raso al suolo il caseificio. Anche la casa era completamente bruciata; il vento aveva portato le scintille dentro l'abitazione che si trovava poco lontana dalle stalle. Colpa sua — aveva sempre pensato che fosse stata sua la colpa — per non avere controllato, quella sera, che le macchine mungitrici fossero ben spente, ed era proprio li che era scoppiato l'incendio. Una volta partito, si era propagato rapido e furioso dappertutto. Persero ogni cosa, se si esclude la cornice in ottone della specchiera del soggiorno che ritrovò l'indomani fra le macerie e che lasciò dov'era. Si organizzò una colletta: per alcune settimane i suoi figli andarono a scuola coi vestiti dei compagni, finché Tommy non riuscí a rimettersi in piedi con i pochi soldi che aveva: vendette la terra al coltivatore del terreno accanto ma l'affare non gli fruttò molto. Dopodiché, lui e sua moglie, una graziosa donnina di nome Shirley, comprarono dei vestiti, e lui anche una casa, e va detto che Shirley si mantenne di ammirevole buonumore mentre succedeva tutto questo. Avevano dovuto trasferirsi ad Amgash, un paese malridotto dove i bambini furono iscritti a scuola, costretti a lasciare quella di Carlisle che avevano potuto frequentare prima, visto che il caseificio si trovava giusto a metà fra i due centri abitati. Tommy fu assunto come bidello nel comprensorio scolastico di Amgash; la regolarità dell'impiego gli si confaceva, senza contare che non avrebbe mai potuto lavorare nella fattoria di qualcun altro. Gli mancava la grinta per farlo. Aveva trentacinque anni allora.

Adesso i figli erano cresciuti e avevano figli già grandi a loro volta, e lui e Shirley stavano ancora nella stessa casetta; Shirley ci aveva piantato intorno dei fiori, cosa inusuale da quelle parti. Ai tempi dell'incendio Tommy si era preoccupato tanto per i figli; erano passati dall'avere una casa considerata meta di uscite scolastiche (ogni anno in primavera la quinta elementare di Carlisle programmava una gita di un giorno e i bambini consumavano il loro pranzo al sacco seduti ai tavoli di legno fuori dalle stalle prima di entrare in massa per vedere gli uomini mungere le bestie e osservare la schiuma bianca e grassa riempire i tubi di plastica trasparente che correvano sopra le loro teste) a dover riconoscere nel loro padre l'uomo che spazzava via la «polvere magica» gettata a terra per asciugare il vomito di un ragazzino che si era sentito male in corridoio, Tommy, il bidello in pantaloni grigi e camicia bianca, con il nome Tommy cucito in cifre rosse sul taschino.

Pazienza. In fondo non era morto nessuno.




Quella mattina Tommy prese la macchina e si avviò senza fretta in centro a Carlisle per qualche commissione; era un assolato sabato di maggio e mancavano pochi giorni all'ottantaduesimo compleanno di sua moglie. Tutto intorno si stendevano a perdita d'occhio campi di mais e di soia piantati da poco. Alcuni terreni erano ancora marroni, arati di fresco e pronti per la messa a dimora delle nuove piante, ma soprattutto c'era il vertiginoso cielo azzurro, con qualche nuvola bianca disseminata quasi all'orizzonte. Tommy superò l'insegna sulla strada che indicava la casa dei Barton; c'era ancora scritto ORLI E RIPARAZIONI, sebbene Lydia Barton, la sarta che si occupava di orli e riparazioni, fosse morta molti anni prima. I Barton erano stati degli emarginati perfino in un posto come Amgash, per via della loro estrema povertà unita alla stranezza. Il figlio maggiore, un uomo di nome Pete, ora abitava lí da solo, la figlia di mezzo stava due paesi dopo e la piccola, Lucy Barton, se n'era andata da tanto e aveva finito per sistemarsi a New York. Quanti anni aveva passato Tommy, a pensare a Lucy. A tutte le volte che si era fermata a scuola, sola in classe, dalla quarta elementare fino al diploma di liceo; ci aveva messo qualche annetto perfino per avere il coraggio di guardarlo negli occhi.

Ora però Tommy costeggiava la zona della sua fattoria — non restava nemmeno un cartello a segnalarla, era tutta aperta campagna adesso — e il pensiero gli corse, come spesso capitava, alla sua vita di allora. Una bella vita senz'altro, ma non rimpiangeva niente di quel che era successo. Non era nell'indole di Tommy il rimpianto, e la notte dell'incendio — nel pieno assalto della paura — aveva capito che le sole cose importanti al mondo erano sua moglie e i bambini, e si era detto che certa gente può vivere un'intera vita senza scoprirlo con la salda e assoluta precisione con cui l'aveva saputo lui. In cuor suo, pensava all'incendio come a un segno mandatogli da Dio per spronarlo a tenersi stretto il suo tesoro. In cuor suo, perché non voleva essere giudicato uno di quelli che trovano pretesti alle tragedie; non sopportava l'idea che qualcuno, compresa la sua amatissima moglie, potesse reputarlo capace di una cosa simile. Ma quella notte, mentre la moglie teneva i bambini radunati sul ciglio della strada — li aveva cacciati lui fuori di casa appena si era accorto che la stalla andava a fuoco —, mentre osservava le fiamme alzarsi altissime nel cielo nero, e udiva le grida tremende delle vacche che morivano, aveva provato, quella notte, tante cose, ma era solo quando era crollato il tetto della casa, sprofondando all'interno, dritto sulle camere da letto e sul soggiorno del piano di sotto con tutte le foto dei bambini e quelle dei suoi genitori, era solo quando aveva visto succedere tutto questo che aveva percepito - fortissima - quella che avrebbe potuto definire unicamente come la presenza di Dio, e aveva capito perché da sempre gli angeli sono raffigurati con le ali, perché era stata quella la sensazione, come di un frullo d'ali, nemmeno un vero e proprio rumore, e subito dopo era stato come se Dio, che non aveva volto, ma era Dio comunque, gli si fosse stretto addosso per comunicargli senza bisogno di parole - brevemente, di sfuggita - un messaggio che Tommy interpretò in questo modo: Va bene cosí, Tommy. E a quel punto Tommy aveva capito che andava infatti bene cosí. Era una cosa al di là della sua intelligenza, ma andava di fatto bene cosí. E sarebbe andato bene anche dopo. Spesso pensava che i suoi figli erano diventati piú comprensivi per aver dovuto andare a scuola con bambini che erano poveri, e non con chi arrivava da case come quella che avevano conosciuto loro in principio. Da allora aveva percepito di quando in quando la presenza di Dio, come la stretta vicinanza di una zona dorata, ma non si era mai piú sentito visitato da Dio come quella notte e sapeva benissimo che cosa ne avrebbero pensato gli altri, perciò intendeva tenerlo per sé fino al suo ultimo giorno di vita, quel segno di Dio.

E tuttavia, in un mattino di primavera come questo, l'odore di terra gli ricordava gli afrori delle bestie, l'umidità delle loro frogie, il tepore delle loro pance, e in generale le sue stalle - due, ne aveva avute - e allora lasciò vagare il pensiero su brandelli di immagini che gli tornavano in mente. Forse perché aveva appena superato la casa dei Barton, ripensò a Ken Barton, il padre di quei bambini miserabili, che ogni tanto aveva lavorato per lui, e subito dopo - come gli succedeva piú spesso - ripensò a Lucy che se n'era andata al college ed era poi finita a New York. Era diventata scrittrice.

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Pagina 51

Crepe


Quando Linda Peterson-Cornell vide la donna che avrebbe alloggiato da loro quella settimana pensò: Ecco, sarà questa qui. Di nome faceva Yvonne Tuttle e a portarla era stata un'altra partecipante del festival di fotografia, Karen-Lucie Toth, che era rimasta silenziosamente al suo fianco mentre Linda faceva gli onori di casa. Yvonne era altissima e portava i capelli castani e ondulati sciolti sulle spalle; di viso non doveva essere stata male una decina d'anni prima. Al momento le rughe sotto gli occhi riducevano l'azzurro dello sguardo, e comunque Yvonne si truccava troppo per una donna che chiaramente aveva passato i quarant'anni - Linda ne aveva cinquantacinque. I sandali di Yvonne, dalla suola a zattera di sughero, la alzavano ulteriormente di statura. Agli occhi di Linda tradivano il fatto che Yvonne arrivava dal nulla o quasi. Le scarpe ti tradiscono sempre.

Nel giardino di Linda e Jay Peterson-Cornell c'erano due sculture di Alexander Calder, entrambe sullo stesso lato dell'ampia piscina turchese; in casa, alle pareti, due Picasso e un Edward Hopper. E in fondo all'atrio in pendenza che portava alla zona ospiti, c'era anche un'opera giovanile di Philip Guston.

- Accomodatevi, - fece strada Linda, e le due donne la seguirono nell'ingresso che dopo una specie di curva si inoltrava in un lungo corridoio a vetri per aprirsi infine nell'appartamento destinato agli ospiti. Con un cenno del capo, Linda comunicò alla domestica che poteva andare, quindi attese che Yvonne dicesse qualcosa. Yvonne si limitava a guardarsi intorno, stringendo il manico del trolley, ma non fece alcun commento sulla casa che, anche senza bisogno di riconoscere le opere d'arte appese alle pareti - bizzarro comunque che una fotografa potesse non riconoscerle -, era decisamente degna di commento. Qualche anno prima era stata restaurata da un architetto che aveva fatto un lavoro sensazionale. La stanza degli ospiti era tutta vetri.

- La porta dov'è? - chiese infine Yvonne.

- Non c'è nessuna porta, - disse Linda. Avrebbe potuto spiegare a Yvonne che non doveva preoccuparsi della privacy, dal momento che lei e il marito alloggiavano nella parte anteriore del primo piano e che nessun edificio affacciava sul giardino posteriore, ma non lo disse. Mostrò invece a Yvonne il bagno sul lato opposto dell'atrio, anche questo privo di porta, con pianta a V e doccia senza tenda né box, ma segnalata da una semplice bocchetta a muro. Il pavimento era inclinato per assecondare lo scarico dell'acqua.

- Non ho mai visto niente di simile, - disse Yvonne, e Linda rispose che lo dicevano tutti. Intanto Karen-Lucie Toth continuava a montare silenziosamente la guardia accanto a Yvonne. Era la fotografa piú celebre del Festival d'Estate, l'unica che tornava ogni anno. Linda sapeva che era stata Karen-Lucie a chiedere a Yvonne Tuttle la disponibilità a tenere un seminario quell'estate, e i membri del direttivo avevano accettato sebbene il portfolio di Yvonne non fosse precisamente all'altezza dei requisiti. Ma nessuno, al festival, voleva perdersi Karen-Lucie. Gli studenti la adoravano, le sue opere erano molto note e inoltre il marito di Karen-Lucie si era gettato dal tetto dello Sheraton di Fort Lauderdale tre anni prima. Karen-Lucie Toth aveva carta bianca su ogni cosa, buone maniere incluse, pensò Linda, perché poc'anzi, quando le aveva detto: «Non mi pare che sia mai stata in questa casa», Karen-Lucie (anche lei alta, anche lei castana - avrebbero potuto essere sorelle) si era limitata a ribattere, con quel suo pesantissimo accento dell'Alabama: - Infatti.

Subito dopo, Yvonne e Karen-Lucie se ne andarono e Linda, osservandole sulla strada dalla finestra della cucina, le vide chiacchierare fitto fitto e fu certa che parlassero di lei. Linda era invidiosa di Karen-Lucie Toth - lo sapeva benissimo, non era un sentimento represso - perché Karen-Lucie Toth era famosa e senza figli e ancora bella, e perché non aveva un marito. Il sogno di Linda era che suo marito, l'uomo che un tempo l'aveva tanto affascinata con la sua intelligenza, semplicemente sparisse.




La cittadina che ospitava il festival di fotografia era un piccolo centro a un'ora da Chicago, con una biblioteca, una scuola, la chiesa e il negozio di ferramenta rosso fiammante con una fila di barattoli di vetro in bella mostra in vetrina. C'erano anche due caffè e tre ristoranti nonché un bar che la sera spesso offriva musica dal vivo. Le case intorno al centro erano vecchie ville ben tenute, coi portici ingombri, in quella stagione, di grossi vasi di gerani e petunie. Gli alberi del posto erano querce maestose e noci americani, e i grossi rami degli spini di Giuda e dei prugnoli erano penduli, perciò quando nel parco o nel cortile della scuola non c'erano bambini a giocare, si potevano sentire i sussurri delle piante, qualche volta persino il fruscio delle foglie di frassino. I corsi del festival si svolgevano nella sede di un liceo privato finito in bancarotta anni prima e costretto a chiudere i battenti, ma ancora, almeno in parte, disponibile. Per accedere a quegli edifici occorreva percorrere sentieri talmente soffocati da arbusti e fogliame che le case si vedevano solo di sfuggita, passando. L'atmosfera era quasi fiabesca, in quella piccola città. Yvonne Tuttle espresse tale idea a Karen-Lucie Toth, e Karen-Lucie disse che lo pensava anche lei. Avevano appena raggiunto l'edificio in cui era stato organizzato un ricevimento di benvenuto.

Joy Gunterson, direttrice del festival, era una donna bassa e magrissima con certi ricci neri neri in testa. Ringraziò Yvonne di essere venuta, aggiungendo che era un onore accogliere qualsiasi amica di Karen-Lucie Toth. Yvonne ebbe l'impressione che Joy Gunterson non facesse che levare lo sguardo al soffitto mentre parlava e, appena si fu allontanata, lo comunicò a Karen-Lucie, che disse: «Oh, ricordami di», giusto mentre veniva loro incontro una donna in abiti anni Sessanta, cappellino rigido, soprabito corto e borsetta in tinta con le scarpe dal tacco a spillo; la donna gettò le braccia intorno al collo di Karen-Lucie e Yvonne si accorse allora che era un uomo. - Sono pazza di Karen-Lucie, - disse, rivolgendosi a Yvonne, e Karen-Lucie con labbra strette a cuore ribatté: - Faccia d'angelo! Ma sarai il piú dolce dei miei amici...

- Ehi, sembrate sorelle, voi due, - disse l'uomo. Gli si vedeva la ricrescita della barba sotto il fondotinta, ma aveva lineamenti fini e proporzionati, quasi perfetti.

- Siamo sorelle, - rispose Yvonne. - Separate alla nascita.

- Crudelmente, - aggiunse Karen-Lucie. - Ma ora siamo tornate insieme. Ma tu guarda che meraviglia di borsetta che hai al polso, tesoro.

- Come ti chiami? - chiese Yvonne.

- Tomasina. Qui. A casa, Tom -. E con una leziosa scrollata di spalle accennò un saltello aggraziato.

- Capisco, - disse Yvonne.

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Sorella


Pete Barton sapeva che la sorella Lucy sarebbe venuta a Chicago per il giro di presentazioni del tascabile: la seguiva online. Solo da pochi mesi si era fatto installare in casa la rete Wi-Fi, e si era comprato un portatile, e quello che gli piaceva di piú controllare erano i vari spostamenti di Lucy. Gli dava un senso di soggezione che lei fosse diventata quello che era: si era lasciata indietro quel buco di casa e di posto, oltre alla miseria che era toccata a tutti loro. Si era buttata ogni cosa alle spalle per trasferirsi a New York e diventare, ai suoi occhi, una celebrità. Quando la vedeva sullo schermo del computer tenere conferenze in sale gremite di pubblico, Pete provava un'emozione quieta. Sua sorella...

Non la vedeva da diciassette anni; Lucy non tornava dalla morte del loro padre, pur essendo passata diverse volte da Chicago nel frattempo: gliel'aveva detto lei stessa. In compenso la chiamava quasi tutte le domeniche sera e, quando parlavano, Pete si scordava che era famosa per chiacchierare con lei, e ascoltarla; da qualche anno ormai aveva un marito nuovo, e gli raccontava di lui, e qualche volta gli diceva delle sue figlie, ma a Pete non interessava tanto di loro, chissà perché. Lucy comunque sembrava averlo capito e ne parlava abbastanza poco.

Quando squillò il telefono quella domenica sera — qualche settimana prima Pete aveva scoperto del giro a Chicago — Lucy gli disse: — Petie, vengo a Chicago, e poi voglio affittare una macchina quel sabato e passare a trovarti ad Amgash —.

Restò sbalordito. - Che bello! - disse. E appena ebbe riattaccato, fu colto dallo spavento.

Aveva due settimane.

Lo spavento nell'attesa aumentò e quando le parlò la domenica di mezzo e le disse: «Sono proprio contento che vieni a trovarmi», pensava che Lucy avrebbe inventato una scusa per dirgli che non ce la faceva. E invece disse: - E io no?

A quel punto attaccò a pulire casa. Si comprò della roba per lavare e la mise dentro un secchio di acqua bollente, guardando come faceva le bolle, dopodiché si buttò a terra mani e ginocchia, tanto era sporco. Fregò i ripiani della cucina e di nuovo si stupí per la sporcizia. Tirò giú le tendine a vetro dietro i tendoni e le infilò nella vecchia lavatrice. Le aveva sempre credute grigio-azzurre ma saltò fuori che erano sul bianco spento. Fece un secondo lavaggio e diventarono di un bianco meno spento. Lavò le finestre e si accorse che erano sporche anche all'esterno, perciò usci a lavarle da fuori. Nel sole di fine agosto mostravano ancora dei cerchi opachi anche quando ebbe finito. Pensò che poteva tenere le tende chiuse, che era quello che faceva di solito, in ogni caso.

Quando tuttavia varcò la porta - l'unico ingresso di casa che si apriva direttamente sul soggiorno e sulla zona cucina a destra - vide le cose come le avrebbe viste Lucy e pensò: Ci resterà secca, questo posto le metterà una tale depressione. Non sapeva proprio che fare. Prese la macchina e andò al Walmart appena fuori del paese e comprò un tappeto che in effetti fece un'enorme differenza. Comunque, il divano era tutto una gobba, con la fodera originale a fiori gialli talmente frusta da essere addirittura lisa in piú punti. Il tavolo di cucina era coperto di linoleum e non c'era verso di farlo sembrare piú nuovo. In casa non c'erano tovaglie e Pete non era sicuro di volerne comprare una. Ci rinunciò. Ma il giorno prima dell'arrivo di Lucy andò in paese a farsi tagliare i capelli; di norma se li tagliava da solo. Fu durante il tragitto di ritorno in macchina che gli venne da chiedersi se avrebbe dovuto dare la mancia al parrucchiere che si era occupato di lui.

Quella notte si svegliò alle tre in preda a incubi che poi non ricordava. Alle quattro si svegliò di nuovo e non riuscí a riaddormentarsi. Lucy aveva detto che sarebbe arrivata per le due del pomeriggio. All'una, Pete apri le tende, ma nonostante il cielo nuvoloso, i vetri sembravano sporchi lo stesso, perciò le richiuse. Poi si sedette sul divano e aspettò.

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Pagina 145

Il B&B di Dottie


Venivano da est, facevano Small di cognome.

Questo Dottie lo ricordò sempre, perché il marito era enorme e aveva in faccia un'aria eternamente irritata che doveva dipendere, almeno in parte, secondo Dottie, da una vita passata a rispondere a battute su quel nome. Dottie non si uní certo al coro — per carità! Mrs Small aveva prenotato al telefono, quindi Dottie sapeva che non erano giovani. Non solo dalla voce di Mrs Small, ma anche perché ormai quasi tutti prenotavano online. In realtà Dottie era un po' piú vecchia di Mrs Small, ma in internet aveva scoperto di essere nel suo elemento come un pesce nel mare; le spiaceva che non fosse arrivato quando lei era giovane, perché era sicura che avrebbe avuto maggiori soddisfazioni da un lavoro che richiedeva l'uso della testa piuttosto che affittando camere come faceva da tutti quegli anni. A quest'ora avrebbe potuto essere ricca! Ma Dottie non era tipo da lamentarsi, avendo ricevuto un'estate da quella donna tanto compita che era sua zia Edna — sembrava passato un secolo, e in pratica era passato davvero — un insegnamento in base al quale quando una donna si lamenta è come se ficcasse il lerciume sotto le unghie di Dio, immagine di cui Dottie non era mai riuscita a sbarazzarsi del tutto. Dottie era una donna minuta e composta, con una bella carnagione ereditata dagli antenati del Midwest e, tutto considerato — e c'era parecchio da considerare —, dava l'impressione a se stessa e agli altri di cavarsela piuttosto bene. Tornando ai fatti, la prenotazione riguardava il signore e la signora Small e due settimane dopo un omone alto e bianco di capelli varcò la porta e disse: — Abbiamo una prenotazione a nome Dr Richard Small —. L'annuncio del dottor Small era a quanto pare ampio abbastanza da contenere anche la moglie, che si presentò subito dietro di lui, senza essere mai stata nominata.

Alla reception l'uomo, evidentemente irritato, compilò il registro con una grafia terribile, mentre Mrs Small — un tipo magrissimo dall'aria assai nervosa — si guardava garbatamente attorno e finí con l'interessarsi alle vecchie fotografie del teatro appese alla parete, soffermandosi soprattutto su un'immagine della biblioteca esposta accanto alle altre. La foto risaliva al 1940 e mostrava un edificio vecchio stile in mattoni rossi tappezzati di edera, perciò Dottie ebbe modo di farsi in fretta un'idea di quella donna, e di suo marito! Va detto che era una prerogativa del suo mestiere cogliere qualcosa delle persone al primo sguardo. Certo era capitato che si sbagliasse di grosso. Ma con gli Small non fu cosí: il dottor Small si lamentò subito del fatto che in camera non ci fosse un ripiano portabagagli su cui sistemare la valigia, e ovviamente Dottie non volle replicare che sono cose che succedono quando fai prenotare da tua moglie e le dici di chiedere la stanza piú economica. Disse invece che aveva un'altra camera in fondo al corridoio che forse faceva piú al caso loro; la Stanza dei Coniglietti, la chiamava cosí perché per un po' aveva collezionato coniglietti di peluche. Suo marito gliene regalava uno a ogni ricorrenza, e lo stesso facevano gli amici, cosí alla fine Dottie aveva deciso di radunarli tutti in una sola stanza e a certi ospiti piacevano da matti. Alle donne. E ai gay. Tutti quei conigli in giro, scatenavano parecchio la fantasia delle persone, che li facevano parlare con voci diverse o chessoio. Al tempo Dottie teneva un Registro dei Commenti finché qualcuno non cominciò a scriverci che nella Stanza dei Coniglietti aveva visto i fantasmi, o altre fesserie. Comunque in quella stanza c'erano due letti e un mobile basso su cui il dottor Small poteva appoggiare la valigia, e quella sera Dottie senti dall'altra parte del muro una specie di monologo a mezza voce di Mrs Small, interrotto solo un paio di volte da brevi interventi del marito. Molte parole a Dottie sfuggivano, ma afferrò che il dottore era venuto per il congresso di cardiologia e che non aveva preso alloggio nel grande albergo del centro che ospitava l'incontro molto probabilmente, secondo Dottie, perché era ormai vecchio e non piú tenuto in gran considerazione. E non lo tollerava, non sopportava di vedere i colleghi piú giovani ridere insieme a cena, perciò era venuto qui, al B&B di Dottie, dove poteva non contare senza dare nell'occhio. «Sono un medico», lo immaginava dire al tavolo della colazione, perché è cosí che rispondono di solito i dottori maschi quando non vogliono che li si possa scambiare per degli accademici ai quali, come Dottie aveva imparato, i medici si sentono di gran lunga superiori. A Dottie ormai non importava piú niente scoprire chi si sentisse superiore a chi, ma con il lavoro che faceva certe cose non potevi non notarle; anche a occhi chiusi, certe cose si notano lo stesso. E la volta del dottor Small Dottie pensò che la sua vicenda personale e la sua carriera appartenessero ormai al passato e che lui non potesse sopportarlo. Era sicura che avesse fatto un mucchio di storie per le cartelle sanitarie informatizzate, per i costi dei servizi e per il fatto che non guadagnava piú come un tempo. Comunque, a Dottie non riusciva proprio a far pena.

Sua moglie però la sorprese.

Quando vedeva coppie come questa dei coniugi Small, Dottie provava sollievo al pensiero che il suo doloroso divorzio di anni addietro l'avesse se non altro messa al riparo dalla prospettiva di diventare una Mrs Small: in altre parole, una donna inquieta e vagamente vittimista che l'indifferenza del marito rendeva ovviamente ancora piú ansiosa. Era molto diffuso. E quando le capitava di notarlo, Dottie riprendeva consapevolezza di come quasi sempre - cosa che stranamente continuava a sorprenderla - dava l'impressione di essere una persona piú forte senza suo marito, che pure le mancava ogni giorno.

Eppure, a colazione, Mrs Small - il marito non le parlava, scorrendo invece i documenti di una cartellina che forse conteneva il materiale per la giornata - si mise a cantare. Aveva preso a sfogliare una serie di vecchi programmi teatrali che Dottie teneva in un cestino e, in attesa che arrivasse il pane tostato, esclamò: - Oh, adoro questa di Gilbert e Sullivan, - e cominciò a cantare un pezzo da H.M.S. Pinafore - con altri due ospiti seduti ad appena un tavolo di distanza. Dottie pensava che il dottor Small l'avrebbe fermata, e invece lui si uní alla moglie per un paio di battute e a Dottie si apri il cuore. Ne fu proprio contenta, anche se naturalmente si preoccupava sempre di non disturbare gli ospiti, ma agli altri non sembrava dispiacere, quasi neppure se ne accorsero perché la gente, come Dottie ben sapeva, è perlopiú molto concentrata su se stessa.

Porridge per il dottore, pane integrale tostato per la signora (era tutta in nero, notò Dottie) che di li a qualche minuto esclamò: - Richard, guarda. Annie Appleby! Guarda qui, è di otto anni fa, era Martha Cratchit nel Canto di Natale. Guarda -. Assestò un colpetto col dito al programma di sala, e lui glielo prese di mano.

- Tutto a posto allora? - chiese Dottie, appoggiando i piatti sul tavolo. Le piaceva dirlo, un vezzo quasi britannico, sebbene non fosse mai stata in Inghilterra in vita sua.

Mrs Small si volse a guardare Dottie; le brillavano gli occhi. - Annie Appleby era una nostra amica. Sí, insomma, una conoscente. Era una... - Il marito la interruppe con un piccolo cenno, di quelli messi a punto da coniugi di lungo corso, dopodiché finirono la colazione in silenzio.

A metà mattina uscirono insieme. Se ne andarono, perché questo facevano tutti gli ospiti della casa, se ne andavano. Dottie ogni volta doveva ricordare a se stessa che la gente era lí per far visita ad altri, o - come nel caso dei signori Small - per prendere parte a un incontro di lavoro, o, spesso, perché aveva i figli al college. In un modo o nell'altro, erano persone legate alla piccola città di Jennisberg, Illinois; e si mettevano su quelle strade per un motivo preciso. Poi la porta di quercia massiccia si richiudeva e, a sottolineare il fenomeno, le voci si facevano attutite nel momento in cui percorrevano il portico, prima dell'immancabile mormorio che ne segnalava il dileguarsi: anche quello era parte del mestiere.

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