Copertina
Autore Alexander Stuart
Titolo Zona di guerra
EdizioneEinaudi, Torino, 1999 [1991], Tascabili Stile libero 608 , pag. 253, dim. 120x195x16 mm , Isbn 978-88-06-15130-0
OriginaleThe War Zone [1989]
PrefazioneOttavio Fatica
TraduttoreOttavio Fatica
LettoreRenato di Stefano, 2000
Classe narrativa inglese
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Pagina 3

Due immagini dell'Inghilterra: so io quale sceglierei.

Londra nord. Harrow Road. Sono arrivato fin qui pedalando dalla calma estranea, ruffiana di Bayswater. Due ragazzini negri hanno appena fiondato la borsa della spesa di una donna da un autobus in moto, poi sono saltati giú anche loro. Non sanno manco loro perché, è solo che non sanno darsi pace.

Una confezione in plastica di uova si schianta sul marciapiede accanto ai resti di un negozio di mobili usati. Una busta di salsicce sottovuoto è risucchiata dalla ruota di una macchina. Io con la bici schiaccio una scatola di fiocchi di granturco e uno dei pischelli mi sbatacchia un filone sul muso. Però, è incredibile la forza d'urto che può avere il pancarré.

- Vaffanculo! - grido.

- 'fanculo tu, Maurice! - urla l'altro ragazzino, dando al nome un tono francese e frocesco. Una bottiglia di ketchup mi fischia vicino all'orecchio e si spiaccica sull'asfalto.

«Maurice?», mi domando. Spingo sui pedali perché i due mi stanno appresso, uno lungo il marciapiede, l'altro zigzagando in mezzo al traffico per cercare di afferrarmi il parafango posteriore. Giro prima un angolo poi un altro, prendo giú per una strada tutta solchi e buche, poi m'infilo in un vicolo puzzolente di piscio stretto fra bui casermoni e sbuco su un terreno abbandonato. Quelli se vogliono mi beccano, ma non credo gliene freghi piú di tanto.

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Immagine numero due. Devon. La campagna inglese, verde e intatta come piú non si potrebbe. Beh, il Devon, a modo suo è cazzuto. E' ancora un po' selvaggio, non tutto tè pomeridiano e fessi che credono sul serio a quanto sentono alla radio. Però non è la città.

Siamo sul fiume, papà, Jessica e io, strizzati su una canoa. Non abbiamo dormito. Il nostro nuovo fratellino è appena nato stamattina e stiamo festeggiando. Almeno è quello che penso io. Per parte mia, fra la nottata e l'incredibile sole che c'è adesso, piú quello che è successo alla macchina, sono cosí scombussolato che mi si confondono un po' i particolari. Certo, sarà anche il vino. Papà ne ha comprata una bottiglia, perciò non ha avuto altra scelta che dividerlo con noi.

Che è successo alla macchina? Quando l'abbiamo abbandonata, dove che sia, aveva il muso tutto rincagnato, come un pugile abbonato alla scalogna. E' successo prima o dopo la nascita del bambino? Va' a saperlo. Le ultime ventiquattr'ore sembrano essersi tutte intrecciate, cosí oggi sembra ancora ieri e la partita di calcio che guardavo alla Tv ieri sera quand'eravamo tutti quanti esagitati potrebbe essere stamattina dopo la nascita ma prima di questa scorribanda da ubriachi sul fiume.

Di vino, a dire il vero, ne ho bevuto appena un goccio. Papà e Jessica si sono ingollati quasi tutta la bottiglia. Per me ha sempre avuto un sapore come di benzina, ma mi piace il bruciore allo stomaco, il brusio nella testa.

Ora stiamo passando sotto un ponte, cercando con la pagaia di non strusciare contro la muratura muffita lungo il bordo. Oui sotto è scuro e umido e piú fresco che al sole... qui l'atmosfera è diversa, qui scorrazzano pipistrelli e ratti d'acqua.

Come, ci riportiamo alla luce, una grandinata di sassolini piove attorno alla canoa, lanciati da tre ragazzini, un pò più grandi di me, un po' meno di Jessie. Incuranti della presenza di nostro padre, lanciano fischi e urlacci al suo indirizzo, chiedendole se non sente troppo caldo col bikini addosso.

Pare che vogliano attirare la sua attenzione su qualcosa che è nell'acqua e uno di loro scaglia in aria un pacchetto di sigarette facendolo cadere con un tonfo vicino all'oggetto in questione. Io lo fisso, perplesso sulle prime davanti a quello che ha l'aria di un guanto chirurgico usato... o del culo bulboso di una scimmia allo zoo. Ma alla fine ci arrivo: è un Durex, gonfio d'acqua (e di latte o di che altro, non voglio saperlo) e legato come un palloncino. Jessica sorride cupamente e lancia un'occhiata ai ragazzi, quei vermi, che si sbracciano e sbeffeggiano. Che ne sanno, loro. Non hanno la minima idea di cosa li aspetterebbe se s'imbarcassero con mia sorella.

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Insomma, mi ritrovo schiaffato dentro questa cornice: il Devon, il tranquillo Devon, il Devon dove ci siamo trasferiti, magari non tranquillo come una vola, ma troppo maledettamente tranquillo per me. Che vuoi che contino i preservativi nel fiume: io voglio la feccia di Londra, le cacate negli androni, il tanfo delle cabine telefoniche, il calore di un'auto in fiamme. Tutte cose che rendono Londra stupenda. Cascherà tutto a pezzi, ma la città conserva un suo splendore. La campagna, beh, la campagna non sa manco piú lei che ci sta a fare. Ma se non sa neppure piú restare sana: l'acqua in cui remiamo sotto sotto dev'essere inquinata da scoppiare, piogge acide, radioattive, eppure...

Eppure Jessica proprio ora è scivolata giú dalla canoa per nuotare in quella melma. E' abbastanza limpida, si vedono perfino le alghe verdi e viscide a un metro di profondità, ma io la trovo troppo tiepida. L'acqua in Inghilterra non è mai cosí, non esternamente, non senza l'aiuto di una qualche fabbrica, che scarica i rifiuti caldi caldi... o di un lieve guasto al piú vicino reattore nucleare. Ma non c'è tempo di pensare a certe cose. Sta succedendo qualcos'altro, qualcosa che non riesco a mettere a fuoco, ma che mi mette in agitazione. Non sarà che sono stanco, confuso, cotto dal caldo?

Abbiamo superato una curva del fiume e abbiamo ormai perso di vista i ragazzi sul ponte. Qui gli alberi crescono vicino all'acqua, i rami quasi si uniscono al di sopra e cosí il sole getta un reticolo di luce su di noi. Jessie nuota vicino alla canoa, la schiena luccicante nei triangoli del sole, la pelle manco a dirlo piú abbronzata della mia. Scalcia con forza, cercando goffamente di slacciarsi il reggiseno...

Ma, un momento. Nulla di tutto ciò significherà qualcosa se non vi faccio capire come ci sentivamo tutti straniti quel pomeriggio, come la vista di un bastardo che viene fresco fresco al mondo sgusciando dal limo della polla collettiva di sangue ancestrale ti fa pensare a cose sulle quali altrimenti non ti metteresti a riflettere. Ci sentivamo vicini, d'accordo, ma era un'intimità che rompeva con le cazzate della vita familiare e sospendeva le regole. Sto parlando di onestà. E, se vai a vedere bene, l'onestà - la vita senza le menzogne, senza il velo protettivo del comportamento comunemente accettato - è maledettamente pericolosa.

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Pagina 83

13.

Certe volte quando le cellule del mio corpo ronzano davvero e il sangue sta pompando e mi sento tutto matto, so che il tempo è solo un altro elemento del mio sogno. Sono io a creare tutto: voi, me, i miei genitori, il giorno, la notte, questo cottage di merda, la zanzara spiaccicata sulla parete della camera da letto, la donna vecchia e brutta del paese che passa davanti al nostro scheletrico giardino almeno tre volte al giorno e sbircia con occhi affetti dall'astio, dall'età, da una vita che o l'ha ridotta a una vecchia fica rancida e dolorante o è stata una cosa che comunque non ha mai capito, mai afferrato. Questo dolore è tutta colpa mia? Devo avere dei tumori che mi distorcono il cervello. Voglio ricominciare daccapo, pulito. Scancellare tutto questo, affondare la penna mentre torno sempre di nuovo a scarabocchiare, estirpando, rimuovendo il male.

Cosí anche il tempo è colpa mia. Ed è bislacco, è come me, alti e bassi, cambia ogni minuto, fa caldo, freddo, grigio, nero. Me ne sto steso sul letto cercando di ascoltare un nastro o di leggere un fumetto o strizzo forte gli occhi fino a stordirmi, e il tempo seguita a mettersi in mezzo. Il sole dardeggia dalla finestra come le lampade ad arco fotografiche, avvampa per un attimo poi si attenua mentre il cielo si oscura e il vento sposta nuvole color risciacquatura. Passano i minuti e torna a splendere e sento il caldo che mi stuzzica, insinuandosi nella stanza. Poi tuona, grandi scoppi intestinali su dal cielo e poi si scarica, fa acqua a fiumi, che si schianta al suolo, schiaccia l'erba, prende a pugni tutto ciò che incontra, con la voglia - e questo lo capisco - di ferire.

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Pagina 104

Non sono solo, questo almeno lo so. Altra gente è infelice, forse di piú. Questo villaggio è una messinscena, la vita tranquilla che fanno tutti. Giusto stasera il notiziario televisivo ha parlato di un altro villaggio, non molto diverso, dove uno ha dato i numeri e armato di fucile ha fatto secche tutte le vecchie facce familiari: i vicini, l'insegnante, i genitori e alla fine se stesso. Forse il padre si ripassava la sorella o aveva un altra scusa? A che serve la vita se chiunque altro la può perdere con tanta facilità? Cazzate, è dell'altro sceneggiato australiano. Sono seduto in camera da letto con le luci spente e la finestra aperta e per la prima volta mi pare di sentire il mare e mi domando se io lo farei, se sarei capace di prendere un fucile e aprire il fuoco all'impazzata, e poi mi domando perché non lo faccio: è solo qualche sostanza chimica nel mio cervello come in quello di tanti altri a vietarci di compiere gesti del genere? E' solo qualche componente nel mio sangue che impedisce di superare il limite o ancora adesso papà e Jessie non sono bersagli abbastanza chiari per me?

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Pagina 136

Anche al Cazzone piace, ecco perché passiamo di qui, perché non facciamo il giro. Lo tormenta. Gli piace parlarne senza peli sulla lingua, sottolinearne la follia, la merda che viene conservata, lo schifo assoluto che è stato costruito durante la sua vita, i detriti che crescono adesso. - Abbiamo dei maestri politici ed estetici - dice, muovendo il cambio come se fosse una parte di Jessie - la cui idea di gusto è la carta da parati anaglittica in una bella casa su un complesso residenziale in falso stile Tudor. Che altro puoi aspettarti?

E siamo nella City, il cazzo duro della nazione, dove tutto il poco sperma si raccoglie e va a caccia di un ovulo da rompere. Li vedo dalla macchina... non molti, non è ancora il momento del buttafuori, sono sempre davanti agli schermi, ai telefoni, nelle toilettes con le banconote cacciate su per le froge... ma ce ne sono alcuni in giro, le mani alzate e vocianti, a compravendere il mondo.

Poi un singhiozzo. La vecchia Londra, come la vecchia New York, come il vecchio quartiere in 1984. Proprio accanto a quelle fette di denaro, proprio in fondo alla via dove sono quei monumenti alla rispettabilità si trovano i negozietti coperti di assi di legno e le catapecchie dei proletari. Oddio, li hanno lasciati avvicinare. Dev'essere stato uno sbaglio. O forse sapevano che non costituivano una minaccia, che era relativamente facile tenerli a freno. Delle vecchie mezzeseghe spompate siedono alle finestre zellose di uno stabilimento che offre - beccati questa - tostapane, rasoi elettrici e ferri da stiro riparati. Inferriate davanti a un negozio che vende pistole, coltelli e strumenti di tortura: l'unico che vada bene, l'unico che abbia qualcosa degno di essere rubato. Dovrei dire al Cazzone di fermare qui; potrei usare i suoi soldi per comprare lo strumento della sua morte. Pannelli di cartone o di qualcosa piú forte rattoppano i vetri rotti di un circolo cinese. Sembra abbandonato ma io spero di no; spero che all'interno continuino a perpetrarsi tutta una sorta di crimini, spero che ficchino delle aste di bambú su per il culo della City.

Poi i docks... non piú parte di questo mondo, senza però essere qualcos'altro. Il Cazzone guida la Bentley sull'acciottolato lucido, davanti a negozi e uffici ripittati, intorno a lugubri carcasse di depositi vittoriani, belli nella loro bruttezza, che però vanno perdendo in fretta: alcuni vengono abbattuti, altri ripuliti e riattati, trasformati in vistosi centri di potere, feudi dei media, abitazioni miliardarie. La banchina del Cazzone è come il resto: costruita a metà. Dall'altra parte dell'acqua lo scheletro di un deposito semidemolito sembra uno schianto di night-club, un grosso boccone sputato fuori dalle sue fondamenta imponenti, metallo contorto, macerie e finestre sbilenche che dànno accesso a una sala da ballo con le colonne, buia, completamente vuota: il genere di posto dove portare tuo padre e tua sorella e targli un culo cosí, poi lasciarli andare giú per il vecchio scivolo del tabacco allo sprofondo.

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Pagina 210

A Wapping il sole è alto e il fiume è cosí splendente che mi balena nel cervello, lasciando rosse immagini sfuggenti. Cerco di scoprire qual è la via da prendere seguendolo ma ho difficoltà a ricordare da quale lato tenermi. Qui non fanno che costruire nuovi edifici, come la banchina di mio padre ma non cosí ruffiani, meno pieni di sé, di quella stronzaggine vittoriana ricostruita alla Covent Garden. In realtà è brutto, ecco cos'è, è uno schifo immondo. E' difficile scegliere tra la nuova bruttezza funzionale e la vecchia bruttezza funzionale, perché non buttarci su una bella bomba nucleare? Alla gente di qui non importerebbe, secondo me... non a quelli che ci stanno da una vita. Sono abituati ai bombardamenti. Hitler è morto, la Thatcher no: per loro non fa molta differenza. Perché di là dai cancelli elettrici e le recinzioni di filo spinato non succede granché. Percorro un lungo tratto dove i caseggiati sono coperti di tavole, con le finestre rotte e la vernice scrostata ai portoni. Con una subitaneità che davvero mi spaventa ricordo di essere salito su un tetto con il Cazzone quand'ero piccolo. Eravamo in cima a un palazzo di uffici in attesa di essere demolito, credo, e ci godevamo la vista; lui aveva le mani serrate sulle sue spalle, convinto probabilmente che mi sarei messo a scorrazzare attraverso il tetto piatto, senza parapetti. C'era una sfilza di torvi caseggiati a una certa distanza, abbastanza vicini da scorgere gli strati di balconi rivestiti di legno e segnati dalle intemperie dove la gente teneva le cassette dei fiori sul davanzale, il ciarpame che non entrava negli appartamenti, magari anche un coniglio o dei piccioni. In mezzo a tutti - saranno stati, che so, cinquanta o sessanta - uno aveva il legno marrone impregnato di creosoto verniciato di arancione e mio padre attirò la mia attenzione su quello. - Guarda quello, - disse, e la voce era quasi amara o sconfitta o che altro. - Un tentativo disperato d'individualismo -. Per me non significava niente, avrò avuto sei, forse sette anni, ma credo che il prolungato silenzio che seguí mi preoccupasse. Ora, nell'andarmene, nel vedere le macerie tutt'intorno, pensando a quello che farò, credo di capire cosa fosse: il fatto che nulla di ciò che avesse potuto costruire avrebbe contato qualcosa per quella gente, ci voleva come minimo quel po' po' di sega, quella sua sborrata in nome dell'imperialismo. Dovrebbe ringraziarmi.

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