Copertina
Autore Paul M. Sweezy
Titolo La teoria dello sviluppo capitalistico
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 1970 [1951], Universale scientifica 52-53 , pag. 616, cop.fle., dim. 130x192x33 mm
OriginaleThe Theory of Capitalist Development [1942]
PrefazioneClaudio Napoleoni
Classe economia , marxismo , capitalismo
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Indice

Titoli originali e fonti, IX
Nota bibliografica, X

Introduzione di Claudio Napoleoni:
Su alcuni problemi del marxismo, XIII

PARTE PRIMA
La teoria dello sviluppo capitalistico,
di Paul M. Sweezy

Introduzione, 3


Il valore e il plusvalore


I.  Il metodo di Marx, 13
    1. L'uso dell'astrazione
    2. Il carattere storico del pensiero di Marx

II. L'aspetto qualitativo della teoria del valore, 27
    1. Introduzione
    2. Il valore di uso
    3. Il valore di scambio
    4. Lavoro e valore
    5. Lavoro astratto
    6. Il rapporto fra l'elemento quantitativo e l'elemento
       qualitativo della teoria del valore
    7. Il carattere feticistico delle merci

III. L'aspetto quantitativo della teoria del valore, 48
    1. Il primo passo
    2. Il fattore «concorrenza»
    3. Il fattore «domanda»
    4. «Legge del valore» e «principio di pianificazione»
    5. Valore e prezzo di produzione
    6. Il prezzo di monopolio

IV. Plusvalore e capitalismo, 66
    1. Il capitalismo
    2. L'origine del plusvalore
    3. I componenti del valore
    4. Il saggio del plusvalore
    5. La composizione organica del capitale
    6. Il saggio del profitto


Il processo di accumulazione


V.  L'accumulazione e l'esercito industriale di riserva, 87
    1. La riproduzione semplice
    2. Le radici dell'accumulazione
    3. L'accumulazione e il valore della forza lavoro.
       Impostazione del problema
    4. La soluzione di Marx: l'esercito industriale di
       riserva
    5. La natura del processo capitalistico

VI. La caduta tendenziale del saggio del profitto, 112
    1. La formulazione della legge secondo Marx
    2. Le cause contrastanti
    3. Critica della legge

VII. La trasformazione dei valori in prezzi, 128
    1. Impostazione del problema
    2. La soluzione di Marx
    3. Una soluzione alternativa
    4. Un corollario del metodo di Bortkiewicz
    5. L'importanza del calcolo del prezzo
    6. Perché non partire dal calcolo del prezzo?


Le crisi e le depressioni


VIII. La natura delle crisi capitalistiche, 157
    1. La produzione mercantile semplice e le crisi
    2. La legge di Say
    3. Il capitalismo e le crisi
    4. I due tipi di crisi

IX. Crisi associate alla caduta tendenziale del saggio di
    profitto, 174

X.  Le crisi di realizzo, 184
    1. Crisi derivanti da sproporzione
    2. Crisi derivanti dal sottoconsumo
    3. Appendice

XI. La controversia sul crollo del capitalismo, 223
    1. Introduzione
    2. Eduard Bernstein
    3. Il contrattacco degli ortodossi
    4. Tugan-Baranowsky
    5. Conrad Schmidt
    6. La posizione di Kautsky nel 1902
    7. Louis B. Boudin
    8. Rosa Luxemburg
    9. Tendenze del dopoguerra
    10. Henryk Grossmann

XII. Depressione cronica?, 253
    1. Introduzione
    2. Le condizioni dell'espansione capitalistica
    3. Le forze contrastanti la tendenza al sotto consumo
    4. Dovrà prevalere il sottoconsumo?

Appendice Sugli schemi di riproduzione, di Shigeto Tsuru, 281
    1. Il "Tableau" di Quesnay
    2. Lo schema di riproduzione di Marx
    3. Raffronto con i concetti economici di Keynes

PARTE SECONDA
Discussione

I. La teoria dell'interesse di Marx,
   di E. von Bohm-Bawerk, 295

II. L'economia marxista, di V. Pareto, 336

III. La critica della teoria marxiana del lavoro,
    di R. L. Meek, 385
    Introduzione
    La critica di Pareto
    La critica di Bernstein
    Le critiche di Lindsay e Croce
    Le critiche di Lange, Schlesinger e Joan Robinson
    Conclusione

IV. Il problema della trasformazione, 438
    1. Valori e prezzi: una soluzione per il cosiddetto
       problema della trasformazione, di J. Winternitz, 438
    2. Alcune note sul problema della trasformazione,
       di R. L. Meek, 445
    3. Nota sul problema della trasformazione,
       di M. Dobb, 466
    4. Il problema della trasformazione, di F. Seton, 477
       Il principio dell'eguale redditività
       Presupposti d'invariabilità
       Lo scostamento dei prezzi dai valori

V. Dimostrazioni matematiche del crollo del capitalismo,
    di N. Georgescu-Rogen, 497
    Un modello dinamico capitalistico
    L'argomentazione della inadeguatezza dell'accumulazione
    capitalistica
    Una proprietà fondamentale del sistema (S)
    Osservazioni conclusive

VI. Economia marxiana e teoria economica moderna,
    di O. Lange, 522

VII. Salario e interesse, 545
    1. Una moderna analisi critica dei modelli economici
       marxiani, di P. A. Samuelson, 545
       Condizioni stazionarie
       Incompatibilità della caduta del profitto e del
       salario reale
       Sviluppo uniforme
       Rapporti tra fattori e prezzi variabili
       Nozioni di fondo-salari
       L'esercito di riserva dei disoccupati
       Alcune conclusioni
    2. Commento, di F. M. Gottheil, 587
       Interpretazione di Samuelson del saggio di profitto
       marxiano
       Profitto e salario
       Variabilità dei prezzi e dei rapporti dei fattori
       Osservazioni conclusive
    3. Risposta, di P. A. Samuelson, 594

Bibliografia delle opere citate nel testo, 597
Bibliografia consigliata in lingua italiana, 607
Indice dei nomi, 611

 

 

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Pagina 3

Introduzione



La società è qualcosa piú di un mero insieme di individui. Essa è un insieme di individui tra i quali esistono certe relazioni, definite e piú o meno stabili.

La forma della società è determinata dal carattere e dalla forma di queste relazioni. Le scienze sociali comprendono tutti quei rami dello scibile che hanno come obiettivo lo studio e la comprensione di queste relazioni e dei loro mutamenti nel corso del tempo.

Tutto ciò, si dirà, è a tal punto ovvio da esser banale. Cosí è infatti. Ma è bene ricordare che le cose piú ovvie sono spesso le piú importanti. Coloro che trascurano l'ovvio lo fanno a loro proprio rischio. La moderna scienza economica offre al riguardo un caso interessante.

L'economia, per consenso unanime, è una scienza sociale; basta considerare il «catalogo» di una casa editrice universitaria per convincersene. La sua materia di studi è tratta dal campo della produzione e della distribuzione dei beni e servizi di cui gli individui hanno bisogno e desiderio. Sulla base di questi due presupposti sembrerebbe legittima la conclusione che l'economia studi le relazioni sociali (intrapersonali) della produzione e della distribuzione. Quali siano queste relazioni, come esse mutino, quale è il loro posto nel complesso delle relazioni sociali: ecco gli oggetti di indagine che sembrerebbero ovvi.

Ma gli economisti, in realtà, considerano le cose in questo modo? Diamo un'occhiata, per chiarimento, all'opera del prof. Lionel Robbins, The Nature and Significance of Economic Science (prima edizione, 1932). Il libro del prof. Robbins non è scelto come esempio estremo, ma solamente come opportuno riepilogo di opinioni largamente diffuse fra gli economisti moderni. Orbene, il prof. Robbins considera forse l'economia come una scienza sociale nel senso che essa tratti primariamente le relazioni fra persone e persone?

«La definizione di economia che probabilmente potrebbe raccogliere le piú larghe adesioni... è quella che la collega allo studio delle cause del benessere materiale»: così egli afferma (p.4). Questa, certamente, non è una definizione molto promettente, in quanto si riferisce a tutti i tipi di scienze naturali e applicate, che non ci si può certo aspettare siano dominio dell'economista. Si può perciò essere grati al prof. Robbins per il fatto che egli decide di respingere questa impostazione. Per penetrare nell'essenza della questione, egli passa a considerare «il caso di un uomo isolato che ripartisca il suo tempo fra la produzione di reddito reale e i godimenti relativi» (p.12). Eccoci di fronte al nostro buon amico Robinson Crusoe e il prof. Robbins trova la sua condotta molto istruttiva. Senza tornare alla terraferma, il prof. Robbins elabora questa definizione dell'economia: «L'economia è la scienza che studia la condotta umana come relazione fra fini e mezzi limitati che hanno usi alternativi» (p. 15).

Questa definizione non sembra molto pertinente per una scienza delle relazioni sociali. Essa ha piuttosto la sembianza di una definizione della condotta umana in generale. Non si è quindi sorpresi di trovare che questa scienza conduca a risultati generalmente applicabili a tutte le forme della società, vale a dire nelle condizioni piú diverse per quanto riguarda il genere di relazioni esistenti fra i membri della società. «I principi generali della teoria del valore», secondo il prof. Robbins, «sono altrettanto applicabili alla condotta di un uomo isolato, quanto all'organo esecutivo di una società comunista, nonché alla condotta di un individuo in un'economia di mercato» (p.19). La stessa cosa, indubbiamente, potrebbe dirsi dei principi generali della fisiologia. Il prof. Robbins non va tanto oltre da affermare che l'economia non è una scienza sociale, ma egli sente un'evidente antipatia per l'opinione che la ritiene tale. Partendo dal punto di vista degli economisti classici, egli afferma: «Era possibile considerare la materia oggetto dell'economia come qualcosa di sociale e collettivo», tuttavia con la piú recente valutazione dell'importanza della scelta individuale, «questa impostazione diventa sempre meno congrua» (p.69). Inoltre, egli ci dice che invece di studiare la produzione totale della società e la sua ripartizione vale a dire il risultato delle relazioni sociali della produzione «dobbiamo considerare (il sistema economico) come una serie di relazioni interdipendenti ma concettualmente distinte fra gli individui e i beni economici (p.69). In altre parole, il sistema economico non è considerato primariamente in termini di relazioni fra individuo e individuo (relazioni sociali), ma in termini di relazioni fra individui e cose.

Sarebbe un errore inferirne che l'economista moderno non si preoccupi affatto delle relazioni sociali della produzione. Al contrario, egli è continuamente impegnato in ricerche che hanno un carattere ovviamente sociale. Probabilmente egli sottolineerà queste ricerche, per dimostrare che le accuse mossegli secondo la linea sopra accennata sono infondate. Con ciò però si dimentica il punto essenziale che noi cercheremo invece di cogliere. È naturalmente vero che, nell'applicazione o nell'uso dell'apparato concettuale della teoria economica, è impossibile non tener conto delle relazioni sociali e bisogna porle in discussione. Ma ciò che ci interessa porre in rilievo è che questo apparato concettuale si tende a costruirlo in modo che trascenda ogni particolare complesso di relazioni sociali. Di conseguenza, queste ultime rientrano nel quadro (se pur vi rientrano) solo incidentalmente, e soltanto al momento in cui la teoria viene applicata. Diciamo incidentalmente, poiché non è necessario che vi entrino affatto. Ciò è provato dal fatto che si suppone la teoria economica ugualmente applicabile a Robinson Crusoe e agli altri vari tipi dell'economia sociale. In altri termini, la teoria economica diventa primariamente un processo di elaborazione e di connessione di concetti da cui è stato espunto ogni contenuto specificamente sociale. Nell'applicazione effettiva, l'elemento sociale può essere introdotto (e normalmente lo è, in quanto Robinson Crusoe è molto utile e interessante soprattutto nelle fasi preliminari della teoria) per mezzo di ipotesi ad hoc, specificanti il campo di applicazione.

Cerchiamo di rendere chiaro ciò che intendiamo dire, con l'esaminare il concetto particolare di «salario» che compare in tutte le moderne teorie economiche. Il termine è tratto dal linguaggio usuale, nel quale significa le somme di denaro pagate a breve intervallo da un datore di lavoro ai lavoratori ingaggiati. La teoria economica, tuttavia, ha svuotato questo contenuto sociale e ha ridefinito il termine per significare il prodotto, vuoi espresso in valore vuoi espresso in termini fisici, che è imputabile all'attività umana impegnata in un processo produttivo in generale. Cosi, in questo senso, Robinson Crusoe, l'artigiano autoimpiegato e il piccolo proprietario agricolo non meno che il lavoratore di una fabbrica industriale guadagnano tutti salari, sebbene nel linguaggio comune soltanto l'ultimo tipo di lavoratore debba propriamente essere considerato come percettore di salario. In altre parole, il «salario» diventa una categoria universale della vita economica (cioè della lotta per superare la limitazione dei beni), anziché una categoria, propria di una particolare forma storica della società.

Nell'analizzare il sistema economico attuale, gli economisti. introducono, sia esplicitamente che implicitamente, quelle ipotesi istituzionali e sociali, necessarie affinché i salari prendano la forma di pagamenti in denaro, effettuati dai datori di lavoro ai lavoratori ingaggiati. Ciò che sta dietro questa forma è per altro desunto dai teoremi della produttività i quali in se stessi sono completamente vuoti di contenuto sociale. Da questo punto di vista, diventa facile e naturale passare a considerare i salari come, «in realtà» o «nella sostanza», espressione della produttività marginale del lavoro e a considerare la relazione fra datore di lavoro e lavoratore, espressa nell'effettivo pagamento di salari, come incidentale e in se stessa di nessuna particolare importanza. In tal modo il prof. Robbins afferma che «la relazione di scambio (in questo caso fra datore di lavoro e e lavoratore) è un incidente tecnico... accessorio al fatto fondamentale del carattere limitato dei beni» (p. 19).

Né si finisce qui. Una volta adottato il punto di vista ora illustrato, è straordinariamente difficile, anche per i piu cauti, evitare di prendere l'abitudine di considerare il «salario-produttività» come in certo senso il salario giusto, vale a dire il reddito che il lavoratore dovrebbe ricevere in un ordine economico giusto. Non ci si vuole qui riferire alle giustificazioni dell'attuale sistema economico che gli economisti del passato usavano formulare nei termini della teoria della produttività. Essi erano troppo declamatori e ovvi e sono passati di moda da lungo tempo. Ci si vuole invece riferire a un uso molto piu sottile della teoria della produttività quale metro di desiderabilità da parte dei critici dello statu quo. Sia il prof. Pigou che la signora Robinson, per es., sostengono che il lavoratore è sfruttato se riceve quale salario meno del valore del prodotto fisico marginale del suo lavoro. In tal guisa l'attuale sistema economico è implicitamente criticato, nella misura in cui esso non si conforma a un modello costruito con deduzioni da concetti che sono completamente sprovvisti di contenuto sociale. Qualcosa che presenta una sorprendente rassomiglianza col modo giusnaturalistico di giudicare la società, prevalente nel secolo XVIII, viene cosi contrabbandato attraverso la porta di servizio da coloro che eviterebbero con ogni cura di farlo passare apertamente per l'ingresso principale.

Sarebbe possibile eseguire altre analisi del genere e giungere a risultati in larga misura simili, se si dovessero esaminare altri concetti centrali della teoria economica quali la rendita, l'interesse, il profitto, il capitale, ecc. Ma il metodo è con probabilità già sufficientemente chiaro. In ogni caso, i concetti sono presi in prestito dal parlare di ogni giorno, il contenuto sociale ne è però eliminato, e le categorie universali che ne risultano sono indifferentemente applicate a tutti i tipi di sistemi economici. Questi sistemi sono poi considerati come differenziati l'uno dall'altro, per quanto riguarda l'economista, soprattutto per elementi formali non essenziali. Può perfino accadere, come si è visto, che essi siano valutati non in termini sociali ma con riferimento a modelli astratti, che sono ritenuti di importanza logica primaria.

Appare ovvio come in questo modo l'economista eviti una sistematica indagine di quelle relazioni sociali che sono cosi universalmente considerate rilevanti per i problemi economici da essere profondamente incorporate nel linguaggio usuale del mondo degli affari. Ed è ancor piú ovvio come il punto di vista, che l'economia moderna ha adottato come fondamentale, la renda inadatta al còmpito di piú vasta portata di chiarire la funzione dell'elemento economico nella complessa totalità di relazioni fra individui e individui i quali compongono ciò che si chiama società.

Sembra ragionevole supporre che la situazione sopra brevemente delineata sia in buona parte responsabile di ciò che si può giustamente designare come un diffuso sentimento di insoddisfazione verso gli economisti e le loro opere. Cosi stando le cose, potrebbe sembrare che il metodo piú proficuo fosse quello di impostare un'analisi particolareggiata dei dogmi e delle credenze centrali dell'economia moderna, dal punto di vista delle loro deficienze come scienze veramente sociali delle relazioni umane. Un'analisi critica di questo genere è tuttavia, nella migliore delle ipotesi, un còmpito ingrato, ed è comunemente esposta alla giustificabile accusa di impotenza a offrire qualcosa di costruttivo in luogo di ciò che si respinge. Noi abbiamo perciò deciso di abbandonare il terreno della dottrina ufficiale, nella convinzione che essa non sia affatto soddisfacente e tentare invece un'altra impostazione per lo studio dei problemi economici e, precisamente, quella che è associata con il nome di Karl Marx.

Di consegnenza, nelle pagine che seguono, noi ci occuperemo assai estesamente dell'economia marxiana. Ciò non significa che sia nostra intenzione rivelare «ciò che Marx ha veramente voluto dire». In proposito, noi partiamo dall'ipotesi semplice, sebbene forse non ovvia, che egli volle dire ciò che disse, e ci proponiamo il còmpito piú modesto di scoprire ciò che può essere imparato da Marx, se qualcosa da imparare esiste.

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