Autore Magda Szabó
Titolo Via Katalin
EdizioneEinaudi, Torino, 2008, Supercoralli , pag. 202, cop.rig.sov., dim. 14x22x1,5 cm , Isbn 978-88-06-19064-4
OriginaleKatalin utca [1969]
TraduttoreBruno Ventavoli
LettoreCristina Lupo, 2016
Classe narrativa ungherese












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


  7  Luoghi

 39  Date ed episodi

 41  Millenovecentotrentaquattro

 75  Millenovecentoquarantaquattro

119  Millenovecentocinquantadue

149  Millenovecentocinquantasei

172  Millenovecentosessantuno

191  Millenovecentosessantotto


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 5

Diventare vecchi è un processo diverso da come lo rappresentano gli scrittori, e somiglia poco anche alle descrizioni della scienza medica.

Nessuna opera letteraria, né tanto meno un medico, avevano preparato gli abitanti di via Katalin al particolare nitore che l'invecchiare avrebbe portato nella buia galleria percorsa quasi inconsapevolmente nei primi decenni delle loro vite, né all'ordine che avrebbe messo tra i loro ricordi e le loro paure, o al modo in cui avrebbe modificato i loro giudizi e la loro scala di valori. Avevano capito di dover mettere in conto alcuni cambiamenti biologici, perché il corpo aveva cominciato un lavoro di demolizione che avrebbe concluso con la stessa precisione e lo stesso impegno con cui si era preparato alla strada da compiere fin dall'istante del loro concepimento; avevano anche accettato il fatto che il loro aspetto sarebbe cambiato, i sensi si sarebbero indeboliti, i gusti ed eventualmente anche le abitudini o i bisogni si sarebbero adeguati alle variazioni del fisico, rendendoli piú voraci o piú frugali, piú timorosi o forse piú suscettibili; e sapevano persino che la regolarità di funzioni come il sonno o la digestione, che quando erano giovani sembravano scontate quanto l'esistere stesso, sarebbero diventate problematiche. Nessuno aveva spiegato loro che la fine della giovinezza è terribile non tanto perché sottrae qualcosa, quanto piuttosto perché lo apporta. E quel qualcosa non è saggezza, né serenità, né lucidità, né pace. È la consapevolezza che il Tutto si è dissolto.

All'improvviso si accorsero che l'invecchiare aveva disgregato quel passato che negli anni dell'infanzia e della giovinezza consideravano cosí compatto e solido: il Tutto era caduto a pezzi e, anche se non mancava nulla, perché quei frammenti contenevano ogni cosa successa fino a quel giorno, niente era piú come prima. Lo spazio era diviso in luoghi, il tempo in momenti, gli eventi in episodi, e gli abitanti di via Katalin avevano infine capito che nelle loro intere vite soltanto un paio di luoghi, un paio di momenti e alcuni episodi contavano davvero. Il resto era stato un semplice riempitivo nelle loro fragili esistenze, come i trucioli che si versano nelle casse prima di un lungo viaggio per impedire al contenuto di rompersi.

Ormai sapevano che la differenza tra i morti e i vivi è solo qualitativa, non conta granché, e sapevano anche che a ciascuno tocca un solo essere umano da invocare nell'istante della morte.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 18

La casa sorgeva sulla punta estrema della lingua di terra, in alto, dove le onde non potevano raggiungerla. Ma il brontolio del mare si sentiva per tutta la giornata, a volte piú lieve, altre piú intenso, e guardando dalla balaustra del giardino si vedeva acqua ovunque, onde che si infrangevano incessantemente sulla riva rocciosa, come in un'eterna lite insoluta con gli scogli.

Le sue notti non erano mai state perfette, ma d'estate la maggior parte delle volte non riusciva a chiudere occhio nemmeno per un istante. Non sopportava la calura. Suo marito, sua suocera e le domestiche se n'erano ormai resi conto e la lasciavano dormire durante il giorno quanto e quando voleva e, se vagava nervosa per la casa, priva di appetito, cercavano di evitarla per non disturbarla. Nei periodi di canicola, la notte, spesso abbandonava la stanza per uscire in giardino, camminava avanti e indietro, in camicia da notte, finché la suocera o il marito non s'accorgevano che era mezza nuda e la costringevano a buttarsi addosso una vestaglia, sapendo che appena la calura si fosse attenuata lei si sarebbe calmata e sarebbe tornata quella di un tempo, una donna dolce e remissiva.

Rispettava l'usanza delle domeniche, e per questo sua suocera l'amava in modo particolare, perché sapeva che col caldo torrido era un sacrificio terribile indossare l'abito festivo imposto dalla tradizione alle donne dell'isola che si recavano al tempio; col vestito nero addosso e la testa coperta dal velo nero sudava, ma lei li metteva lo stesso per far loro piacere. Blanka era cosí priva di pretese che, quando arrivava l'estate, le perdonavano le notti agitate e aspettavano pazienti che tornasse a comportarsi normalmente. Se il marito e la suocera la notavano piú inquieta del solito non si coricavano neppure loro; in fondo non era una rinuncia cosí faticosa, perché sull'isola si dormiva a orari disordinati, la vita cominciava prima e finiva piú tardi e praticamente si interrompeva tra mezzogiorno e la sera. In quei casi si sedevano insieme e chiacchieravano, l'anziana donna sbocconcellava qualche dolce, il marito si mesceva bibite dissetanti; la cameriera raccattava i vestiti buttati alla rinfusa nella stanza di Blanka, sotto il ventilatore, inseguiva la signora per consegnarle le pantofole se correva in giardino scalza, poi anche lei si sistemava in fondo alle scale di marmo, ai piedi dei suoi padroni, e osservava incuriosita gli andirivieni di Blanka. Adorava Blanka, perché nessuno era mai stato cosí buono e umano con lei, la osservava mentre scrutava in basso oppure l'orizzonte, affacciata alla balaustra in fondo al giardino; le capitava persino di pregare per lei, tanta era la pena che le faceva. Talvolta Blanka si apriva di colpo la vestaglia, scoprendosi il petto, per sentire il respiro del mare sulla pelle. Il marito allora la riprendeva severamente e lei si ricomponeva subito spaventata, cominciava a farsi aria al viso, sbuffava. La famiglia era un po' contrariata di vederla cosí incapace d'abituarsi al loro clima; in fondo aveva imparato rapidamente la loro lingua, la parlava ormai senza errori, quasi con eleganza, e aveva abbracciato persino la loro religione, che per lei probabilmente era ben piú difficile da sopportare della canicola. Di tanto in tanto la vedevano attraversare i locali col pavimento di pietra e senza porte, infilarsi nella cucina dominata dal gigantesco frigorifero, aprirlo e rovesciarsi nel palmo una manciata di ghiaccio. Lo usava sempre per giocherellarci, mai per rinfrescare le bevande, usciva in giardino e si passava i cubetti sulle braccia e sul collo, oppure se li appoggiava sulla testa.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 75

Millenovecentoquarantaquattro


Sono sempre stata mattiniera, e quel giorno mi svegliai addirittura prima del solito.

Blanka si era tirata la coperta sulla testa, dormiva profondamente, e quando le passai accanto in silenzio non se ne accorse. Andai alla finestra, guardai il nostro giardino e le luci dell'alba. Quell'anno, per caso, avevamo piantato quasi esclusivamente fiori rossi, il giardino sembrava in fiamme e i raggi precoci del sole che sfioravano quella distesa infuocata creavano un effetto piú verde che dorato. Ero innamorata di Bálint da cosí tanto tempo, e con una passione cosí intensa, che quando arrivò il momento del nostro fidanzamento mi sentii divisa tra reazioni di duplice natura, di sicuro ero preda di una felicità immensa e travolgente, ma mi sembrava anche che tutto ciò che sarebbe accaduto quel giorno in realtà fosse la cosa piú naturale del mondo: l'amore che ci aveva accompagnato fin dall'infanzia incosciente avrebbe potuto concludersi in un altro modo? Ovviamente ero sicura che i fiori fossero esplosi in quei colori, e il giardino odorasse d'un profumo cosí intenso, e la luce del mattino mi sfiorasse il volto con tanta delicatezza, e la pioggia scrosciante dal pomeriggio precedente fosse all'improvviso cessata, perché quello era il mio giorno. Dalla finestra passai allo specchio, mi guardai il viso. Quella mattina era radioso come il giardino e il cielo, ero bella, giovane e felice.

Il giorno del nostro matrimonio, quando ci scambiammo uno sguardo davanti al registro dello stato civile, ormai logori e invecchiati, mi tornò in mente quell'istante. Fumavamo una sigaretta, pensai fosse bizzarro che anche le mani tradissero il passare del tempo, le mie erano diventate enormi e davvero orribili. Avevamo invitato al ristorante italiano i nostri due testimoni, uno era il mio direttore, l'altro era Tímár. Quando ci sedemmo a tavola, per la prima volta nella nostra vita in qualità di marito e moglie, Bálint scoppiò improvvisamente a ridere. Si sganasciò dalla risate, sembrava quasi soffocare, davanti allo sguardo stupito dei due testimoni. Tímár riempi un bicchiere e glielo porse, bevi, disse con un gesto che sembrò significare: «Sí, certo, ne hai passate troppe nella tua vita, è normale che tu non sia uscito del tutto sano da prove del genere». Il mio direttore guardò me, preoccupato, il suo sguardo invece suggeriva: «È sconveniente ridere in maniera cosí sbracata al proprio matrimonio». Abbassò gli occhi e, in quel momento, scoppiai a ridere anch'io. Bálint e io eravamo seduti ai lati opposti del tavolo, ci guardammo e ci mettemmo a ridere a crepapelle. Non ricordo che tempo facesse, mi sembra però che anche allora fosse bello.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 149

Millenovecentocinquantasei


In auto parlò appena, fumò invece parecchio, guardando i carri ricolmi di viveri diretti a Pest. I cavalli, con il loro corpo ciondolante e compassato, quasi fuori luogo nel mondo moderno, si trascinavano lenti lungo la strada nazionale e scrollavano le teste come se si domandassero che cosa c'entrassero con le faccende umane.

Si chiedeva chi avrebbe cercato di convincerlo a ricominciare a vivere; quante volte ancora l'avrebbero fatto? Tímár guidava. Aveva ascoltato dalla sua voce quali fossero i preparativi in corso per riabilitarlo, e aveva trovato ridicolo il tono quasi commosso delle sue parole; perché lui in quegli anni non aveva affatto sofferto e l'esistenza che ora Tímár lo spingeva ad abbandonare non gli era sembrata né punitiva né umiliante. Gli abitanti del villaggio erano felici di avere finalmente un medico a disposizione, lo trattavano con rispetto, apprezzavano gli sforzi che compiva per i malati. Talvolta si stupiva di notare quanto poco prendessero sul serio quel che gli era successo prima di arrivare in mezzo a loro, e chi scopriva le circostanze in cui era avvenuto il suo trasferimento pensava subito che fosse stato vittima di una persecuzione politica. Lo avevano quasi viziato.

Se Bálint non fosse stato in preda all'angoscia per la sorte di Blanka, Tímár non sarebbe mai riuscito a convincerlo a tornare indietro, nemmeno per il paio di giorni necessari ad accettare di persona il risarcimento che l'ospedale gli offriva. Ma Tímár gli aveva annunciato con un tono cosí trionfale che il vecchio direttore non era piú in carica, che tutti i membri della vecchia commissione disciplinare erano spariti e che l'unica rimasta era la troietta che l'aveva denunciato e che presto avrebbe ricevuto la meritata lezione, che Bálint aveva infilato in fretta e furia qualcosa nella borsa ed era salito in auto accanto a Tímár. Mentre la macchina partiva, Bálint aveva guardato quasi invidioso il giovane allampanato che Tímár aveva portato con sé perché lo sostituisse durante la sua permanenza a Pest e che avrebbe definitivamente preso in consegna il suo lavoro al villaggio se lui avesse accettato di rimanere in città.

Bálint aveva pensato di aggiustare in qualche modo la faccenda di Blanka e poi di tornare; stava benissimo in quel silenzio, dove finalmente era riuscito a meditare con tranquillità su ciò che non aveva mai potuto affrontare davvero in nessuna fase della sua vita, tuttavia si sorprese per le emozioni che lo assalirono alla vista di Pest.

Non appena gli apparve la sua città natale, e l'auto con loro a bordo attraversò veloce il primo ponte, rimase scosso nel sentire quanto fosse felice di trovarsi a Pest, quale immensa gioia naïf provasse a rivedere il Danubio. Credeva che ci sarebbe stato parecchio da fare in ospedale, e si divertiva in anticipo pensando alle procedure con cui avrebbero tentato di dimostrare, lui presente, l'esatto contrario di ciò che quattro anni prima non erano riusciti a dimostrare: neanche stavolta si sarebbe potuto resuscitare la signora Karr per chiamarla a testimoniare. Ma tutto si svolse semplicemente. La stessa udienza si era conclusa giorni prima e Tímár, in veste di nuovo direttore, gliene comunicò soltanto il verdetto accompagnato da un breve discorso e un'estemporanea cerimonia alla presenza di colleghi completamente nuovi. Bálint ascoltò l'elenco dei suoi innumerevoli meriti, le lodi per la cura coscienziosa dei malati, la condanna delle ingiuste vessazioni subite - a causa delle sue origini familiari - ben prima delle calunnie di Blanka Elekes. Bálint fremeva, non riusciva a stare fermo, quella cerimonia era piú penosa delle accuse lanciate a suo tempo da Blanka.

Tímár gli rinnovò la proposta - stavolta ufficialmente - di riprendere il suo antico lavoro. Gli garantí anche un alloggio, ovviamente sarebbe arrivato solo in un secondo momento, nel frattempo gli offri di abitare in ospedale. Gli promise un incarico nuovo e molto importante, che evidentemente veniva considerato come una sorta di risarcimento. Udendo l'offerta Bálint avrebbe dovuto essere colpito, invece provò solo nervosismo. Ma non volle guastare quella festicciola casereccia, perché Tímár appariva raggiante, e cosí chiese un po' di tempo per riflettere. Mangiò con i colleghi, al ristorante i camerieri lo servivano con un'espressione in volto come se fosse il Cristo risorto. Durante il pranzo cercò di scoprire qualcosa di concreto sul destino di Blanka, Tímár gli comunicò che la ragazza avrebbe dovuto comparire di fronte a una commissione disciplinare e rendere conto delle proprie calunnie. - Tu sei stato l'inizio, - gli disse indignato, - poi ha denunciato tutti quelli con cui aveva dei contrasti, solo che con gli altri è stata meno abile e sono riusciti a cavarsela -. Quando ritirò la cospicua somma di denaro che gli era stata assegnata come indennizzo insieme al certificato di riabilitazione, si chiese come l'avrebbe utilizzata e se sarebbe riuscito a prendere sul serio il fatto che, dopo averlo sbattuto fuori, ora lo rivolevano.

| << |  <  |