Copertina
Autore Franco Tagliafierro
Titolo Strategia per una guerra corta
EdizioneGenesi, Torino, 1999, Le scommesse , pag. 192, dim. 150x210x18 mm , Isbn 978-88-87492-23-1
LettorePiergiorgio Siena, 2003
Classe narrativa italiana , storia contemporanea d'Italia
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Pagina 36

VIII



Era il maresciallo d’Italia Badoglio, capo di Stato Maggiore Generale, marchese del Sabotino, senatore del Regno, Collare dell’Annunziata, vincitore della guerra contro l’Etiopia in virtù della spropositata superiorità delle forze e dei mezzi di cui disponeva. Duca, per premio, di Addis Abeba. E, con la scusa che doveva modernizzare le fabbricazioni di guerra, presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche.

Sia lui che i generali centellinavano i passi, come si usa a scopo di maestosità. Il colonnello andò loro incontro con un accenno di sprint. Fermatosi a debita distanza, saluto alla visiera e schiocco di tacchi, disse che eravamo dei richiamati in fase di vestizione, testé giunti. Testuale quel "testé".

- Bene bene, riposo! - disse Badoglio, avanzando fino a pochi metri dal nostro schieramento. E interpellò l’uomo che aveva di fronte:

- Quando sei stato richiamato?

- Nel settembre scorso. Rancio ottimo e abbondante.

- Non voglio sapere del rancio. E tu, là in fondo, con la giacca da spazzino, da quando sei qui?

- Da una vita. Cioè dal giorno in cui l’alleato germanico occupò Bruxelles, in italiano Brusselle, Eccellenza.

- Spiritoso. E tu?

- Dal giorno dopo la rapina.

- Quale rapina?

- Quella che m’hanno fatto a me. Poltrona, panchetta, spazzole, lucidi Brill e stracci di lana: tutto si sono pappati. Facevo il lustrascarpe. Era domenica 21 aprile, natale di Roma.

Non interrogò nessun altro. Ormai ci attendevamo che l’Eccellenza rampognasse noi meschinelli, come di norma accadeva in caso di superiori inefficienze o di disastri. Oppure che prorompesse in una invettiva contro ignoti per imbottirci di soddisfazione morale. Perché ai semplici di truppa, né più né meno che a quelli di ogni popolo, bisogna pur dare a intendere, ogni tanto, che anche ai vertici qualcuno si è accorto del marcio, e che ne è sdegnato come loro. Forse di più.

Invece dondolò la testa con torpidezza di vecchio (classe 1871), esprimendo impotenza da funzionario ministeriale di medio rango.

I generali, per automatica cortigianeria, fecero beccheggiare i berretti. Il colonnello no. Anzi, la sua sensibilità di cerimoniere gli suggerì di sdrammatizzare quelle pensosità prelatizie. Venne avanti dalla sua postazione gerarchicamente arretrata per gridare l’attenti di chiusura, ma Badoglio, che stava inforcando gli occhiali, gli fece cenno di starsene a cuccia ed estrasse dal taschino del cuore un ritaglio di giornale.

- Soldati! - disse, e cominciò a leggere: - "Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente che in ogni tempo hanno ostacolato la marcia e spesso insidiato l’esistenza medesima del popolo italiano..."

Era il discorso di Mussolini. Badoglio aveva soltanto omesso l’ora segnata dal destino e l’annuncio che la dichiarazione di guerra era già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e Francia.

La fedeltà al testo prescindeva dalla imitazione delle acrobazie oratorie del suo autore. Per fortuna. Altrimenti avremmo dovuto riempire le pause con ovazioni, coralità di du-ce! du-ce!, e applausi. Singolare però, che un capo di Stato Maggiore Generale avesse scelto il pubblico dei richiamati in désabillé per leggergli il discorso dell’entrata in guerra: come quella mattina stavano facendo ostentatamente, per dovere d’ufficio e cercando di individuare il potenziale spione, i capifabbrica con gli operai, i capomastri con i muratori, i capocomici con gli attori, i capiscarichi con i perdigiorno, i capifabbricato con le casalinghe uscite per la spesa ecc. Io l’avevo letto in tram, il monologo che inaugurava la moria; ma soprappensiero, perché fra le righe tornava a esilararmi la scoperta che l’orologio della patria se lo era inventato Arianna.

Supposi che Badoglio, con quella recita, volesse dimostrare qualcosa ai tre generali. Che cosa? Vattelappesca. Ma undici giorni dopo non ci sarebbero stati più misteri per me.

- "... Noi impugniamo le armi" - proseguì - "per risolvere, dopo il problema risolto delle nostre frontiere continentali, il problema delle nostre frontiere marittime. Noi vogliamo spezzare le catene di ordine territoriale e militare che ci soffocano nel nostro mare, poiché un popolo di 45 milioni di anime non è veramente libero se non ha libero l’accesso all’Oceano..."

"Spezzare le catene": un modo di dire. "Di ordine territoriale e militare": un’espressione burocratica. Ma riguardo al "ci soffocano nel nostro mare" mi ritrovai senza commento.

Perché, in un fiat, mi paralizzò un languore mortale.

Avvertii scompenso nei battiti del cuore e intorno un vuoto da vertigine.

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Pagina 89

XX



Sulle Alpi. Lungo il confine con la Francia.

Che scoperta. Lo sapevamo.

Lo avevamo sempre saputo. Alla maniera dei malati che credono alle rassicurazioni sulla benignità del loro male. Ma rinunciammo del tutto al cavallo a dondolo della non certezza solo dopo aver letto su un giornale della sera il bollettino n. 3 diffuso la mattina alle dieci.

Cominciava così: "Attività di piccoli reparti su alcuni tratti del fronte alpino: un tentativo nemico di impossessarsi del colle Galisia è stato respinto".

Le altre notizie, relative a successi e "lievi perdite" in cielo o in mare o in Libia o in Africa Orientale, non ci riguardavano. La truppa concepisce soltanto l’ hic et nunc.

La prima frase del bollettino risuscitò la nostra fiducia nelle capacità comunicative del potere, quella fiducia che avevamo sepolto sghignazzando appena letto il proclama dell’unico italiano che ancora confondesse il fronte con la fronte. Dal nostro comitatuccio di analisti politici fu espressa ammirazione:

- Quale dei governi prefascisti, quale dei governi stranieri antifascisti e antinazisti, è mai riuscito a comunicare al popolo l’esistenza di un fronte sul territorio nazionale con maggiore laconicità? Quale con migliore savoir-vivre?

E qualche critica:

- Non nuova invece, ma scopiazzata dalla Germania, la finezza di presentarsi come paese aggredito essendo paese aggressore. "Tentativo nemico di impossessarsi significa che l’Italia possedeva a buon diritto un certo colle, ma purtroppo è comparso qualcuno in veste di nemico che ha tentato di toglierle il possesso dell’immobile, ed essa ha dovuto difenderlo. Respingendo quel qualcuno, appunto. Come ha fatto Hitler con i polacchi.

Il colle Galisia, trascurato dalle carte geografiche che eravamo corsi a procurarci, ai tre preti risultò sconosciuto. E questo valeva come conferma, ci fecero notare, che nelle loro offerte non c’era inganno. Difatti essi promettevano assegnazioni a zone "calme" del fronte alpino, e il Galisia calmo non lo era più.

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Pagina 132

XXXII



Le retrovie erano invase dai reggimenti che avrebbero dovuto dilagare in Provenza appena sfondate le difese alpine. Mi sgombravo la strada a colpi di clacson. Già tutti sapevano che non si era sfondato nulla di nulla, ma poiché sotto i contraccolpi dell’insuccesso nessun comando aveva mantenuto l’equilibrio necessario per revocare l’ordine, quei reggimenti non potevano fare altro che attenersi al piano prestabilito. Il quale prevedeva che giungessero in giornata ai passi di confine.

Basandomi sulle informazioni dei valligiani arrivavo in un luogo, e qui mi dicevano che l’ospedale non c’era più.

- L’hanno spostato una decina di notti fa. Prova dietro quella montagna.

Arrivavo dietro la montagna, ma l’avevano spostato di notte anche da là. Girai a vuoto per ore sperimentando vari tipi di pioggia, mentre la parca di terzo grado, accovacciata fra i feriti dentro il cassone, misurava la loro vitalità dalla frequenza dei rantoli.

Finii col perdermi fra colline senza casolari né stalle né guardiani di bestie né pattuglie di carabinieri in cerca di disertori. Ai crocicchi decideva per me la maggiore larghezza della strada. Una semirotabile mi condusse in un bosco, si restrinse a pista per carretti e mi mise in corpo la stizza di dover tornare indietro, perché non poteva avere altro sbocco che uno spiazzo per carbonai.

Invece sbucai in una verde pianura dal perimetro vagamente ellittico punteggiata da asfodeli e nontiscordardimé. Intorno al centro di simmetria erano disposte alcune grandi tende. Aldilà di quelle vidi il serpeggiare di un ruscello che rifiniva in rococò l’amenità del luogo, sul quale, perdipiù, splendeva il sole.

Non c’era sulle tende la croce rossa in campo bianco, eppure avevo trovato un ospedale. Saltai furibondo giù dal camion sparando interrogativi alla velocità di tre parole al secondo.

- Perché tanti spostamenti? E perché poi di notte? Perché vi siete piazzati così lontano dal fronte? Perché non avete messo cartelli agli incroci?

- Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare! - rispose, pausando, un infermiere col grado di sergente.

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Pagina 160

XXXIX



Ci allontanavamo dal campo con la canonica taciturnità delle truppe attaccanti. Dopo circa mezz’ora un lento nevischio cominciò a inumidirci soavemente. Non avevo cappotto, gli altri nemmeno. Sopra la pelle io - grazie Arianna! - sentivo uno strato spesso di maglieria di lana.

- La neve oggi è placida - disse un tenente. - Non ci impedirà l’arrampicata agli obiettivi.

Il 44° aveva il compito di neutralizzare la batteria della Viraysse. Ci aveva provato anche il giorno prima. "Ma è stata la bufera a fermarlo, non il nemico": così si era espresso lo scriba di maggiorità nel rapporto al comando di divisione. Perciò questa volta doveva inderogabilmente riuscirci...

Ormai stiamo salendo di quota. Si cammina rasente a un bosco. Varchiamo il confine di Stato in assetto di corteo funebre. Alla base di un’erta spaziosa echeggia l’ordine di distanziarsi. Almeno quattro metri tra uomo e uomo. Se ne deduce che siamo a tiro. Da qui in avanti potremo mostrare l’ubbidienza di un popolo, il nostro valore di bersagli tattici.

Il corteo si apre a ventaglio in centinaia di sagome scure. Le scarpe affondano nei centimetri di neve fresca, sotto c’è il ghiaccio. Intravediamo a stento la montagna, non le fortificazioni, mentre da ognuna di esse la parca di terzo grado, in divisa da lieutenant, tiene puntato su di noi il binocolo.

Placida la neve, ma non insensibile. Accortasi che avanziamo allo scoperto e senza essere stati preceduti, come è buona norma negli attacchi, dal fuoco di preparazione dell’artiglieria, per renderci meno immediatamente bersagliabili si infittisce un po’. E noi continuiamo a salire indisturbati.

Davvero i francesi stimano ancora innocue, semplici sgorbi nel biancore del paesaggio, le nostre sagome scure? Forse hanno abbandonato le batterie per non farsi prendere alle spalle dai tedeschi che dilagano da nord. O magari sono rimasti a corto di munizioni per averle sprecate ieri contro la tormenta. Queste le mie ipotesi circa il silenzio che ci copre.

Ben presto un mortaio d’artillerie de position mi dimostra che erano troppo ottimistiche. Altri pezzi a tiro curvo confermano.

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Pagina 183

XLV



Aver partecipato alla guerra delle Alpi, a quella che sarebbe stata chiamata la guerra corta, implicava vergogna.

Avevamo colpa, noi uomini di truppa, per l’aggressione alla Francia? Raziocinando sul nostro ruolo di numeri per la somma dei cadaveri, no, non avevamo colpa. Ma i sedativi della ragione potevano ben poco contro la vergogna. E la nostra ormai, oltre ad avvilirci i pensieri di routine, ci provocava malesseri dai più svariati sintomi.

Qualche mese dopo, a questa vergogna se ne aggiunse, a causa dell’aggressione alla Grecia, una più acuta. Seguita dal tormento, che nessun combattente aveva mai provato, di riconoscersi anche idioti. Perché un’organica, spocchiosa, ipertrofica idiozia strategica aveva costruito l’illusione di una vittoria analoga a quella ottenuta sulla Francia.

Anche la Grecia si difese. Il nuovo fronte fornì celermente le migliaia di morti richieste da Mussolini per sedersi al tavolo della pace, e continuò a fornirne per forza di inerzia anche quando il committente ritenne di averne ricevute abbastanza.

Si sarebbe ricostituita su decine di milioni di cadaveri, una volta finita la Seconda Guerra Mondiale, la capacità di discernere e di coesistere degli scampati. In Italia sarebbero tornate in auge le distinzioni prefasciste tra valore e non valore della vita. Ma anche coloro che avevano patito esperienze di antropologica ferocia in Grecia o in Libia o in Iugoslavia o in Russia, avrebbero messo pietre sopra i morti. Anche loro avrebbero ricordato esclusivamente per sé che la posta da giocare è una sola, come se per gli altri fosse stato indifferente tenersela stretta o lasciarsene espropriare.

Eppure, in battaglia o sotto un bombardamento, chiunque avesse visto intorno a sé corpi senza vita e si fosse trovato vicinissimo a una sorte identica, aveva avuto lo stesso pensiero che in quel momento stava straziando l’ultima lucidità del compagno moribondo. Cioè che non gliene importava nulla, proprio nulla, della patria, dei diritti dell’uomo, della pacifica convivenza civile, del benessere economico, degli sforzi per rendere bello e umano il mondo, se a lui ormai non spettava altro che il morire.

Per noi attirati da una musica come naviganti dalla malia delle sirene, e bloccati su un ciglione come sul luogo simbolico della nostra impotenza, nessun ricordo sarebbe stato più ossessivo di quelle mine esplose sotto il cielo di un paesaggio alpino..., un paesaggio che sembrava creato apposta per convincere qualunque infelice a contentarsi della vita. Della vita e niente altro.

Dopo non so quanto tempo dall’ultima, piccolissima, nube di fumo, ci allontanammo a testa bassa, muti, sentendoci colpevoli. Non di quelle morti. Sì delle nostre vite, in quanto disciplinatamente disponibili per la continuazione della guerra.

Invece di risalire al campo ci addentrammo nel bosco. Per non guardarci, per escludere ogni scambio di parole. E speravamo di non fare incontri. Quella era una zona battuta dalle ronde per impedire che qualche soldato avventuroso si spingesse a cercare compagnia nei paesini delle valli. Non ci avrebbero chiesto come mai fossimo usciti dal campo in massa, ma perché mai avessimo tutti la morte in faccia. E noi cosa avremmo potuto rispondere? Che cinque suonatori erano saltati in aria sul campo minato?

E la corsa per sentirli suonare da vicino, la sorpresa dello strapiombo, la delusione di non poterli accompagnare, la lancinante scoperta del pericolo, le urla di ogni bocca per fermarli, l’orrore nel vederli proseguire, la rabbia di non poter fare nulla, proprio nulla, la stretta alla gola, al cuore, dopo il primo scoppio, lo sbigottimento incredulo che i superstiti seguitassero a suonare, la vertigine della certezza, la morsa del vuoto, dell’assurdo, del sacro per ogni detonazione successiva, la speranza, la preghiera furiosa che non ci fossero più mine, la consapevolezza che quei cinque erano stati persuasi a morire dalla medesima nostra vergogna...

Non ci furono incontri. Aveva provveduto la parca a dirottare altrove ogni presenza incompatibile, dato che anche lei attraversava il bosco per sfuggire a un’immagine sgomenta di se stessa. Morto l’ultimo suonatore, si era attardata vicino al corpo un istante, e per la prima volta dall’origine dei miti aveva messo il piede nella trappola della compassione, che era l’unica da cui dovesse guardarsi per l’eternità.

Trovato il sentiero, lo seguimmo fino al fondo della valle. Lenti, vischiosi nel passo nonostante la discesa. Giunti là dove avevamo visto apparire i suonatori, iniziammo il loro stesso cammino, calpestando le orme che avevano lasciato. Andavamo verso il campo minato in fila indiana... No, non per saltare in aria anche noi. Tra le sfide della possibile indegnità della vita non avevamo raccolto quella per cui si inventa il giorno, il luogo, l’attimo e la gestualità del morire... Noi volevamo unicamente raccogliere i corpi, o ciò che restava, dei cinque soldati.

Mine a strappo lungo la striscia delle loro impronte non dovevano essercene più. Forse ancora qualche mina a pressione. Alcuni fra noi sapevano come esplorare il terreno, come disattivare. Volevamo conoscere i nomi di quei cinque. Volevamo seppellirli noi. Erano morti nostri. Perché saremmo rimasti noi come testimoni della loro volontà di espiare l’infamia della guerra corta.

Tra il ‘40 e il ‘45 furono numerosi i militari che scelsero di darsi la morte. Si lasciarono uccidere dal mare affondando con la propria nave, avendo appreso a scuola che con il sacrificio di sé alcuni comandanti avevano mantenuto invitto il proprio onore; si spararono alla tempia, o in bocca, o all’altezza del cuore per non cadere prigionieri, oppure per non eseguire un ordine motivato soltanto dalla patologia del crimine; si offrirono per compiere azioni dichiaratamente suicide o imprese matematicamente prive delle probabilità di salvezza; si procurarono l’orgogliosa rivalsa di precedere il boia o il plotone di esecuzione... ma nessun italiano si diede la morte come quei cinque, che morirono quando non c’era alcuna ragione legittima per morire, se non quella dei giusti di ogni tempo.

Furono le morti sul campo minato, non l’armistizio, l’epilogo della guerra corta. Guerra presto dimenticata, perché divenne interminabile ogni altro conflitto.

Dei cinque che morirono, l’ultimo, il flauto, era una donna.

Era Arianna.

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