Copertina
Autore Andrea Tagliapietra
Titolo Filosofia della bugia
SottotitoloFigure della menzogna nella storia del pensiero occidentale
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2008 [2001], Economica , pag. 464, cop.fle., dim. 14x20,5x2,5 cm , Isbn 978-88-424-2076-7
LettoreLuca Vita, 2008
Classe filosofia
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


XIII Introduzione. Quella meravigliosa facoltà di opporsi


    1. Il bugiardo e il cacciatore.
       Per una preistoria della menzogna

  1  1. L'intelligenza del nemico
  6  2. Storia naturale dell'inganno
 10  3. La coscienza fra inganno strumentale e tradimento
 17  4. La caccia, la guerra e la compassione

    2. Il palazzo di Circe. Immedesimazione e animalità

 23  1. Tecniche di immedesimazione
 30  2. Plutarco e la sincerità degli animali
 37  3. Ritorno a Circe

    3. Prometeo nella caverna. Tecnica, metafora e bugia

 47  1. La caverna del protobugiardo
 52  2. Prometeo ingannatore
 59  3. Tecnica e retorica
 62  4. Metafora e bugia

    4. L'uomo odisseico e l'antropologia omerica della menzogna

 67  1. La retta e la spirale: geometrie dell'uomo odisseico
 74  2. Atena e Ermes. La doppia genealogia della mκtis
 81  3. Obliquità e interiorità: lo sguardo di Ulisse

    5. A Ulisse piace mentire.
       La bugia come forma del "voler avere di più"

 88  1. L'archetipo del bugiardo
 94  2. Il cavallo o del bottino
103  3. Polifemo o della necessità
109  4. Palamede o del falsario
116  5. Alcinoo o della finzione
121  6. Laerte o del piacere

    6. In principio fu la menzogna. La bugia nella Bibbia

127  1. Nell'Eden mentono tutti
135  2. La menzogna e l'origine del male
140  3. Veridicità e fedeltà
149  4. Le bugie di Abramo, Sara, Lot e Raab
158  5. L'inganno di Giacobbe

    7. Il filosofo e la bugia.
       Veridicità e volontà di mentire nel pensiero antico

165  1. Sincerità e filosofia. L'esempio di Socrate
175  2. L'ironia socratica e la nobile menzogna di Platone
188  3. Menzogna volontaria e menzogna involontaria da Platone
        a Cicerone

    8. Amicizia e verità.
       Mentire all'altro nella filosofia greca e romana

197  1. L'antinomia del mentitore e la necessità dell'altro
205  2. Il sofista: l'inganno come figura della smisuratezza
211  3. Mentire all'amico, mentire al nemico.
        La philalètheia di Aristotele
217  4. La sincerità come amicizia della verità e di se stessi.
        Il saggio stoico

    9. Fra peccato e confessione. La menzogna nel medioevo

224  1. Credulità e fedeltà: Luciano e gli amanti della menzogna
232  2. Io sono la via, la verità e la vita
244  3. Agostino. Bugia e confessione
262  4. Tra vizi capitali e peccati della lingua
273  5. Tommaso d'Aquino e la questione della menzogna

    10. La dissimulazione del soggetto.

        Scenari della bugia nell'età moderna
282  1. Montaigne. Sul mentire e sul saggiare se stessi
296  2. Bacone e il teatro di Amleto
311  3. La finestra di Cartesio.
        L'inganno e la dissimulazione di sé

    11. Sincerità e autenticità. La verità dell'individuo

320  1. Montesquieu. Elogio della sincerità
334  2. Rousseau sull'isola di Robinson e fra gli Houyhnhnm
350  3. Kant. La sincerità davanti alla legge
369  4. Kierkegaard, Nietzsche.
        Maschere della sincerità e della bugia
385  5. Jankélévitch, Sartre.
        Il malinteso, la malafede e la menzogna

    12. Il bugiardo e gli assassini. Storia di un'eccezione

394  1. La scena originaria
398  2. Kant, Constant. Il dovere della verità e il diritto
        alla menzogna
410  3. Fichte, Schopenhauer, Stirner. Variazioni sulla bugia
420  4. Jaspers. La bugia e l'eccezione
434  5. Derrida. La bugia e l'ospitalità

439 Il "canone" della bugia


441 Bibliografia

455 Indice dei nomi

 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina XIII

Introduzione. Quella meravigliosa facoltà di opporsi


Sulla soglia di questo libro ci sono due uomini. Uno è realmente vissuto duemilacinquecento anni fa ad Atene, ma è diventato, anche nell'opera in cui continuiamo a leggere le sue parole, il personaggio di mille finzioni. L'altro è il protagonista di un romanzo ambientato nel ghetto di Lódz, nel 1943, durante la grande mattanza hitleriana.

Il primo è greco. Il secondo è ebreo. Il primo si chiama Socrate. Il secondo è detto Jakob, Jakob il bugiardo.

Cos'hanno in comune questi due uomini? Apparentemente nulla.

Socrate è il padre della filosofia occidentale, il nostro «protofilosofo». Sterminate biblioteche di libri sono state scritte su di lui, che pure non aveva mai scritto una riga. In nome di Socrate sono sorte correnti di pensiero, vocazioni filosofiche e artistiche, discipline spirituali, esistenze straordinarie di uomini comuni. La morte di Socrate è stata rappresentata su marmo, bronzo, tela e legno. La vita di Socrate è stata messa in versi sul palcoscenico dei teatri, musicata dai compositori, proiettata sugli schermi del cinema e della Tv. Fino a qualche generazione fa, non c'era uomo colto, nel quadrante europeo del mondo, che non potesse dire con Nietzsche, «Socrate mi è talmente vicino, che devo quasi sempre combattere contro di lui».

Jakob, al contrario, è un illustre signor nessuno. Lo incontriamo in una misera città della Polonia occupata dai tedeschi, che si barcamena per sopravvivere, come tanti altri. Forse troppi, per il cibo scarso e scadente che passano i sorveglianti del ghetto. Sappiamo che nel suo locale, prima dell'arrivo dei nazisti, Jakob faceva degli ottimi sofficini di patate, del buon gelato e che serviva acquavite senza licenza. Sappiamo che, come tutti quegli uomini che si solgono chiamare onesti, reali o immaginari che siano, non avrebbe mai deliberamente tatto del male al suo prossimo. Neanche — il forse è d'obbligo — agli assassini di sua moglie, che sono i suoi carcerieri. Ma non serve dire oltre, il romanzo è in commercio e sopra ci hanno girato anche un film.

E allora? Cos'hanno in comune Socrate e Jakob, oltre al fatto, purtroppo condiviso da intere moltitudini d'uomini, sin dall'immemoriale notte dei tempi, di esser stati uccisi dai loro simili? Cos'hanno in comune, quindi, oltre alla volontà di quei carnefici che un giorno relegarono entrambi nel ruolo delle vittime?

Socrate dice la verità, Jakob dice la bugia.

Al pubblico del tribunale di Atene, che lo sta processando per empietà e per aver tentato di corrompere i giovani, Socrate si rivolge così: «Ateniesi, io vi dirò la verità che vi aiuterà a diventare uomini migliori!».

Ai prigionieri del ghetto di Lódz, che credono che lui possieda una radio in grado di annunciare l'arrivo dei liberatori, Jakob vorrebbe dichiarare (e in qualche modo anche cerca di farlo): «Fratelli, io vi dirò la bugia che vi aiuterà a restare uomini!».

Verità e bugia sono qui accomunate da un'identica forma di opposizione. La funzione critica della verità, che Socrate insegna al pensiero occidentale e, quindi, alla cultura che esso alimenta, assomiglia, in questo, alla funzione creativa della bugia, che Jakob mette all'opera per salvare i suoi compagni dallo sconforto e dalla disperazione. Qui la bugia, che altrimenti non ha nulla di lodevole e di giustificabile, diviene la strategia di chi ha tutto da perdere e niente vuol guadagnare, tranne la dignità che gli spetta.

Ci sono, in Socrate e in Jakob, quella meravigliosa facoltà di opporsi, quel portentoso coraggio della verità e della menzogna – menzogna nel senso in cui si è detto –, che li spinge a stare «uno contro tutti», che li spinge a sfidare e a ribaltare, pur restandone alla fine vittime, il più odioso schema della violenza, quello del potere, quello del «tutti contro uno».

Socrate e Jakob usano la verità e la bugia per «dire di no», per dire altrimenti, per dire comunque, per protestare, per ribellarsi fino alle estreme conseguenze. Sono uomini in rivolta, sono individui.

La verità critica nega il mondo del «così com'è», della consuetudine dei saperi e dei poteri, la bugia critica inventa il mondo «così come dovrebbe essere», ma intanto anch'essa nega alla radice il mondo che c'è e il suo dominio. Dalla prima nasce la filosofia come tradizione critica, dalla seconda nasce la grande letteratura come avventura nei mondi possibili, come viaggio in utopia.

Prevalentemente nella prima, ma non senza numerose incursioni nell'ambito della seconda, si muovono le pagine di questa Filosofia della bugia, che cerca di inseguire la storta di alcune grandi figure della menzogna lungo l'arco del pensiero occidentale.

Riflettere sulla menzogna signica interrogarsi sull'unica verità di cui l'uomo può disporre con certezza, quella che egli crede di possedere e, quindi, può decidere di dire o non dire. La menzogna si confronta, per definizione, con il concetto di verità e con quello di libertà, con i campi del sapere e con quelli del potere.

Tuttavia, il problema della bugia non è riducibile alle questioni della moralità, a un valore regolativo della politica o alle complesse casistiche del diritto. Con la menzogna, attraverso il frastagliato arcipelago dell'inganno, del malinteso e della finzione, ma anche della malafede, dell'ipocrisia e della simulazione, mettiamo in scena una specie di teatro. Per mentire, infatti, anche solo a se stessi, bisogna essere almeno in due.

Il paradosso della menzogna consiste nella sua implicita domanda di verità, nella vertigine del suo dissenso clandestino, che la logica ha chiamato antinomìa, e, insieme, nella sua capacità di farci tornare, ogni volta, all'imbarazzante dualità dell'inizio, a quel dialogo originario che precede ogni monologo.

Ma la filosofia della bugia e la storia della sincerità, che nelle pagine di questo libro appaiono intimamente intrecciate, non ci raccontano solo di quella menzogna che riguarda il mondo delle cose, bensì narrano anche di quella bugia che ha per oggetto noi stessi, nelle forme della doppiezza, del mascheramento e dell'autoinganno. Quella bugia che si rispecchia, quindi, nelle pratiche di verità della confessione, dell'esame di coscienza e del genere letterario del saggio, che nasce, con Montaigne, come messa alla prova di sé.

Allora, che senso ha essere sinceri? Cosa significa essere veraci? Che differenza c'è fra il bugiardo e l'impostore, fra il falsario e il plagiario? Bisogna dire tutta la verità che si conosce o essere veridici in tutto ciò che si dice? Sincerità e autenticità, mendacità e veridicità accompagnano la nascita filosofica del soggetto, ne incrociano la genealogia, ne documentano trionfi e catastrofi. Sincerità e bugia vanno a comporre le pratiche e le strategie dell'individuo moderno, inaugurano e sorreggono quella particolare "forma di vita" che si autodetermina come «colui che diventa ciò che non è».

La bugia come questione morale incrocia questa storia. A partire dagli archetipi della tradizione occidentale – la letteratura greca e quella biblica — la menzogna si identifica con la figura del voler avere di più. Alla scuola della bugia la tradizione occidentale impara, cioè, la nozione di volontà.

Θ contro questo voler avere di più, d'altra parte, che nasce l'impresa critica della filosofia. La verità che scioglie il nodo del volere è, per tutta la grande stagione della filosofia classica, il criterio per costruire vite secondo l'essere, ossia vite che non vogliono di più, ma sono. Questo valore critico della verità diviene, nella tarda antichità, l'occasione per la nascita del genere letterario e della pratica della confessione. La confessione non ha più per obiettivo la costruzione dell'esteriorità della vita, ma persegue l'edificazione dell'interiorità dell'io. Questa interiorità si oppone al mondo così come la verità del filosofo classico si opponeva alla vita orientata secondo il voler avere di più della menzogna.

Questa opposizione diviene, di volta in volta, opposizione dell'io che vive la sua biografia, del soggetto che conosce e dell'individuo che agisce. La storia della filosofia dell'età moderna e contemporanea può essere riscritta sorvegliando le variazioni delle nozioni di autenticità e di sincerità e la gamma dei loro reciproci rapporti. L'individuo è una menzogna che dice sempre la verità, dirà Cocteau.

Ma la bugia non è solo il voler avere di più. La bugia è anche una poderosa tecnica di immedesimazione. Il bugiardo mentendo si immedesima nell'altro a cui mente. Da questa tecnica d'immedesimazione nascono il teatro e la letteratura come quei campi dell'esperienza umana in cui ad ogni se stesso è consentito esser altro, ossia come sapere dell'eccezione, come sospensione esistenziale del principio di non contraddizione della filosofia e della logica ordinaria. Così la letteratura come menzogna diviene un antidoto contro il voler avere di più della volgare bugia d'acquisizione. Là dove la menzogna vuole sempre di più e non è mai soddisfatta di ciò che ottiene col suo volere, le finzioni del teatro e della letteratura sono bugia gratuita, gioia della dissipazione e dello spreco. Uno spreco, tuttavia, che coincide con la vita stessa.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 282

10. La dissimulazione del soggetto.

Scenari della bugia nell'età moderna


1. Montaigne. Sul mentire e sul saggiare se stessi

Una delle ultime cose che Michel de Montaigne scrisse, prima di morire fra le mura del suo castello nel Périgord, fu la splendida chiusa dell'ultimo degli Essais, quello Dell'esperienza. «Θ una perfezione assoluta, e quasi divina», egli osserva, «saper godere lealmente del proprio essere. Noi cerchiamo altre condizioni perché non comprendiamo l'uso delle nostre, e usciamo fuori di noi perché non sappiamo che cosa c'è dentro. Così, abbiamo un bel montare sui trampoli, ma anche sui trampoli bisogna camminare con le nostre gambe. E anche sul più alto trono del mondo non siamo seduti che sul nostro culo» (Essais III, XIII).

Per godere lealmente del proprio essere Montaigne mise mano agli Essais. «Questo, lettore, è un libro sincero (c'est, ici, un livre de bonne foi, lecteur)» (Essais prol.), annuncia l'esordio dell'opera. Ma di "chi" e di "cosa" ci dovremmo fidare?

Nel primo saggio del secondo libro, quello Dell'incostanza delle nostre azioni, leggiamo di quel "cambiamento" e di quell'intima "contraddizione" che ha spinto taluni a supporre «in noi due anime», altri «due poteri», «che ci accompagnano e ci muovono ognuno a suo modo, l'uno verso il bene, l'altro verso il male, non potendo tale brusca diversità accordarsi a un soggetto tanto semplice». Invece, prosegue Montaigne, quel soggetto che "io" sono è tutt'altro che l'espressione di quella semplicità che la laconica unità del pronome personale presuppone: «non soltanto il vento delle circostanze mi agita secondo la sua direzione, ma in più mi agito e mi turbo io stesso per l'instabilità della mia posizione; e, a guardar bene, non ci troviamo mai due volte nella stessa condizione. Io do alla mia anima ora un aspetto, ora un altro, secondo da che parte la volgo. Se parlo di me in vario modo, è perché mi guardo in vario modo. Tutti i contrari si ritrovano in me per qualche verso e in qualche maniera. Timido, insolente; casto; chiacchierone, taciturno; laborioso, indolente; ingegnoso, stupido; stizzoso, bonario; bugiardo, sincero; dotto, ignorante e liberale, e avaro, e prodigo, tutto questo io lo vedo in me in qualche modo, secondo come mi volgo; e chiunque si studi molto attentamente trova in sé, e anzi nel suo stesso giudizio, questa volubilità e questa discordanza. Non posso dire niente di me, assolutamente, semplicemente, e solidamente, senza confusione e mescolanza, né in una sola parola. Distingo è l'articolo più universale della mia logica» (Essais II, I).

Distingo ergo sum, «distinguo quindi sono» dice l'anima montaigneana, rivelando l'elastica composizione di un "io" che, in attesa, a breve, di diventare soggetto e fondamento della conoscenza, si permette il lusso di oscillare e di variare incessantemente, come l'acqua del famoso fiume eracliteo, in cui, come già dicevano gli antichi, non ci si può bagnare mai due volte e, forse, neppure una. «L'io», commenta Savater, «è qualcosa che crediamo di conoscere meglio del resto o per lo meno di cui ci sentiamo in grado di parlare con maggiore familiarità. Ma non ci offre alcun fondo solido su cui appoggiarci; al contrario, lo caratterizzano l'incostanza, la mobilità, la contraddizione. Esaminare il proprio io porta a negar credito ai dogmi, ma non procura niente con cui sostituirli. La ragione di cui siamo orgogliosi si vede minata da impulsi e sentimenti che soggiacciono, condizionandola, alla sua ingannevole limpidezza. Il motto che Montaigne sceglie è que sais je?, professione di scetticismo che non vuol dire che non sappiamo nulla, ma che non possiamo mai sapere con sicurezza cosa sappiamo».

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 289

Ma il centro della riflessione montaigneana sulla bugia si sviluppa nei due famosi Essais che hanno per argomento Dei bugiardi (Essais I, IX) e Del mentire (Essais II, XVIII).

Nel primo di questi due, il filosofo francese, dopo aver fatto professione di straordinaria debolezza nella capacità di ricordare, afferma: «non senza ragione si dice che chi non si sente abbastanza forte di memoria deve evitare di essere bugiardo. So bene che i grammatici fanno differenza fra dir menzogna e mentire; e dicono che dir menzogna è dire una cosa falsa ma che si è presa per vera, e che la definizione della parola "mentire" in latino, da cui è derivato il nostro francese, significa in un certo senso andare contro la propria coscienza, e che per conseguenza questo riguarda solo coloro che parlano contrariamente a ciò che sanno, ai quali mi riferisco» (Essais I, IX). Qui Montaigne riprende la distinzione, che già avevamo trovato formulata da Aulo Gellio, tra mendacium dicere e mentiri (Noctes Atticae XI, 11, 1-3). Inoltre, risuona nel testo la definizione che gli Scolastici avevano elaborato a partire dalla sintesi agostiniana, per cui «mendacium est locutio contra mentem».

Pur accettando questi postulati, che appartengono alla tradizione del pensiero pseudologico, ciò che preme a Montaigne è di sottolineare la difficoltà del mentire. Chi mente, o inventa di sana pianta o modifica e altera un fondo veritiero. Sicché, quando li si fa tornare sul racconto della propria menzogna «è difficile che non si confondano, poiché la cosa, com'essa è, si è allogata per prima nella memoria e vi si è impressa per via della conoscenza e del sapere, ed è difficile che non si ripresenti all'immaginazione, sloggiandone la falsità» (Essais I, IX). Cent'anni dopo il Breviario dei Politici attribuito al Cardinal Mazzarino si ricorderà di questo passo e del valore di "lie detector" ante litteram dei meccanismi della memoria e della dimenticanza: «dimanda parere sopra qualche affare a tal'uno, e dopo pochi giorni proponigli la medesima materia; se allora non fu sincero, ora parlerà diversamente. Per tiro speciale della divina provvidenza tosto ci dimentichiamo delle profferite menzogne» (Breviarium Politicorum II).

Montaigne evoca l'esempio di «coloro che dichiarano di foggiare le loro parole unicamente secondo quanto serva agli affari che trattano», a cui capita della stessa cosa di dire «ora grigio, ora giallo», «a una persona in un modo, a un'altra in un altro», «spesso essi stessi si confondono», per cui con «informazioni tanto contrastanti», «che cosa diventa questa bella arte?» (Essais I, IX).

Sullo sfondo di questo "carattere" del bugiardo delineato negli Essais c'è, con molta probabilità, il personaggio di Pseudocheo, che già dava vita al dialogo di Menzogna e verità nei Colloquia di Erasmo da Rotterdam. A uno sprovveduto e ingenuo Filotimo che parla contro «il vizio della bugia» e gli chiede «non ti vergogni?», Pseudocheo, in cui la caustica ironia rinascimentale erasmiana nasconde il libraio anversese Francesco Berckman, (che lo stesso Erasmo, in una lettera, chiamava onustus mendaciis), fa il panegirico dell'arte della menzogna: «la natura ha fornito il seme: l'abitudine e l'arte lo hanno fecondato» (Colloquia XI).

Per Pseudocheo «parlar bene è la stessa cosa che mentire abilmente», ossia «mentire in modo da guadagnarci senza farsi smascherare». E per non farsi smascherare bisogna non essere dei «dilettanti» e avere buona memoria. Infatti, la menzogna è cosa più turpe dell'urina «solo per chi non sa mentire con arte» (Colloquia XI). Ecco allora che la smemoratezza diviene, invece, una qualità eccellente delle vittime del bugiardo: «sorprendo la buona fede», dice Pseudocheo, «di chi difficilmente può cogliermi in fallo», ossia «gli stupidi, gli smemorati, gli scervellati, gli assenti e i morti».

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 294

La menzogna, per Montaigne, è un maledetto vizio, perché gli uomini sono «legati gli uni agli altri solo per mezzo della parola» (Essais I, IX). La parola «è l'interprete della nostra anima», la parola falsa «tradisce la pubblica società», «distrugge ogni nostro scambio e dissolve tutti i vincoli» (Essais II, XVIII). L'inclinazione a dire bugie si acquisisce da bambini e diventa, col tempo, qualcosa di inestirpabile, che non siamo più in grado di controllare anche quando non ci è di nessuna utilità. Ma, vizio talvolta dannoso per chi lo pratica, essa lo è sempre per le relazioni umane. La menzogna, infatti, impedisce la comunicazione fra gli uomini, rendendoli gli uni estranei agli altri, tanto che un cane è, spesso, miglior compagnia di un uomo per l'uomo.

Inoltre, «se la menzogna, come la verità, avesse una sola faccia, saremmo in una condizione migliore. Di fatto prenderemmo per certo il contrario di quello che dicesse il bugiardo. Ma il rovescio della verità ha centomila aspetti e un campo indefinito» (Essais I, IX). La bugia è, cioè, l'esatto contrario di quel lavorio di unificazione di sé che l'"io" di Montaigne intende perseguire attraverso l'intermittenza della scrittura che ne saggia, di volta in volta, la sincerità. Innanzitutto nel confronto con se stesso, nel tentativo di far diventare chi la pratica un uomo migliore, e poi nel rapporto con gli altri, là dove essa surroga, nell'elaborazione del lutto, l'affidabile reciprocità dell'amico, il ruolo confidenziale di quel La Boétie, alter ego prematuramente scomparso, di cui le pagine degli Essais prendono mestamente il posto, come una statua «per l'angolo di una biblioteca» (Essais II, XVIII).

«La natura», leggiamo nel saggio Sul mentire, «ci ha fatto dono di un'ampia facoltà di intrattenerci con noi stessi, e ci chiama spesso a farlo per insegnarci che dobbiamo, sì, una parte di noi alla società, ma la parte migliore a noi stessi» (Essais II, XVIII). Qui, in questa piega, si consuma lo scontro. Per essere autentico l'"io" dell'uomo moderno entra in conflitto con l'universale dissimulazione che scorge negli altri e che dagli altri gli viene imposta nelle politiche della cortesia, nelle convenienze della vita sociale: «Ci si esercita, ci si addestra a questo come a un esercizio d'onore; poiché la dissimulazione è fra le più notevoli qualità di questo secolo». La parola menzognera è come la falsa moneta – metafora antica, immediatamente pertinente, che ritroveremo abbondantemente impiegata da Kant – perché noi «chiamiamo moneta non solo quella che è buona, ma anche la falsa che ha corso» (Essais II, XVIII).

La falsa moneta ha corso, ci avvisa Montaigne, in un'ultima iperbole della sincerità, perché è sempre possibile che anche l'"io" forgiato dalla scettica interrogazione del que sais-je? ("che cosa so?") – che un gioco fonetico della lingua francese consente di trasformare in qu'essaie-je ("che cosa provo?", "che cosa cerco?") –, debba ricorrere alla menzogna necessaria che salva la vita: «certo è che io non sono sicuro di poter riuscire a vincere me stesso se dovessi preservarmi da un pericolo evidente ed estremo con una sfrontata e solenne menzogna» (Essais I, IX).

Le porte del Seicento, secolo di teatrali bugiardi, erano ormai spalancate. Si atterrà, infatti, l'uomo barocco, alla massima, prudente e accorta, che già Ludovico Ariosto enunciava, in una bella ottava dell'Orlando Furioso (1532): «Quantunque il simular sia le più volte / Ripreso, e dia di mala mente indici, / Si trova pur in molte cose e molte / Aver fatti evidenti benefici, / E danni e biasimi e morti aver già tolte; / Chè non conversiam sempre con gli amici / In questa assai più oscura che serena / Vita mortal, tutta d'invidia piena» (Orlando Furioso IV, 1).

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 434

5. Derrida. La bugia e l'ospitalità

La scena paradigmatica dell'amico e degli assassini trova così una ridescrizione che pone l'incondizionato dalla parte di chi mente per salvare colui a cui dà asilo, secondo la manifestazione di una sincerità esistenziale che rovescia il dettato e l'osservanza della sincerità oggettiva senza perdervi, tuttavia, il criterio di verità. Ma ciò, in realtà, non fa che esplicitare alcuni elementi che già appartenevano a quella scena e che la manipolazione teoretica aveva contribuito a porre in ombra. Innanzitutto — e qui concordiamo con l'analisi di Jacques Derrida — gli elementi dell'amicizia e dell'ospitalità, che custodiscono in sé l'apertura incondizionata dell'umanità.

Secondo Derrida, al centro dell'intera storia culturale dell'amicizia possiamo individuare «un'esclusione strategica» che, come un vero e proprio polo magnetico, influenza tutti i successivi sviluppi della "figura" concettuale dell'amico: è il caso dell'amicizia femminile, ma soprattutto dell'amicizia fra uomo e donna. Con rigorosa costanza i discorsi canonici dell'archivio politico, filosofico e letterario dell'Occidente, a partire da Platone e Aristotele, escludono la possibilità che vi possa essere amicizia fra i diversi, e i "diversi" per eccellenza sono i due generi, ossia l'uomo e la donna. L'ambito dell'amicizia viene così circoscritto alla sola «amicizia virile», sorta nel cerchio delle virtù militari, dell'eroe e del soldato, e poi estesasi all'orizzonte della città, alla «virtù politica» concepita, sempre e comunque, quale «virtù maschile» e «identificante». «Come quando vogliamo vedere la nostra faccia», leggiamo nella Grande Etica, attribuita ad Aristotele, «la vediamo guardandoci nello specchio, similmente, quando vogliamo conoscere noi stessi, potremo conoscerci guardando nell'amico. Intatti, l'amico è, come abbiamo detto, un altro noi stessi» (Grande Etica II, 15, 1213a 20-23). Allora, l'origine bellica dell'amicizia, ma, insieme, le tensioni di unificazione e identificazione che essa presuppone, malgrado gli intensi processi di sublimazione, santificazione e universalizzazione compiuti nel corso della storia della nostra cultura, macchiano indelebilmente il valore ideale della fratellanza e della solidarietà, vale a dire delle nozioni che descrivono l'immediata e spontanea socialità degli uomini, radicandolo nei termini particolaristici della famiglia e della nascita, nei paradigmi conflittuali del "sangue" e del "suolo", nel modello territoriale della "patria" e della "nazione". «Il concetto del politico», scrive Derrida, «raramente si manifesta senza qualche aderenza dello Stato con la famiglia, senza quella che noi chiameremo una schematica della filiazione: la stirpe, il genere o la specie, il sesso (Geschlecht), il sangue, la nascita, la natura, la nazione — autoctona o no, tellurica o no». Tutti questi passaggi si tengono insieme rinviando alla figura unificante della «fratriarchia», dove «l'Uno si fa violenza e si difende dall'altro».

Per Derrida, questo plesso maschile e maschilista, fallocentrico e omoerotico, della teoria «politica» dell'amicizia, questa riduzione dell'emotività amicale a «spirito di corpo», benché sublimata e rielaborata, è sopravvissuta alle varie "rivoluzioni" della storia. La ritroviamo nella adelphótes del Nuovo Testamento, nella fraternitas dei Padri della Chiesa, nella fraternité giacobina di Robespierre e Saint-Just, ma anche nella codarda complicità dell'orda dei fratelli parricidi, suggestivamente raccontata in Totem e tabù di Freud. Ma i limiti del paradigma virile e omologante della teoria occidentale dell'amicizia, che costituisce il preliminare metapolitico di ogni politica, si riflettono soprattutto nell'attuale «problema della politica» che, nella sua versione più nobile e alta, è il problema del razzismo e del sessismo, dell'intolleranza e dell'emarginazione, del conformismo e della mancata tutela delle differenze, ossia là dove "libertà" ed "eguaglianza" debbono trovare una necessaria e impossibile sintesi nell'enigmatico terzo concetto, quello della "fraternità".

Ecco allora che la scena originaria dell'amico e dell'assassino, al centro del breve ma intenso "dialogo" fra Kant e Constant, poi modulata nelle variazioni dei testi di Fichte, Schopenhauer e Stirner, infine compressa nelle linee guida dell'accurata argomentazione di Jaspers, diviene assolutamente emblematica dell'intreccio e dell'opposizione fra la politica della verità e le politiche dell'amicizia. Infatti, c'è una politica dell'amicizia che rispecchia la politica della verità, in sintonia con l'allineamento totalitario della filosofia sui concetti di universalità della legge e di pubblicità dell'identità, ma c'è anche una politica dell'amicizia che, a fatica, emerge e trae la sua forza proprio dal contrasto e dalla tensione con la politica della verità, ovvero nell'illimitata apertura all'eccezione della singolarità, all'unicità dell'individuo e al segreto dell'ospitalità.

«Tutto avviene», diceva Derrida in un seminario del gennaio del 1996, «come se l'ospitalità fosse impossibile: come se la legge dell'ospitalità definisse l'impossibilità stessa, come se non potesse fare a meno di trasgredirla, come se la legge dell'ospitalità assoluta, incondizionata, iperbolica, come se l'imperativo categorico dell'ospitalità ordinasse di trasgredire tutte le leggi dell'ospitalità, cioè le condizioni, le norme, i diritti e i doveri che si impongono agli ospiti, tanto a chi offre quanto a chi riceve accoglienza».

C'è, nel diritto d'ospitalità comunemente inteso, un'interrogazione che parte dall'ospitante e che ingiunge all'ospitato di render ragione della sua dimora, della sua identità, del suo spazio, dei suoi limiti, dell' ethos in quanto soggiorno, abitazione, casa, focolare, famiglia, privacy. Solo a queste condizioni egli viene accolto. Ma forse è possibile pensare a un'ospitalità assoluta e incondizionata, a un'ospitalità che sembra porsi oltre la legge, l'etica e la morale, ossia nel luogo dove legge, etica e morale hanno origine.

| << |  <  |