Copertina
Autore Arcangela Tarabotti
Titolo Lettere familiari e di complimento
EdizioneRosenberg & Sellier, Torino, 2005 [1650], , pag. 310, cop.fle., dim. 150x211x21 mm , Isbn 978-88-7011-898-8
CuratoreMeredith Ray, Lyn Westwater
PrefazioneGabriella Zarri
LettorePiergiorgio Siena, 2005
Classe storia sociale , biografie , femminismo
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice

  5  Presentazione di Gabriella Zarri

 19  Ringraziamenti

 21  Nota al testo

 25  Introduzione

 41  Lettere familiari e di complimento
     della signora Arcangela Tarabotti

301  Indice analitico

309  Notizia biografica

 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

PRESENTAZIONE

di Gabriella Zarri


Abbiamo da poco finito di piangere sulla monaca di Monza. Dopo la pubblicazione di questo libro smetteremo di piangere anche su Arcangela Tarabotti. Decenni di ricerche sui monasteri femminili nell'età medievale e nella prima età moderna e studi sempre più originali e approfonditi ispirati alle domande e alle posizioni teoriche degli women's studies hanno messo a fuoco che la nostra idea del monastero come carcere è in buona parte una costruzione storiografica. Hanno contribuito a formarla romanzi di prima grandezza come i Promessi sposi di Manzoni e letteratura pamphlettistica come La Religiosa di Voltaire, insieme con la pubblicazione di cronache e processi che mostravano i disordini, le violenze e gli eccessi che avevano come teatro i monasteri. È vero che la denuncia della monacazione forzata e l'immagine del monastero come carcere precedono l'illuminismo e il romanticismo - che tuttavia di questi aspetti hanno trasmesso una visione quasi esclusiva e letterariamente duratura - ma leggendo ora Le lettere familiari e di complimento di Arcangela Tarabotti possiamo penetrare con maggior consapevolezza documentaria in quello spazio dei chiostri italiani dell'età rinascimentale e barocca che poteva rappresentare per le donne una vera e propria "morte al mondo", come volevano i rituali di professione, o un luogo adatto per la propria autorealizzazione e promozione sociale.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 29

INTRODUZIONE


[...] La prima opera che Tarabotti riuscì a pubblicare non fu però una condanna della monacazione forzata ma uno scritto di tono ben diverso, il Paradiso monacale (Venezia, Oddoni, 1643). Celebrazione del monastero per le donne che possedevano una vera vocazione religiosa, e preceduto da un «Soliloquio a Dio» in cui l'autrice si professa convertita alla vita religiosa, il Paradiso, parziale ritrattazione dell'Inferno, fu per motivi evidenti meno controverso delle prime sue opere e dunque più facile da pubblicare. Con il Paradiso la suora sì guadagnò l'ammirazione dei letterati, a Venezia e altrove, attestata dai numerosi componimenti encomiastici che accompagnarono il volume. Ma le lodi non durarono a lungo: si trasformarono in polemica quando la suora pubblicò una seconda opera, L'Antisatira (Venezia, Valvasense, 1644). Del tutto diversa dal Paradiso, L'Antisatira, che Tarabotti diceva di aver composto «solecitata da dame nobili» (lettera 207), fu una risposta semiseria al Contro il lusso donnesco, satira menippea del senese Francesco Buoninsegni, che prendeva di mira la vanità delle donne. Tarabotti ribaltava garbatamente le accuse dello scrittore toscano, non mancando di sollevare anche il problema dell'istruzione delle donne. Nonostante il tono leggero, L'Antisatira, per l'enfasi posta sulla vanità e sull'ipocrisia maschili, fu accolta con ostilità da parte di alcuni letterati a Venezia. Tale reazione negativa culminò in attacchi alla suora per alcuni errori presenti nel Paradiso e in accuse che non fosse ella la vera autrice dei suoi libri; troppo diversi nello stile - si sussurrava - erano il Paradiso monacale e L'Antisatira perché potessero essere uscite dalla stessa penna. Infuriata, Tarabotti cercò di difendersi contro queste calunnie: «Poca pratica di scrivere debbono aver certo questi tali», scriveva adirata al cognato Giacomo Pighetti, «mentre si maravigliano che lo stile del Paradiso sia differente da quello dell' Antisatira, onde mostrano di non sapere che lo stile va diversificato in conformità delle materie» (lettera 113). Rifiutandosi di farsi intimorire dai suoi critici, Tarabotti perseverò nello scrivere in difesa delle donne, continuando ad inserirsi pienamente nella querelle des femmes letteraria e culturale della Venezia seicentesca.

Nel 1651 pubblicò un'altra opera di risposta, questa volta più seria, ad un trattato misogino di autore anonimo, la Disputatio nova contra mulires, qua probatur eas homines non esse, tradotto in italiano nel 1647, in cui si sosteneva che le donne non hanno l'anima. Che le donne siano della specie degli uomini (Norimberga, I. Cherchenbergher, 1651), in cui Tarabotti confuta ad uno ad uno gli argomenti del trattato, sarebbe l'ultimo libro pubblicato dalla suora. Ma l'anno prima, nel 1650, la suora aveva dato alla stampa un altro libro, con il quale sperava di poter rafforzare la sua reputazione letteraria. Questo libro, Le lettere familiari e di complimento, pubblicate a Venezia da Guerigli nel 1650, apre uno spiraglio affascinante sia sui rapporti della suora con letterati, politici e diplomatici dell'epoca, sia sul modo in cui ella volle costruire la propria immagine pubblica e rispondere ai suoi detrattori.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 81

ALL'ILLUSTRISSIMA SIGNORA GUID'ASCANIA ORSI


Le cortesissime essibizioni di Vostra Signoria Illustrissima, congiunte all'umanità de' Suoi cari e adorabili concetti, rapiscono i sentimenti di chi professa servirLa in maniera che Ella possiede tutti gli affetti delle Sue serve. Tanto accade a me, Illustrissima Signora, perché, vedendomi eccellentemente onorata della grazia, dell'affetto, e degli onori di così gran dama, mi sento tormentato il cuore per non poter con effetti esterni darLe saggi sinceri della mia interna riverenza e della corrispondenza ardente ch'io Le professo.

S'assicuri però, Vostra Signoria Illustrissima, che tutto ciò che sono e vaglio, sono e vaglio per Lei, e ch'Ella può disporre di me come creatura Sua. E ciò ch'a me di far non è permesso / Prego da Dio le venga ognor concesso.

Mi dia pur occasione di impiegar i deboli talenti miei, come dall'esperienza Ella potrà conoscere il candore della mia devozione.

Avrei per gloria di poter star genuflessa inanzi a Lei, gentilissima Signora mia, da ognuno conosciuta per la gloria universale del sesso; e mentr'Ella mi solleva da questo riverente atto di servitù, io resto maggiormente mortificata. Ma cedano gli effetti della Sua cortesia agli affetti del mio debito. Attenderò qualche avviso circa il favore, che mi sarà caro al pari della stessa sanità, che tanto bramo,

M'iscuserà Vostra Signoria Illustrissima se tal volta differirò, benché con gran passione, il riverirLa, e l'attribuisca alla stagione propria alla purga che faccio.

Al rimanente, son imbrogliata con una malignità inesplicabile di persone, le quali si vogliono prender la diffesa del signor Boninsegni, ch'è gentilissimo. Illustrissima Signora, metter alla stampa ci vuole una gran testa, essendo che tutti vogliono dir la sua particolarmente contro di noi, perché ostinatamente gli uomini non vogliono che le donne sappiano comporre senza di loro. Mi rido di tali ciance. Mi perdoni Ella questa prolissità, ch'io riverente e caramente Le baccio le mani, vivendo ogni giorno più di Vostra Signoria Illustrissima, ecc.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 117

ALL'ILLUSTRISSIMO ED ECCELLENTISSIMO SIGNOR GIOVAN FRANCESCO LOREDANO


[...] Voglio però credere che i begli ingegni anderano più cauti nel biasimare le femine ora che Santa Chiesa s'è dichiarata al mondo tutto ch'elle non solo siano della specie degli uomeni, ma che partecipano della divinità, mentre fulmina contro coloro che negano le donne non aver anima li medemi castighi ch'è solita di dare a quelli eretici che negano Dio (8).

Ma ad altro, il signor N. nel ultima sua visita m'ha posto un pulice nell'orecchio che non mi lascia aver bene. Egli motivò che sia decaduta dalla grazia di Vostra Eccellenza, da me più stimata di qual si voglia tesoro, io non so spiarne la cagione, né voglio credere che per non esser Ella avezzata alla mia maniera di conversare, assai sincera e bizzarra, abbia preso equivoco dalle mie parole. Suppongo più tosto che la frequenza delle mie lettere L'abbia annoiata, che se ciò fosse faccio voto di mai più scriverLe, ma ben con la penna del cuore piangere incessantemente così gran perdita, e mi rassegno di Vostra Eccellenza, ecc.


NOTA 8 Tarabotti si riferisce alla controversia seguita alla pubblicazione del trattato Che le donne non siano della specie degli uomini, che negava che le donne avessero l'anima - idea non solo antifemminista ma eretica. Il trattato, uscito in Germania e scritto in latino, era stato tradotto in italiano e pubblicato nel 1647 a Venezia in circoli legati all'Accademia degli Incogniti; ci fu probabilmente la mano stessa di Loredano. Il trattato suscitò una forte reazione da parte dell'Inquisizione, che nel 1649 diede la colpa, in qualità di tipografo del libro, a Francesco Valvasense, che stava in carcere già da alcuni mesi, condannandolo ad un altro periodo di carcere a discrezione del Sant'Uffizio, proibendogli di continuare l'attività editoriale e costringendolo ad un'abiura.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 238

ALL'ILLUSTRISSIMO SIGNOR N.


Vostra Signoria Illustrissima è la più smemorata creatura del mondo, il più ingrato animale della terra, e la più invidiosa anima ch'abbia fatta Dio. Vi sete scordato di favorir quella dama, non corrispondete, anzi non conoscete, i benefizi che V'ho conferiti, e invidiate la mia poca dottrina, me n'acorgo. Dubbiosa perciò che la Vostra smemoragine Vi faccia scordar anche del baron di N., ch'uno di questi giorni metterà la sua parte in Pregadi, Ve lo rammemoro perch'è negozio di gran premura per me. Al signor Loredano direte che, se ben ho riffiuto quella porzione che m'avevi ceduto, ad ogni modo pretendo la lettera promessami e che giovedì si anderà a pigliarla. In resto scrivo penando, tormentata dalla mia strettura, e son in stato più di morire che di vivere.

Per questo disprezzo gli uomini, che sono le più sprezzabili cose del mondo, e non alimento la lor ambizione con titoli od onori accioché sappiano che, se ben si gloriano molti d'esser nobili, sono però anco loro tre once di terra, e benché involti nella porpora, finirano come gli altri; e chi ha giudizio Conosce al fin tutti i mondani avanzi / Sogni d'infermi, e folle de' romanzi

| << |  <  |