Autore Gonçalo M. Tavares
Titolo Matteo ha perso il lavoro
Edizionenottetempo, Roma, 2016, narrativa , pag. 230, ill., cop.fle., dim. 14x20x1,3 cm , Isbn 978-88-7452-634-5
OriginaleMatteo perdeu o emprego [2010]
TraduttoreMarika Marianello
LettoreElisabetta Cavalli, 2017
Classe narrativa portoghese












 

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Indice


Aaronson e la prima rotonda                   9
Ashley e il pacco                            15
Baumann e la spazzatura                      23
Boiman e l'osservazione                      29
Camer e l'inchiesta                          33

Cohen, l'uomo dei tic                        39
Diamond e l'insegnamento                     45
Einhorn e l'hotel                            55
Glasser e la batteria                        59
Goldberg e l'ora                             67

Goldstein e la tavola periodica              71
Gottlieb e la schiena                        77
Greenberg e la sedia elettrica               81
Greenfield e gli esperimenti scientifici     85
Helsel e il deposito                         89

Holzberg e la seconda rotonda                95
Hornick e il labirinto                      101
Horowitz e la salvezza                      107
Indictor e il ragazzetto                    111
Kashine e il NO                             119

Kessler e la barca                          125
Klein e la pazzia                           131
Koen e la radura                            135
Levy e la foresta                           141
Matteo ha perso il lavoro                   145


Note su
Matteo ha perso il lavoro (Postfazione)     169


 

 

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Pagina 9

Aaronson e la prima rotonda


Non sempre Aaronson era stato un morto.

Per un periodo Aaronson era stato davvero, senza esagerare, un essere vivente.

Tra i ventisette e i trent'anni Aaronson girava — esasperato come un insetto — intorno a una rotonda.

Tutte le mattine, tra le sette e le sette e mezza, si vedeva un uomo percorrere il perimetro della rotonda principale della città, rotonda in cui si riversava il sessanta per cento del traffico.

Alle sette di mattina i gas di scarico delle automobili erano di meno rispetto al tardo pomeriggio, però, comunque, c'erano gas, metallo e anche la velocità di qualche automobile. E lí, in mezzo, correndo il rischio di morire, un uomo faceva centinaia di giri della rotonda. Aaronson.

Qualsiasi abitudine, qualsiasi gesto ripetuto, per quanto assurdo possa ritenersi, viene rapidamente neutralizzato: l'eccezionale si trasforma in poche settimane; talvolta basta qualche giorno perché il mostruoso e l'informe diventino la normalità e l'abitudine. Tutt'al più: un fatto a cui non si dà attenzione, paesaggio.

Tra le sette e le sette e mezza gli automobilisti che d'abitudine passavano per la rotonda, sapevano già che un uomo, anche lui d'abitudine, vestito di tutto punto con maglietta e pantaloncini, era lí che girava. Centinaia e centinaia di volte attorno alla stessa rotonda, come un'auto che non sapesse la strada, che esitasse tra una direzione e l'altra; che si lasciasse andare, in tondo, senza rischiare, senza decidere. Finché rimarrò nella rotonda non sono perduto, almeno non torno indietro. Ed ecco il fascino di quel moto circolare, moto quasi infinito se non fosse che terminava esattamente al trecentesimo giro: attorno a una rotonda nessuno torna indietro, nessuno si sbaglia, nessuno deve accettare l'errore e fare inversione di marcia. La vita, malgrado tutto, è facile. In una rotonda.

A nessuno piace essere umiliato e Aaronson (quand'anche fosse stato un'automobile) almeno non imboccava la strada sbagliata. Trecento giri per prendere tempo e poi il rientro a casa. Non rischiare! – sembrava dirgli qualcuno all'orecchio.

Spendiamo qualche parola sulla rotonda: una circonferenza perfetta. Diametro: impossibile saperlo con precisione, ma era esatto – un numero senza arrotondamenti.

Aaronson tra i ventisette e i trent'anni, all'epoca in cui correva tra le sette e le sette e mezza di mattina intorno alla rotonda principale della città, fu considerato soltanto un pazzo prevedibile – il che equivale a essere un pazzo a metà, dato che la prevedibilità divide il pericolo in due.

Alcuni giorni dopo aver compiuto trent'anni smise, tuttavia, di andare a correre alla rotonda.

Nessuno lo vide piú. E nessuno lo vide piú perché Aaronson morí. E la città si vergogna a tal punto di un corpo morto che, in un'ora al massimo, il corpo scompare. Se qualcuno vuole vedere il corpo, che vada dunque nel luogo in questione, per quell'arco di tempo minimo in cui il morto rimane morto in città.

(Si tutelano piú i morti dei vivi, ma la città ha le sue regole e i suoi meccanismi. La sua igiene, si dirà, e a ragione).

Aaronson morí quindi nel modo seguente: aveva compiuto trentun anni. Era un uomo apparentemente normale, a parte quel dettaglio, la corsa – ma qualcosa per lui rimaneva ancora incompleto. Una volta il conducente di un'auto, mesi prima, aveva fermato la macchina e gli aveva chiesto: Perché viene a correre qui? È pericoloso.

Aaronson lo aveva ringraziato per la premura. Non avrà risposto nulla di concreto, un semplice: Perché mi piace, forse. Avrà fatto spallucce e continuato a correre.

Ma quel giorno qualcosa era cambiato. La decisione di Aaronson era presa.


È cosí che è morto: alle sette e mezza di mattina arrivò per la consueta corsa attorno alla rotonda, ma quel giorno, stranamente, cominciò a correre in direzione contraria rispetto al senso di marcia delle automobili. Al terzo piano, Nedermeyer vide tutto dalla finestra di casa sua, un appartamento che aveva completamente svuotato, appena il giorno prima, di mobili e oggetti. Spalle alla finestra, in ginocchio, c'era una prostituta che già da qualche tempo aveva abbassato i pantaloni del sig. Nedermeyer. Quest'ultimo, tuttavia, anche in quella situazione, non si perse nulla di quanto successe in strada. E un'ora dopo sarebbe andato al mercato a vendere qualche vecchia fotografia del suo matrimonio, foto che avrebbe messo dentro una busta.

Per quale motivo quel giorno Aaronson decise di cambiare il senso della sua corsa? L'unica persona che potrebbe rispondere non parla piú.

Aaronson riuscí anche a fare cinque giri completi della rotonda, ma al successivo l'automobile guidata dal sig. Ashley impattò a tutta velocità contro il suo corpo, scaraventandolo, ormai senza vita, verso il centro della rotonda. Se il corpo umano non fosse cosí poco regolare, Aaronson (o la sua testa) sarebbe caduto nel centro esatto della rotonda.

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Pagina 71

Goldstein e la tavola periodica


Aveva ormai compiuto cinquant'anni ed era rimasto cieco a ventidue in un incidente. Oltre ad aver ereditato un'enorme fortuna e ad aver frequentato il bordello di Einhorn in altri tempi — Goldstein andava alla ricerca di Scandio, una delle sostanze piú rare dell'universo.

In tasca, Goldstein si portava sempre la tavola periodica di Mendeleev. A volte, passando per un turista che apre la cartina della città, Goldstein prendeva dalla tasca un grosso foglio e lo spiegava diverse volte rivelando la famosa tavola periodica degli elementi. Tavola che Goldstein, essendo cieco, non poteva vedere, ma che fissava con i suoi occhi vuoti in modo quasi demenziale — come uno che, perso ormai da ore, fissa nuovamente, pieno di speranza, la bussola e la cartina.


Goldstein continuava a raccontare incalcolabili volte la storia di quando al funerale di Mendeleev, a San Pietroburgo, due uomini portarono davanti alla sua bara, come se fosse la bandiera di un paese o di un partito, la tavola periodica degli elementi che aveva inventato.

L'ambizione di Goldstein non era aggiungere un elemento alla tavola, ma soltanto trovare, concentrati, migliaia di grammi di Scandio. (Non che lo cercasse lui. Siccome era milionario, lo comprava. Sembrava voler compensare la sua cecità acquistando questa sostanza minuscola e molto rara).

Durante i suoi vaneggiamenti, Goldstein pensava al suo corpo dentro la bara circondato da migliaia di grammi di Scandio, quella rara sostanza. L'utopia di Goldstein: che nella sua bara potesse entrare tutto lo Scandio esistente al mondo.


La fissazione del cieco Goldstein era risaputa. Il proprietario del bordello, Einhorn, a conoscenza di questa sua mania, in occasione delle visite di Goldstein, mormorava, scherzando: Qui non abbiamo Scandio, pur sapendo che il signor Goldstein era lí alla ricerca di un piacere fisico assolutamente concreto – e non di Scandio, quella minutezza.

"Rodio, iridio, selenio, osmio, ecco alcuni rivali dello Scandio," diceva Goldstein, che cercava di trasmettere agli altri il suo amore per le sostanze piccole e rare.


Oltre a questi piccoli peccati, Goldstein serbava un segreto piú grande.

Fino ad allora il cieco e milionario Goldstein aveva tenuto nascosta la sua omosessualità. Da quattro anni aveva un giovane amante a cui corrispondeva una paga mensile ben al di sopra delle tariffe normali. L'amante si chiamava Gottlieb e Goldstein aveva preteso da lui qualcosa che giustificava l'ammontare della paga: su richiesta del cieco Goldstein, il suo amante Gottlieb si era fatto tatuare sulla schiena la tavola periodica di Mendeleev in Braille.

Ad ogni modo, quando Gottlieb si spogliava davanti ad altri, nessuno capiva cosa avesse sulla schiena. Quel che era evidente per le mani del cieco Goldstein – era lí completa (e aggiornata ogni qual volta era necessario) la tavola periodica degli elementi –, per gli altri, che non attribuivano alcun significato a un tatuaggio che si poteva soltanto toccare e non vedere, quello non era un vero tatuaggio, cosí senza disegni, parole o tratti: non c'era un solo segno riconoscibile. Chi avesse osservato con attenzione la schiena di Gottlieb avrebbe visto soltanto dei segni che potevano essere facilmente scambiati per cicatrici. Una concentrazione di macchie sulla pelle che sembrava denunciare una qualche malattia sconosciuta e, per questo, quasi terribile: ecco cosa vedevano due occhi normali sulla schiena del giovane Gottlieb.


La somma che percepiva dal vecchio Goldstein, Gottlieb se la meritava tutta, non fosse altro che per il fatto di aver rinunciato una volta per tutte alla bellezza della propria schiena. Questo particolare, che in città si sarebbe potuto nascondere in circostanze normali, sarebbe comunque rimasto lí per sempre, sotto gli occhi e il tatto di qualsiasi altro amante.

Bisogna ammettere che la passività di Gottlieb non fu solo una questione di soldi. Quando Gottlieb aveva accettato di farsi il tatuaggio era innamorato del vecchio Goldstein, uomo che, per quanto cieco, conservava un fascino invidiabile.

Passati alcuni anni, Gottlieb si era pentito, ma la cosa ormai era fatta: sulla schiena portava la tavola degli elementi di Mendeleev. Sulla schiena recava allora, letteralmente, un segreto, che era anche una maledizione, da cui non si sarebbe mai píú liberato. Anche perché la mania del vecchio Goldstein per la tavola era cosí risaputa che se qualcuno, un giorno, avesse capito che il giovane Gottlieb ne aveva una sulla schiena, oltretutto con l'elemento Scandio come in rilievo – in una specie di sottolineatura tangibile –, avrebbe intuito, immediatamente, quale parte della città aveva frequentato per anni, e in segreto, il corpo del vecchio cieco Goldstein.

Ma il mondo è vasto e la vita lunga. E Gottlieb aveva molto da vivere, nonostante i segni sulla schiena.

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Pagina 119

Kashine e il NO


Kashine, il ragazzetto di sedici anni di cui sopra, di fatto decise quanto segue: spargere il no al proprio passaggio. Questa piccola parola, semplicemente, senza nessun commento: no.

Sui manifesti che annunciavano una stella del teatro, Kashine, senza farsi vedere, scrisse no.

Sul muro che divideva due proprietà, Kashine scrisse no.

Su una serie di volantini che pubblicizzavano prodotti alimentari e detersivi, con i rispettivi prezzi, Kashine scrisse no.

Sulla cassetta della posta di un condominio, Kashine scrisse no.

Sul tavolo di un ufficio delle imposte e su due sedie, senza farsi vedere, Kashine scrisse no.

Su un paio di pantaloni in un negozio di abbigliamento che, poco dopo, senza che nessuno se ne accorgesse, fu messo in vetrina, sull'estremità di questi pantaloni, Kashine scrisse no.

Su un enorme libro di legge che uno studente di Diritto aveva dimenticato sul tavolino di un bar, su molte delle sue pagine, su quante píú pagine riuscí, Kashine scrisse no.

Su diversi libri della biblioteca comunale, talvolta sul dorso, altre all'interno, su alcune pagine, Kashine scrisse no.

Scrisse no sul dorso del dizionario dei sinonimi, no sul dorso di un libro di avventura, no sulla copertina di una grammatica.

Scrisse no sulla lavagna dove c'erano ancora le tracce di una serie di calcoli algebrici.

Sopra diversi pannelli esposti in una vetrina, Kashine scrisse no.

Su un'enorme macchina che pressava ferrivecchi, Kashine scrisse no.

Sui singoli ferrivecchi, Kashine scrisse no.

Sulla base di una gru, Kashine scrisse no.

Su un'auto della polizia, tremando, di notte, Kashine riuscí a scrivere no. Tre no tutto intorno all'auto.

Sui cani randagi attaccava delle etichette, alcune cosí grandi e attaccate cosí bene al pelo dell'animale e tanto vicine alla coda che il cane quasi impazziva nel tentativo di liberarsi con i denti da quel gigantesco autoadesivo con su scritta la parola no.

Kashine scriveva no anche sui tronchi d'albero, sulle foglie, sulle vie, sui palloni da calcio, sui quaderni di scuola: no, no, no.

Sulle cartoline postali con paesaggi paradisiaci: no. Sulla prima pagina dei giornali con notizie impressionanti: no. Sui cataloghi d'arte o di abbigliamento, no.

Kashine aveva sedici anni a quell'epoca e mai nessuno capi perché andò avanti tanto tempo; intere settimane senza essere scoperto.

E in alcuni punti quel no ebbe effetti concreti, a volte strani e sorprendenti.

Alcuni effetti furono ben localizzati. Per esempio, il no sopra a un volantino pubblicitario aveva fatto pensare all'azienda che quell'annuncio non fosse esatto. E a causa di quel no, o della digestione mentale che quel no provocò, l'azienda non volle piú usufruire dei servizi dell'agenzia pubblicitaria con cui lavorava da anni.

Un altro esempio: l'autore che, per curiosità, in una libreria apri un suo vecchio libro e in rosso sopra a una pagina si trovò subito davanti un enorme no, e a quel punto si rese conto che era una scemenza, che il libro era scritto male.

Un altro esempio ancora: il legislatore la cui attenzione fu richiamata dal fatto che qualcuno aveva scritto no su una pagina del codice. Kashine, del resto, aveva scritto, come sempre, il no assolutamente a caso, non aveva nemmeno letto la legge, tuttavia il legislatore notò quel no e per lui tutto ebbe un senso: quella legge non era rigorosa, né esplicita né chiara, e non andava di pari passo con i mutamenti della società. Il legislatore decise di cambiare la legge.

Ancora: arrivò tra le mani di un politico il no sopra a un paesaggio stupendo che illustrava una cartolina. Non usava parole, ma quella cartolina era una bugia e, forse proprio per questo motivo, per il fatto di essere qualcosa di visibile, era una bugia piú grave. Chi fosse andato in quel luogo, in quel luogo esatto, avrebbe visto la quantità di spazzatura, lo spaventoso degrado del paesaggio, come se tra la foto sulla cartolina e il posto concreto e reale cui la cartolina si riferiva ci fosse la stessa differenza che esiste tra un ragazzo giovane e forte e un vecchio demente, ai suoi ultimi giorni, che a malapena riesce a camminare. L'amministratore ordinò di far ripulire quel luogo, di eseguire lavori di risanamento. In poco tempo, pensò, quel no avrebbe smesso di infastidirlo, di aggredirlo.


Insomma, i vari no che Kashine, il giovane adolescente Kashine, sparse per la città e su diversi documenti causarono innumerevoli inconvenienti.

Ci furono cambiamenti politici, legislativi, sociologici (un no sopra a un insieme di statistiche affisso alla parete di un ufficio pubblico provocò una lunga discussione e le dimissioni del capo del dipartimento). Ci fu, addirittura, un divorzio, dato che la moglie, vedendo sulle spalle del marito, di nome Kessler, un enorme NO, pensò che quel no volesse trasmettere un messaggio chiaro.

In conclusione, passati quattro mesi, a causa di vari no aleatori, la città dell'adolescente Kashine era cambiata completamente.

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Pagina 125

Kessler e la barca


L'uomo, Kessler, da cui la moglie divorziò per via dell'interpretazione che diede al NO scritto dietro la sua giacca, dopo il divorzio, essendo stato mandato via di casa, decise di ritornare sull'isola di cui erano originari i suoi genitori che, nel frattempo, erano morti.

Dai suoi genitori aveva ereditato una casetta su un'isola con meno di duecento abitanti. La città piú vicina era a piú di mille chilometri in barca.

Kessler visse lí anni tranquilli, ma a un certo punto qualcosa si complicò improvvisamente. Diversi abitanti del villaggio cominciarono a diventare pazzi, matti da legare. Per l'isolamento o per chissà quale altro motivo — l'acqua?, il cibo? —, la cosa certa è che, in pochi anni, dei duecento abitanti del villaggio solo una ventina sembrava minimamente normale.

Poco tempo dopo, la situazione peggiorò: il numero di pazzi aumentò e le conseguenze di alcune loro azioni cominciarono a farsi pericolose.

Cosí, una notte, i sette uomini che ancora avevano la testa sana — la paura era ormai tanta, alcuni pazzi andavano in giro armati, minacciavano ecc. — decisero di scappare in barca, l'unico mezzo per andarsene da lí.

Al mattino, la luce del sole illuminò la barca di medie dimensioni, cui era legata una piccola scialuppa. Sulla barca c'erano solo i sette uomini la cui razionalità non era stata scalfita. Era la nave degli uomini razionali che scappava dal villaggio dei pazzi. Gli altri, che rimanessero pure lí; in poco tempo, i sette uomini ne erano convinti, quei pazzi avrebbero cominciato ad ammazzarsi gli uni con gli altri. Non ne sarebbe rimasto nessuno.

La nave della ragione, cosí Kessler chiamava la loro barca, vagò per settimane senza meta, anche perché nessuno dei sette uomini era un marinaio. Per settimane non videro terra e le provviste iniziarono a scarseggiare. Ma questa non era la cosa più grave.

A un certo punto, Kessler cominciò a scorgere in alcuni dei sette uomini indizi preoccupanti — indizi di demenza. Kessler si avvicinò ai due uomini che, insieme a lui, sembravano resistere meglio in quella situazione-limite. Gli altri quattro stavano perdendo la ragione, a poco a poco, e uno di loro anche a una velocità vertiginosa. La barca che trasportava gli uomini razionali stava perdendo l'equilibrio.

L'accordo fu facile e l'azione cosí rapida che gli altri non riuscirono a reagire. Una notte, Kessler e i due compagni che avevano ancora la testa razionale slegarono la scialuppa e scapparono dagli altri quattro.

C'erano tre uomini in una scialuppa ora, tre uomini con la testa sana. Quella era la barca della razionalità, la barca rimasta dopo che Kessler era scappato da un villaggio aggressivo e violento, da un villaggio di pazzi. Ora, lui e altri due erano lí sulla barca della resistenza: la barchetta che trasportava la Ragione sensata, la píú nobile tra le conquiste degli esseri umani — portavano la ragione come si porta una torcia accesa.

Nel giro di pochi giorni, tuttavia, i rapporti tra i tre uomini si deteriorarono. Non c'erano né cibo né spazio e uno di loro divenne aggressivo, dimostrando scarsa lucidità e lasciando cadere, qua e là, parole che gli altri due ritennero strane e conseguenza di una demenza lieve ma pericolosa. Kessler e il suo compagno, Klein, si scambiarono uno sguardo d'intesa e, in risposta a un movimento troppo brusco del terzo uomo, Kessler e Klein inizialmente si difesero, poi però gli misero le mani al collo e finirono per stringere tanto che, a un certo punto, non ci fu più nulla da fare; se si fossero fermati, avrebbero avuto un nemico lí sulla scialuppa; se avessero continuato, sarebbero diventati degli assassini. Non c'era scelta e i due uomini ancora lucidi, i due uomini portatori ultimi della ragione (cosí si vedevano loro sempre di piú), quei due uomini dovettero uccidere il terzo, quello che ormai era pazzo. E quella notte, dobbiamo dirlo senza dirlo esplicitamente, i due uomini, dopo molti giorni di digiuno, sperimentarono qualcosa che non avevano mai osato prima.

La mattina seguente: Kessler e Klein. Due uomini lucidi, razionali, due uomini ancora umani — e ne andavano orgogliosi. Dopotutto, continuavano a essere umani.

A volte, per gioco, per testare fino a che punto le loro teste si conservassero razionali e normali, si sottoponevano l'un l'altro a piccole sfide di ragionamento logico o di pura matematica. Come se fossero bambini o imitassero un padre che parla a un figlio, Klein proponeva a Kessler una moltiplicazione e poi Kessler domandava a Klein la capitale di un certo paese. Cercavano di conservare le sfide intellettuali; tenere la testa in attività era indispensabile, se non volevano perdere quello per cui erano lí, in quella situazione, su una scialuppa, isolati da tutto, in fuga da tutto e da tutti; se non volevano, insomma, perdere la ragione. Questa è la piú bella scialuppa del mondo – attaccò a dire Kessler, ma non riuscí a finire la frase che, con un movimento assolutamente imprevedibile, Klein gli mise le mani al collo e, prendendolo alla sprovvista, non si fermò finché non capi che era morto e che lui, Klein, era ormai l'unico sopravvissuto della barca degli uomini razionali.

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Pagina 131

Klein e la pazzia


"Questa è la scialuppa della ragione!" gridò Klein, toccando terra, dove un gruppo di oltre venti persone lo aiutò a scendere dalla barca.

Klein fu ben accolto. Fu nutrito, idratato e internato in un manicomio dal dott. Koen.

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