Copertina
Autore Mirella Tenderini
Titolo La lunga notte di Shackleton
EdizioneVivalda, Torino, 2012 [2004], I Licheni 107 , pag. 228, ill., cop.fle., dim. 12,5x20x1,6 cm , Isbn 978-88-7480-180-0
LettoreElisabetta Cavalli, 2014
Classe viaggi , natura , montagna , mare
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Indice


      INTRODUZIONE                                        7

      PROLOGO    La baracca                              15

I     Quel mondo inesplorato                             19
II    La vocazione popolare di sir Clements              32
III   Il viaggio della Discovery                         43
IV    Il richiamo dei ghiacci                            55
V     Tutti gli uomini del Boss                          68

      INTERMEZZO Preparativi ai quartieri d'inverno      82

VI    L'ascensione dell'Erebus                           87
VII   La lunga notte                                     99
VIII  Il Polo mancato                                   115
IX    Qualche mese di gloria                            129
X     Il Polo raggiunto                                 141
XI    Una nuova avventura                               155
XII   L'odissea dell'Endurance                          168
XIII  Il salvataggio                                    187
XIV   L'ultima spedizione                               198

      EPILOGO    Il monumento                           207


      TESTI ORIGINALI DELLE CITAZIONI                   209
      RINGRAZIAMENTI                                    213
      BIBLIOGRAFIA                                      215
      INDICE DEI NOMI                                   221


 

 

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Pagina 7

INTRODUZIONE



Nel corso delle celebrazioni del centesimo anniversario del raggiungimento del Polo Sud (1911-2011), lo spazio dedicato al vincitore di quella che fu una vera e propria competizione, il norvegese Roald Amundsen, è stato inferiore a quello occupato dal suo rivale sconfitto, l'inglese Robert Falcon Scott, che si era messo in viaggio prima di lui ma che aveva raggiunto il Polo un mese e tre giorni dopo che Amundsen c'era già arrivato. All'epoca era in gioco anche l'orgoglio nazionale e un gran numero di inglesi affermarono — e sostengono tuttora — che Scott era stato sfortunato e che per giunta Amundsen gli aveva giocato un tiro mancino cambiando rotta per il Polo Sud mentre tutti lo sapevano in viaggio per il Polo Nord. Altri però, documenti alla mano, argomentano che Scott commise gravi errori di organizzazione e di valutazione. Purtroppo li pagò a caro prezzo: non solo con la sconfitta, ma con la perdita della vita sua e dei suoi compagni. Comunque sia andata, l'odissea della sfortunata squadra — annotata minuziosamente da Scott nel suo diario giorno per giorno fino al suo ultimo istante di vita — ha commosso generazioni di ammiratori creando un mito che va ben oltre il primato di Amundsen. Il mito persiste perché se i vincitori di primati vengono applauditi, sono solo gli eroi a essere ricordati per sempre, e nel cielo degli eroi Scott era entrato fin dal giorno della notizia della sua tragica fine.

Un terzo personaggio si è affacciato alla ribalta dei festeggiamenti; timidamente, perché ai 90° del Polo lui non è mai arrivato. Nella storia del Polo Sud tuttavia ha un posto di rilievo, perché era stato il primo a quasi toccarlo, nel 1909 quando era giunto a 88°23' di latitudine sud tracciando la via che venne seguita poi da Scott due anni dopo. A sole novantasei miglia dalla meta, Shackleton aveva deciso di tornare indietro per essere sicuro di arrivare in tempo sulla costa, dove una nave sarebbe venuta a prendere lui e i suoi compagni. Una decisione durissima, ma gli accordi erano che la nave sarebbe ripartita, dando gli uomini per dispersi, se non fossero comparsi entro una data precisa. Forse la squadra ce l'avrebbe fatta ad arrivare al Polo e a tornare in tempo, ma calcolando accuratamente i giorni a disposizione e valutando il percorso, era chiaro che eventuali bufere improvvise o qualsiasi altro incidente che l'avesse bloccata anche solo per pochi giorni le avrebbero impedito di arrivare al punto di imbarco in tempo utile. Per Shackleton la vita degli uomini di cui era responsabile era il valore primo da difendere, e non avere mai perso un uomo al suo comando fu sempre il suo massimo vanto. Meglio tornare con i suoi uomini vivi piuttosto che rischiare la loro vita, oltre alla sua, per coronare la propria ambizione. Solo chi ha l'esperienza di una rinuncia a qualcosa di immensamente importante può capire quanto debba essere costata a Shackleton la decisione di tornare indietro.

Diversa, ma compiuta allo stesso scopo di mettere in salvo i suoi uomini è la vicenda per la quale è famoso, nata da un fallimento che rischiò di volgere in tragedia, ma che grazie alla sua abilità e al suo coraggio si trasformò nella più straordinaria storia di salvataggio di tutti i tempi. Una storia che continua a essere raccontata da libri e da film che si concentrano principalmente su quell'episodio, che si svolse dopo che il Polo Sud era già stato conquistato, durante la Prima guerra mondiale, quando l'attenzione di tutti era impegnata in vicende di ben maggiore portata e la gloria di Shackleton era ormai al tramonto. Pochi, oggi, conoscono il personaggio e le sue imprese al di fuori di quella singola, incredibile avventura. Eppure fino a pochi anni prima Shackleton era stato l'idolo incontrastato delle folle e dei lettori della stampa popolare. Alla fine dell'Ottocento l'approssimarsi del nuovo secolo era stato accolto con grandi speranze ed euforia. Durante la belle époque, che in Gran Bretagna coincise con l'era edoardiana, nessuno si accorse delle nubi premonitrici di disastri che si andavano addensando. Era un'epoca caratterizzata dalla fiducia nel progresso e dalla voglia di vivere, che in Inghilterra segnò, rispetto all'austero periodo vittoriano che l'aveva preceduta, una vera e propria rivoluzione nei costumi, nella letteratura, nel comportamento e nel modo di pensare. In quell'atmosfera, Ernest Shackleton, coinvolto per caso nell'ultima avventura possibile, l'esplorazione polare, si era trovato nel suo elemento. Il suo carattere positivo, la fiducia nel coraggio e nella fortuna, uniti a fascino personale e a un non comune carisma, ne avevano fatto l'eroe edoardiano per eccellenza. Shackleton si era dedicato all'esplorazione antartica con accanimento e passione, amato e acclamato dal pubblico per la sua audacia e la sua genialità, ma anche per la sua generosità nei confronti dei suoi compagni.

Quando scoppiò la Prima guerra mondiale, vi fu bisogno di altri modelli da seguire. Milioni di uomini venivano mandati a combattere altri uomini, a ucciderli e a farsi uccidere. Per fare accettare la morte occorreva l'esempio di personaggi avventurosi periti eroicamente. Il coraggio di sapere anche rinunciare, o di rischiare la propria vita non per un ideale inculcato, ma per salvare altre vite, non era considerata una virtù utile, e Shackleton venne messo da parte per una lunghissima notte di oblio. Solo da poco si torna a parlare di lui e in questo libro, scritto otto anni fa, ho voluto riproporre il suo personaggio attraverso l'intera sua vita, raccontando anche le vicende meno note o dimenticate e mettendolo a confronto con Scott e con gli altri protagonisti di quella che viene chiamata l'era eroica dell'esplorazione polare.

Per illustrare meglio quell'epoca e quelle imprese, ho voluto parlare di un'altra lunga notte, quella dell'inverno polare: gli interminabili mesi senza luce che gli esploratori dovevano affrontare prima di poter partire verso la loro meta, a piedi con le slitte cariche. Tutte le spedizioni impiegavano l'intera estate ad arrivare con la nave al limite estremo di mare aperto prima che i ghiacci si chiudessero, e lo sverno era inevitabile. Θ difficile immaginare un'attesa così lunga, oggi, quando si può raggiungere ogni angolo del mondo al momento voluto, già pronti, attrezzati e allenati per qualsiasi impresa. Eppure quella lunga sosta obbligata non era un inutile tempo morto: tutto quello che avveniva durante quel lento avvicendarsi di giorni uguali alla notte era un preludio all'azione che sarebbe seguita, e che possiamo capire meglio se ci caliamo con i protagonisti in tutte le fasi della spedizione. Immaginare un inverno di oscurità in una baracca in mezzo ai ghiacci con Shackleton e i suoi compagni, conoscere le loro attività, i loro problemi e gli stratagemmi per sfuggire all'angoscia da isolamento e alla follia che spesso aveva condotto alla catastrofe spedizioni precedenti, è importante perché il lettore si renda conto di come quegli uomini affrontavano le lunghe marce attraverso le fatiche, la fame, le malattie e i mille pericoli. La determinazione di Shackleton quando compì la sua impresa più folle – la traversata del braccio di oceano più tempestoso del mondo in una scialuppa scoperta, seguita dalla scalata di una catena sconosciuta di montagne altissime coperte da ghiacciai – era maturata nel corso di quelle esperienze, e la fiducia illimitata dei suoi uomini in lui, guadagnata in anni di convivenza nelle situazioni più difficili, gli aveva dato una forza immensa, capace di superare l'insuperabile. Cosa che fece, per incredibile che possa sembrare.

maggio 2012

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PROLOGO
LA BARACCA



La porta principale dei quartieri d'inverno si apre a nord-ovest sul vasto panorama della Baia di McMurdo con le catene montagnose a occidente e due laghetti in primo piano. A sinistra c'è il Green Park, un grande spiazzo pianeggiante, perfetto per le partite di hockey e di football tra una corvée e l'altra. Una buona pratica per rilassarsi e tenersi in allenamento, finché c'è ancora luce. In inverno, diventerà il campo di addestramento dei cavalli al traino delle slitte. A sinistra del Green Park, un vallone conduce alla Baia del Cavallo Morto, e più in là sulla costa inizia il territorio dei pinguini. L'odore di guano giunge alle narici ancor prima di arrivarci.

I baraccamenti si trovano in un'ampia conca, relativamente protetti dai gelidi venti del sud; girando dietro l'angolo ci si trova di fronte alla massa digradante dell'Erebus che arriva, con le sue pendici, a poca distanza dalla baracca. La vetta però è lontana almeno ventiquattro chilometri e la montagna risulta schiacciata dalla prospettiva e meno imponente di quanto la sua rispettabile altezza — quasi quattromila metri — dovrebbe farla apparire. Nelle notti di luna la montagna sembra più maestosa e le ombre dei nunatak, i massi rocciosi isolati che punteggiano il ghiacciaio, relitti di creste consumate dal tempo, conferiscono al paesaggio un aspetto irreale, quasi animato. Fra pochi mesi inizierà l'inverno, il sole scomparirà completamente e gli uomini dovranno abituarsi a quello scenario bellissimo e inquietante mentre si prepareranno all'impresa per compiere la quale sono venuti fin qui: la conquista del Polo Sud.

Ernest Shackleton ha dato l'annuncio ufficiale sul Geographical Journal del marzo 1907. Θ stata la prima dichiarazione d'intenti esplicita nella storia delle esplorazioni antartiche, corredata da un piano preciso: partenza dalla Nuova Zelanda all'inizio del 1908 e allestimento di una stazione fissa per svernare sul continente antartico. Dopo avere sbarcato uomini e materiale, la nave avrebbe fatto ritorno al porto di partenza per salpare di nuovo alla fine dell'estate successiva. Il corpo di sbarco, composto da nove o dodici uomini, avrebbe trascorso l'inverno in preparativi e rilevamenti scientifici e in primavera – la primavera australe, ossia l'autunno del 1908 – si sarebbe diviso in tre squadre per effettuare diverse esplorazioni, compresa la determinazione e il raggiungimento del polo magnetico australe.

Shackleton aveva aggiunto: «Non voglio sacrificare lo scopo scientifico della spedizione a un'impresa puramente sportiva: tuttavia, lo dico francamente, compirò ogni sforzo per raggiungere il polo geografico australe».


I preparativi sono terminati. Θ stato un lavoro durissimo, alla fine di una traversata irta di complicazioni. Contemplando la magnificenza del paesaggio che si stende davanti e attorno a lui, Shackleton sente allentarsi la tensione che non lo lasciava dalla partenza. Non si potrebbe immaginare un terreno più adatto di questo per l'allestimento dei quartieri invernali. Finora non ci sono state che difficoltà, a cominciare da quelle per reperire i fondi. Ha dovuto accontentarsi di una piccola nave, solida ma con poco spazio a bordo per tutte le attrezzature e le scorte. Un vero guscio di noce, la Nimrod, con il cunicolo in cui sono stipate le cuccette battezzato dall'equipaggio Oyster Alley, "vicolo delle ostriche" («Per una ragione che non conosco», ha scritto Shackleton nel suo diario). La traversata dall'Inghilterra è andata bene, ma in fatto di spazio dall'Australia in avanti le cose sono andate di peggio in peggio. Dopo aver caricato i cani e i cavalli con la voluminosa scorta di foraggio, non è rimasto più un angolo libero né sul ponte né sottocoperta, e per risparmiare carbone Shackleton aveva dovuto fare rimorchiare la Nimrod dalla Nuova Zelanda alla Grande Barriera di Ghiaccio. E lì c'è stata la decisione che mai avrebbe voluto prendere. La scogliera di ghiaccio era altissima, liscia; attorno galleggiavano iceberg giganteschi, lastroni frantumati, instabili. Nessun fiordo, nessuna insenatura, impossibile sbarcare. Così ha dovuto rompere la promessa strappatagli da Scott, di non invadere il "suo" territorio. A ben vedere, Scott non aveva nessun diritto di pretendere quell'impegno e comunque non c'era altra scelta possibile. L'unica possibilità di sbarco era nella Baia di McMurdo. Sono finiti ancora una volta sull'Isola di Ross. Shackleton si è tenuto lontano dal campo invernale di Scott, e ha fatto bene. Il sito che ha scelto è bellissimo e offre molti vantaggi. Lo vede adesso che può fermarsi e guardarsi attorno, dopo mesi di affanno. Nemmeno qui lo sbarco è stato semplice, con quella tempesta che sembrava non voler finire mai; ci sono voluti dieci giorni per trasportare il materiale dalla Nimrod a riva, mentre una squadra cominciava la costruzione dei baraccamenti. Poi, ancora un mese per completare le strutture e per rendere ogni cosa funzionale e confortevole. Adesso è tutto pronto: la baracca centrale che sarà la loro casa, con la stufa che ronfa giorno e notte per scaldare il pentolone del ghiaccio da fondere e il bollitore dell'acqua per il tè; le scorte di viveri; gli attrezzi, gli strumenti e il necessario per vivere e lavorare; i magazzini, i depositi per le slitte, la stazione meteorologica, il garage per l'automobile, la stalla per i cavalli... Θ tutto a posto. Non resta che aspettare la lunga notte polare.

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CAPITOLO I
QUEL MONDO INESPLORATO



                            ...ogni esperienza è un arco che lascia intravedere
                                        quel mondo inesplorato il cui orizzonte
                                 sempre si allontana quando gli muovo incontro.

                                                        ALFRED TENNYSON, ULISSE



Nel 1907 nessuno dei due Poli era stato ancora raggiunto, e a differenza dell'Artico, dove una vera e propria corsa al novantesimo grado di latitudine era in atto ormai da tempo, in Antartide nessuna spedizione si era ancora azzardata a darsi come fine il raggiungimento del punto estremo dell'emisfero meridionale. Le spedizioni che si erano succedute fino ad allora dichiaravano scopi scientifici ed esplorativi; nessuna ancora si era prefissa esplicitamente come meta la conquista della "cima del mondo" in quell'emisfero.

Parlare di cima sembra particolarmente appropriato per il Polo Sud, visto che mentre al centro dell'Artico si arriva camminando in piano, sia pure attraverso un dedalo di ghiacci spezzati e accatastati dalle spinte immani della deriva, per raggiungere il cuore dell'Antartide bisogna scavalcare catene montagnose con vette che superano i quattromila metri, e il Polo stesso si trova a circa tremila metri sopra il livello del mare.

Ma doveva passare ancora qualche anno prima che entrambe le "cime" venissero raggiunte.


L'esplorazione dell'Artico era iniziata fin dal sedicesimo secolo e non fa meraviglia che venisse praticata soprattutto da navigatori inglesi. Abbattuto il predominio spagnolo sui mari con l'annientamento dell'Invincibile Armata per opera di Francis Drake e Charles Howard – complice una tempesta che distrusse gran parte delle navi – l'Inghilterra poté proseguire indisturbata a conquistare nuove terre e a stabilire commerci con i Paesi che non aveva ancora assoggettato. Contemporaneamente a Drake – a cui la regina Elisabetta I aveva concesso un brevetto di "corsa", ossia di licenza di pirateria nei confronti delle navi spagnole o comunque non britanniche, e che compì la prima circumnavigazione del mondo –, sugli oceani operavano altri navigatori inglesi, come Martin Frobisher e John Davis, che tentarono di scoprire il Passaggio di nord-ovest, una via di mare che permettesse di raggiungere il Catai dall'Atlantico costeggiando a nord le terre dell'attuale Canada. Nei secoli successivi innumerevoli tentativi vennero ancora compiuti in quella direzione, sempre per la maggior parte ad opera di navigatori inglesi, ma alla fine fu un norvegese a scoprirlo: Roald Amundsen, nel 1903. A quel punto il famoso passaggio si rivelò di nessun interesse per le comunicazioni commerciali, come già il Passaggio di nord-est, attraversato per la prima volta nel 1878 dallo svedese Nils Nordenskjold, che aveva raggiunto lo Stretto di Bering navigando dalla Norvegia lungo le coste settentrionali della Siberia. Fu tuttavia la ricerca di entrambi i passaggi a segnare le prime importanti tappe dell'esplorazione dell'Artico e a indicare la strada da percorrere per raggiungere il Polo.

Alla fine del diciannovesimo secolo, peraltro, gli scopi commerciali e di conquista avevano lasciato il posto, nelle esplorazioni, a un atteggiamento meno rapace e più sportivo, e questo non perché le nazioni fossero diventate improvvisamente più illuminate, ma perché le mappe della Terra erano già state convenientemente ridisegnate spartendo tutti i territori occupabili tra le grandi potenze, a cui ben poco rimase poi da contendersi. Se le vie d'acqua al di sopra del Circolo Polare Artico, che si pensava avrebbero permesso di risparmiare mesi di navigazione alle navi in spola tra i due maggiori oceani, erano praticabili solo in particolari condizioni favorevoli durante un periodo brevissimo dell'estate, la calotta polare veniva a perdere gran parte del suo interesse. Rimanevano i rilevamenti scientifici e il prestigio che comunque chi avesse raggiunto il Polo avrebbe conquistato alla sua nazione. E l'Inghilterra teneva molto a quel prestigio, se non altro come coronamento di tutti gli sforzi profusi in oltre tre secoli di esplorazione delle coste artiche, in stretta concorrenza con la Russia degli zar nel Seicento e nel Settecento e in condizioni quasi egemoniche nell'Ottocento fino alla comparsa sulla scena degli americani e degli scandinavi. Di questi ultimi soprattutto. Gli eredi dei vichinghi avevano non solo forzato la porta degli ambiti passaggi settentrionali, ma addirittura rivoluzionato i mezzi e i metodi per avvicinarsi al Polo, compiendo un gran balzo in avanti verso la sua conquista.

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Quella volta però non era previsto che gli uomini si fermassero a bordo: la Nimrod sarebbe partita dopo avere sbarcato un piccolo gruppo che avrebbe svernato in uno spazio ancora più esiguo, nella baracca prefabbricata, dove non ci sarebbero state separazioni tra ufficiali e marinai semplici. Gli uomini avrebbero vissuto e lavorato tutti insieme, gomito a gomito, stretti come all'interno... del vicolo delle ostriche! La cosa importante era scegliere dei compagni adatti a sopportarsi, oltre che a portare a termine il programma con il quale erano partiti.

«Il successo di una spedizione polare dipende in gran parte dal valore dei singoli uomini» scrisse Shackleton. «Ciascuno deve possedere una pratica completa della funzione che ha accettato e la resistenza per sopportare il clima. Non meno importante è che tutti abbiano un buon carattere, perché la concordia regni nella piccola comunità, e questo non è sempre facile, perché gli spiriti avventurosi che si lanciano alla conquista delle regioni vergini del globo sono di solito dotati di una spiccata individualità».

La scelta delle persone adatte a un'impresa difficile e rischiosa è sempre importante. La selezione di un piccolo gruppo è ancora più difficile, tanto più se effettuata su un numero di candidati molto alto, e Shackleton aveva ricevuto, assicurava, «non meno di quattrocento domande».


Tra le molte leggende che circondano la figura di Shackleton, c'è quella di un'inserzione sul Times così formulata:

    Men wanted for hazardous journey.
    Low wages, bitter cold,
    long hours of complete darkness.
    Safe return doubtful.

(Cercansi uomini per viaggio rischioso. Paga bassa, freddo glaciale, lunghe ore di completa oscurità. Incolumità e ritorno incerti).

L'inserzione è apocrifa, ma è riportata come vera in diversi libri (che la riferiscono a volte a questa sua spedizione, altre a quella successiva) e dà un'idea dello spirito dei tempi. Il fatto — autentico — che Shackleton abbia ricevuto più di quattrocento domande di imbarco in un'avventura comunque rischiosa quale che fosse la formulazione della sua proposta, testimonia l'incredibile popolarità che godevano le esplorazioni polari all'inizio del Novecento.


Shackleton pensava a una squadra di sbarco di dodici uomini e doveva quindi scegliere undici compagni che nell'insieme possedessero tutte le qualità per affrontare qualsiasi emergenza e le specializzazioni per svolgere i programmi scientifici ed esplorativi. «Innanzitutto» scriveva Shackleton, «volevo avere nella squadra di terra due medici, un biologo e un geologo esperti». Ma occorrevano anche un meteorologo, un meccanico, un fabbro, un carpentiere, un cuoco... Per cominciare Shackleton scelse tre uomini che conosceva già: John Boyd Adams proveniva dalla marina mercantile e aveva competenze di meteorologia; gli altri due non erano ufficiali, ma Shackleton ne aveva apprezzato capacità e carattere durante la spedizione della Discovery. Il sottufficiale Ernest Joyce e il marinaio semplice Frank Wild erano uomini pratici ed efficienti, con tendenza alle bevute e alle risse e capacità di farne a meno all'occorrenza, straordinaria abilità manuale e affidabilità indiscutibile. Entrambi avevano una vera adorazione per il Boss, che li contraccambiava con un'assoluta fiducia. Nominò Joyce magazziniere e conservatore dei reperti, nonché «capo del canile». Wild, che si dichiarava discendente di James Cook, il grande navigatore, era incaricato genericamente del magazzino viveri, ma di fatto era lui e non Adams a svolgere le funzioni di secondo di Shackleton.

Il biologo era lo scozzese James Murray, descritto dai suoi compagni come «imperturbabile e dotato di humour». I due medici, entrambi trentenni, erano Alistair Forbes Mackay, anch'egli scozzese, ufficiale medico della marina militare, ed Eric Marshall, assunto con il doppio ruolo di primo medico e di topografo. Poi c'era Bernard Day, il meccanico addetto all'automobile e agli impianti di illuminazione e di aerazione; George Marston, «artista pittore», come è scritto nell'elenco ufficiale dei partecipanti, dal temperamento angelico e con un fisico da lottatore; il cuoco, William Roberts; e due geologi: Raymond Priestley e Philip Brocklehurst. Questi ultimi avevano rispettivamente venti e diciannove anni ed erano i più giovani del gruppo. Priestley divenne ben presto il fotografo della spedizione. Per la verità tutti fotografavano, e anche piuttosto bene. Priestley aveva in più un acuto senso dell'osservazione che usò per cogliere immagini significative della vita quotidiana. Inoltre, il suo incarico di geologo gli permetteva di staccarsi spesso dai compagni per raccogliere campioni di minerali, e anche nel corso di quelle escursioni scattò un gran numero fotografie. Alla fine della spedizione le raccolse tutte in un album annotandole con lunghe didascalie spesso divertenti.

Brocklehurst, o meglio «sir Philip Brocklehurst, baronetto, geologo aggiunto, incaricato delle osservazioni correnti» sempre per citare la lista ufficiale, era tanto affascinato dal personaggio avventuroso e un po' piratesco che Shackleton aveva finito con il cucirsi addosso, che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di partire con lui. Era ancora minorenne e sua madre, molto ricca oltre che comprensiva «pagò il biglietto per la sua cuccetta» contribuendo ai costi per la spedizione. «Θ un baronetto, ma è un bravo ragazzo» diceva di lui Shackleton. Il giovane era volenteroso, atletico e resistente: sarebbe stato un elemento su cui contare nelle spedizioni più faticose. E poi studiava geologia a Cambridge. Anche Priestley era ancora studente, all'Università di Bristol, e perciò, a ben guardare, nessuno dei due poteva dirsi esperto in materia. Sul fronte della geologia Shackleton non poteva dirsi del tutto soddisfatto. Le ricerche mineralogiche avevano una grande importanza nelle spedizioni antartiche perché l'ultima terra da esplorare rimasta sul pianeta era completamente disabitata e inabitabile, e l'unico vantaggio che avrebbe potuto venire a una nazione dal suo possesso poteva essere soltanto lo sfruttamento di giacimenti minerari. Inoltre Shackleton, ossessionato dai debiti, non disperava di mettere mano personalmente su qualche giacimento di valore.

Quando la Nimrod fece sosta in Australia, si aggiunsero altri tre partecipanti: Bertram Armytage (da non confondere con l'Albert Armitage della Discovery) e, con grande soddisfazione di Shackleton, due veri geologi: Douglas Mawson, insegnante di mineralogia e petrografia all'università di Adelaide, e un altro illustre docente universitario, J.W. Edgeworth Davis, che avrebbe dovuto accompagnare il gruppo soltanto fino ai quartieri d'inverno, ma che si fermò per l'intera durata del viaggio. Il professor Davis aveva cinquant'anni ed era di gran lunga il più anziano del gruppo, il che non gli impedì di partecipare a tutte le fatiche e di guidare con successo le più importanti attività esplorative. «Non sarà mai riconosciuto abbastanza il valore della sua collaborazione» scrisse Shackleton nel libro della spedizione.

C'era un altro uomo che Shackleton avrebbe voluto con sé a terra: il primo ufficiale della Nimrod, Ζneas Mackintosh, del quale aveva avuto modo di apprezzare le capacità durante la traversata. Mackintosh andò fuori di sé dalla gioia quando il capo gli annunciò la sua decisione, ma dovette rinunciare a causa di un incidente. Nel libro della spedizione, Shackleton aggiunse il suo ritratto nella doppia pagina con le fotografie degli uomini della squadra di terra, e si ricordò di lui anche in seguito, per un incarico di grande responsabilità.


Come già la Discovery, anche la Nimrod, partita da Londra alla fine di luglio, fece scalo a Cowes durante la regata annuale e come in una scena déjà vue, re Edoardo VII insignì il capospedizione con l'ordine della Regina Vittoria di Quarta Classe. Questa volta però la cerimonia fu più solenne, perché la regina Alessandra consegnò a Shackleton una Union jack – la bandiera britannica – da piantare al Polo. La meta era ormai consacrata.

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Tutto sommato erano stati fortunati. Era il 7 dicembre e marciavano ormai da più di un mese a una media di ventidue chilometri al giorno. Shackleton aveva congedato la squadra di supporto il 7 novembre. Da allora avevano proseguito da soli, per giorni uguali l'uno all'altro, in un paesaggio che sembrava sempre lo stesso. A volte una bufera di neve li teneva bloccati in tenda tutto il giorno. Le due tende – di tela verde, per combattere il riverbero – erano piuttosto rudimentali, del tipo usato da Scott sei anni prima. In una stavano Shackleton e Adams, nell'altra Wild e Marshall. Ciascuno aveva un sacco a pelo, che fungeva da tana, rifugio, casa. Ficcato dentro il sacco, Shackleton compilava ogni giorno il suo diario, e nelle lunghe soste forzate leggeva le commedie di Shakespeare. «Oggi ho finito La bisbetica domata»... Marshall si era portato la Bibbia in Spagna di Borrow, Adams i Viaggi in Francia di Young e Wild gli Schizzi di Boz. Avevano con sé una piccola scorta di tabacco, che nelle giornate di inattività subì un duro colpo. Uno dei quattro uomini, in sosta o in marcia, era addetto alla cucina, a turni di una settimana ciascuno dai quali non era esente il Boss. E la tenda del cuoco di turno fungeva anche da sala da pranzo. Ben presto l'abilità maggiore del cuoco consistette nel fare miracoli con le razioni sempre più ridotte... Rimpiansero amaramente la perdita di Socks, scomparso nel crepaccio: gli altri tre cavalli erano stati macellati in tutta fretta, appena abbattuti, prima che il gelo li irrigidisse. Si riuscirono a recuperare solo le cosce, le spalle e qualche pezzo di schiena. Una parte venne lasciata, con un segnale, come deposito viveri per il ritorno. La carne restante venne consumata durante la marcia cruda, appena riscaldata – perché anche il carburante per i fornelli cominciava a scarseggiare – il che non impedì a tutti di masticarla voracemente.


Erano circondati da montagne, ma procedevano a testa bassa, occupati a evitare sastrugi e crepacci, e quasi non le vedevano. Procedevano a fatica, tormentati dall'oftalmia che strappava dai loro occhi lacrime che si solidificavano in ghiaccioli sulla barba. Avevano portato occhiali colorati, arancione e verdi, per combattere i raggi ultravioletti, ma dovevano toglierli spesso per scrutare le asperità del terreno ghiacciato rese invisibili dall'assenza di ombre, e il riverbero li colpiva senza pietà. Avevano perennemente la sensazione di avere sabbia negli occhi, e di procedere in un mondo non di questa Terra. Nel diario di Shackleton ricorrono descrizioni dello straniamento prodotto dalla natura circostante sull'animo di ciascuno: «Questa immensa distesa di ghiaccio e di neve è così irreale così diversa da tutto ciò che esiste in altre parti del mondo, che è impossibile descriverla con parole adeguate. A tratti mi vengono alla mente i versi di Coleridge nel Vecchio marinaio: "Solo, solo, completamente / solo nel vasto, vasto mare...". E quando pesanti coltri di nubi si alzano da un punto dell'orizzonte e passano silenziosamente sopra di noi senza che si avverta la minima brezza, proviamo una sensazione inesprimibile di estraneità. Poi, tutto a un tratto, ci accarezza un soffio leggero proveniente a volte da nord, a volte da sud, a volte dall'est o dall'ovest: qui i movimenti dell'aria non sembrano obbedire ad alcuna legge. Si ha l'impressione di essere al limite estremo del mondo, nel luogo in cui nascono tutti i venti. Sembra di essere osservati con occhi gelosi da tutte le forze della natura...».


Il 22 novembre avevano avvistato una nuova terra, che si estendeva, apparentemente non interrotta da ostacoli, verso il Polo. Lo stesso giorno vi fu una sosta più lunga del solito per cavare ad Adams un molare guasto che lo tormentava da giorni. Senza gli strumenti necessari, l'operazione fu un vero disastro, il dente si ruppe e il povero Adams soffrì le pene d'inferno fino alla sera dell'indomani, quando Marshall riuscì, con maggiore impegno e fortuna, a sradicargli dalle gengive i frammenti rimasti. «Meno male» commentò Shackleton, «così anche Adams può masticare le sue razioni di cavallo».

Il 26 novembre superarono la latitudine sud raggiunta da Scott nel 1902 e per sera arrivarono a 82°18'30". Ora stavano sensibilmente salendo e ogni giorno scoprivano nuove montagne attorno a loro. Il tempo era bello; di giorno faceva caldo e marciavano vestiti del solo pigiama, ma i piedi affondavano nella neve molle ed erano costantemente freddi se non gelati.

Il terreno si faceva sempre più accidentato. Ora erano su un grande ghiacciaio, alle prese con difficoltà ben superiori a quelle incontrate sulla Barriera. Shackleton lo battezzò Beardmore, in omaggio al suo principale sostenitore. Θ uno dei ghiacciai più estesi del mondo.


Dopo il 7 dicembre, quando Socks finì nel crepaccio, nonostante la perdita totale e definitiva di aiuto per trainare le slitte, riuscirono a continuare a un ritmo di una ventina di chilometri per tappa. Anche il 10 dicembre percorsero diciotto chilometri nonostante una serie di «cadute, contusioni, scorticature, crepacci, ghiaccio tagliente, e terribile fatica a trainare la slitta...». Poi cominciarono a rallentare, costretti a infiniti, tortuosi giri nel labirinto dei crepacci. Bisognava alleggerire ulteriormente il bagaglio, già sacrificato in precedenza per l'allestimento di piccole scorte in funzione del ritorno. Il 16 dicembre lasciarono un altro deposito con tutti i vestiti di ricambio e viveri per quattro giorni. Continuavano a salire su un ghiaccio azzurro, quasi trasparente. Non c'era neve sufficiente per fissare i teli della tenda al terreno e usarono quello che poterono – le slitte, le casse... Ma il vento gelido soffiò all'interno per tutta la notte. Il 17 dicembre, dopo la cena, Wild si diverti a "riscaldarsi" scalando le rocce a sud del campo e tornò con la buona notizia che al di là delle creste aveva visto stendersi un altopiano all'apparenza regolare. Forse le loro sofferenze stavano volgendo alla fine.


Invece dovettero penare ancora a lungo, innalzandosi ogni giorno di qualche centinaio di metri e aggirando crepacci e sastrugi. L'altopiano sembrava allontanarsi. A Natale raggiunsero la latitudine sud di 85°55'. Erano a 2895 metri di altezza e per tutto il giorno la temperatura si aggirò tra i 25 e i 26 gradi sotto zero. Festeggiarono con un hoosh sontuoso di carne di cavallo bollita con pemmican e mais. Avevano portato un piccolo dolce natalizio e si concessero persino un goccio di gin e un cucchiaio di sciroppo di menta. E gli ultimi sigari – «un festino degno di Lucullo»! Dopo di che fecero l'inventario delle scorte e decisero di ridurre ulteriormente le razioni.

L'indomani riuscirono a percorrere 23 chilometri. Il 29 dicembre erano saliti a 3142 metri e il terreno comin- ciava ad appiattirsi. Gli uomini procedevano più velocemente, ma gli effetti dell'altitudine si facevano sentire con mal di testa costante, emorragie nasali e spossatezza. Trainare le slitte era sempre più penoso nonostante il peso fosse ormai ridotto a 70 chili ciascuna — un quarto di quello alla partenza. E la fame, la fame! Ormai i viveri rimasti sarebbero bastati appena per tre settimane — e le gallette solo per due. «Non succedeva mai, neppure per un istante, che non fossimo affamati». Il 4 gennaio lasciarono un altro deposito viveri alleggerendo le slitte a 45 chili per fare un ultimo, disperato sforzo verso il Polo. Durante la notte la temperatura scese a meno 31 gradi.


Fino a quel momento Shackleton aveva creduto nel successo, a cui aveva teso con tutte le sue forze, e nonostante incidenti e peripezie, fatiche e fame, era riuscito a tenere sempre alto il morale del suo piccolo ma eterogeneo gruppo, unito dalla totale fiducia che ciascuno degli uomini riponeva in lui. Ora si trovavano a poco più di cento miglia dal Polo — meno di duecento chilometri. Se tutto fosse andato bene, se avessero potuto essere certi di non rimanere bloccati da qualche tempesta forse avrebbero potuto farcela... Venti giorni... No: quindici, per arrivare al Polo... forse dieci... Razionando i viveri, forse ce l'avrebbero fatta. Ma poi, il ritorno?

Nel diario pubblicato al suo rientro, Shackleton non lascia mai trapelare i dubbi e le preoccupazioni, che pure dovevano averlo tormentato. Per lui, lo sapeva benissimo, questa era l'unica e ultima possibilità di arrivare al Polo. Sei anni prima aveva fallito, vinto dallo scorbuto — ma anche gli altri, Scott e Wilson, avevano rinunciato. Questa nuova spedizione era la sua rivalsa e la sua occasione di arrivare per primo; per realizzarla aveva mosso cielo e terra e si era indebitato per una somma che non avrebbe mai potuto restituire se non fosse tornato con la vittoria in tasca. Questo gli era sempre stato chiaro e aveva dedicato al successo che non poteva permettersi di lasciarsi sfuggire ogni atto della minuziosa preparazione, ogni istante dell'allenamento meticoloso e della paziente attesa nella lunga notte australe.

Poi si erano messi in marcia e i novantuno giorni preventivati si erano rivelati insufficienti. La Nimrod doveva già essere arrivata a Capo Royds e lui stesso aveva lasciato disposizioni che non si fermasse oltre il 10 marzo. Ce l'avrebbero fatta a proseguire verso il Polo e a tornare alla base in tempo? E come si sarebbero nutriti per tutti i giorni in più? Sul continente antartico non c'è forma di vita: nessuna speranza di brucare muschi o licheni o di abbattere un qualsiasi animale se non nelle vicinanze del mare... Fino a quel momento, nonostante la perdita dei cavalli, l'oftalmia e la fame, erano ancora tutti in salute; stanchi, forse un po' indeboliti da una dieta insufficiente, ma ancora in buona forma fisica e di spirito. Pronti a proseguire forzando le tappe. Ma quanto avrebbe pesato il prolungarsi della fatica, dell'esposizione al gelo e della denutrizione?

Chissà da quanti giorni ormai Shackleton stava rimuginando questi dubbi nella sua testa mentre annotava nel suo diario temperatura, altitudine e chilometri percorsi. Il 2 gennaio ebbe un cedimento e scrisse: «Dio è testimone delle nostre pene. Θ inutile nascondercelo: se la pista non migliorerà e se il terreno continuerà a salire, la situazione diventerà grave. Al ritmo con cui marciamo, i viveri non saranno sufficienti per arrivare al Polo e tornare al primo deposito. Non voglio ancora pensare alla possibilità di uno scacco, ma poiché sono responsabile della vita dei miei tre compagni, devo esaminare la nostra situazione lucidamente. Se dobbiamo continuare ancora per molto, il ritorno su questa neve che non regge sarà impossibile e allora tutti i risultati della spedizione andranno perduti...».

Tra una possibile vittoria con rischio per le vite di cui si era fatto carico e un sicuro insuccesso ma maggiori probabilità di sopravvivenza, Shackleton infine scelse senza esitazione. Altri in seguito fecero altre scelte. Il vanto di Shackleton, che non raggiunse mai il Polo, fu sempre quello di non avere mai perso uno solo dei suoi uomini.


Il 6 gennaio decise che il giorno dopo avrebbero compiuto l'ultimo sforzo simbolico: poche miglia ancora prima di fare ufficialmente dietro-front, ma una tempesta di neve li tenne bloccati nelle tende per sessanta ore. Il 9 gennaio 1909, alle quattro di mattina, partirono verso sud portando soltanto le bandiere. Erano due: una era quella in loro dotazione, e l'altra era stata data a Shackleton dalla regina Alessandra, a Cowes. Le piantarono a 88°23' di latitudine sud, a 162° di longitudine est.

Shackleton aveva battuto il record di Scott, ma aveva mancato il Polo, dal quale lo separavano solo novantasei miglia.

Presero possesso dell'altopiano in nome del re d'Inghilterra, quindi, compiute le misurazioni e scattata una foto, tornarono sui loro passi verso nord.

«Per quanto rimpiangessimo di non avere raggiunto la nostra meta, avevamo la coscienza di avere compiuto il nostro dovere».

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Fino a quel momento avevano vissuto alla giornata. Shackleton aveva fatto di tutto per allontanare qualsiasi discorso sul futuro così da evitare la constatazione che, per loro, di futuro non ce n'era. L'abbandono di ogni speranza avrebbe significato sconforto e follia. La fine. Bisognava fare qualcosa. Lui doveva fare qualcosa. Ci pensava da tempo, e adesso aveva deciso. Si sarebbe messo in mare con pochi compagni e avrebbe raggiunto una terra abitata da dove avrebbe potuto tornare con dei soccorsi. Il porto più vicino, Port Stanley, nell'arcipelago delle Falkland, distava poco più di cinquecento miglia, ma con una fragile scialuppa non c'era alcuna possibilità di affrontare i venti di nord-ovest. L'unica alternativa era tornare là da dove erano partiti, nella Georgia Australe, lontana settecentoquaranta miglia, ma con venti e correnti meno ostili da affrontare. Bisognava affrettarsi: fra poco il mare si sarebbe chiuso. L'impresa poteva sembrare disperata, ma Shackleton si diceva che, anche se avesse fallito, per gli uomini rimasti sull'isola sarebbe stato meglio avere meno bocche con cui dividere gli scarsi viveri a disposizione, dopo che anche le foche fossero sparite e non ci fosse stato più nessun animale da abbattere... Shackleton aveva sempre avuto fede nella sua buona stella; anche questa volta ci credette, e la fortuna l'assisté.


Per prima cosa bisognava attrezzare una scialuppa e renderla il più possibile resistente. Non si trattava più di navigare in canali tra i ghiacci, ma di affrontare le onde e le tempeste dell'Oceano Australe. Delle tre scialuppe dell' Endurance, la più grande e più resistente era la James Caird. Prima di lasciare Ocean Camp, il carpentiere l'aveva già rinforzata con del legname recuperato dall' Endurance, alzando le murate e costruendo una specie di ponte alle due estremità, il che l'aveva resa molto più sicura delle altre due scialuppe. Per navigare in mare aperto, però, avrebbe dovuto essere ancora più solida e più pesante, e sull'Elephant Island non c'era un albero né un solo pezzo di legno trascinato dalla corrente sulla spiaggia. Sacrificarono una slitta e smontarono le strutture di rinforzo che erano state applicate a un'altra scialuppa, la Dudley Docker, per irrobustire lo scafo. McNeish diede prova di tutta la sua abilità. Usò anche l'albero maestro della Stancomb-Wills — la terza scialuppa — fissandolo per il lungo attraverso lo scafo della James Caird perché potesse offrire maggiore resistenza alle onde e, non avendo legno per costruire un vero ponte di coperta, mise tutti al lavoro a ricoprire quello che c'era con un telo fatto con i pezzi di stoffa recuperabili, cuciti assieme, e "incatramato" con un miscuglio di grasso di foca e fuliggine per renderlo impermeabile. Marston si privò dei suoi preziosi colori a olio per verniciare le superfici di legno che più ne avevano bisogno... Anche alcune coperte vennero sacrificate e cucite per farne sacchi pieni di sabbia da usare come zavorra a cui vennero aggiunti sassi e blocchi di ghiaccio che sarebbero serviti anche per ricavarne acqua.

Il "comandante" della James Caird sarebbe stato, naturalmente, Frank Worsley. Era lui lo skipper e c'era bisogno di una grande abilità come la sua per affrontare quell'impresa senza quasi nessuno strumento e solo un simulacro di carta nautica come unico ausilio! Invece Shackleton lasciò sull'isola Frank Wild a fare le sue veci, e anche questa fu una decisione logica. Con sé prese Mc-Neish, perché un carpentiere a bordo sarebbe stato utile e un piantagrane in meno sull'isola gli avrebbe dato minori preoccupazioni, e per lo stesso motivo optò per John Vincent, il nostromo della nave, che aveva mostrato in più di un'occasione una certa fragilità psicologica e tendenza alla rissa. Scelse poi un marinaio semplice, Tim McCarthy, e il secondo ufficiale Tom Crean, entrambi irlandesi, forse per il solo piacere di avere con sé due conterranei.

I medici sarebbero rimasti tutti e due a terra. Prima o poi avrebbero dovuto operare il piede di Blackborrow che stava andando in cancrena, e di malati comunque ce ne sarebbero stati di più sull'Isola dell'Elefante che in pieno oceano.

Sulla James Caird vennero caricati viveri per un mese, sei sacchi a pelo, fiammiferi, calze spaiate, un fornello, petrolio, candele e una fiaschetta di olio di balena. La barca prese il mare il 24 aprile a mezzogiorno e mezzo, accompagnata da grida di augurio colme di speranza.


Su questa traversata in scialuppa scoperta si è molto scritto da parte degli stessi protagonisti, dei loro biografi e di altri autori, tanto che sembra superfluo descriverla ancora una volta. Anche perché nessun racconto può comunicare l'emozione del resoconto di Shackleton in South o di quel capolavoro della narrativa di avventura che è Shackleton's Boat Journey, di Frank Worsley. Shackleton è tuttora famoso soprattutto per quel viaggio, quell'avventura "impossibile" che solo un pazzo o un santo avrebbe potuto concepire. Shackleton non era pazzo né santo: sapeva di rischiare molto, ma la sua decisione non era irrazionale. C'era un margine di probabilità di riuscire, quindi si poteva riuscire, e dunque lui, Shackleton, sarebbe riuscito. Non aveva forse, un giorno, sognato di compiere un «open boat journey», un grande viaggio per mare su una barca scoperta? Ecco, l'occasione era giunta, e con un ottimo scopo.

La traversata durò quindici giorni, in quella fragile barca sbatacchiata dalle onde del mare più tempestoso della Terra. Quindici giorni con gli uomini continuamente aggrappati a qualcosa per non essere strappati via dalle onde mentre erano impegnati a manovrar le vele, a buttar fuori acqua, con i secchi e con una pompa, seguendo dei turni senza senso, perché comunque era raro che non fossero tutti e sei occupati ogni momento del giorno e della notte. Ma Shackleton sapeva quanto l'esistenza di tabelle e di orari, per difficili che fossero da rispettare, comunicasse un'idea di normalità, e quindi di sicurezza. Così ogni giorno, alle otto del mattino, si faceva colazione con latte caldo, due biscotti e alcune zollette di zucchero; all'una c'era la seconda colazione con una zuppa di estratto di carne Bovril e latte freddo; alle cinque ovviamente si prendeva il tè, e ancora una bevanda calda durante la notte. Un vero lusso. Per fare funzionare il fornello Primus occorrevano due uomini che lo tenessero fermo tra le gambe, mentre altri due badavano che la casseruola non cadesse e che gli spruzzi d'acqua salata non vi finissero dentro e non spegnessero il fornello. Gli uomini naturalmente erano sdraiati – non si poteva stare né in piedi né seduti – e il primo che finiva la sua razione si affrettava a strisciar fuori dal precario riparo per prendere il posto del timoniere e permettergli di rifocillarsi a sua volta. Erano sempre fradici. Nei rari momenti in cui compariva il sole, appendevano i sacchi a pelo in alto sull'albero maestro perché si asciugassero un poco. Per l'azione dell'acqua salata e dell'alternarsi di gelo e disgelo, la pelliccia di renna all'interno dei sacchi si stava disfacendo e c'erano peli dappertutto, che volteggiavano nell'aria e finivano inevitabilmente nel pentolone della zuppa. Questo era un problema anche sull'isola, bisogna dire, e l'unico inconveniente igienico-culinario a cui nessuno riuscì mai ad abituarsi. Ma sulla scialuppa non soffrirono la fame. Shackleton non lesinò mai i viveri e non fece mancare mai il conforto di un biscotto, di latte caldo, di qualche zolletta di zucchero. Era sicuro di raggiungere la Georgia Australe prima dell'esaurimento delle scorte, oppure pensava che comunque, se fosse andata male, le scorte non sarebbero servite a nessuno? Solo l'acqua venne razionata, gli ultimi giorni. Da tempo non c'era più ghiaccio galleggiante da raccogliere, e quello di zavorra era finito. Patirono la sete, quella sì, la terribile sete di chi sta in mezzo all'acqua salata. E Shackleton aveva la sciatica; soffriva orribilmente, ma non si tirò indietro in alcuno dei lavori. Non avrebbe mai permesso che la sua debolezza deprimesse il morale del gruppo.

Il genio della James Caird era Worsley: di rado le nubi lasciavano spazio in cielo per poter prendere la posizione, ma nonostante i lunghi intervalli tra un rilevamento e l'altro riuscì sempre a mantenere la rotta corretta. La nona notte la barca venne investita da un'onda gigantesca. Shackleton aveva appena dato il cambio allo skipper quando vide uno squarcio di luce tra le nubi. Ma non era luce! Era il biancore della cresta di spuma dell'onda più grande che avesse mai visto in ventisei anni di navigazione. Fece appena in tempo a urlare: «Tenetevi per Dio!», che la barca venne sollevata come un turacciolo.

«Fummo travolti da un turbine d'acqua sopra e tutt'attorno a noi» racconta Worsley nel suo libro «e pensammo di essere sommersi. La barca era piena d'acqua. Noi cinque uomini afferrammo ogni arnese che riuscimmo a trovare sottomano e ci demmo a svuotare, sbadilare, spingere acqua fuori bordo come matti, mentre Shackleton al timone reggeva la barca contro il vento [...] Ma almeno per cinque minuti non fu chiaro se ce l'avremmo fatta o no».

L'indomani riuscì a prendere misurazioni con il sole, aggrappato all'albero con un braccio e spingendosi in fuori con il sestante nell'altra mano. La rotta era corretta e avevano percorso quattrocentonovantasei miglia. Il dodicesimo giorno calcolò di essere a centoquindici miglia dalla costa dalla Georgia Australe. Erano tutti euforici, tranne Vincent, al quale erano improvvisamente crollati i nervi. Non ci fu modo di scuoterlo.

Si stavano avvicinando alla terraferma: uccelli di ogni specie si facevano sempre più numerosi attorno alla barca. Era difficile, in mancanza di carte nautiche precise, raggiungere la riva senza andare a sbattere contro scogli sommersi che sicuramente abbondavano al largo dalla costa.

«Terra, terra!» gridò McCarty a mezzogiorno e mezzo dell'8 maggio. Ci vollero ancora due giorni per riuscire a prendere terra. La barca aveva perso l'ancora, strappata via dal ghiaccio il sesto giorno di navigazione, e ci volle l'abilità di Worsley e l'aiuto di tutti – meno il povero Vincent, ormai ridotto a un peso morto – e anche molta fortuna, per approdare su una spiaggia sabbiosa. A pochi passi da loro scorreva un ruscello. Si gettarono in ginocchio e bevvero a lunghi sorsi.

«Fu un momento splendido».

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