Copertina
Autore Tiziano Terzani
Titolo La porta proibita
EdizioneSuperpocket, Milano, 1999 [1984], 74 , Isbn 88-462-0086-1
LettoreRenato di Stefano, 1999
Classe viaggi , storia contemporanea , paesi: Cina
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Indice


Prefazione all'edizione 1998             7
Prefazione                              13

 1. «Liberi di volare, ma solo in gabbia»
    La Cina di Deng Xiaoping            17

 2. La morte dei mille tagli
    La distruzione di Pechino           25

 3. «Il cielo è alto e l'imperatore
    lontano»
    Xinjiang: la provincia ai confini
    con l'Unione Sovietica              66

 4. Il regno dei topi
    La Manciuria: base industriale
    della Cina                          80

 5. Voci celesti
    Giochi cinesi con grilli e
    piccioni                           106

 6. «Se i contadini sono contenti,
    l'impero è stabile»
    Lo Shandong e la fine delle
    Comuni Popolari                    112

 7. «Costruire per cento anni»
    La vecchia colonia di Qingdao      136

 8. «Insegniamo loro a non ribellarsi»
    Qufu: dove nacque Confucio         142

 9. «Come cani dalle ossa rotte»
    Il Tibet dopo trent'anni di
    occupazione cinese                 146

10. «Lo accoltellai quattro volte
    ed ero felice»
    Shanzi: comunismo contro
    cultura tradizionale               167

11. «Ottimo per l'individuo,
    ottimo per la patria»
    La rinascita delle arti marziali   190

12. «Il miglior bambino è
    un bambino morto»
    La politica per il controllo
    delle nascite                      202

13. Disciplina nel «Campo
    dell'erba profumata»
    I miei figli scrivono
    della loro scuola cinese           211

14. «Ben vengano i capelloni»
    Shenzhen e Canton:
    esperimenti col capitalismo        222

15. «Allah ci ha dato un cuore solo»
    Kashgar: Cina e Asia centrale      229

16. «Ammazza un pollo
    per far paura alle scimmie»
    Le esecuzioni di massa             245

17. «I cinesi non sono abituati
    a vivere senza un imperatore»
    La campagna contro
    l'inquinamento spirituale          250

18. «E ora cominciamo
    con la tua rieducazione »
    La mia espulsione dalla
    Repubblica Popolare Cinese         259


 

 

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Pagina 21

Questo è ciò che l'Occidente, nell'entusiasmo d'aver riscoperto la Cina come un enorme mercato e anche come un potenziale alleato contro l'Unione Sovietica, tende a dimenticare: la Cina di Deng Xiaoping è e vuol restare un paese comunista. Come tale, il sistema cinese ha alla lunga molta più affinità col sistema sovietico che con quello europeo, americano o giapponese. Così come la sinistra si fece incantare dal maoismo, la destra si fa oggi incantare dal denghismo. I cinesi restano i più grandi illusionisti del mondo. Solo l'illusione cambia.

Mao morì il 9 settembre 1976. Un mese dopo, nel corso di un ben concepito e ben eseguito colpo di Stato da parte della vecchia guardia nel partito e nell'esercito, venne arrestata quella che i cinesi e per questo tutti gli altri ora chiamano la «Banda dei Quattro». Un punto però deve essere chiaro: la Banda dei Quattro come tale non è mai esistita ed è una pura invenzione di Deng Xiaoping per poter addebitare tutti i crimini della Rivoluzione Culturale a un numero limitato di persone, appunto quattro, fra cui la vedova di Mao, invece che al vero colpevole, cioè il Partito Comunista cinese con i suoi milioni di membri.

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Pagina 25

2. La morte dei mille tagli
La distruzione di Pechino

C'ERA una volta, in un paese lontano, una bellissima città. Aveva ricchi palazzi, splendidi templi, coloratissimi archi di trionfo, magnifici giardini e migliaia di armoniose case grigie, ognuna costruita attorno a un tranquillo cortile, tutte allineate lungo lo scbema regolare di strade e vicoli come su una scacchiera. Tutto attorno, per ventisei chilometri, aveva alte mura, imponenti. Le mura avevano magnifiche porte, a guardia delle quali stavano dei leoni di pietra. Era una città sacra, costruita sul bordo di un deserto, secondo un progetto che era venuto direttamente dal Cielo.

La città aveva un magico incantesimo. Possedeva un fascino cui era impossibile sfuggire. «Pechino è l'ultimo rifugio dello sconosciuto e dei meraviglioso che esista al mondo», scriveva Pierre Loti nel 1900. «Una città che incute rispetto», la definì Arnold Toynbee nel 1930.

Nel 1949, quando i comunisti la presero, Pechino era ancora una città unica al mondo: un grande esempio di architettura, una città di struggente splendore che pareva fatta per vivere in eterno. Non è più così.

Pechino muore.

Le mura sono scomparse, le porte sono scomparse, gli archi sono scomparsi. Scomparsa è la maggioranza dei templi, dei palazzi, dei giardini e ogni giorno che passa una fetta in più della secolare Pechino se ne va sotto i colpi inesorabili dei picconi e delle ruspe.

La città ha perso quel suo ordine interno che era fatto per rispecchiare la geometria dell'universo. Dove un tempo c'erano armonia e perfezione, ci sono confusione e caos.

«Se Venezia affonda, tutto il mondo piange e protesta. Se Pechino scompare, nessuno ci fa caso», dice Philippe Jonathan, un giovane urbanista francese che lavora all'Università Qing Hua e che conduce per ora, quasi da solo, una campagna per «salvare Pechino». «Le sorti di questa città dovrebbero interessare tutti, perché la grandezza di Pechino non è una questione soltanto cinese; appartiene alla cultura del genere umano.»

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Pagina 112

6. «Se i contadini sono contenti, l'impero è stabile»
Lo shandong e la fine delle Comuni Popolari

[...]

«Dobbiamo tenere i nostri operai migliori in stanze separate, altrimenti vengono attaccati dagli altri», spiega senza alcuna reticenza Qi Keqian, direttore della fabbrica di ricami a Shidao. Gli «operai-modello» vengono usati per stabilire i tempi del cottimo e per i controlli di qualità. Gli altri non li vedono di buon occhio, ora che la fabbrica ha adottato il sistema della responsabilità e che aumenta la paga a chi lavora di più e meglio.

Lo smantellamento delle Comuni, la messa al bando dell'«egualitarismo» e in genere la reintroduzione dell'interesse privato nella vita cinese hanno dato il via a un gioco completamente nuovo in cui alcuni hanno da guadagnare, altri da perdere. La domanda che frulla nella testa di tutti, specie nelle campagne dove il sistema, in genere, ha dato buoni risultati, è: «Quanto durerà?»

«A lungo. A lungo», ha risposto il Quotidiano del Popolo cercando di convincere i contadini a investire nella terra che è stata data loro in cambio di una quota fissa di produzione. Ma lo stesso Quotidiano del Popolo nel 1959 scrisse: «... fissare una quota di produzione sulla base del nucleo familiare è un modo retrogrado e reazionario di fare le cose».

Xue Muqiao, il principale consigliere economico di Deng Xiaoping, ha scritto che la collettivizzazione del passato era sbagliata perché fatta «prematuramente» e che per questo è stato necessario «correggere quell'errore facendo per il momento un passo indietro».

Il discorso è fin troppo chiaro, e la conclusione è che tutto ciò che oggi viene concesso domani dovrà essere tolto. Gli alti e bassi della politica cinese non sono affatto finiti, come alcuni ottimisti, specie stranieri, credono. I cinesi che conoscono bene il loro sistema proprio perché ricordano l'alternarsi di liberalizzazione e collettivizzazione, di piccole concessioni e grandi repressioni del passato, cercano, ognuno a suo modo, di migliorare quel che hanno e di dimenticare tutto il resto.

La gente di qui ha un suo modo di riassumere la storia di questi trent'anni:

    «Negli anni '50 ci si aiutava
     negli anni '60 ci si ammazzava
     negli anni '70 ci si temeva
     negli anni '80 ognuno non pensa
                           che a sé».

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Pagina 146

9. «Come cani dalle ossa rotte»
Il Tibet dopo trent'anni di occupazione cinese

IMPRESSIONANTE. Maestoso. Inquietante. Il Potala, fortezza di pietra, paglia e oro arroccata su una montagna di roccia, sorge, come un incantesimo, nel mezzo della valle di Lhasa, simbolo dell'umano desiderio di arrivare al cielo, straordinario monumento eretto da schiavi per i loro re-dei.

Da secoli milioni di pellegrini, invasati dalla sola speranza di questa visione, hanno viaggiato per mesi e mesi a piedi pur di vedere questa valle, e molti sono morti prima di raggiungerla. Missionari e avventurieri occidentali, che avevano solo sentito parlare di questo mitico posto al di là di inaccessibili montagne di ghiaccio, si misero in cammino affascinati da questa sacra, isolata lontananza volendo svelare l'ultimo mistero dell'Oriente.

Chi ci arriva resta vittima del suo incanto. Non si riesce a sfuggirgli: dall'alto delle pareti bianche e marrone di questa montagna vivente messa dall'uomo in mezzo alle altissime vette brulle e morte della natura, le finestre del Potala, come mille occhi, ora benevoli e consolanti, ora minacciosi e terrificanti, seguono il viandante ovunque si trovi nella valle. Coi primi raggi del sole i tetti d'oro del Potala scintillano nella bruma dell'alba. Nell'ombra opaca della notte la sua spettrale presenza aleggia sulla città carica di ricordi: ricordi di assassinii, stregonerie, ma anche di salvezza.

Il Potala: per i cinesi che ora occupano il Tibet è un museo degli orrori e delle superstizioni da cui essi, trent'anni fa, hanno «liberato» i libetani. Per i tibetani il Potala è ancora la sede del loro divino sovrano e perciò un tempio dei più sacri.

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