Copertina
Autore Annamaria Testa
Titolo La parola immaginata
EdizionePratiche, Parma, 1988, Strumenti per scrivere e comunicare , pag. 251, dim. 115x180x20 mm , Isbn 978-88-7380-097-2
LettoreGiulia di Stefano, 1995
Classe comunicazione , economia
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Indice


    DI CHE COSA STIAMO PARLANDO

p.9 Il prodotto, l'immagine e il bollino
    blu
 16 Graffiti, avvisi, réclame, pubblicità,
    advertising
 94 L'agenzia: com'è tatta, come fa

    LA PAROLA IMMAGINATA

 37 Una dichiarazione impegnativa
 41 La scritture pubblicitaria:
    peculiarità e qualità
 53 Una storia in un titoío
 62 Ritmo e struttura
 84 Rapporti di coppia
 93 Tono di voce
102 Come usare la lingua
113 Il format
123 Le grandi categorie
135 Bodycopy, baseline, pay off
147 Le differenze tra i mezzi

    LA PAROLA IN AZIONE

169 Il tempo passa e va
179 Raccontami una storia
195 Un meccanismo, come funziona
211 Alcune cose da sapere prima di
    cominciare a pensare
221 Progettare uno spot
257 Congedo

247 Invece di un glossario
249 Credit

 

 

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Pagina 9

Il prodotto, l'immagine e il bollino blu


Le aziende sono come le persone: diverse per carattere, attitudini, fortuna, stile. Ciascuna ha un proprio modo di presentarsi al pubblico. Ogni azienda parla, attraverso le cose che produce, e il discorso può risultare innovativo o conservatore, elitario o popolare, interessante o noioso, utile, o dilettevole, o banale.

Un profumo, un formaggino e un'automobile sono tre prodotti-discorso diversi. O meglio: sono tre temi di discorso differenti, ciascuno dei quali può essere sviluppato in modo interessante, noioso, innovativo, banale...

Tutti noi consumiamo prodotti, in parte per quello che sono e in parte per quello che significano. Un formaggino è novanta calorie di grassi animali, acqua e sali minerali. Un'automobile è un veicolo che permette di spostarsi a piacere e senza fatica. Un profumo è un cocktail di essenze volatili sciolte in alcool.

Ma ai concetti economici di valore d'uso (novanta calorie, spostarsi a piacere e due ore di odor di bergamotto) e di valore di scambio (espresso nei tre casi in centinaia, milioni e migliaia di lire) può essere opportuno, parlabdo di pubblicità, aggiungere un concetto estraneo all'economia: quello di valore percepito.

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Pagina 16

Graffiti, avvisi, réclame, pubblicità, advertising


Al museo di Volterra fa bella mostra di sé una impressionante sfilata di urne funerarie etrusche, una identica all'altra. Gli archeologi ipotizzano che lo scultore nella cui bottega vennero prodotte le urne tenesse una specie di campionario: la gente entrava, sceglieva il modello preferito, e in un tempo ragionevole se lo trovava realizzato, tale e quale. E pazienza se l'immagine graziosamente adagiata sul coperchio non era per nulla somigliante al defunto. Quando, per scrivere la prima parte di questo capitolo, sono andata a cercare qualche notizia riguardante la preistoria della pubblicità, ho provato uno strano miscuglio di ammirazione, divertimento e imbarazzo: lo stesso sentimento suscitato dai risultati dell'efficienza imprenditoriale di quell'oscuro - ma, immagino, ricco - artigiano etrusco.

La pubblicità, intesa come comunicazione della disponibilità di una merce ad un pubblico di potenziali consumatori, è un fenomeno vecchissimo: graffiti e avvisi murali segnalavano la presenza dei punti-vendita di duemila annifa in modo non troppo differente da quello di oggi.

Strettamente legato com'è alla evoluzione dei sistemi per produrre merci e dei sistemi per comunicare, il messaggio commerciale precisa forme, contenuti e obiettivi con il moltiplicarsi degli scambi e la conseguente trasformazione dell'economia da chiusa e feudale in mercantile e aperta.

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Pagina 37

Una dichiarazione impegnativa


È sera tardi. C'è silenzio. Sto seduta davanti a un piccolo scrittoio, illuminato da una lampada di ottone: un bel quadretto romantico. Sarà colpa dell'ora, ma mi viene voglia di fare una dichiarazione impegnativa.

A proposito dell'innocenza della tecnica, e della responsabilità di chi la applica.

Mi spiego: da una parte c'è il cliente e dall'altra il prodotto e dall'altra il contesto socioculturale, chiamamolo così, a cui rubo segnali per applicarli al prodotto che poi verrà spedito tra la gente.

Non è detto che questa operazione di furto - o se preferite di traduzione - possa avvenire in maniera neutrale.

Devo scegliere i segnali da rubare. E posso decidere come tradurli. Posso raccontare la stessa identica storia, sul medesimo prodotto, in dieci modi differenti. Che faccia ha la donna che prepara il minestrone surgelato? E quella che sceglie il tonno Marechiaro, perché lo fa? Posso insinuare che chi non usa il miracoloso Brufolix non avrà mai fortuna con le ragazze (ma potrei mostrare un brufolo che scappa spaventatissimo, inseguito da Brufolix).

Posso presentare come attraente una situazione in cui il boss, che è uno che ha le palle, ha appena concluso l'affare del secolo e ordina da bere per tutti. Posso perfino rendere desiderabile la biondona in abito da sera che ti pianta in asso se non le offri Up, l'aperitivo che ti tira su.

E naturalmente posso dire che purtroppo di questi tempi vanno di moda le biondone, i boss con le palle e i ragazzi senza brufoli. Scaricando elegantemente la colpa di un messaggio superficiale, o sciocco, sulla superficialità e sulla stupidità altrui.

Ma non è giusto.

Tutto è dato, tranne il trattamento creativo del messaggio. Non sempre è possibile realizzare una bella storia, ma quasi sempre si riesce a costruire una storia almeno decente.

Anche il trattamento pubblicitario più semplice risulta prescrittivo, o almeno suggestivo, in termini di comportamento. Propone un sistema di valori, una scheggia di visione del mondo. Anche se la tecnica è innocente, nel momento in cui la applico mi rendo responsabile - ed eventualmente colpevole - non solo nei confronti del prodotto e del cliente (e qui trattasi di responsabilità professionale) ma anche nei confronti del pubblico (e qui trattasi - non vi sembri eccessivo - di responsabilità morale).

Parlando di tecnica pubblicitaria, poco fa ho usato un aggettivo che può apparire fuori luogo: «innocente». Intendevo dire che si tratta di uno strumento efficace (e in seguito vedremo quanto) ma in sé neutrale.

Provate a pensare a un orologio: potete usarlo per arrivare puntuali agli appuntamenti, oppure per costruire una bomba ad orologeria. Ovviamente, il giudizio sull'uso che voi fate di quell'orologio sarà comunque cosa differente dal giudizio sull'orologio medesimo. Ciò detto, è innegabile il fatto che la vostra vita sarebbe diversa da quella che è, se gli orologi non fossero mai stati inventati. È ugualmente innegabile il fatto che gli orologi siano molto funzionali al nostro tipo di società. Non so se amate o detestate il vostro orologio, o se vi è indifferente. Immagino che abbiate imparato a conviverci, che non lo riteniate direttamente responsabile della vostra maggiore o minore felicità, e che sappiate esattamente quando conviene che gli diate retta, e quando invece potete ignorarlo.

Anche la comunicazione pubblicitaria può essere usata in molti modi, e per molti scopi: da un produttore di sigarette per suggerirvi che fumare è bello e virile, e dall'Istituto dei Tumori per dirvi che fareste meglio a smettere. Oppure da due candidati politici avversari, ciascuno dei quali sostiene una tesi opposta a quella dell'altro. Oppure dall'esercito e da un movimento pacifista. Oppure da un fabbricante di zucchero e da uno che fa dolcificanti sostitutivi dello zucchero.

Nel momento in cui la tecnica si traduce in messaggio ogni neutralità finisce. E questo capita perché tale messaggio ha uno scopo «di parte»: vuole darvi motivi per agire - o per pensare - secondo i desideri dell'emittente.

Per questo, tra l'altro, non è realistico pensare ad una pubblicità completamente ed esclusivamente informativa: un messaggio «di parte» evidenzia sempre gli aspetti positivi, e minimizza quelli negativi. Quindi contiene tutte le informazioni - e le emozioni - che servono a renderlo più efficace, ma solo quelle.

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Pagina 243

Vi ricordate la definizione di headline che ho dato a pagina 64? Un'headline è un concetto + un'emozione, espressi in maniera non casuale.

La parola immaginata è un'headline, anche se per una volta non c'è il punto in fondo. E riassume il senso di quel lunghissimo bodycopy che state finendo di leggere ora, in cui ho cercato di raccontarvi come le parole e le immagini possono mescolarsi, integrarsi, sostenersi a vicenda, arricchirsi, e come un tizio che adopera le parole e uno che usa le immagini riescono a lavorare insieme, e come le regole sono rigorose, e come, seguendo queste regole o decidendo di tradirle, ma comunque tenendone conto, si possono trovare opportunità espressive ancora nuove.

Voi sapete che l'aggettivo «immaginata» può evocare non soltanto immagine, ma anche, almeno un poco, immaginazione. E quindi pensiero (e le buone ragioni del marketing), e anche sogno, fantasticheria, illusione, desiderio.

Così, succede che un prodotto industriale, realizzato secondo la ferrea logica dei costi e dei ricavi, proposto in base ai rigorosi criteri del marketing, acquisti attraverso la comunicazione valenze differenti: si carichi dell'energia che deriva dal desiderio, si illumini, e scintilli, e rifletta un mondo. Ma provate a pensarci: ogni prodotto (e lo sanno bene gli archeologi) è già l'indizio di un mondo. La parola immaginata non fa che renderlo esplicito, rivolgendosi all'immaginazione di chi la ascolta.

E l'emozione sta qui.

Credo che il lavoro della pubblicità non si possa fare con freddezza: diventerebbe cinico, ripetitivo, arido. Bisogna ragionarci, certo. Ma forse serve anche un po' di affetto, di sollecitudine, di passione, di curiosità, di gusto del gioco.

Per fare il copywríter non è assolutamente necessario rinunciare alle proprie convinzioni e alle proprie scelte. Insomma: non bisogna vendersi l'anima. Ma prestarla, magari, sì. È questo il motivo per cui trovo molto interessante lavorare su prodotti «alieni» (cioè estranei alla mia esperienza quotidiana e al mio privato sistema di consumi), perché implicano la necessità di fare una specie di viaggio in un mondo parallelo, imparandone e praticandone le abitudini e il linguaggio.

È ugualmente questo il motivo per cui penso che mi riuscirebbe molto difficile lavorare su un prodotto che sicuramente, in qualsiasi misura e comunque venga usato, ritengo dannoso.

La parola immaginata, quella che si mescola con l'immagine, ed è un riflesso dell'immaginario collettivo, e nasce dall'immaginazione di voi che la scrivete, e parlerà all'ímmaginazione di chi avrà voglia di ascoltarla, è uno strumento efficace e delicato. Va adoperata bene, perché non si rovini e non si logori. Va adoperata con rispetto per voi e per gli altri, perché in qualche modo vi rappresenta, e perché può offendere. Va adoperata con convinzione, perché altrimenti suonerà vuota.

E ancora una volta è sera tardi. C'è un cerchio di luce giallina sulla scrivania, e silenzio attorno.

Certo, ancora una volta è colpa dell'ora, se mi è venuto in mente di scrivere questo discorso serio serio che avete appena letto. Eppure penso che non lo cancellerò, anche se suona un po' retorico: dopotutto ci credo, e vorrei che ci credeste anche voi.

Però, d'altra parte, mi sarebbe piaciuto terminare in tono più lieve: lo sapete, no?, che la chiusura dei bodycopy è importante. È il gusto, o l'eco, che resta alla fine del messaggio.

Forse dovrei concludere con un'immagine.

Un'immagine di congedo.

Ma non una di quelle strazianti: fazzoletti sventolati e raccomandazioni di fare i bravi e di comportarvi bene e l'idea del distacco e della partenza, che puzza sempre un po' di stazione ferroviaria anche se adesso si va via in macchina o in aereo, e la sensazione di aver scordato qualche cosa di assolutamente fondamentale, che so?, il gas acceso, o la definizione di teaser e di follow-up che non vi ho dato e adesso è troppo tardi. E poi non so bene che tipo di confidenza vi aspettate da me, una stretta di mano, o cosa?, dopotutto abbiamo passato un sacco di tempo a parlare insieme, e non ci siamo nemmeno presentati, e fra l'altro non so più bene se sono io o se siete voi, a partire, e dunque?

E dunque.

Ecco: mi piacerebbe, credo, farvi un inchino.

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