Copertina
Autore Ines Testoni
Titolo Autopsia filosofica
SottotitoloIl momento giusto per morire tra suicidio razionale ed eternità
EdizioneApogeo, Milano, 2007, Saggi Pratiche filosofiche , pag. 240, cop.fle., dim. 13,4x21x1,5 cm , Isbn 978-88-503-2581-8
LettoreFlo Bertelli, 2007
Classe filosofia , psicologia , salute
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Indice

Prefazione                                              ix
Premessa                                              xiii
Introduzione                                             1
1. Necrosi divina e doppia morale                        1
2. Il momento giusto per morire                          5
3. Verso una nuova dialettica etica                     11
4. Intorno al mistero                                   19

Capitolo 1 – Why die?                                   23

1. Noia                                                 23
2. No – e così sia!                                     26
3. Morale per i medici contro la malattia mortale       30
4. Suicidio filosofico – ovvero
   "il sacrifizio dell'intelletto"                      36
5. Che importa di me? Che importa di me!
   Ma che c'importa di noi!                             39
6. Why die?                                             43
7. Tassonomia dell'immortalità
   e topologia del sentirsi già oltre la morte          47

Capitolo 2 — Dal grido al lamento: la salma
             come simbolo-traccia                       51

1. Estraneità dell'ovunque esser qui                    51
2. "Diaporeo" o dell'"etica del viandante"              54
3. Naufragio medi-terraneo                              56
4. Le due vie del sapere: in prima e in terza persona   59
5. La lettura della salma dal grido al lamento          65
6. Ogni volta unica ed estranea al mondo: il solipsismo 69
7. Il grido come cordoglio per la morte di chi si ama   74
8. La morte "trionfata" tra "mortal-azione" e
   "immortal-azione"                                    79
9. L'integrazione delle due vie come fondazione
   della saggezza                                       84

Capitolo 3 — Il segreto del paradiso                    87

1. La stella della sera e la stella del mattino
   indicano forse il cielo?                             87
2. Terrore della morte e costituzione del sociale       92
3. Saggezza e liceità del suicidio tra doppio immortale
   e primato del legame sociale                         95
4. Saggezza e condanna del suicidio come fondazione
   del sociale sull'identità individuale immortale     100
5. Paradisi perduti, artificiali e neopagani
   dall'immortalità all'amortalità                     108
6. Mitologema biologico e informatico:
   dal troppo umano del corpo organico
   al post-organico come ipertesto cyborg              114
7. La conquista dell'a-mortalità come suicidio
   dell'umano                                          119

Capitolo 4 — Dal Socrate Sileno allo "spaccio

             de la bestia trionfante"                  127
1. Viaggio in Grecia per sapere quel che è da sapere   127
2. L'azzardo educativo di Platone                      131
3. Severino e il senso della morte a partire
   da Parmenide: la terza via                          136
4. Linguaggio medi-terraneo                            143
4. L'amletico "spaccio de la bestia trionfante"
   e il suicidio di Ofelia                             147
5. Naufragio: il declino degli Immutabili              151

Capitolo 5 – Suicidio divino e autopsia filosofica     155

1. Il profumo dell'innocenza e il pasto totemico       155
2. Il sapersi mortali e la rinuncia al suicidio
   come atto d'amore                                   158
3. Afflato mistico e valore dell'occultamento          164
4. Occultamento di ciò che significa ormai "identità"  167
5. Lo thauma dell'incertezza e la morte di Dio
   come noia                                           170
6. Autopsia filosofica sulle tracce dei fiori del male 174
7. Il Dio suicida                                      179
8. La vedetta del deserto dei Tartari                  182

Capitolo 6 – Conclusioni. A partire da Severino        191

1. Divenire come Follia e Verità del Divenire          191
2. La Traccia della Verità                             197
3. Il Simbolo come Amore – l'Amore come
   "Traccia-Rivelazione-Redenzione"                    203

Conclusione                                            212

Bibliografia                                           215

 

 

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Introduzione


                     Coltello e piaga, schiaffo e guancia, membra
                               e ruota sono, vittima e carnefice;
                         sono il vampiro del mio cuore, un grande
                             infelice, di quelli a un riso eterno
                         dannati, e che non posson più sorridere!

                      Baudelaire, L'eautontimorumenos, FM, p. 145


                              La Morte, ahimè, consola e dà vita:
                             è il fine all'esistenza ed è la sola
                         speranza che ci esalta e che ci inebria,
                               come elisir, donandoci il coraggio
                                        di camminare fino a sera"
                    — Baudelaire, La morte dei poveri, FM, p. 247



1. Necrosi divina e doppia morale

Quando si arriva ad allearsi con ciò che più si teme perché quella è l'unica soluzione all'alba di Austerlitz, accerchiati dal ricordo di ogni tappa della vita nel tribunale che sentenzia orrore per quel che resta del giorno, rimane forse ancora, sembra suggerire nel suo Viaggio Charles Baudelaire, la speranza di trovar ciò che fino a quel momento si è negato: "O Morte, vecchio capitano, è tempo! Su l'ancora, ci tedia questa terra o Morte! Verso l'alto a piene vele! Se nero come inchiostro è il mare e il cielo [...] su versaci il veleno perché ci riconforti! [...] Inferno o Cielo, cosa importa — discendere l'Ignoto per trovarvi nel fondo, alfine, il nuovo" [FM p. 261].

Capire dove cominci questa alleanza e quale sia la conclusione che porta alla sottoscrizione dell'ultimo contratto con se stessi è certo oggetto degli studi di psicologia e psichiatria, discipline che rigorosamente interrogano i resti della presenza del suicida nella memoria di chi gli ha vissuto accanto. Si chiama autopsia psicologica e da questa complessa operazione deriva l'elaborazione di modelli di spiegazione e intervento che analizzano scrupolosamente quali fattori siano in gioco nel disporre all'atto insano e nel proteggere l'individuo dal diventar il peggior nemico di se stesso.

In questo nostro lavoro, invece, che si dipana come un viaggio tra i territori del male i cui fiori sono ferite che non sanno guarire, capaci di trasformare ogni sospiro nell'affanno della sopportazione fino a voler infine soffocare il respiro, intendiamo indagare ciò che muove la stessa indagine psicologica per render evidente proprio quel che la scienza non può vedere perché lo sguardo specialistico le fa subire la totalità di cui essa non si occupa e di cui però il suo sapere è inevitabilmente parte. La nostra operazione consiste infatti in un' autopsia filosofica, la quale, a differenza di quella psicologica, di cui peraltro accoglie criticamente i risultati, entra nel merito delle categorie che sostengono il pensiero di voler finire, inoltrandosi in quel nero che è ormai l'unica novità, matrice fondamentale della cultura, ovvero l'angoscia da cui dipende qualsiasi cognizione del dolore. Se "non c'è nulla di più penoso che spiegare il dolore", dice infatti l'Empedocle di Hφlderlin prima di gettarsi nelle fauci dell'Etna a chi lo interroga sul senso di quella scelta (ME p. 31), l'autopsia filosofica è l'analisi della struttura di pensiero che sostiene la disperazione ultima ma anche originaria, scandagliando i fondali di tale arché cui l'uomo affida ciò che crede di essere.

Innanzitutto l'uomo si crede mortale e questa certezza trasfigura la morte dall'esser la fine e all'esser il fine, tanto da render la vita un cangiante esercizio sul liminare del finire, il cui cedere, che inizia come convinzione di poter dare per perso solo qualcosa, diventa presto il capire che quella stessa speranza era l'indizio dell'aver già perso tutto. Tra tale cominciamento e la convinzione che non rimanga altro di sé si gioca la difficile partita della libertà di non voler più rispondere alla vita come a un irresistibile conato, convinti che con l'eroismo, conquistato sapendo proprio questo, si domini tutto quel che ha prodotto assoggettamento.

Molti muoiono troppo tardi, e alcuni troppo presto. Ancora suona insolita questa dottrina "muori al momento giusto!" [...] Io vi mostro la morte come adempimento, la morte che per i vivi diventa uno stimolo e una promessa. [...] Vi faccio l'elogio della mia morte, la libera morte, che viene a me, perché io voglio (Z p. 80).

Così parla Zarathustra squarciando il velo sullo scenario in cui muta si apposta la questione forse più inquietante che l'Occidente cerca invano di occultare: lasciare al libero arbitrio dell'individuo la definizione del momento giusto per morire. La scelta della morte lucidamente pianificata – il suicidio razionale – è solo la cuspide di una lunga serie di temi che riguardano l'amministrazione della morte in funzione della vita e viceversa. Θ in questo spazio che fiorisce l'aporia del buon senso comune che se per un verso stabilisce che è bene vivere ed è male morire, per l'altro ricorda che è bene il preferibile e male lo sconveniente, cosicché diventa inevitabile chiedersi se sia davvero sempre preferibile proprio il vivere. In questa indeterminazione si amministra il potere di chi fa politica con l'opinione, declamata sempre come verità tanto scientifica quanto religiosa, occultando nel dibattito utilitarista il tratto più angosciante del paradosso, per cui, da un lato, si nega all'individuo l'aiuto a morire quand'egli stabilisca che è venuta l'ora e, per l'altro, si sviluppano inarrestabilmente le tecniche che usano l'umano per produrre tessuti taumaturgici ed entità portatrici di parti di ricambio. Lo spettacolo della metamorfosi della vita da naturale in artificiale ha ormai messo in evidenza che si tratta solo di una lotta di potere tra ideologie che, per quanto opposte per interesse specifico, sono sostanzialmente solidali nel credere che la vita sia disponibile tanto al mantenersi docilmente entro certi limiti quanto all'esplodere nell'irresistibile trasformazione tecnologica.

Ogni azione nello spazio della dialettica vita-morte/corpo-cadavere passa attraverso il pólemos che scienza e religione ingaggiano nella corsa e rincorsa per il potere finalizzato alla determinazione di che cosa sia la vita e come debba esser amministrata, edificando così una doppia morale che, pur portando vantaggio ad entrambe le fazioni, non risolve affatto la questione. Poiché però – ricorda Ernst Jόnger (TR p. 58) – "nessuno di noi può sapere oggi se per caso domani mattina non si troverà a far parte di un gruppo dichiarato illegale", ovvero nulla garantisce che i posteri non giudichino come colpevole di indifferenza o al contrario come espressione somma di atrocità l'attuale modalità di gestire equivocamente le frontiere della cura tra la morte e la vita, è inevitabile chiedersi se sia dunque davvero preferibile nascondere questo orrore (Testoni, Zamperini, 2004, 2005). Il pericolo che più temono coloro che su questa lacerazione producono il proprio vantaggio, che solo sul tacito accordo può svilupparsi, è l'urlo della rivolta, allorché chi ridestato percepisce con spavento la presenza di un sostanziale inganno. Ammettere che questa sia l'unica soluzione possibile è arrendersi alla contraddittorieta senza sapere di che cosa si tratti, abbandonando nell'insignificanza la questione. Nel capitolo "Oltre il nichilismo" de L'uomo in rivolta, Albert Camus sentenzia che "Oggi nessuna saggezza può pretendere di dare di più" (p. 332). E la massima saggezza che egli segnala è l'azione compiuta come rivolta dall'uomo consapevole della propria più intima lacerazione: quella di poter aprire lager per deumanizzare il nemico come ospedali per curare il fratello, uccidere in guerra e parallelamente donare amorevolmente l'esistenza a un figlio, nell'indecidibilità intorno al senso dell'uno e dell'altro insieme. L'uomo contraddittorio, capace di oblio e dunque d'innocenza, che dispensa insieme generosità e massacro, non potendo che ribellarsi a tutto ciò che tradisce la vita fino infine a tradire la stessa vita, è l'uomo etico che Camus, nel dibattito esistenzialista, promuove come unico oltrepassamento possibile del nichilismo. Ma, figlio legittimo di Nietzsche, quest'uomo è l'eclissi di ogni senso della ribellione, dunque non solo egli non supera alcun nichilismo ma lo estende fino all'esercizio dell'impassibilità dinanzi all'indecidibile che si esprime come volontà che sia proprio ciò che accade: così è la vita? Orsù — daccapo!

In questo nostro lavoro discuteremo se si dia differenza tra la volontà di vita e di morte e le loro alterne vicende o se invece si dia necessariamente indifferenza tra i due termini poiché non ci sono riferimenti certi se non quelli che vengono stabiliti da coloro che hanno il potere di imporli (per cui vien delegato alla storia il compito di decretare che cosa si credesse buono in una certa epoca come effetto di determinati interessi ideologici e che cosa invece è creduto in altri periodi provando raccapriccio per quanto accaduto in passato o per l'eventuale sviluppo futuro di qualcosa che nel presente è già accennato). Non ci rassicura dunque un'etica che faccia ricorso al consenso che ottiene l'esclamazione che Dio, lo stesso di prima, è risorto, perché, già annunciato, farà eterno ritorno uno Zarathustra che impegnerà l'uomo nel difficile compito di dimostrare di non aver affatto bisogno di alcun Dio per essere tutta la volontà che vuole se stessa e che con la tecnica manifesta l'autentico potere, ovvero quello di render perseguibile qualsiasi scopo (Severino FF, DT). Se infatti il rapporto tra vita e morte non è indifferente, è inevitabile che ogni consolazione venga smascherata come qualcosa che permette di vivere ma occultando ciò che più si teme, sapendo che sarà proprio da quelle ombre che tornerà perentoria la voce dell' uomo in rivolta, il Ribelle che

cercando di individuare una soluzione o una via di scampo, rivela col suo comportamento di essere conscio dell'imminenza e della gravità del pericolo [...]. Il terrore che lo desta di soprassalto nel cuore della notte – sebbene egli viva in paesi opulenti e pacifici – è naturale, così com'è naturale il capogiro di chi scorge l'abisso dinanzi a sé. Sarebbe insensato cercare di persuaderlo che l'abisso non esiste. E, anzi, quando uno cerca consiglio in se stesso, e bene che ciò avvenga proprio sull'orlo dell'abisso (Jόnger TR p. 57).

Nessuna consolazione è permessa dinanzi a quella che Salvatore Natoli (NP) definisce la "necrosi di Dio":

la condizione in cui ci troviamo ci obbliga a fare i conti con la catastrofe e a coricarci al suo fianco perché essa non ci sorprenda durante il sonno (Jόnger TR p. 67).

Inevitabilmente desti, compagni della "settima solitudine", non possiamo che ammettere ancora:

quante sono le cose che mi seducono all'indugio! Per me ovunque vi sono giardini d'Armida: e quindi sempre nuove lacerazioni e nuove amarezze del cuore! Devo muovere ancora in avanti il piede, questo stanco piede ferito: e poiché devo, ho spesso uno sguardo irato per le più belle cose che non mi seppero trattenere – perché non mi seppero trattenere! (Nietzsche GS, p. 223).

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2. Il momento giusto per morire

Il "quando morire", indica Corrado Viafora (1996), è il problema essenziale che si impone al mondo intellettuale dinanzi al potere dei saperi medici i quali hanno definitivamente svincolato la vita dalle regole rigide della natura. Poiché il ricorso a qualsiasi fondamentalismo risulta perdente (Lamb, 1995), il dibattito bioetico, che considera la controversa questione tra il lasciar morire/aiutare a morire e rispondere alla richiesta di morte (suicidio razionale), ha imboccato dagli anni Novanta la via del confronto tra principi di valore e di diritto, dando esito a scelte politiche che muovono i primi passi verso alcune definizioni, tra le quali emerge, in tema di consenso informato, il testamento biologico (o carta di autodeterminazione — bio-card — living-will). L'argomento guadagna sempre più interesse perché il progresso scientifico ha allungato non solo il tempo di vita ma anche quello dei processi di decadimento per le malattie, accrescendo proporzionalmente l'ansia sia rispetto alla consapevolezza del morire sia del dolore che la lenta degenerazione comporta.

La previsione dell'eventualità che a un certo punto il deterioramento possa intaccare anche la lucidità mentale e che dunque il corpo rimanga in balia delle cure mediche se, per un verso, evoca fantasmi terribili, per l'altro attiva il bisogno di poter prevenire tale sorte con la morte stessa. Θ per questo che, negli Stati Uniti e nel Nord Europa, già studiano e acquisiscono competenza intorno al problema del suicidio razionale [SR] sia coloro che esercitano professioni di aiuto per la consulenza nell'ambito della tanatologia (Jamison S., 1999; Werth, Holdwick, 2000) sia coloro che affrontato le più complesse politiche per gestire il rapporto tra vita e morte, in una irriducibile contesa tra religione e scienza. Il dibattito bioetico è però stato focalizzato intorno alla questione delle malattie terminali (Fontana, 2002) per la gestione del suicidio assistito (il soggetto viene aiutato a procurarsi la morte), dell' eutanasia (il soggetto incapace di agire e incosciente viene portato alla morte) e della sospensione della cura (il soggetto incapace di sopravvivere viene abbandonato al decorso della malattia). Vengono perciò discussi i fattori imprescindibili per la sua regolamentazione (MacDonald, 1999; Viafora, 1989), ove il problema fondamentale consiste nello stabilire quali siano i livelli di vita che possono essere considerati passibili di interventi medici che procurano la morte.

Si tratta di un settore di ricerca complesso, perché ancora molto nebuloso, dato che finora non è chiaro se in questione sia il suicidio inteso in senso universale o in alcuni casi specifici (Stack, 1999). Definito come un dramma interiore in uno spazio interpersonale, che interessa sia la sfera intrapsichica che quella relazionale (Leenaars, 1999), per "suicidio razionale" si intende la scelta libera, consapevole e lucida di volere la morte e mettere in atto le strategie idonee. Per essere razionale, l'atto (o la richiesta) suicidario deve dunque essere compiuto da una persona che non presenta disturbi psichici, che sa valutare la preferibilità della morte alla vita perché è in grado di operare un esame di realtà (Battin, 1992). I tre fattori che vengono considerati fondamentali per tale scelta sono: a) la presenza di una condizione irreversibile di disperazione; b) una decisione libera di suicidio; c) la consapevolezza del significato relativo all'attivazione del processo che conduce alla morte e alla sua irreversibilità (Lecaldano, 2001; Werth, 1995). Si danno sostanzialmente due orientamenti di studi al riguardo. Il primo (pro-rational) afferma che esiste la possibilità di decidere razionalmente di voler morire, senza soffrire di alcuna psicopatologia o costrizione sociale che infirmi la libertà di scelta, considerando altresì razionale la volontà di morire quando si diano condizioni di sofferenza eccessiva. Il secondo (non-rational) sostiene invece che chi si suicida, in modo più o meno latente, soffre di un qualche disturbo psicologico. Tale bipartizione è indicata in una rassegna di David Mayo (2000) ed è discussa nel volume curato da James Werth (1999) che accoglie il dibattito internazionale riguardo alle istanze di riconoscimento morale di tale forma di morte (Werth, 1995). L'ambito non-rational, in cui si ritiene che il SR sia una contraddizione in termini, o un ossimoro, poiché il decidere di darsi la morte è da intendersi come sintomo di un disturbo mentale inconciliabile con la lucidità di pensiero (Jamison, 1999; Wrobleski, 1999), è inscindibilmente legato ad aspetti di valutazione etica di matrice religiosa. Ricordiamo in proposito la posizione di Elio Sgreccia secondo cui:

il suicidio è da condannare perché è contrario alla inviolabilità della vita, alla dignità della persona nonché al rispetto della Bontà del Creatore. [...] Il definirlo "l'ultima libertà della vita" significa collocare il suicidio in quella ideologia di libertà senza responsabilità e di capovolgimento dei valori (libertà-vita) che alimenta insieme le campagne a favore della legalizzazione dell'eutanasia e dell'incoraggiamento al suicidio (1999, v. 1, p. 755).

In tale prospettiva vengono valorizzate le istanze di fede e sottolineati i rischi di manipolazione che la liberalizzazione mette in gioco (McIntosh, 1999); viene altresì discusso il concetto di libertà di scelta nei casi di disabilità, menomazione e sofferenza (Hwang, 1999), fino a riconoscere il SR come un sintomo di grave destrutturazione sociale in quanto con esso si mostra la messa in crisi delle dimensioni dell'autodeterminazione e dei diritti individuali, entrambe fondate sul diritto alla vita (Callahan, 1999). Dal punto di vista psicologico l'argomento più insidioso mette in gioco i fattori inconsci, per cui ciò che può sembrare razionale nell'individuo, poiché lo si stabilisce culturalmente, può essere invece esito di istanze inconsce di matrice psicopatologica. Ma si può obiettare anche il contrario, poiché lo stesso concetto di inconscio è culturale e altresì la cultura è il più autentico inconscio che produce le forme più evidenti di distorsione cognitiva (Testoni, 1997a, 1998).

In effetti la critica contro le argomentazioni non-rational è mossa dal ritenere che esse siano sostanzialmente derivate dall'ideologia cattolica e che dunque, poiché il problema deve essere discusso mantenendo una posizione obiettiva rispetto ai valori in gioco, tali opinioni non possano diventare legge in quanto essa verrebbe imposta anche a coloro che non condividono lo stesso credo (Barry, 1999). Umberto Veronesi (2005) riprende la questione dicendo che nessuna fede, poiché le religioni sono numerose e non tutte egemoni sulle stesse posizioni etiche, possa arrogarsi il diritto di imporre la propria visione sulle altre. Condivide tale obiezione chi ritiene che la fede sia irrazionale, quindi non possa essere presa a fondamento per la definizione di che cosa sia o non sia razionale e perciò che gli argomenti che su tale base stabiliscono che il suicidio non è razionale sono irrazionali (Larue, 1999). Aderiscono in forma critica a questa posizione da una parte Eugenio Lecaldano (2001), il quale, nel rilevare l'aporia tra il dovere di restare in vita e il diritto di morire, riconosce quanto la questione inerisca alla definizione di confini rispetto al nascere e al morire, tra individuo (la propria vita) e società (la vita di ciascuno gestita collettivamente), fondandone i profili normativi sulla libertà; dall'altra Elisa Pajusco e Diego De Leo (1994a, 1994b) i quali pongono la questione da un punto di vista clinico, tenendo presenti innanzitutto i problemi metodologici relativi al come riconoscere l'autentica condizione di libertà nella scelta del malato. Poiché però è certo che quella di morte non è una decisione facile, è inevitabile pensare che chi giunge a operarla testimonia il proprio trovarsi in condizioni insopportabili (Cummings, 1999), ed è dunque possibile accettare la richiesta di morte per ridurre la sua sofferenza (Rosen, 1999). Queste posizioni, che promuovono una visione razionale della scelta di morte, partono dall'assunto secondo cui possa darsi un'"eutanasia benefica" intesa come atto di bontà (kindness), ovvero autentico esercizio della compassione come virtù sociale (Goffi, 2004).

Ciò che in entrambe le posizioni emerge sembra essere il considerare la morte come una irreversibile sconfitta e il fantasma che serpeggia tra le diverse posizioni intorno al suicidio razionale è la storia nazista: si teme ovvero di legalizzare forme occulte di sterminio. Domina la "paura della china scivolosa" (Frey, 1998) e tra gli specialisti che lavorano nell'ambito della tanatologia, per quanto divisi tra posizioni a favore e contrarie, prevale la consapevolezza di non essere in grado di gestire il problema (Albright, 1999; Dick, 1999; Ellis, 1999; Narveson, 1993), nonostante esso sia sempre più presente nelle professioni della salute (Werth, 1996). Jean-Yves Goffi (2004) individua le argomentazioni sufficienti e necessarie per stabilire che esiste una differenza sostanziale tra eutanasia (gestione solidaristica della morte) ed eutanazia (uso nazista dell'omicidio in funzione razzista) e che tra i due momenti non si dà alcun nesso necessario. Poiché intorno ai temi della morte e della sua gestione, come dimostra ampiamente l'analisi di Lynne A. DeSpelder e Albert L. Strickland (2005), la dimensione psicologica è strettamente dipendente da quella culturale, la psicologia sociale culturale orienta sempre più incisivamente il proprio contributo (Testoni, Zamperini, 2004, 2005), mostrando quanto sia importante per il dibattito bioetico tenere presenti le istanze psicologiche socialmente determinate. Poiché l'aver cura della vita è un percorso che richiede la presa in carico dell'esistenza proprio quando essa si annuncia nella sua fragilità (Goffi, 2004; Lizzola, 2002), gli studi orientati a promuovere il sostegno al malato, affinché egli non giunga a cadere in quanto Francesco Campione (1986) ha definito l'estremo tabù – il desiderio di morte –, puntano, come mostra il Manifesto di tanatologia, sul miglioramento delle condizioni di vita del paziente terminale, agendo sulle cause che rendono insopportabile l'esistenza: isolamento sociale, dolore fisico, inadeguatezza alle richieste dell'ambiente psicologico... Gli interventi sono sempre più capillari e agiscono a diversi livelli in senso sistemico (individuo, gruppo, comunità) disponendo interventi centrati sulla persona [cure palliative, intervento psicologico (De Conno, Martini, Zecca, 1996; Ventafridda, 2001], sulla sua famiglia [mutuo-auto-aiuto e counselling sul problema (Prichard, 1977; Smith, 1982)] e sulla società attraverso la creazione di reti di sostegno (Francescato, Tornai, Ghirelli, 2002). Purtroppo però tali strategie, che peraltro mostrano di offrire risultati positivi (De Leo, 2001), non sono totalmente efficaci e rimane dunque ancora da capire che cosa le richieste di suicidio razionale ed eutanasia esprimono. Infatti la prevenzione non è alternativa alle istanze di riconoscimento del desiderio suicidario ma alla base di questo cortocircuito sta il terrore. Sebbene infatti non si diano nella letteratura scientifica – come invece suggeriscono Hume e Nietzsche – interventi pro-rational che considerino la gestione del suicidio come alternativa alla presa in carico del sofferente, bensì lo promuovono come estrema-ratio del medesimo processo di cura, il timore di mettere in gioco meccanismi già sperimentati dal nazismo è talmente sentito da estinguere le volontà di confronto serio a poche e limitate occasioni che non offrono risposte esaustive.

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CAPITOLO 1

Why die?


                                   E castigando, invero, l'Angelo
                             in proporzione del suo grande amore,
                              con i suoi pugni di gigante strazia
                         il maledetto; ma ai suoi colpi , sempre,
                           il dannato risponde: "No, non voglio!"

                             — Baudelaire, Il ribelle, FM, p. 343


                          L'uomo è costituzionalmente un ribelle:
                     e forse i ribelli possono mai essere felici?

                      — Dostoevskij, I fratelli Karamàzov, p. 400



1. Noia

Il poeta del "io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando, benché tutto il resto del mondo fosse per me come morto" (P 59, p. 80) eppure del "tanto alla morte inclina d'amor la disciplina"', così si esprime in una delle numerose pagine sul desiderio di morire:

nell'amore la disperazione mi portava più volte a desiderar vivamente di uccidermi: mi ci avrebbe portato senza dubbio da se, ed io lo sentivo che quel desiderio veniva dal cuore ed era nativo e mio proprio non tolto in prestito, ma egualmente mi parea di sentire che quello mi sorgea così tosto perché dalla lettura recente del Verter, sapevo che quel genere di amore ec. finiva così, in somma la disperazione mi portava là, ma s'io fossi stato nuovo in queste cose, non mi sarebbe venuto in mente quel desiderio così presto, dovendolo io come inventare, laddove (non ostante ch'io fuggissi quanto mai si può dire ogni imitazione ec.) me lo trovava già inventato [...] Io mi trovava orribilmente annoiato della vita e in grandissimo desiderio di uccidermi (P 64-66, p. 86-7).

Così nei Pensieri Giacomo Leopardi annuncia la capacità per lui terapeutica dell'opera di Johann Wolfgang Goethe, consapevole che invece per molti altri ha significato l'imitazione. Ciò che ha differenziato la scelta di vita del poeta rispetto agli emuli è stato l'aver compreso il latente messaggio goethiano, foriero del potere catartico del disincanto: quando è l'ultima spiaggia perché tutto il resto è già caduto nella noia, l'amore, incapace di restituire valore alla vita, non è la causa del suicidio, ma solo l'ultima conferma che il mondo non ha senso. L'impossibilità che si possa rivoluzionare la vita caricandone il peso del vuoto sulle spalle di qualcuno mostra, dunque, che anche quello pandemico del giovane Werther può essere rubricato nella casistica del suicidio razionale.

Su quest'onda che s'infrange nel tentativo recente come riverbero d'eco lontana ne La noia, nell'autobiografico prologo alla narrazione del tentato suicidio di Dino, Alberto Moravia presenta un'intuizione personale, che era però già stata di Soren Kierkegaard (AA vol. 3, pp. 22-3) per il quale, annoiati, gli déi crearono l'uomo e il mondo, e poi di Friedrich Nietzsche

se un Dio ha creato il mondo, egli ha creato l'uomo come scimmia di Dio, come continuo motivo di divertimento nelle sue troppo lunghe eternità [...]. Quell'annoiato immortale solletica con il dolore il suo animale preferito (U2 p. 142).

Nulla di nuovo, dunque quando il romanziere ricorda che a scuola

[la] sterminata quantità di lezioni non mi riguardava, o mi riguardava soltanto per constatarne l'assurdità fondamentale [...]. Il risultato fu, così, un progetto di storia universale secondo la noia [...]. Non ricordo bene, ma non credo di aver oltrepassato la descrizione molto particolareggiata della noia atroce di cui soffrirono Adamo ed Eva nell'Eden, e come, a causa appunto di questa noia, commettessero il peccato mortale (N pp. 10-11).

Sul timbro della fuga dalla ricchezza più grande e da quella più limitata ma pur sempre ragguardevole di cui ha goduto egli stesso, lo scrittore raggiunge il fondale melmoso dell'aver già quasi tutto e proprio per questo

mi accorgevo che sebbene non mi piacesse vivere, non volevo neppure morire. Così, le alternative accoppiate che, come in un funesto balletto, mi sfilavano nella mente, non si fermavano neppure di fronte alla scelta estrema tra la vita e la morte. In realtà, come pensavo qualche volta, io non volevo tanto morire quanto non continuare a vivere in questo modo (N p. 22).

Poiché Leopardi non ha dato fine alla propria vita, nonostante il desiderio di morte fosse in lui oltremodo insistente, nel frammento autobiografico più sopra citato viene precocemente indiziato ciò che la ricerca clinica ha solo di recente rilevato, ossia che l'elaborazione razionale del desiderio di suicidio previene quello irrazionale (Werth, 1998). Se suicidio e noia, tra loro correlati nella depressione, sono – ricorda Roberto Garaventa (1994, 1997) – espressioni del "male di vivere" caratteristico della parte più ricca e razionale del pianeta, ove la possibilità di allungare i tempi di permanenza e il piacere di farlo progrediscono senza limiti, la possibilità di render conto di un tale paradosso richiede che si affronti la dialettica delle rappresentazioni tra vita morte e immortalità in quel luogo ove ogni celebrazione della vita si manifesta ormai come una radicale contraddizione: l'Occidente.

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7. Tassonomia dell'immortalità e topologia del sentirsi già oltre la morte

Accogliamo dunque la provocazione – why not? – e proviamo a vedere se sia almeno possibile pensarci immortali: chissà che invece, lungo il percorso, non venga in evidenza qualcosa di incommensurabilmente maggiore, ovvero che non solo non è affatto una conquista il non morire e che altresì – ben oltre tale obiettivo minimale – è già stato indicato, al di là di qualsiasi equilibrismo ultra-nietzscheano, che siamo già da sempre oltre ogni mortalità.

Hans Kόng, nella sua ricerca intorno alle modalità di reperire prove di vita oltre la vita tra le testimonianze di agonizzanti, di spiritististi, di esperienze di quasi-morte, rilevando l'impossibilità di stabilire prendendo le mosse dall'esperienza di vita qualcosa che riguardi l'aldilà, si chiede, riprendendo Sartre: "Vita dopo la morte? Non l'ingresso nel nulla, ma, peggio ancora, nella grande noia sempre uguale?" (VE p. 12) giunge infine, dopo aver affrontato il problema della speranza di fede come reificazione del desiderio, alienazione della realtà quotidiana, proiezione egoica, dopo aver comparato diversi modelli di credo religiosi, a stabilire che quello della vita eterna è una questione aperta, il "grande forse" che richiede una "ragionevole fiducia" per poterci permettere di continuare a "lavorare in tutta sobrietà e realismo, senza cadere vittima di un terrore diffuso" (VE p. 297). Eppure queste parole, che risuonano come i rintocchi più oscuri del pragmatismo, non sono affatto tranquillizzanti e anziché rasserenarci, archiviando i grandi pensatori del disincanto, ci lasciano interdetti. Forse qualcosa ci sfugge?


Per cominciare a considerare di che forse si stia parlando, possiamo individuare quattro ambiti in cui viene pensata l'immortalità; li elenchiamo in ordine di importanza e difficoltà nella seguente tassonomia dell'immortalità:

Eternità: concetto, come dice Schopenhauer (MVR p. 1369), anti-intuitivo, si tratta di un'idea fondamentale, relativa a ogni aspetto della "differenza ontologica" (ente-essere). Non legato, pur includendola, all'idea di tempo e dunque non inerente ad alcuna metrica della durata – sebbene non riguardi l'immortalità, poiché quest'ultima si riferisce a qualcosa che si guadagna come superamento della morte – esso coinvolge tutta la storia della filosofia, e in tale spazio vede opporsi due cuspidi: Nietzsche e Severino, appunto.

Immortalità di un principio di identità (il "doppio"): sostenuta dalle argomentazioni razionali della tradizione filosofica occidentale (anima, spirito), dai contenuti di fede o di riflessione delle religioni occidentali e di alcune orientali, dalle narrazioni della mitologia, questa idea è relativa al permanere di un principio di identità che trascende la dimensione materiale dell'esistenza terrena. In questa dimensione: a) viene salvaguardata l'identità individuale autocosciente; b) il senso della durata del principio di identità che permane è il tempo infinito. Il luogo abitato da queste entità possono essere: il mondo, una dimensione parallela, paradiso, inferno, limbo, Ade, ... collocati in ambiti a volte discreti a volte infiniti. All'interno di tale dimensione si definisce altresì questa ulteriore classificazione in base alla rappresentazione dell'aldilà che accoglie il doppio (Vernette, 1999): 1) vita diminuita (es. Ade greco; scheol ebraico o mondo dei morti); 2) vita esaltata (paradiso dell'Islam); 3) esistenza terrestre invisibile (culture arcaiche); 4) separazione dell'anima dal corpo e metempsicosi (induismo, buddismo, orfismo e platonismo, gnosticismo); 5) resurrezione della persona (cristianesimo); 6) fusione nel tutto (New Age e neopaganesimo).

L' immortalità della memoria storica riguarda i sistemi di codifica e archiviazione; il suo sviluppo accresce le possibilità di mantenere disponibile alla conoscenza l'informazione relativa alla traccia di ciò che è stato e del suo significato (testimonianza storica della cultura, della politica, dell'arte...). In questa dimensione: a) l'identità individuale autocosciente viene persa; b) la durata di ciò che rimane come traccia del soggetto individuale non è infinita ma correlata sia alla capacità di permanenza dei supporti mnesici sia alla possibilità che qualcuno acceda ai e sappia decodificare i messaggi salvati.

Già annunciata da mitologie e religioni, riguardante uomini semidivini o eroi che l'abbiano guadagnata per imprese valorose oppure che l'abbiano conseguita scoprendo segreti speciali (oppure, nel cristianesimo, con la resurrezione), l' immortalità corporea viene più recentemente ipotizzata dal sapere scientifico-tecnologico come dimensione biologica e tecnologica. Se si riferisce solo alla specie, il concetto di vita umana comporta che: a) l'individualità autocosciente del singolo organismo umano venga persa; b) sia salvaguardato in memoria il codice genetico umano manipolabile in base alle istanze selettive e di adattamento per prolungarne la durata. Se invece esso si riferisce al singolo, viene ipotizzato il perdurare indeterminato del suo corpo modificandone alcuni parametri e intervenendo parallelamente nell'universo ambientale per facilitare l'adattamento, in tal senso: a) la dimensione individuale viene mantenuta; b) l'eventuale immortalità si riferisce a un'idea di durata estesa ma che non raggiunge l'infinito, in quanto il supporto fisico della vita, per quanto potenziato e trasformato, in base agli assunti epistemologici del sapere scientifico, è sempre esposto alle aggressioni del caso e del tempo.

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