Copertina
Autore Vito Teti
Titolo La melanconia del vampiro
SottotitoloMito, storia, immaginario
Edizionemanifestolibri, Roma, 2007 [1994], Esplorazioni , pag. 280, cop.fle., dim. 14,5x21x1,8 cm , Isbn 978-88-7285-463-1
LettoreRenato di Stefano, 2007
Classe sociologia , storia sociale , etnologia , antropologia , cinema , storia letteraria
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Indice

PRESENTAZIONE                                                     7

PARTE I — IL VAMPIRO FOLKLORICO                                  37

  I. Il vampiro nell'osservazione illuminista                    39
 II. Le possibili letture                                        81

PARTE II — IL VAMPIRO MODERNO                                   123

  I. Il vampiro nella letteratura europea dell'Ottocento        125
 II. Il moderno mito del vampiro negli studiosi del mito        181
III. Ultimi vampiri nella cultura e nella società contemporanea 189

PARTE III — I VAMPIRI MELANCONICI                               231

  I. Melanconia e vampiro nella cultura occidentale             233
 II. Amore e melanconia                                         251

 

 

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Pagina 7

PRESENTAZIONE


[...]


IL REVENANT DALLA TRADIZIONE AL MODERNO E AL POSTMODERNO

Le definizioni del vampiro sono numerose e il termine spesso indica figure diverse. Non sarebbe inutile una contestualizzazione, geografica, territoriale, antropologica del revenant di cui si parla. Il vampiro, «morto-non morto» che ritorna per disturbare, contagiare, uccidere i vivi, spesso succhiando loro il sangue, non può essere separato dalla paura del ritorno, perturbante e pericoloso, dei defunti, presente in tutte le società arcaiche, tradizionali e primitive. I morti nelle diverse culture sono stati considerati, temuti, affrontati, in un certo senso, come «entità ostili», come possibili vampiri.

In quanto legato alla paura della morte e alla nostalgia della vita, al culto dei defunti e al timore che possano tornare, spesso a concezioni del sangue come elemento di vita e di morte, il vampiro si presenta come una sorta di archetipo, come una figura ricorrente, con caratteri e comportamenti diversi, in tutte le culture e le società tradizionali. Appare, pertanto, plausibile, ma abbastanza problematico, tentare di individuare le origini e i caratteri costitutivi del fenomeno che nel Settecento sconvolge intere comunità dell'Europa centrosettentrionale prima di contagiare i salotti, le gazzette, l'immaginario delle principali città europee (Londra, Parigi, Vienna, Napoli, Palermo), dove viene accolto e reinventato anche con immagini e motivi presenti nelle culture e nelle tradizioni locali.

Le ipotesi sulla provenienza geografica e sull'origine culturale del moderno vampiro sono diverse. Gli studiosi hanno rintracciato dovunque figure e motivi vampirici che poi sarebbero confluiti nella configurazione del moderno vampiro. Anche i legami tra vampiri, lupi mannari, sciamani, streghe – tutte figure che raccontano un legame tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, una continuità tra vita e morte – sono molteplici e sembrano rinviare ad un analogo sostrato culturale arcaico. E tuttavia fenomeni come il vampirismo, la possessione diabolica o degli spiriti, lo sciamanesimo, la caccia alle streghe, il licantropismo, il cannibalismo rituale e non – con evidenti somiglianze – si sono presentati, nella storia e nelle tradizioni di diverse aree geografiche, con una diversità che soltanto molte invenzioni postmoderne hanno saputo mescolare e confondere.

La questione decisiva, però, uscendo da congetture, ipotesi, ricostruzioni sempre in qualche modo fondate, che mi sono posto in questo lavoro è stata quella di ripensare come e quando il motivo della paura dei defunti che ritornano come vampiri, diffuso in contesti geografici, storici e culturali lontani, abbia dato origine, insieme ad altri elementi e ad altri fattori, «una e una sola volta nella storia», al complesso, drammatico fenomeno storico di diffuso e spaventoso ritorno di vampiri. Mi sono posto, in altri termini, il rpoblema di come e perche l'Occidente colto e illuminato, quello dei filosofi e quello degli uomini di Chiesa, che si interrogavano sulle superstizioni popolari, abbia «scoperto» il vampiro.

La grande epidemia vampirica (che si concludeva con dissotterramento di cadaveri e una nuova «uccisione» con il paletto nel cuore a cui seguiva di solito la cremazione) degli anni Trenta del Settecento in Ungheria, Moldavia, Slesia, Polonia aveva infatti accompagnato, in maniera drammatica, la fine di un antico universo, aveva segnato, in maniera talora cruenta e raccapricciante, l'erosione e la fine delle società tradizionali e l'affermarsi delle concezioni moderne.

Il contagio settecentesco è all'origine delle invenzioni, delle elaborazioni, delle mitizzazioni colte del secolo seguente. È possibile individuare in quella violenta e improvvisa esplosione gli ultimi rumorosi «strepiti» di un mondo in agonia, l'esito finale della drammatica lotta che l'illuminismo e la Chiesa cattolica (e anche quella ortodossa) conducevano, in diverse forme, contro le superstizioni popolari e le concezioni arcaiche. Un fenomeno unico e irripetibile, che ha accompagnato il crepuscolo di culture tradizionali millenarie e ha segnato il controverso affermarsi della modernità.

Il vampiro delle superstizioni popolari dell' ancien régime, a dispetto delle previsioni degli illuministi, tornava ben presto sotto nuove vesti, si guadagnava una nuova vita. Si trasferiva, con eccezionale capacità di trasformazione, nella cultura colta e nel nuovo folklore europeo, e contagiava la produzione letteraria, teatrale, artistica di molti paesi, si diffondeva nei centri di quella modernità che avrebbe dovuto allontanare paure, tenebre e ignoranza.

All'inizio dell'Ottocento il vampiro si incarna, in maniera inquietante, nell'eroe fatale e romantico di ascendenza byroniana. Soprattutto dopo The Vampyre (1819) di John William Polidori, il vampiro diventa una figura forte delle costruzioni letterarie dei romantici. Negli anni Venti dell'Ottocento non c'è a Parigi un teatro – così scrivono i giornali dell'epoca –, che non metta in scena un vampiro. A partire da quel periodo, moltissimi scrittori e poeti vengono attratti dalla figura del vampiro. Il termine vampiro diventa metafora di tante figure, positive e negative, del male assoluto, del diavolo, del cannibale, del capitalista, ma anche dell'artista, del flâneur, dell'errante, del seduttore, dello straniero, dell'esule, dell'emigrante. Vampirizzare diventa un verbo riferito alle situazioni più varie

Questa grande dilatazione del termine è possibile perché la figura del vampiro si afferma in una tradizione culturale nella quale la melanconia e le rovine, a cui è strettamente connessa, avevano una storia di lunga durata e si apprestavano a raccontare il lento affermarsi del moderno.


VERSO IL VAMPIRO DELLA GLOBALIZZAZIONE

Dall'inizio dell'Ottocento le periodiche epidemie vampiriche, spesso legate all'uscita di un libro, di un film, a una rappresentazione teatrale, accompagnano il moderno e il postmoderno.

Quando nel maggio 1994 usciva questo libro, era in corso una nuova ennesima epidemia. I vampiri tornavano nel cinema, nei libri, nei fumetti, nella cronaca quotidiana, nel moderno folklore metropolitano, ribadendo il loro carattere di revenants anche nella cultura contemporanea.

Soprattutto il film Bram Stoker's Dracula di Coppola, uscito in America alla fine del '92, acclamato anche in Italia da una schiera di vampiromani e vampirologi, alimentava la nuova epidemia.

Giornali, emittenti televisive, mondo della moda registravano, rafforzavano, la «draculomania», proclamando il 1993 «anno del vampiro». I media – scrivevo allora nella presentazione del libro – hanno memoria corta. Consumano in fretta e dimenticano le loro stesse invenzioni. Legati alle contingenze, «scoprono» sempre nuovi fenomeni presentati come tali da decenni. La vampiromania dei primi anni Novanta durava infatti da oltre un decennio e poteva esser fatta risalire al film Nosferatu, Phantom der Nacht (Nosferatu, il principe della notte) di Herzog, del 1978.

Il film Intervista col vampiro (1994) del regista Neil Jordan, otteneva, insieme al romanzo di Anne Rice (1976) da cui era tratto, e che veniva allora pubblicato in Italia, una notevole fortuna di pubblico e di critica.

I romanzi della Rice e il film di Jordan accompagnano la trasformazione dei vampiri del folklore e, della tradizione colta ottonovecentesca in vampiri postmoderni.

I vampiri non vivono più fuori dal mondo degli uomini, nascosti tra le rovine e nelle bare, ma nel mondo, in mezzo agli uomini, camuffati da uomini, come loro tristi e melanconici.

I vampiri sono come gli «umani», gli umani sono dei vampiri. Ma questo punto di arrivo che poi è un punto di partenza, un altro modo di narrare la continuità tra la morte e la vita, la loro inseparabilità, a dispetto di tante rimozioni – è il risultato delle molteplici costruzioni letterarie del vampiro triste e melanconico, fatale e distruttivo, seduttore, inquieto e infelice che dalla fine del Settecento si sposta dai cimiteri e dalle rovine ai resti dell'antichità classica, mete predilette del Grand Tour. E poi si aggira nelle metropoli europee dell'Ottocento, sbarca a New York, a New Orleans o a San Francisco, per ritornare (con la Rice), come accade agli emigrati di terza generazione, nella patria di origine del vampiro folklorico o nella Parigi dove si muovevano erranti, flâneurs, ammalati di spleen, eroi fatali e maledetti.

Nel corso degli anni Novanta, cinema, fumetti, internet, libri affermano un vampiro che assorbe, custodisce, rimastica i vampiri delle diverse tradizioni locali. Il vampiro viaggia e si sposta in tutti i luoghi, diventa sempre più globale.

Il vampiro che non può «specchiarsi» si afferma definitivamente come una figura emblematica del rispecchiamento, della autopercezione e dell'autorappresentazione dell'uomo della società attuale. Il vampiro sembra essere divenuto l'espressione e la proiezione dell'afflizione melanconica, e del «sentimento» nostalgico e melanconico, delle tante forme di erranza e di nóstos che hanno caratterizzato la storia, il pensiero, la tradizione culturale dell'Occidente.


EMIGRATI E IMMIGRATI COME INQUIETANTI REVENANTS?

Sullo sfondo del mio incontro con la figura del vampiro ci sono i miei interessi per alcuni motivi e avvenimenti che hanno segnato la vita e la storia delle culture locali tradizionali: il sangue come elemento di vita e di morte, la tematica del doppio nel fenomeno migratorio, lo spopolamento dei paesi, l'estinzione delle comunità, il tema della nostalgia e della melanconia che segna anche una storia di lunga durata del Meridione.

Un'altra sollecitazione a riconsiderare il vampiro come metafora di accadimenti più generali e non necessariamente inquietanti mi arrivava dal cinema, soprattutto da quello americano.

[...]

Se l'emigrazione costituisce un equivalente critico e problematico della morte, i rapporti tra rimasti e partiti — i loro controversi legami di odio e amore, di attrazione e repulsione — sembrano riproporre, in forme nuove, le dinamiche tra vivi e defunti proprie delle società tradizionali. L'emigrante — amato e atteso, ricordato con affetto — viene guardato anche con diffidenza e con sospetto, con premura e con paura. Viene vissuto come un defunto che può tornare, però, senza turbare. L'emigrante è un vivente che è morto per la società di origine: è, in fondo, un vampiro.

Il vampiro vive senza sentirsi vivo. L'emigrato conosce l'esperienza di vivere senza sentirsi vivo. Il vampiro vive in una bara e se si trasferisce deve disporre di bare contenenti un po' di terra del luogo di origine. L'emigrato — quando vive una condizione melanconica e di lutto prolungato, quando non ha saputo uccidere il paese lasciato — abita il nuovo mondo come in una bara. Per poter continuare a vivere quella che considera una non vita ha bisogno della terra, del cibo, di quanto lo riporta (o così immagina) al mondo di origine: deve illudersi di poter ricostruire il paese altrove. Il vampiro, che ha nostalgia della vita e ritorna, teme tutto ciò che lo allontana dalla propria terra, dal Castello dove può continuare a dominare. L'emigrato, all'inizio, teme i mutamenti, ha paura di perdersi, tenta di conservare il paese e di portarlo con sé.

C'è una differenza sostanziale. Il vampiro, nonostante le sue innumerevoli trasformazioni, non riacquista mai una nuova vita, resta un non morto. L'emigrato attua separazioni e ricongiungimenti, muore e rinasce, acquista, inventa una nuova ombra.

In Volver (2006) di Almodóvar sono gli immigrati a prendere il posto dei morti che ritornano. Romolo Runcini, in una recente intervista, afferma che il vampiro contemporaneo rappresenta «l'alieno, il diverso, l'emigrato straniero che vive in mezzo a noi».

Ho visto nell'ultimo decennio carrette del mare, partite dall'Albania o dalla Turchia, giungere in Calabria, lungo la costa jonica, lungo i tratti che portano da Roccella a Badolato, da Soverato a Crotone, e a Lampedusa, partite dall'Africa cariche di ombre, spettri, figure di erranti che non sanno dove arriveranno e che cercano un'isola felice che non c'è, un Eden inesistente inventato dai media. Li ho visti accogliere con solidarietà come si fa con i bisognosi. Ma ho visto anche come, col tempo, quelle ombre che arrivano nella notte, come vampiri, figure inquiete, revenants emaciati, creino inquietudine e disagio, preoccupazione e incertezza.

Sono gli abitanti dei luoghi di arrivo che manifestano spesso paura di essere divorati, inghiottiti, di perdere la loro identità, le loro certezze. Gli immigrati, respinti come revenants inquietanti, fatti scivolare nel campo semantico del «pericoloso» e dell'«ostile», raccontano la nostra incapacità di fare i conti con la diversità, la fragilità delle nostre certezze.

I profughi ammucchiati nelle carrette del mare, sono non vivi e non morti. Le barche, grandi bare che navigano sull'acqua, vengono ammassate sull'isola di Lampedusa o sui moli delle coste calabresi, formando cimiteri postmoderni.

Anche gli immigrati clandestini scampati al crollo delle Due Torri sono ombre senza nome, senza storie, ci sono, ma non si sa chi siano. Il vampiro è metafora dell'esule e dello straniero che cerca accoglienza e perturba, che viene tollerato o allontanato, raramente compreso e accolto.

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LA MELANCONIA DEL VAMPIRO E LA MELANCONIA DEMOCRATICA

Le nuove metafore presuppongono una diversa percezione del vampiro, la fine della sua identificazione con il male. Comportano quasi il «punto di vista del vampiro» diverso da quello consegnatoci dal folklore e dalla tradizione illuminista. Le nuove metafore si affermano attraverso l'individuazione, già avviata nel periodo romantico, dei tratti umani del vampiro, e il riconoscimento della sua melanconia. La letteratura, il cinema, il teatro, la musica raccontano fenomeni sociali e culturali, non sempre comprensibili nel momento in cui accadono e di cui ci si renderà conto solo successivamente. Le epidemie vampiriche, che contagiano le élite e la cultura di massa, hanno segnalato sempre qualcosa di importante che accade nella società e nella mentalità degli individui, non soltanto nelle elaborazioni culturali e letterarie.

Il vampiro si presenta come figura che riflette la melanconia (intesa in senso lato, sia come patologia che come sentimento) di una società nei periodi di crisi, di passaggio, di trasformazione. Naturalmente, non bisogna prendere in maniera assoluta questa indicazione.

Nel periodo in cui scrivevo La melanconia del vampiro il mondo intero faceva i conti con mutamenti di straordinaria portata. Il crollo del muro di Berlino, la fine dell'Unione sovietica, che per molti era la fine del Male, per tanti altri di un sogno e di un'illusione, spingevano qualcuno a parlare di fine della storia. Sia che fosse stato assunto come metafora del comunismo sovietico, sia che venisse accostato al capitalismo occidentale, il vampiro, con la fine dei regimi dittatoriali che si definivano comunisti, perdeva almeno due delle sue più importanti raffigurazioni. Lo stesso vampiro, che non aveva ombra, doveva di nuovo trasformarsi, trasferirsi altrove.

La «melanconia del vampiro» poteva raccontare e riflettere la più generale depressione che investiva l'Est e l'Ovest, in un periodo di trasformazioni epocali, per nulla immaginate soltanto qualche anno prima? La melanconia era, davvero, lo stato d'animo, la patologia capace di descrivere non certo la fine della storia, ma il senso della fine di un mondo e di un'epoca?

All'inizio degli anni Novanta (1990-1992) usciva in Francia un volume dal titolo davvero significativo La mélencolie démocratique. Comment vivre sans ennemis di Pascal Bruckner pubblicato in Italia nel 1994 a cura dello stesso autore. Bruckner, noto allora soprattutto per un perturbante romanzo, Lunes de fiel (1981), da cui era stato tratto un film di successo, inserendosi nel dibattito politico e culturale seguito al crollo dell'ordine totalitario si soffermava sulla disillusione che accompagnava, all'Est come all'Ovest, questo evento e l'affermarsi di nuove prospettive nel mondo.

Per la prima volta, a quanto mi risulta, la melanconia – che, nel passato, era stata accostata alla follia, al licantropismo, alla stregoneria, al vampirismo o alla genialità, e indicata come modo di essere di interi gruppi sociali innovativi in opposizione all'ordine vigente (i monaci medievali, i giovani aristocratici colti dell'Inghilterra elisabettiana, le élite aristocratiche francesi del Seicento, gli intellettuali borghesi tedeschi del Settecento, i romantici di tutta Europa nell'Ottocento) – veniva associata alla democrazia (entrambi i termini erano nati però nell'antica Grecia) intesa come il sistema, l'organizzazione e la filosofia politica del mondo occidentale in nome dei quali ci si era opposti all'ordine totalitario dei paesi dell'Est.

Da una posizione illuminata e liberale, con esplicito richiamo alla tradizione dell'illuminismo e alla sua fiducia nella civilizzazione progressiva dell'umanità, Bruckner definisce melanconia democratica il sentimento che caratterizzava quegli anni. L'Occidente aveva perso, con la scomparsa dell'avversario sovietico, i suoi riferimenti e si ritrovava improvvisamente, inaspettatamente, senza nemici dichiarati e dunque solo di fronte a se stesso. La vittoria della democrazia appariva, pertanto, paradossale, e faceva nascere più problemi di quanti non ne avesse risolti. Il disincanto post-totalitario si trasformava, in Europa e in Occidente, in rassegnazione e in una generalizzata apatia civica.

Avevo avuto modo di segnalare questo paradosso con riferimento alle piccole comunità dell'universo mediterraneo: la scomparsa del nemico, in ambienti segnati da conflittualità e da dualismi, si trasformava spesso in una sorta di disincanto, di tristezza, di crisi di identità in quanti erano vissuti per combatterlo. Al di là delle contingenze politiche, sociali e culturali, mi sembra - la la lettura è a posteriori - che sia la melanconia del vampiro sia la melanconia democratica si ponessero, in maniera diversa, una stessa domanda: perché l'Occidente, e non solo, sembra non saper e non poter vivere senza nemico? Perché la nostra ragione d'essere consiste spesso nella necessità di individuare in nemico esterno, o anche interno, da combattere?

Perché abbiamo bisogno di creare il vampiro, di cui avere paura e da cui proteggerci, per poter strutturare una nostra particolare identità?

L'antidoto alla depressione consisteva, secondo Bruckner, in una sorta di scetticismo attivo, capace di realizzare, senza molte speranze nella perfettibilità umana, le promesse dell'illuminismo: rifiuto della servitù, allargamento dei diritti e delle libertà, civilizzazione progressiva dell'umanità.

Lo scrittore riteneva che il nazionalismo xenofobo, che stava scatenando etnocidi e guerre all'Est, e il mondialismo generalizzato e ingenuo costituissero dei pericoli mortali per la tradizione illuminata e democratica occidentale. Con grande lucidità di analisi Bruckner segnalava il rischio che comportava l'amalgama tra cosmopolitismo e mondialismo.

Il mondialismo costituisce, per lo scrittore, quella «sotto-cultura che dovrebbe rimpiazzare le altre, un'accozzaglia a base di fast food, di uniformità nell'abbigliamento, di serie televisive di musak che pretende di piegare tutti gli uomini sotto lo stesso giogo, a Los Angeles come a Caracas, Bombay o Lagos».

La stessa world music, che pure viene presentata come musica del mondo, in realtà è solo «il saccheggio e il riciclaggio a fini consumistici di tutti i ritmi del pianeta» allo stesso modo in cui l'inglese, come pretesa lingua universale, diventa «impoverimento, dialetto di un'umanità di illetterati». Il mondialismo «è tutto meno che cosmopolita; se può inghiottire, classificare, digerire qualsiasi cosa, è perché inizia con le culture che svuota dall'interno, smembra e scarnifica per restituirle in seguito, imbalsamate come mummie nei loro sarcofagi, uccidendo sia la loro profondità che la loro singolarità».

«Il vero cosmopolitismo, contrariamente a questa poltiglia babelica, è radicato nella profondità di molte memorie, di particolarità multiple. Liberarsi dalle proprie radici, separarsi da ciò a cui siamo vicini per avvicinarci a ciò da cui siamo lontani, non vuol dire fluttuare come un atomo senza legami ma rivendicare altre appartenenze oltre alla propria; ad una patria di nascita, opporre una o due patrie d'elezione. Ecco perché il cosmopolitismo è sofferenza, è una prova che si infliggono degli esseri superiori, che trovano la loro gioia e la loro forza nel fare arretrare i limiti abituali che sembravano degli assoluti al comune mortale».

È una considerazione che sarebbe piaciuta al De Martino che contro il falso cosmopolitismo affermava la necessità di mantenere un punto di riferimento, un «villaggio nella memoria». Non il ritorno angusto a una piccola patria, ma la rivendicazione di una patria di origine, condizione necessaria per poter affermare un diverso senso dell'appartenenza in un più vasto mondo.

A leggere adesso la più avvertita riflessione politica di quei primi anni Novanta viene da pensare che la metafora politica del vampiro, finite quelle che lo identificavano col capitalismo o col comunismo, si stava trasferendo altrove, trovando nuova collocazione all'interno di quella che ormai chiamiamo globalizzazione. L'associazione è evidente in autori antiglobal o noglobal, ma era stata anticipata da studiosi non radicali e che si collocano all'interno di una tradizione illuminata e democratica come, per l'appunto, Bruckner.

L'avvertimento dello scrittore francese e di altri intellettuali – che nasceva all'interno di una tradizione illuminata che ha sempre saputo mettersi in discussione e segnalare i rischi di un preteso universalismo – giungeva, forse, tardi. Il vampiro globale, che tutto voleva divorare e digerire, aveva già creato, quasi involontariamente, tante mummie che avevano, a loro volta, la capacità di trasformarsi in vampiri minacciosi.

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L'INFELICITÀ ARABA

Non è stata la ragione a generare i mostri, se mai la rinuncia alla migliore tradizione illuminista, l'incapacità dell'Occidente di opporre la ragione ai propri istinti autodistruttivi, contro quella pratica di affermarsi creando nemici.

Il grande vampiro svegliava vampiri non meno inquietanti, devastanti, minacciosi, complementari. Il fondamentalismo islamico si andava affermando come l'altro volto, l'altra creatura, l'ombra del mondialismo cannibalico.

Anche il fondamentalismo, che nega tutte le diversità, e che tutto vuole ridurre a unità, si basa, infatti, su legami e negazioni di tipo vampirico.

L'islamismo jihadista non nasce all'improvviso e, del resto, la storia dei rapporti tra Europa e mondo islamico, pure con contaminazioni e influenze reciproche, non era stata idilliaca. Gli antichi conflitti di carattere religioso avevano assunto un altro significato nel periodo del colonialismo, con l'arrivo degli occidentali nei territori delle genti islamiche.

È appena uscito un libro che parla della melanconia araba quasi come di una figura speculare, complementare e asimmetrica della melanconia democratica. Ne è autore Samir Kassir, giornalista, storico, impegnato con la sinistra democratica libanese, assassinato a Beirut il 2 giugno 2005 per le sue idee che non lasciavano spazio ai sostenitori, occidentali e musulmani, dello scontro di civiltà. L'infelicità araba (2006) parla di una sensazione diffusa e profondamente radicata in milioni di persone per le quali «il futuro è una strada ostruita [...], non ci sarebbe remissione possibile se non la fuga individuale». L'infelicità araba, però, è anche lo sguardo degli altri: quello «sguardo che impedisce perfino la fuga e che, sospettoso o condiscendente che sia, ti rimanda alla tua condizione ritenuta ineluttabile, ridicolizza la tua impotenza, condanna a priori la tua speranza». Lo sguardo dell'altro non solo non aiuta, ma destabilizza, aumenta il senso di impotenza. L'infelicità «degli arabi consisterebbe nella loro impotenza a 'essere' dopo 'essere stati'». Essa non è, secondo Samir, il risultato della modernità, ma del suo mancato compimento. La modernità araba, che aveva prodotto profonde trasformazioni nella vita e nella cultura, figlia del pensiero illuminista della Nadha (la Rinascita), affermatasi tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX, viene bandita dall'islamismo jihadista.

Pur non essendo dominante nei paesi islamici, la concezione fondamentalista dell'Islam ha una «forte capacità di suggestione, probabilmente perché è oggi l'unico movimento a offrire una via d'uscita alternativa al ruolo di vittime che gli arabi si compiacciono di coltivare».

L'islamismo jihadista appare l'unica risposta possibile a quella che viene vissuta come oppressione dell'Occidente, in particolare degli Stati Uniti. Ecco la nascita del nemico da distruggere, frutto di complessi processi storici, ma anche di immagini che si scambiano universi, se non ostili, certo separati.

Oppositori occidentali dell'idea di scontro tra civiltà, come Noam Chomsky, all'indomani dell'11 settembre, ricordavano come gli Stati Uniti avessero fatto di tutto per fare prosperare quello che poi sarebbe diventato il Nemico. Dall'Indonesia di Suharto, ai Talebani antisovietici, fino allo stesso Saddam Hussein.

Se la «melanconia democratica» sembrava paralizzare l'Occidente, anche le sue élite più illuminate e critiche, sospingendole a immaginare la fine della storia e il definitivo affermarsi del proprio modello di valori, la tristezza araba si traduceva nella reazione a un senso di frustrazione e risentimento che sedimentava da decenni, se non da secoli.

La melanconia democratica impediva un pensiero lucido e azioni coerenti, era alla ricerca di un nuovo nemico, che non si accorgeva di avere contribuito a costruire nel tempo. La tristezza araba si poneva il problema di una via d'uscita dall'impasse in cui si trovava, e anch'essa aveva bisogno di un nemico e di gesti emblematici che restituissero orgoglio e senso di sé a popolazioni frustrate, spesso affamate dai loro governanti.

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L'ARRIVO DEL NEMICO E L'ENNESIMA METAMORFOSI DEL VAMPIRO

Gli aerei che si infilano nelle Torri gemelle sembrano grandi pipistrelli, che colpiscono, divorano, riducono in cenere metalli e vetri che accoglievano migliaia di persone inconsapevoli.

La metafora dell'aeroplano vampiro che inghiotte le torri, distrugge vite, e provoca uno shock immane, viene spontanea nel luogo che mille volte era stato evocato come il luogo delle rovine per eccellenza, un luogo attraversato e devastato da mostri, zombies, morti viventi, alieni come tanti film, romanzi, canzoni avevano raccontato.

Eppure un evento mille volte immaginato viene accolto come qualcosa di inimmaginabile, di irrappresentabile, di irriducibile a un significato.

Sandro Portelli – ricordando non solo le previsioni della fantascienza, ma anche le anticipazioni presenti nella forma narrativa più americana di tutte, il western – si interroga su come sia possibile che uno stesso avvenimento venga considerato inimmaginabile e nello stesso tempo continuamente immaginato e descritto.

Questa contraddizione suggerisce che il nesso fra l'immaginario, come repertorio di immagini, e l'immaginazione come elaborazione creativa sui dati dell'esperienza è molto precario. Ciò che è ipotizzabile nello spazio della fiction, e ciò che è pensabile come qualcosa che potrebbe succedere davvero sono cose diverse e quasi incomunicanti.

Nella realtà nessun crollo assomiglia ai crolli attesi e minuti dall'immaginario occidentale. E quanto è accaduto l'11 settembre, e dopo, mette in discussione le vecchie categorie interpretative, ma anche il nostro modo di immaginare e di pensare.

Niente sarà più come prima neanche nella percezione che gli americani hanno del corpo, dell'altro, della morte, della sepoltura. Una nuova paura, un'inedita angoscia, uno shock impensato opprimono gli americani e (dopo Madrid e Londra) anche gli europei.

Umberto Eco dichiara in un'intervista che nessuna guerra tradizionale è ormai possibile, poiché non concerne più due paesi nemici e non si combatte più tra due fronti ben distinti.

Mario Pirani ricorda che lo «stesso concetto di territorio è diventato sfuggente, così come il fattore temporale, per dar spazio, invece, a un conflitto intermittente, in luoghi diversi e lontani fra loro, che non presuppone dichiarazioni di belligeranza né firma di trattati di pace...».

L'idea stessa di nemico sembra profondamente mutata. Egli è invisibile, imprevedibile anche quando ci è prossimo, anche quando vive nelle metropoli europee e americane, apparentemente come gli occidentali. Franco Cardini nel suo libro L'invenzione del Nemico, afferma che quanti parlano dello scontro temuto o voluto tra civiltà «sembrano trattare l'Islam non già come un nemico – e sarebbe già questo gravissimo – bensì come il Nemico. Si parla del fondamentalismo islamico e del terrorismo che vi è collegato come dell'"Impero del Male", riprendendo la definizione reaganiana del comunismo». È il riferimento a un nemico che somiglia molto da vicino a quello che Hannah Arendt ha definito come il Nemico metafisico, il Male incarnato, potremmo aggiungere il Vampiro, che di volta in volta è il comunista, l'ebreo, il fascista, il capitalista, il massone, il prete. D'altra parte l'invenzione del Nemico metafisico appartiene ormai anche all'islamismo jihadista, che si è scoperto vittima di un odio generalizzato.

Jean Baudrillard ha mostrato come sia per l'Occidente che per l'Islam fondamentalista, in maniera speculare, il Nemico diventi spettrale, un doppio. L'11 settembre sarebbe un prodotto dell'Occidente e della globalizzazione, intesa come realizzazione integrale del Bene. Questo significa anche che «l'assassino e la vittima», Islam e Occidente, kamikaze e brokers di borsa, «sono una sola persona», dall'altro l'indistinguibilità tra il nostro desiderio inconscio e le motivazioni dell'altro, dei terroristi, dei kamikaze. E così, non solo il Nemico è l'altro, ma il Nemico siamo noi. Il vampiro non è soltanto il Nemico, ma noi siamo vampiri degli altri e di noi stessi. Attentati, rovine, suicidi di kamikaze rivelano un'apocalisse già accaduta. L'apocalisse «è già presente, sotto forma di liquidazione inesorabile di ogni civiltà, e forse addirittura della specie. Ma ciò che è liquidato resta ancora da distruggere». Il problema posto dalla storia, scrive Baudrillard, «non è che essa avrà fine», ma al contrario, che «essa non avrà fine – dunque non avrà finalità, scopo, telos».

Forzando il pensiero di Baudrillard, potremmo sostenere che modernità, Occidente, apocalisse, si inscriverebbero in un'unica grande vicenda, segnata fin dall'inizio. E del resto, dal melanconico Saturno che divora i propri figli al melanconico vampiro di se stesso, di cui scrive Baudelaire, la tradizione occidentale sembra custodire una sorta di consapevole tendenza all'autodistruzione. Il mondo globale come un non morto e un non vivo, come prodotto di un vampiro che ha divorato gli altri e se stesso?

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NEMICI COMPLEMENTARI E INSEPARABILI

Resta da domandarsi, abbandonando antiche categorie, quanto il terrorista, almeno quello nato e cresciuto nell'Occidente, sia figlio della predicazione fondamentalista e quanto invece non sia anche il prodotto di una forma di nichilismo che riguarda proprio il mondo occidentale. Lo stesso nemico invisibile non è del tutto nuovo: aveva fatto la sua comparsa già nella seconda guerra mondiale «Apparecchio americano, getta bomba e se ne va», così una filastrocca recitata da bambini quando era ancora fresca la memoria del bombardamento degli aerei americani che arrivavano, improvvisi e inattesi, e colpivano spesso la popolazione civile. La bomba su Hiroshima non aveva ampiamente raccontato di un nemico che colpisce a caso, senza sapere nemmeno chi e con quali esiti?

Il terrorismo fondamentalista si presenta con un volto radicalmente diverso dalle nostre peggiori fantasie in un singolare gioco di rovesciamento della costruzione del Nemico – assorbire, vampirizzare i materiali e i simboli dell'altro che si vuole distruggere.

Pirani ricorda che quanti, contrastando quasi in maniera esorcistica il paradigma dello scontro di civiltà, parlano di scontro di culture, trovano difficoltà nello stabilire lo spartiacque tra «comunità occidentale» e «fondamentalismo islamico», in quanto la jihad stessa ha più significati e gli attentatori suicidi non sono psicotici incomprensibili ma portatori di un messaggio che non lascia insensibili grandi masse.

L'uso delle tecnologie più avanzate, della Tv e di internet consente di unificare e mettere in contatto masse prima isolate. L'aggancio alla modernità mediatica si rivolge contro coloro che, all'interno del mondo islamico, credono ancora nella modernizzazione della loro società e non si piegano a un'interpretazione totalizzante della legge coranica.

Anche la scelta simbolica delle Twin Towers da parte dei terroristi rivela una capacità di leggere e interpretare le paure e l'immaginario degli americani. La scelta dei nonluoghi (nell'accezione di Marc Augé ) - aeroporti, stazioni ferroviarie, metropolitane, grandi magazzini - come simboli e spazi fragili della surmodernità che si vuole combattere, ci mostra dei terroristi capaci di leggere e piegare al loro uso anche la critica interna dei modelli e dei valori occidentali. Non sorprende, allora, che la devastazione dei non luoghi avvenga ad opera di persone non visibili, che si trasformano e trasformano le vittime in non corpi. Jean Baudrillard ricorda come il terrorismo abbia cambiato le regole del gioco usando le stesse regole dell'Occidente, affermandosi nel «cuore stesso della cultura che lo combatte». È il trionfo dell'anonimato, il controllo perfetto della clandestinità. E tuttavia i luoghi, che sembrerebbero negati da un conflitto che si combatte nel non luogo dei media globali, trovano una diversa affermazione. Ground Zero è diventato un luogo di pellegrinaggio, di culto e di memoria e, paradossalmente, anche i terroristi sostengono di combattere la loro guerra in nome dei luoghi sacri dell'Islam.

I kamikaze scelgono proprio ciò che noi, almeno oggi, consideriamo il negativo per eccellenza: «I terroristi sono riusciti a fare della loro stessa morte un'arma assoluta contro un sistema che vive nell'esclusione della morte, che ha eretto a ideale l'azzeramento della morte, lo zero-morte». Anche i neocons e Bush, con l'invasione dell'Iraq, hanno giocato tutto sulla morte, spostando il conflitto sul piano del simbolico. Ma anche in questo caso tutto può essere rovesciato: il trionfo di una cultura della morte ha generato anche un nuovo senso della vita.

Impensabili e inattesi elementi di vicinanza si rivelano proprio là dove Occidente e Islam, nelle versione integralista, sembrerebbero inconciliabili. La tradizione culturale occidentale più che negata dal terrorismo viene in realtà frantumata, divorata, interiorizzata in alcuni dei suoi caratteri costitutivi.

Salvatore Settis nel Futuro del 'classico' ricorda come frammenti della tradizione classica affiorino all'improvviso là dove meno te lo aspetti. All'indomani dell'11 settembre il mullah Muhammad Omar, capo dei talebani, paragonava l'America a Polifemo, «un gigante accecato da un nemico a cui non sa dare un nome», da un Nessuno. L'arcinemico della cultura occidentale si presentava dunque al mondo come lettore dell'Odissea.

Sono, paradossalmente. i fondamentalisti a dare una ragione a concezioni presenti nella tradizione occidentale. Nel momento in cui negano la tradizione occidentale ne affermano le visioni e le paure.

Dopo il discorso di Benedetto XVI a Ratisbona abbiamo assistito a forti reazioni nei paesi musulmani. In molte immagini mandate in onda da Al Jazeera e dai siti dei fondamentalisti, il Papa compare nelle vesti di Dracula con il sangue che scorre dalla bocca, con la scritta «Decapitatelo» come si faceva con il vampiro.

Fa pensare, tuttavia, il fatto che i fondamentalisti, per parlare agli occidentali e rivolgersi alle masse musulmane, utilizzino una figura, una metafora, quella del vampiro, interna alla tradizione occidentale. Americani neocons e fondamentalisti islamici si rinviano immagini complementari e distorte, rivelando una stessa concezione del male, che attribuiscono all'altro. Ma i rapporti tra Occidente e mondo arabo (Islam) sono stati, davvero, sempre improntati a negazione reciproca? Sono stati sempre rapporti di tipo cannibalico?

Cardini, ricostruendo i rapporti tra Occidente e Islam, mostra come nel concreto sviluppo storico, nella vita politica, economica, culturale, religiosa l'Islam sia stato anche un fedele compagno dell'Occidente. Tariq Ramadan, un intellettuale considerato vicino al fondamentalismo islamico, in un'intervista a Riccardo Staglianò afferma: «L'Europa e l'Occidente avranno problemi a sopravvivere se insisteranno a volersi definire in contrapposizione all'altro – in questo caso l'Islam – che ci fa paura. Forse ciò di cui l'Europa ha più bisogno oggi non è tanto un dialogo con le altre civiltà ma un vero dialogo con se stessa, con tutte le componenti che per troppo tempo si è rifiutata di vedere impedendosi di valorizzare la ricchezza delle tradizioni religiose e filosofiche che la costituiscono».

Come ricorda Samir Kassir, tuttavia, anche il mondo islamico deve mettersi in discussione. «Da parte araba, in particolare, è richiesto uno sforzo notevole per porre fine alle ambiguità che incoraggiano una logica culturalistica dello scontro frontale. In primo luogo rivedendo quest'ottica della Vittima, relativizzando cioè lo statuto di vittime in cui le società arabe si sono adagiate». Se molti intellettuali occidentali rifiutano lo scontro di civiltà e invitano a una rinuncia all'eurocentrismo, altri intellettuali musulmani si rendono conto dell'importanza di abbandonare l'islamocentrismo.

Bisognerebbe «poter continuare a rifiutare Huntington e a ricordare Lévi-Strauss [...] niente di più difficile visto che da tutte le parti si insiste nel coltivare la differenza», scriveva Samir Kassir, la cui morte conferma questa difficoltà.

Bisogna capire che in fondo la sfida della globalizzazione vede impegnati tanti attori, altre civiltà, molti popoli. Ed è una sfida aperta. Il mondo, nonostante tutto, resiste alle omologazioni. Tanti intellettuali vedono nella globalizzazione culturale la grande occasione della cultura araba «contrariamente a quanto si compiace di temere una visione identitaria insicura di sé».

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CANNIBALI E MOSTRI ORDINARI

I vampiri ritornano con forza non solo nell'immaginario, ma nella realtà delle nostre vite dando corpo alle paure che la letteratura e il cinema avevano risvegliato in modo latente. Anche i cannibali dalla letteratura e dalla finzione compiono frequenti, devastanti escursioni nella vita di ogni giorno per farci capire che la realtà è a volte più inquietante e drammatica dell'immaginazione.

Hannibal Lecter, lo psichiatra serial killer e cannibale, protagonista di diversi romanzi dello scrittore statunitense Thomas Harris, è una sorta di personaggio di culto e di eroe mediatico dell'ultimo quindicennio. Il silenzio degli innocenti, (The Silence of the Lambs, 1988), da cui è stato tratto il film omonimo diretto da Jonathan Demme (1991) ha reso il cannibale familiare a un vasto pubblico. Il dottor Lecter, già presente in Red Dragon del 1981 e poi in Hannibal (1999), torna adesso in Hannibal Rising (2006), dove viene raccontata la sua infanzia dolorosa e terribile. È in preparazione un film che sembra assumersi l'onere di rendere ulteriormente accettabile e «comprensibile», «umanizzandolo», l'inquietante cannibale. La realtà, tuttavia, resta più potente, più cruda della fiction. Qualche anno addietro le cronache di tutto il mondo si sono occupate del celebre «cannibale di Rotenburg», Armin Meiwes, il quarantaduenne tecnico di computer che aveva confessato di aver ucciso e divorato un uomo consenziente. Meiwes aveva conosciuto la vittima, Bernd-Juergen Brandes, 43 anni, ingegnere di Berlino, mediante un annuncio pubblicato su internet nel quale cercava qualcuno che accettasse serenamente di essere macellato e divorato. A quanto pare, sarebbero stati in molti a rispondere. La notte fra il 9 e 10 marzo 2001, in una soffitta mattatoio, Meiwes, dopo aver sedato con tranquillanti e alcool l'ospite consenziente, lo mutila, lo dissangua fino a farlo morire e poi chiude in buste di plastica e surgela le parti del corpo sezionate che consuma poi con calma (secondo gli inquirenti, Meiwes sarebbe riuscito a mangiare almeno venti chili di carne umana). Il tutto viene registrato con una videocamera, tenuta accesa per seguire l'intera operazione.

L'avvenimento provoca sgomento, turba l'opinione pubblica. Divoratore e divorato si presentano in una loro inquietante apparente normalità, sembrano tranquilli vicini di casa, «spiegano» il loro comportamento come pratica di amore e di condivisa ricerca del piacere erotico. Armin Meiwes è stato condannato a 8 anni e mezzo di reclusione, con una sentenza che sconvolge e scontenta tutti: l'accusa aveva chiesto l'ergastolo, ma ha avuto la meglio la linea difensiva, che ha parlato di uccisione su richiesta e di Bernd-Juergen Brandes come vittima consenziente.


ALLA FINE, L'AMORE

A conclusione della prima edizione di questo libro ricordavo come l'Occidente abbia inteso i rapporti con l'altro sia come pratiche vampiriche sia come legami di amore. Di come vi siano, nello stesso tempo, un eros distruttivo e un amore che crea vicinanza e che salva. Nella nostra tradizione coltiviamo una doppia e ambigua concezione dell'eros, della melanconia, delle rovine, dei defunti. Dipende dalle nostre scelte che siano nobilitati nei loro elementi positivi o che affiorino come negatività.

Mentre l'America ricorda ancora con paura e angoscia l'11 settembre, mentre Bin Laden continua a lanciare minacce e messaggi di morte, mentre sembrano prevalere i fautori degli scontri di civiltà, non so immaginare altro che un'affermazione della migliore tradizione occidentale, un illuminismo capace di guardare alle diseguaglianze e alle storture del mondo, tuttavia insufficiente senza l'affermarsi nel mondo di sentimenti di pace e di pratiche quotidiane di amore. Senza bisogno di creare nemici all'esterno, con la consapevolezza che il nemico abita spesso dentro di noi.

La notte precedente la consegna del testo della prima edizione di questo libro all'editore, ho fatto un sogno che allora non volli raccontare. Sento bussare alla mia porta di casa. Apro e vedo un vampiro, triste, discinto, innocuo. Provo un grande disagio, ma non sono terrorizzato. Domando, come si usa dalle mie parti, a chi bussa come va, cosa c'è. Il vampiro piange perché ho scritto che i vampiri non esistono, che sono frutto della nostra immaginazione e della nostra fantasia. Narcisismo di chi immagina di aver capito qualcosa e di essere anche riuscito a mostrarlo? Legame con l'oggetto di studio lungamente interrogato e da cui non ci si riesce a liberare? Non mi sono più occupato di vampiri, da allora, ma molte storie che ascolto e che vivo, molte vicende del mondo, in fondo sono storie d'amore con la possibilità e il rischio di trasformarsi in rapporti vampirici.

Continuo, con la ragione e senza ingenuità, a pensare che i vampiri siano nostre creature, ma che nulla è più vero e più solido di quello che creiamo con la fantasia e con l'immaginazione e che quanto inventiamo poi possa vivere di vita propria. È nostro compito quotidiano controllare, accogliere, addomesticare i vampiri che si aggirano dentro e fuori di noi, vivere senza nemici, praticare l'amore.

dicembre 2006

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