Copertina
Autore Hilary Thayer Hamann
Titolo Antropologia di una ragazza
EdizioneFandango, Roma, 2011 , pag. 732, cop.fle., dim. 15x21x3,7 cm , Isbn 978-88-6044-223-9
OriginaleAnthropology of an American Girl [2010]
TraduttoreMonica Capuani
LettoreElisabetta Cavalli, 2012
Classe narrativa statunitense
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Opale                                 9

Tracce                              175

Montauk                             335

Tropici                             401

Citation                            445

Alberi                              499

Fiume                               629


Ringraziamenti                      725

Opere citate                        727


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 11

1



Kate si voltò a controllare le nuvole che minacciavano pioggia e l'arco immacolato della sua gola assunse una lunghezza paragonabile a quella del collo di un cigno che si liscia con il becco. Pedalammo oltre le case signorili di Lily Pond Lane e il cielo si accomodò, facendo riposare il suo ventre gravido sulla terra.

"Sbrigati", la sentii gridare attraverso lo schioccare dei raggi. "Sta per piovere."

Lei cominciò a correre più veloce, e anch'io accelerai, anche se mi piaceva la pioggia e mi sentivo riconoscente per i cambiamenti che operava. Non c'è niente di peggio della miscela di noia e aspettativa, di come le due sensazioni si intrecciano, generando scontento. Aprii la bocca lasciando entrare la bruma, catturando alcune gocce di pioggia che si stavano formando in quel momento, e riuscii a sentirne esplodere le membrane al mio passaggio, una cosa triste, come rompere la tela di un ragno. A volte non puoi fare a meno di distruggere le cose intricate nella vita.

A Georgica Beach ci sedemmo sul gradino di cemento della costruzione vuota del bagnino. Le biciclette giacevano a terra ai nostri piedi, con le ruote posteriori che ancora giravano leggermente. Kate accese una canna e me la passò. Io la aspirai lentamente. Mi bruciò la gola, cauterizzandola e disinfettandola, e mi fece pensare alla pelle degli animali conciata per ricavarne le tende dei pellerossa. Gli indiani si sballavano un tempo, e quando erano sballati si sentivano proprio come me adesso.

"Si sballano ancora", mi corressi. Gli indiani non sono mica estinti.

"Che cosa hai detto?", chiese Kate.

"Niente", dissi. "Stavo solo pensando agli indiani."

Il suo piede sinistro e il mio piede destro si toccavano. Avevamo lo stesso numero e ci scambiavamo le scarpe. Mi chinai in avanti e cominciai a giocherellare con l'estremità rivestita in plastica del laccio della sua scarpa da ginnastica, infilandolo nei buchini di metallo delle mie Tretorn mentre la pioggia aveva preso a scendere in maniera apatica davanti a noi. Nel mio zainetto trovai della carta e un pezzo di carboncino rotto, e cominciai a fare uno schizzo di Kate. L'atmosfera aderiva alle sue ossa come un cuscino accoglie una testa addormentata. Cercai di ricordare la storia del panno di santa Veronica – qualcosa su Cristo che imprimeva il suo ritratto col sangue o col sudore sul fazzoletto di una donna. Immaginai il volto di Kate che rimaneva impresso nell'aria dopo che lei se ne era andata.

"Capisci cosa intendevo dire?", mi stava chiedendo, mentre liberava un fragile amuleto dal suo collo alto, una C per Catherine, in una calligrafia stravagante.

"Sì, certo", dissi, anche se non ne ero del tutto sicura. Avevo la sensazione che probabilmente capivo cosa intendesse dire. A volte i nostri pensieri si avviluppavano, e riuscivo a vederli nella mia mente, piccoli fili di topazio che lastricavano una minuscola viuzza persiana.

La mia mano procedeva avanti e indietro sulla carta dove stavo disegnando, spostandosi meccanicamente, perché è così che muovi le mani quando sei sballato e sei seduto nella pioggia autunnale. Le piogge autunnali sono diverse da quelle estive. Quando avevo sette anni, c'erano tante piogge estive. O forse sette anni è solo l'età in cui diventi consapevole della pioggia. Fu allora che imparai che quando piove in un posto, non piove in tutto il mondo. Mio papà e io stavamo viaggiando in macchina sotto un temporale, e raggiungemmo una linea dove l'acqua si interruppe. I raggi del sole scesero come mulini a vento, e tinsero le nostre facce e le nostre braccia di un rosa dorato, il colore dei flamingos, i fenicotteri – o si chiamano flamencos?

"Flamingos", mi corresse Kate. "Il flamenco è un tipo di danza."

Ricordo di essermi girata dall'altra parte sul sedile davanti della macchina per vedere l'acqua che continuava a cadere dietro di noi sull'autostrada. Quello fu lo stesso anno in cui imparai che tutti alla fine si devono mettere gli occhiali e che il traffico non ha un inizio. Quest'ultima cosa mi dava parecchio fastidio. Ogni volta che salivo su un'auto, pensavo: Oggi potrebbe essere la giornata in cui raggiungeremo il davanti.

La pioggia diminuì. Mi alzai e diedi la mano a Kate. "Andiamo in acqua."

Si alzò anche lei, scrollandosi via la sabbia dalla parte posteriore delle mutande, mezzo girandosi per controllarsi, stirando una gamba all'esterno alla stessa angolazione delle cinque sull'orologio, come fanno le ragazze. Portammo a mano le biciclette sul crinale del parcheggio d'asfalto e le appoggiammo contro la staccionata spaccata.

Il mare era gonfio per via della marea. Era scuro e denso in cima: si vedeva che al di sotto c'era un ribollio. Si stava formando un uragano al largo della costa di Cuba, e Cuba non è lontana da dove abitavamo noi sulla sponda meridionale di Long Island, non in termini di tempo atmosferico. Mi spogliai fino a rimanere in mutandine e maglietta e abbandonai i vestiti in un mucchietto. Kate fece lo stesso. L'acqua era rossastra e agitata, e mi sbatteva addosso, facendomi perdere l'equilibrio. Era una bella sensazione soccombere – a volte ti stanchi, quando devi sempre essere saldo in te stesso.

Papà diceva che in Normandia durante la Seconda guerra mondiale i soldati erano dovuti scendere giù dalle navi, entrare in mare, e poi avevano dovuto strisciare fino a riva. Avevano attraversato a guado l'oceano con gli zaini in spalla e i fucili in mano. Lui non aveva combattuto in Normandia; lo sapeva e basta perché sa un sacco di cose e sta sempre a leggere. Mi raccontò che gli uomini dovevano raggiungere la spiaggia per uccidere o essere uccisi.

Una cosa è dire che sei disposto a morire per il tuo paese, ma un'altra cosa è doverlo fare quando il momento si presenta per davvero. Non avrei mai potuto immaginare Jack o Denny o nessuno della mia classe che moriva per difendere l'America, anche se tutti dicevano che la guerra stava per tornare, e anche la chiamata alle armi, proprio come per il Vietnam. I russi sono pazzi, diceva la gente. Stavolta sarà nucleare. Stavolta salteremo tutti in una sola esplosione atomica rossa.

Kate venne accanto a me. "Dio, se quest'acqua è nera."

Mia madre si rifiuta di entrare nell'oceano. Lo rispetta, dice, il che in pratica equivale a dire che ha paura. Io ci entro perché mi spaventa, perché certe paure sono naturali ed è un bene distrarsi da quelle innaturali, e ancora più spaventose. Per esempio, l'oceano può ucciderti proprio come può ucciderti una bomba, ma almeno l'oceano non è tremendo come le bombe o surreale come le serre ricoperte di erbacce, o allarmante come il rumore abbaiante che fanno gli scarichi del bagno.

A scuola elementare, facevamo le esercitazioni di difesa civile in caso d'emergenza. Andava via la luce e ci alzavamo in un silenzio sincronizzato, obbedendo a ordini sussurrati e segnali furtivi con le mani, frusciando come branchi di topi terrorizzati – se in realtà si può dire che i topi si manifestino in branchi piuttosto che come fuggiaschi accidentali. Nessuno ci disse mai che tipo particolare di emergenza ci stessimo esercitando a evitare. Probabilmente, anche allora, i russi. L'idea dei russi che attaccano la parte orientale di Long Island sembrava improbabile, anche se è vero che l'East Hampton ha spiagge come quelle della Normandia. Le spiagge sono una soglia.

Chiesi a Kate se ricordasse gli allarmi gialli.

Disse di sì. "E anche quelli rossi.»

"Non dovevamo metterci in ginocchio sotto i banchi per uno dei due, così?" Misi la testa sul petto e intrecciai le dita intorno al collo.

"E per l'altro tipo", disse Kate, "dovevamo fare la stessa cosa, solo nel corridoio."

"Giusto", dissi con un brivido. "Che gran cazzata."

Lei si mise le mani a coppa intorno alla bocca e imitò un preavviso di allarme pubblico, pacifico in maniera improbabile. Era come la voce di un aeroporto europeo, come quella che avevamo sentito all'aeroporto Charles de Gaulle quando eravamo andate in Francia con il French Club – asettica e cibernetica, vitrea e opaca, come i sassi in fondo a un vaso per i pesci rossi. Kate era brava con le voci.

"Questo è un allarme giallo. Questo è un allarme giallo. Restate calmi e seguite le istruzioni del vostro insegnante."

"Qual è la differenza?", chiesi. "Cioè, cosa significano i colori?"

"Bombe, probabilmente", disse. "Tipi diversi."

"Ma una bomba è una bomba. Non saremmo stati affatto più protetti nel corridoio piuttosto che nelle classi. Perché non restare semplicemente nei banchi?"

Ci fu un fiotto d'acqua. Kate perse il suo punto d'appoggio.

Io continuai a fare congetture. "Devono averci fatto uscire perché nelle classi c'era qualcosa che nei corridoi non c'era: le finestre. E l'unica ragione per cui avrebbero dovuto volerci lontani dalle finestre era che qualcosa da fuori potesse, tipo, entrare dentro."

Kate disse: "Cristo, Evie!".

"Un attacco via terra. Una sparatoria. Granate. Allarme rosso. Morte con il sangue. Giallo significava gas. Morte per le bombe. Armi nucleari. Jack parlava sempre del rilascio di radiazioni massicce che stava per avvenire.

La pioggia era cessata; tutto quello che rimaneva su in alto era una serie di strisce color granato. Il mare sciabordava minacciosamente, confessando la sua strategica imparzialità. Il mare è un mare internazionale, e il cielo è un cielo universale. Spesso ce ne dimentichiamo. Spesso pensiamo che quello che confina con noi sia nostro e basta. Dimentichiamo completamente che ci sono altri versanti.

Kate e io tornammo rapidamente a guado verso la riva. Appena potemmo, ci liberammo dalla forza d'attrazione all'indietro delle onde e cominciammo a correre. Ci vestimmo, tirandoci su a strattoni i Levi's sulle gambe bagnate, da una parte, poi dall'altra. Entrò la sabbia, terribilmente appiccicosa.

"Merda", disse lei mentre ci arrampicavamo sulla duna verso il parcheggio. "Non mi voglio più sballare insieme a te."


A Mill Hill Lane, Kate tagliò a sinistra attraversando Main Street, e io le andai dietro. La corsia era ripida e costeggiata dagli alberi. Mentre prendevamo la curva girando a destra su Meadow Way, il piede di Kate si alzò dal pedale, e la sua gamba ruotò all'indietro al di sopra del sellino, parallela al terreno, facendomi pensare agli appassionati del pattinaggio. Saltò giù davanti a una casa marrone a un solo piano – casa sua – che giaceva bassa, come una cosa delicatamente addormentata sotto una coperta protettiva di rami d'albero. Un piccolo cartello marcava il margine del prato: IN VENDITA. Kate si chinò a raccogliere le foglie e i ramoscelli caduti su tutto il tortuoso vialetto di ardesia, cosa che sembrava un'impresa solitaria.

Una volta, quando eravamo piccole, forse sui nove anni, Kate giurò che aveva memorizzato le distanze tra i pezzi di ardesia del vialetto. All'epoca le dissi che era una bugiarda, non perché lo fosse ma perché quello è il tipo di cose che dici quando hai nove anni. Ma Kate era saltata sulla prima mattonella, aveva chiuso gli occhi e aveva continuato a percorrere il sentiero contorto e spezzettato, senza mai mancare un pezzo di ardesia e senza mai toccare l'erba.

"Ehi, Kate", la chiamai. Lei si voltò verso di me, con il viso inclinato nella penombra. "Ti ricordi quando hai camminato sull'ardesia a occhi chiusi?"

"Certo", disse.

"Lo sai ancora fare?"

"Certo." Mise giù i bastoncini che aveva raccolto e lo fece come se niente fosse. Quando ebbe finito, disse: "Provaci tu".

Non potevo precisamente dire di no, perché l'idea era partita da me. La mia bicicletta fece un rumore sordo quando la lasciai cadere. Andai alla partenza e chiusi gli occhi, cercando di immaginare il percorso che avevo fatto centinaia di volte. Sentivo il collo vulnerabile con gli occhi chiusi, come se qualcosa di affamato potesse venire a morderlo.

"L'erba non vale", la sentii dire. Alzai la gamba destra, e mentre riflettevo su dove dirigere il primo passo, il mio piede scese, atterrando parecchi centimetri avanti, leggermente da una parte. "Accidenti", disse lei. "Ce l'hai fatta."

Feci un altro passo, e la vita venne a darmi il benvenuto. Udii il fruscio benevolo degli alberi mentre il vento soffiava tra i rami, e la musica degli uccelli che si animavano come strumenti individuali che riesci a distinguere in un'orchestra. Avevo già superato dieci pezzi di ardesia; ne rimanevano altri quattro. Spostai la gamba destra un po' a destra, poi la abbassai. Il mio tallone lasciò un'impronta molle.

"Erba!", urlò Kate. "Ho vinto io!"

Aprii gli occhi e vidi un lampo di luce. Tutto quello che permaneva del buio era un fulgore nostalgico, come quando spegni il televisore e l'ombra dell'immagine perdura come un minuscolo spettro sullo schermo.

Kate e io ci sedemmo sul gradino d'ingresso della casa dei suoi genitori, guardando la luna orfana che sfuggiva all'abbraccio degli alberi. Lei taceva. Mi domandai se anche lei stesse aspettando che la luce gialla della veranda si accendesse, che la porta zanzariera si aprisse scricchiolando dall'interno, e che sua madre dicesse: On rentre, mes cheries. Tornate dentro, mie care.


L'ultima volta che la porta si era aperta su di noi, Maman non aveva sorriso. Era maggio. Il compleanno di Maman è a maggio, era a maggio – non so bene come funziona con i compleanni, se muoiono anche loro quando tu muori. Distese con difficoltà il braccio per sorreggere la porta, e quando quella si richiuse di scatto su di lei, la presi io.

"Bonsoir, Eveline", mormorò.

Quando la madre di Kate pronunciava il mio nome, non diceva Ev-a-line, come faceva la maggior parte della gente, ma E-vleen, con la prima parte proveniente dalla bocca e l'ultima che le sfuggiva dalla gabbia della gola. Ci abbracciammo. Le sue spalle fluttuarono in modo un po' gracile nel cerchio vigoroso delle mie braccia. Mi domandai: Quand'è che è diventata così piccola? Kate e io la seguimmo da una stanza all'altra. Nella sala da pranzo, le sue dita sfiorarono i tasti del pianoforte di suo marito. Lui era morto un anno prima; immediatamente dopo averlo sepolto, Maman era diventata una malata terminale. A volte senti dire di persone così innamorate che muoiono insieme.

"Ho fatto accordare ieri questo pianoforte, Catherine", disse Maman in un inglese zoppicante, "nel caso ti venga voglia di suonarlo ancora." Ca-trine.

Sistemai la poltrona che Kate e io avevamo spostato in cucina settimane prima, quando gli effetti collaterali della chemioterapia avevano cominciato a diventare violenti. Mettevamo giù Maman prendendola sotto le ascelle, proprio come si fa quando si tira su un bambino piccolo per metterlo in piedi, solo al contrario. Infilavo la sedia sotto il tavolo, poco alla volta, finché lei sussurrava: Ah bien.

Kate preparava la cena, e la stanza prendeva vita con schiocchi e sfrigolii spaventosi. Θ sconvolgente, a volte, il rumore addolorato che fa il cibo. Trascinai una sedia accanto a quella di Maman. Sperai che in qualche modo fosse un bel compleanno con noi lì, e tutti i suoi tesori dalla Francia – biancheria, bicchieri, e quei piatti con i contadini dipinti. Mi domandai quali tesori avrei conservato quando sarei diventata più grande. Nessuno nell'East Hampton faceva davvero qualcosa, almeno non nel senso della fabbricazione specializzata. Probabilmente mi sarei dovuta accontentare di una vecchia mappa della baia o di un barattolo di sabbia. Kate e io una volta comprammo quelle statuine fatte di conchiglie a Sag Harbor, un quartetto maschile sottomarino, ma non erano esattamente dei souvenir da conservare. Avevano piume tagliate con le forbici al posto delle sopracciglia, conchiglie di mitili come scarpe e chele di granchio come mani. Furono divertenti per circa una settimana, poi diventarono davvero deprimenti.

Su una striscia sottile di muro vicino alla finestra alla sinistra di Maman c'era un minuscolo dipinto a olio, il primo che avevo fatto. Lo teneva in una cornice intagliata in maniera elaborata senza vetro, solo con un buco in cima per il chiodo. Il quadro era carino così. Mi piaceva appoggiare le cose che disegnavo o dipingevo ai pali della rimessa dietro la casa di mia madre, oppure fissarle con le puntine da disegno sugli scaffali intorno alla mia scrivania. Mio padre infilava sempre le cose che gli davo nell'aletta parasole della sua auto o in qualche libro che stava leggendo. "Abbastanza buono", diceva, "ma fuori centro." Secondo lui, tutto quello che facevo era abbastanza buono ma fuori centro. A meno che non fosse una fotografia, nel qual caso diceva: "Abbastanza buona, ma hai tagliato la testa. Ed è fuori centro".

Il dipinto che avevo regalato alla madre di Kate era un olio di una rosa bianca, spampanata e sul punto di appassire. Maman aveva le stesse caratteristiche di un fiore che avvizzisce. C'era qualcosa di eloquente nella sua accettazione della rassegnazione, qualcosa di nobile nell'inalterabilità della sua posizione. La guardai socchiudendo gli occhi per vederla ancora giovane. Se non poteva più essere definita bella, aveva qualcosa di meglio – una consapevolezza della bellezza, del suo valore esagerato, della sua perdita inevitabile.

Quel giorno Maman parlò del mare. Con la sua monotonia di velluto, ricordò di quando era venuta in America con la nave. "Il mare è generoso", disse. "Θ lì quando hai bisogno di lui. Come una madre." Anche se era maggio, riuscivo solo a pensare all'autunno incipiente, e a un mondo senza di lei. "Ιcoutez", disse. "La mer, et la mère. Eh?"

Sentii che Kate stava dicendo qualcosa. Guardai in cucina, ma lei non c'era, la cucina non c'era, e neanche il cibo, e nemmeno Maman. Tutto era scomparso. Il dolce castello della mia allucinazione era crollato, svanito. Eravamo ancora sedute nella veranda, con il ginocchio di Kate che batteva sul mio. I nostri occhi resistevano all'intimità; scrutavano il nuovo cielo nero lucente, contemplando il buio, domandandosi se c'erano cieli, se c'erano angeli.

| << |  <  |