Autore Madeleine Thien
Titolo Non dite che non abbiamo niente
Edizione66thand2nd, Roma, 2017, Bazar 29 , pag. 482, cop.fle., dim. 14,5x21x5,4 cm , Isbn 978-88-98970-89-6
OriginaleDo not say we have nothing [2016]
TraduttoreMaria Baiocchi, Anna Tagliavini
LettoreMargherita Cena, 2018
Classe narrativa cinese , narrativa canadese , paesi: Cina












 

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                        «Ci sono mille modi di vivere. E noi due, quanti ne
                        conosciamo?».

                        Zhang Wei, L'antica nave



                        «Di tutte le scene che affollavano le pareti della
                        caverna, le più ricche e intricate erano quelle
                        raffiguranti il paradiso».

                        Colin Thubron, Ombre sulla Via della seta

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Mio padre ci aveva lasciato due volte, tutte e due nello stesso anno. La prima per farla finita con mia madre, la seconda per farla finita con la vita. Quell'anno, il 1989, la mamma era volata a Hong Kong e gli aveva dato sepoltura in un cimitero vicino al confine cinese. Poi, stravolta, si era precipitata a Vancouver dove io ero rimasta a casa, da sola. Avevo dieci anni.

Ecco quello che ricordo:

Mio padre, un bel volto senza età; un uomo gentile, malinconico, con gli occhiali senza montatura. Le lenti nude sembrano aleggiargli davanti al viso, leggerissime tendine. Gli occhi scuri, insicuri, guardinghi. Ha solo trentanove anni. Si chiamava Jiang Kai ed era nato in un piccolo villaggio alla periferia di Changsha. In seguito, quando scoprii che in Cina era stato un famoso pianista concertista, pensai alle sue mobili dita che svolazzavano su ogni superficie, sul tavolo della cucina e su per le morbide braccia della mamma, e poi giù, fino ai polpastrelli, scatenando l'irritazione di lei e la mia grande allegria. A lui devo il mio nome cinese, Jiang Li-ling, e anche quello inglese, Marie Jiang. Quando morì ero solo una bambina, e i pochi ricordi che conservavo, per quanto frammentari, per quanto imprecisi, erano tutto quello che avevo di lui. Li ho sempre tenuti con me.

Superati i vent'anni, nei tempi difficili seguiti alla morte di entrambi i miei genitori, mi dedicai con vera passione ai numeri, ai quali ho consacrato la vita intera: osservazioni, congetture, logica e dimostrazioni, strumenti di cui noi matematici ci serviamo non solo per interpretare, ma anche semplicemente per descrivere il mondo. Negli ultimi dieci anni ho insegnato alla Simon Fraser University in Canada. I numeri mi hanno permesso di muovermi tra l'incredibilmente grande e lo stupendamente piccolo; di vivere lontano dai miei genitori, dai loro problemi e dai loro sogni inappagati e, pensavo, anche dai miei.

Qualche anno fa, nel 2010, girando per Chinatown a Vancouver, passai davanti a un negozio di dvd. Ricordo che pioveva a dirotto e le strade erano deserte. Dai due enormi altoparlanti su strada veniva una musica da concerto. La conoscevo, quella musica: la Sonata n. 4 per violino e pianoforte di Bach, e mi attraeva a sé, come se qualcuno mi tirasse per la mano. Il contrappunto che teneva insieme compositore, musicisti e perfino il silenzio, la musica che montava con le sue onde avvolgenti di dolore e di estasi, tutto come lo ricordavo.

Mi appoggiai contro la vetrina, stordita.

E all'improvviso ero in macchina con mio padre. Sentivo la pioggia schizzare via dalle ruote, e mio padre che canticchiava piano. Così presente, così caro, che di nuovo mi sommerse il dolore per quel suicidio incomprensibile. Era morto già da vent'anni, e mai, prima, mi era tornato così vivido il ricordo di lui. Avevo trentun anni. Entrai nel negozio. Sullo schermo piatto il pianista, Glenn Gould, eseguiva con Yehudi Menuhin la sonata di Bach che avevo riconosciuto. Glenn Gould curvo sul piano, in abito scuro, sembrava ascoltare tessiture sonore assai più sottili di quelle che la maggior parte di noi riesce a percepire, e mi era... intensamente familiare, come ritrovare una lingua, o un mondo intero, dimenticati.


Nel 1989 per la mamma e per me la vita era diventata un tran tran inesorabile: lavoro e scuola, televisione, cibo, sonno. La prima volta che mio padre se n'era andato aveva coinciso con una serie di eventi epocali in Cina, eventi di cui mia madre seguiva ossessivamente gli sviluppi sulla Cnn. Le domandai chi fossero quei dimostranti, e lei mi rispose che erano studenti e gente comune. Le chiesi se mio padre fosse lì, e lei rispose, «No, quella è piazza Tian'anmen, a Pechino». Le manifestazioni che avevano portato in piazza più di un milione di cittadini cinesi erano cominciate in aprile, quando mio padre ancora viveva con noi, ed erano continuate dopo che lui era sparito a Hong Kong. Poi, il 4 giugno e nei giorni e settimane che seguirono al massacro, mia madre piangeva. La guardavo, una sera dopo l'altra. Bà aveva abbandonato la Cina nel 1978 e gli era proibito rientrare nel paese. Ma io non capivo, non riuscivo a capire neanche quello che avevo sotto gli occhi: immagini caotiche e spaventose di folla e carri armati, e mia madre davanti alla tv.

Durante l'estate, come in un sogno, proseguii le lezioni di calligrafia al vicino Centro culturale. Usavo inchiostro e pennello per copiare, un verso dopo l'altro, la poesia cinese. Ma le parole che riconoscevo - grande, piccolo, bimba, luna, cielo (...) - erano poche. Mio padre parlava mandarino e mia madre cantonese, ma io parlavo bene solo l'inglese. In principio il mistero della lingua cinese mi era sembrato un gioco, un piacere, ma poi il fatto di non capire cominciò a irritarmi. Sempre più spesso scrivevo caratteri che non ero in grado di leggere, li ingrandivo al punto che il troppo inchiostro inzuppava la carta sottile, strappandola. Ma non mi importava. Smisi di andarci.

A ottobre due agenti di polizia bussarono alla nostra porta. Informarono la mamma che Bà non c'era più, e che della pratica si sarebbe occupato l'ufficio di medicina legale a Hong Kong. Dissero che Bà si era suicidato. Poi il silenzio (qù) venne ad abitare a casa nostra. Dormiva nell'armadio, con le camicie, i pantaloni e le scarpe di mio padre, custodiva i suoi spartiti di Beethoven, Prokof'ev e Šostakovič, i suoi cappelli, la sua poltrona e la sua tazza preferita. Il silenzio (...) si agitava nelle nostre menti e infuriava in me e nella mamma come un oceano in tempesta. Quell'inverno Vancouver era ancora più grigia e umida del solito, come se la pioggia fosse un pesante maglione che non riuscivamo a toglierci di dosso. Mi addormentavo certa che al mattino Bà mi avrebbe svegliato come aveva sempre fatto, che la sua voce mi avrebbe strappata dal sonno, finché l'illusione non acuì la perdita e il dolore.

Le settimane passarono mute e il 1989 scomparve nel 1990. Io e Mà cenavamo tutte le sere sul divano, perché non c'era spazio sul nostro tavolo da pranzo. I documenti ufficiali di mio padre - certificati di ogni tipo, dichiarazioni dei redditi - erano già stati sistemati, ma rimanevano le carte sparse. E man mano che la mamma rovistava nell'appartamento, venivano alla luce ancora fogli, spartiti, una manciata di lettere che mio padre aveva scritto e mai spedito («Passero, non so se questa lettera ti arriverà, ma...») e una serie infinita di quadernetti. Vedendo aumentare quelle cose pensai che mia madre fosse convinta che Bà si era reincarnato in un pezzo di carta. O forse lei credeva, come gli antichi, che le parole scritte sulla carta fossero talismani che ci avrebbero protetto da ogni male.

Quasi sempre, la sera, Mà si sedeva tra quelle carte, ancora con gli abiti che portava in ufficio.

Io cercavo di non darle fastidio, me ne stavo nel salotto lì accanto, dove mi raggiungeva, di tanto in tanto, il quasi impercettibile frusciare delle pagine.

Il qù del suo respiro.

Scrosci di pioggia venivano giù dal cielo come lame contro le vetrate.

Eravamo sospese nel tempo.

Il filobus 29 passava e ripassava sferragliando.

Inventavo conversazioni. Cercavo di immaginare Bà, rinato agli inferi, che comprava un nuovo diario, usando una moneta diversa, e faceva scivolare il resto nella tasca di un soprabito nuovo, leggero, di piume, o in una cappa di cammello, resistente abbastanza per il cielo e per gli inferi.

Nel frattempo mia madre si teneva occupata tentando di rintracciare la famiglia di mio padre, dovunque fosse, per dire loro che il figlio, il fratello o lo zio del quale da anni avevano perso le tracce non era più su questa terra. Cominciò a cercare il padre adottivo di Bà, un uomo che in passato era vissuto a Shanghai ed era noto come «il Professore». Era l'unico componente della famiglia cui Bà avesse mai accennato. La ricerca era stata lenta e faticosa; all'epoca non esistevano Internet né le email, così per Mà era facile spedire una lettera ma difficile ottenere una vera risposta. Mio padre aveva lasciato la Cina tanto tempo prima, e se il Professore era ancora vivo doveva essere un uomo straordinariamente vecchio.

La Pechino che vedevamo in televisione, obitori e famiglie in lutto, con i carri armati fermi agli incroci e fucili dappertutto, era infinitamente lontana dalla Pechino che mio padre aveva conosciuto, anche se a volte penso che in fin dei conti non fosse poi così diversa.

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Aveva diciotto anni quando ebbe un figlio e lo chiamò Passero, un nome umile, poco usato per i maschi. Il piccolo passero era un uccello così comune che uomini e dèi, ladri e idealisti, nazionalisti e comunisti, lo avrebbero ignorato con disprezzo. Il mite passero era leggero, non aveva bagagli da trasportare né messaggi da consegnare.

Per tutta l'infanzia, Passero si era svegliato sobbalzando in piccole città. I frequentatori delle case da tè schiamazzavano ubriachi intorno alla mamma e alla zia, gli uomini tonanti come tromboni e le donne trillanti come flauti. A cinque anni già si guadagnava da vivere eseguendo ballate come La canzone della pioggia fredda o In quel luogo remoto, canti così commoventi che perfino chi non aveva altro che polvere nelle tasche cercava di dargli qualcosa da mangiare, un boccone di rapa o una crosta di pane, o anche una tirata di tabacco dalla lunga pipa. «Ecco il passerotto della sabbia (o ala d'oro, o passero rosso, o passero delle rocce)» dicevano le nonne «che torna a becchettarci il cuore».

Una volta, nel caos, passarono vicino a una compagnia di musicisti ciechi in un villaggio abbandonato. Camminavano tutti insieme - mano-gomito, gomito-mano - guidati da una bambina di otto o nove anni, l'unica che ci vedeva. Passero chiese a sua madre come avrebbero fatto i musicisti ciechi, che procedevano serpeggiando come una fune nella polvere, a nascondersi dagli aerei da guerra che mitragliavano case e rifugiati, alberi e fiumi. Gran Madre rispose con durezza, «Hanno i giorni contati. Basta una mano a coprire il cielo?». Era vero. Un anno dopo l'altro si aprivano crateri e le strade sprofondavano, città intere scomparivano nel fango, distrutte, lasciandosi dietro solo spazzatura, cani e odore putrido e nauseabondo di cadaveri, a centinaia, a migliaia e poi a milioni. E tuttavia le parole di diecimila canzoni («Io e te siamo per sempre divisi da un fiume / la mia vita e i miei pensieri vanno in direzioni opposte...») avevano riempito tutto lo spazio nella memoria di Passero, cosicché da adulto conservava pochissimi ricordi della guerra. Solo quella compagnia di musicisti ciechi era rimasta, indelebile. Una volta all'inizio della guerra e poi ancora, curiosamente, verso la fine erano riapparsi, con la bambina che li guidava ormai adolescente, venuti dal nulla per svanire di nuovo nel nulla, un nastro che si snodava ininterrotto tra le case accompagnato dal suono sommesso dei loro strumenti. Erano veri? Senza rendersene conto, anche loro - lui, Gran Madre e Trottola - avevano trovato, come i musicisti, un modo per sopravvivere restando perfettamente invisibili?

Era il 1949, gli ultimi sussulti della guerra civile. Si trovavano in una città su un grande fiume e fuori il ghiaccio sciogliendosi crepitava come tutte le ossa spezzate della Cina. Ad un certo punto, tra un canto e l'altro, apparve la faccia larga e tenera di Gran Madre che, a testa in giù, si affacciava sotto il tavolo.

Gli diede una sola caramella allo sciroppo di pera. «Questa ti manterrà la voce dolce» gli sussurrò. «Ricorda quel che ti dico: la musica è la grande passione del Popolo. Se cantiamo una bella canzone, se ricordiamo bene tutte le parole, il Popolo non ci abbandonerà mai. Senza musicisti la vita non sarebbe altro che solitudine».

Passero sapeva cos'era la solitudine. Era il corpo del cuginetto avvolto in un lenzuolo bianco. Era l'uomo sul marciapiede troppo vecchio per fuggire all'arrivo dei Rossi, era la testa decapitata del soldato bambino sulle porte della città. Quella testa che si andava corrompendo e deformando per il caldo.

Passero aspettava, e intanto perfezionava il suo repertorio musicale cantando tra sé, «La mia giovinezza è volata via come un uccello migratore...».

Mesi dopo, quando il presidente Mao comparve sulla porta di piazza Tian'anmen, le grida di esultanza riempirono l'etere. La radio trasmetteva la voce melodiosa del presidente per le strade e nelle case, perfino sotto i tavoli dove Passero aveva la sensazione di aspettare da sempre, e quella voce proclamava un nuovo inizio, una società comunista e la nascita della Repubblica popolare cinese. Le parole si avvolgevano come un filamento attorno a ogni sedia, polso e piatto, ogni carretto e ogni persona, trascinando tutte le loro vite nel nuovo ordine. La guerra era finita. Sua madre lo aveva fatto uscire alla luce del sole e lo aveva abbracciato così forte da togliergli il respiro. Aveva pianto e lo aveva talmente rimpinzato di caramelle che gli girava la testa. Poi la mattina dopo avevano ripreso a camminare, sulla strada per Shanghai.

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La vita da detenuta è una vita di moto perpetuo. La spostavano di qua e di là, come un sacco di derrate. Scava i canali, macina la farina, occupati dei maiali, coltiva l'orto, riforma i tuoi pensieri, ama il Partito, raccogli la legna, denuncia gli altri, lava il grano, canta una canzone. La capodistretto, così certa che l'avrebbero restituita alla società, alla fine si era suicidata. L'economista, categorica nella sua convinzione che l'universo le avesse dimenticate, fu la prima ad essere rilasciata. Passarono i giorni e le notti finché Trottola non cominciò a sospettare che il Partito stesso non sapesse più dov'era finita. Non riceveva lettere, né notizie di Wen; ricordò di quando stava nella casa da tè ad aspettare puntate che non sarebbero mai arrivate. La dottoressa raccontò loro di un campo non lontano dove una donna, che era incinta quando era stata condannata, aveva partorito, e il bambino era diventato la gioia del dormitorio; la storia le sembrava impossibile. Come potevano sopravvivere una madre e un neonato in quelle condizioni? Trottola sognò Gran Madre, e per giorni e giorni si consolò con la sua infanzia. In un sogno era con il figlio perduto, i genitori, Wen e Zhuli. Avevano parlato di tutto e poi, scaduto il tempo, l'avevano riportata al suo posto nel dormitorio come un libro su uno scaffale.

La sua unica amica era la traduttrice di letteratura russa e Trottola le voleva bene. Le avrebbe dato l'ultimo fen che aveva in tasca, l'ultimo tozzo di pane. L'amica, molto conosciuta, era la più importante traduttrice delle opere di Dostoevskij.

Sul lungo letto, la traduttrice era stata la prima a raccontare spontaneamente la sua storia.

«Era al tempo della Campagna dei Cento Fiori. Ci dissero di criticare il Partito, l'università, di criticarci tra di noi, di criticare perfino la qualità dei nostri pranzi e il funzionamento dei bagni». La traduttrice si girò e così fecero tutte le donne, una dopo l'altra, come onde sulla spiaggia. «E allora io, l'idiota, mi feci avanti dicendo che la mia richiesta di permesso per andare a Leningrado era stata respinta quattordici volte, e che una studiosa nella mia posizione ha bisogno del confronto con i suoi contemporanei. Mentre io andavo avanti così, tutti gli altri correvano a mettersi in salvo.

«In seguito mi chiesi» disse la traduttrice, posandosi l'indice sul naso «come avevo potuto studiare con tanta passione Dostoevskij e non capire che mi stavo scavando la fossa da sola». La parola, Dostoevskij, composta di ben otto ideogrammi, faceva mormorare tutte di ammirazione. «La mia vecchia madre pensa sia stata assegnata a un'università di Harbin. Le crollerebbe il mondo addosso, se sapesse la verità». La traduttrice batté la mano sul letto come per scacciare un fantasma.

«Non dobbiamo perdere la speranza! Il presidente Mao è un uomo buono, conosce le nostre qualità e ci salverà». La traduttrice si premette una mano sul cuore come per impedirgli di spezzarsi. Un'eco di approvazione rimbalzò da donna a donna. «Come potrebbe essere altrimenti?».

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Quando ml padre, Jiang Kai, lasciò la Cina nel 1978, riempì una delle sue valigie con una cinquantina di malconci taccuini. Contenevano bozze di autocritiche le cui versioni definitive dovevano essere state sottoposte, anni prima, a un superiore o a qualche figura autorevole. L'autocritica, samokritika in russo, [...](jiăn tăo) in cinese, esigeva che la persona confessasse i propri errori, ripetesse il corretto pensiero del Partito e ne riconoscesse l'indiscussa autorità. Secondo il Partito, la confessione era «una forma di pentimento che avrebbe riportato il singolo all'interno del collettivo». Soltanto attraverso la contrizione e l'autocritica sincere la persona caduta dallo stato di grazia conquista la riabilitazione e la speranza di «resurrezione», la possibilità di essere restituita alla vita.

Arrivai a Shanghai il primo giugno del 2016. Dalla mia camera d'albergo osservai una città avvolta nella foschia. Grattacieli e condomini si affastellavano in tutte le direzioni, cancellando perfino l'orizzonte.

La città mi ipnotizzava. Come una biblioteca, ma anche come un singolo libro, sembrava contenere in sé un intero universo. Mio padre era arrivato qui alla fine degli anni Cinquanta, figlio dei campi, sulla scia del Grande Balzo in Avanti e di una carestia causata dall'uomo che costò la vita a trentasei milioni di persone, forse di più. Aveva perfezionato la sua musica, sognato un mondo più vasto e migliore, si era innamorato. Un giorno dopo l'altro, Kai si era chinato sulla scrivania scrivendo e copiando pagine in modo febbrile, rivedendo e ripensando la sua vita e il suo codice morale. Non eravamo tanto diversi, io e mio padre; volevamo registrare ogni ricordo. Pensavamo che ci fossero, ad aspettarci, delle verità alla nostra portata - su noi stessi e sulle persone che amavamo, sull'epoca in cui vivevamo -, bastava avere gli occhi per vederle.

La nebbia estiva lentamente cancellava Shanghai. Mi allontanai dalla finestra. Feci una doccia, mi cambiai e scesi nella metropolitana.

[...]

La settimana precedente, mentre preparavo questo viaggio, mi ero imbattuta in un particolare: nel 1949 piazza Tian'anmen aveva conservato il proprio ruolo di centro del potere politico cinese a causa della geometria analitica.

L'architetto Chen Gang aveva postulato la piazza come il «punto zero». Citando Friedrich Engels, «lo zero è un punto determinato, a partire dal quale le misure su una linea hanno in un verso segno positivo, nell'altro segno negativo. È il punto dal quale essi tutti dipendono, al quale tutti si riferiscono, dal quale sono tutti determinati. Dovunque ci si imbatte nello zero, esso rappresenta sempre qualcosa di molto ben determinato: il limite. Ed è quindi più importante di tutte le grandezze effettive da esso limitate».

Quell'estate del 1966, l'anno in cui morì Zhuli, fu il punto zero per mio padre. Come centinaia di migliaia di altri ragazzi, andò in piazza Tian'anmen per giurare fedeltà al presidente Mao e votarsi al fānshēn: letteralmente, trasformare il proprio corpo, liberare sé stessi. Decenni più tardi, vide alla tv tre studenti universitari fermi davanti alla Grande sala del Popolo con una lettera per il governo. Era il 22 aprile 1989. I tre alzarono le braccia, tenendo la petizione in alto, e caddero in ginocchio, come per chiedere clemenza. Dietro di loro, in piazza Tian'anmen, più di duecentomila studenti universitari reagirono, prima sconvolti e poi affranti.

PERCHÉ VI INGINOCCHIATE?

ALZATEVI, ALZATEVI!

QUESTA È LA PIAZZA DEL POPOLO! PERCHÉ DOBBIAMO RIVOLGERCI AL GOVERNO STANDO IN GINOCCHIO?

COME POTETE INGINOCCHIARVI IN NOSTRO NOME? COME?

Gli studenti, di ogni estrazione politica ed economica, erano in preda all'angoscia. Ma i tre rimasero dov'erano, minuscole figure con la petizione che pesava nell'aria, in attesa che qualche personaggio autorevole la prendesse. Passarono dieci, venti, trenta minuti, e loro rimasero in ginocchio. Dietro cresceva l'agitazione. Quando i leader della Cina rifiutarono di rispondere, le dimostrazioni di Tian'anmen cominciarono sul serio.

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Per tutta l'infanzia, la piccola Ai-ming chiese di rileggere il capitolo 23 tante di quelle volte che le parole dovevano tornarle anche in sogno. Che cosa ci vedesse la bambina, o quale significato vi attribuisse, Gran Madre non lo sapeva. «Questa tua resurrezione letteraria» scrisse a Wen il Sognatore «ha trovato un'altra ammiratrice». Lei intendeva Ai-ming, ma Wen il Sognatore immaginava Zhuli ormai adulta. Era il 1976, e Zhuli avrebbe avuto venticinque anni. Gran Madre aveva iniziato decine di lettere per spiegare a Trottola che la figlia non c'era più, ma non aveva avuto il coraggio di spedirne neanche una. A settembre di quell'anno scrisse che Zhuli aveva ottenuto il permesso di studiare al Conservatorio di Parigi: la loro figlia adorata era andata in Occidente. Lei stessa aveva quasi finito per crederci. Per la prima volta dall'inizio della Grande Rivoluzione culturale proletaria una bugia del genere poteva essere almeno lontanamente credibile. Ma carissima Trottola, pensò, ho paura che non potrai mai perdonarmi. Sigillò la lettera affidandola al loro messaggero, Bang il Proiettore, che viaggiava per il paese portando i film nei villaggi, e che era un amico fidatissimo di Wen il Sognatore.

In quello stesso settembre ci fu la fine dell'inizio.

Per tutta la mattina gli altoparlanti spararono lo stesso ritornello eccitato, «L'onorevole Grande Leader del nostro Partito, del nostro esercito e del Popolo, il Compagno Mao Zedong, leader del proletariato internazionale, è morto...». Gran Madre si aggirò per le strade in lutto. Si fermò davanti ai giornali murali e studiò il testo strizzando gli occhi. Ma strizzare non serviva a niente: erano del giorno prima. Pensò a sua sorella e a Wen, ai suoi figli perduti e a Bà Lute, alla musica mai scritta, alle vite disperate, alle amare non-verità che si erano raccontati e avevano raccontato ai loro figli. Alle umiliazioni quotidiane che riempivano la vita da operaio di suo figlio. I quadri del Partito gli riducevano le razioni, pretendevano autocritiche, schernivano il modo in cui teneva la testa, la matita, le mani, il silenzio. E Passero non aveva altra scelta che chinare la testa. Lasciava che le loro parole gli si rovesciassero addosso come se la vita in lui fosse bruciata, come se avesse annodato lui la corda al collo di Zhuli, con le sue mani. Eppure Gran Madre credeva di capire. In questo paese la rabbia non aveva possibilità di esistere se non nelle profondità dell'intimo, rivolta verso sé stessi. Questo era accaduto a suo figlio: si era servito della propria rabbia per straziarsi.

Eppure piangere era così facile, rifletté osservando la frenesia di dolore e di incertezza che la circondava. Cercò di non pensare a Da Shan e a Orso Volante, e neanche a Zhuli e a tutti i nomi che sarebbero completamente scomparsi, relegati nella Storia per non disturbare i vivi. Fiori di carta bianca, simbolo tradizionale del lutto, inondavano ogni albero. Pianse di rabbia e di impotenza per tutti i delitti di cui la morte di un vecchio infido non avrebbe mai potuto rispondere.

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Dal loro bilocale accanto al ponte di Muxidi, in un tradizionale hutong di Pechino - un labirinto di vicoli -, a piazza Tian'anmen ci voleva solo un quarto d'ora. Quindici minuti appena, eppure, pedalando sull'ampio viale, ad Ai-ming sembrava di sollevarsi nello spazio. Crescendo doveva aver visto migliaia di immagini della piazza, ma la realtà era audacemente moderna: coppie appartate, vagabondi dai capelli lunghi, adolescenti che ascoltavano musica rock e cantavano, «Il mondo è una discarica!». I bambinetti nei cappotti imbottiti camminavano traballanti, muovendosi con la stessa pacata lentezza dei nonni, come se avessero tutto il tempo del mondo. Il vento del pomeriggio mordeva con villania, aprile non voleva rinunciare all'inverno.

La bici appoggiata al cavalletto, Ai-ming sedette sul lastricato a fissare, con un sentimento di possesso, tutta la piazza. Dacché riusciva a ricordare, il Partito aveva rappresentato il bene e il male attraverso i colori. Verità e bellezza, per esempio, erano hóng (rosse), mentre crimine e falsità erano hēi (neri). Sua madre era rossa, suo padre era nero. Ma Pechino, dove riposava il presidente Mao, era di un ocra pallido e persino i giganteschi viali avevano una sfumatura color cammello. Il rosso era presente solo nella bandiera nazionale e negli emblemi del Partito, ma tanto rosso non bastava a intaccare il mare di giallo. A volte il vento portava la sabbia dal deserto del Gobi, e la polvere si insinuava ovunque, non solo nelle sue percezioni ma anche in quello che mangiavano: il tofu morbido diventava addirittura croccante.

«Forza,» sussurrò un ragazzetto «non fare così», e la ragazza che gli si appoggiava alla spalla disse, «Se è lei che ti piace, dimmelo sinceramente. Non sono all'antica. Non farò stupidaggini...».

Ai-ming chiuse gli occhi, fingendo di non origliare. I pechinesi erano diversi, pensò. Avevano una dignità sorprendente, erano creature più complesse, e al tempo stesso più fiduciose.

Quel giorno compiva diciotto anni. Si era sciolta le trecce, emulando le ragazze di città. Pedalando lungo viale Chang'an, uno stradone a otto corsie, aveva sentito i capelli morbidi e pesanti ondeggiarle sulla schiena. Il giorno prima, invece di studiare, aveva modificato la linea del suo vestito migliore, e adesso il cotone la fasciava stretta, aderendo perfettamente sul seno e sui fianchi. Al centro della piazza alzò gli occhi al cielo ocra e pensò, «Te lo dico, mondo: io vorrei credere».

Lì, da sola, non soffriva affatto di solitudine. Era come se camminasse su qualche miracoloso circuito stampato che la rendeva più potente. Ma più tardi, verso sera, quando si incontrò con i genitori sul lato nord della piazza e andarono insieme al suo ristorante preferito, il Compagno Barbaro, cominciò a sentirsi soffocare. Sua madre irradiava ansia, o forse solo rimpianto. Dopo cena, quando Ling pagò per farsi fotografare tutti insieme davanti alla Porta Tian'anmen, Ai-ming ebbe improvvisa l'immagine di come dovevano apparire: Passero, l'operaio; Ling, il diligente quadro del Partito; e poi lei, Ai-ming, la brava studentessa. Erano persino vestiti con i piatti colori inoffensivi della famiglia modello.

«Trattenete il respiro!» disse il fotografo. «Fermi, così...».

Lei fissò lo sguardo su un punto dietro l'orecchio destro dell'uomo, dove tre ragazzi snelli con identiche giacche a vento erano fermi sotto un enorme striscione: STUDIATE CON IMPEGNO E FATE OGNI GIORNO PROGRESSI. Devo rendermi fortunata, pensò lei. Ma che cos'era la fortuna? Aveva finito per convincersi che l'interno era esattamente uguale all'esterno. Che cos'era la sfortuna se non il fatto di esistere come qualcosa, o qualcun altro, dentro di sé? Fin dall'infanzia aveva letto il diario di Passero, che suo padre doveva scrivere e sottoporre ai superiori tutte le settimane. Fino al 1978, suo padre era stato etichettato come soggetto criminale, ma con un diario così noioso non poteva certo essere un delinquente. Solo adesso Ai-ming si rendeva conto di aver sottovalutato l'Uccello del Silenzio.

Neanche Gran Madre aveva mai saputo del pacchetto di lettere dall'estero nascoste nella copertina di un disco di Glenn Gould. All'inizio ad attrarla erano stati i francobolli: magnifiche vedute di montagne canadesi e laghi ghiacciati, una carta occidentale così spessa. Scrivi? Mi mandi le tue ultime composizioni? Mio adorato Passero, penso continuamente a te. Chi era questa Jiang Kai e che aspetto aveva? Com'era possibile che l'Uccello del Silenzio avesse un amore segreto?

L'otturatore del fotografo scattò rumorosamente.

«Bene» disse Passero. «Ecco fatto!» Si girò verso Ai-ming. Sulla camicia da operaio c'era un minuscolo bioccolo. Lei glielo tolse.

Ling contò le monete da dare al fotografo. Un ticchettio sordo, come una manciata di fagioli.

Passero indicò, in cielo, un aquilone a forma di drago. Non sembrava rendersi conto che lei non era più una bambina, e non era così facile distrarla. «Guarda che bello».


A casa, nella stanzetta che le serviva da studio, si concentrò sulle riviste. Non le riviste femminili dai colori sgargianti che avevano iniziato a comparire nelle edicole di Pechino, ma pubblicazioni serissime come «Questioni di scienze naturali» . Aveva una passione per la teoria della probabilità e gli spazi simmetrici Riemanniani, che continuava a studiare trascurando politica e inglese, le materie su cui era inciampata la prima volta. Una sua vicina di casa, Lu Yiwen, fascinosa matricola dell'Università Normale di Pechino, le aveva dato una copia di L'inferno degli esami in Cina: le prove per i funzionari statali nella Cina imperiale di Miyazaki. Era un librone. Yiwen si era messa a ridere, dicendo che a lei non serviva più. Adesso Ai-ming, fissando la scrivania, avvertì l'assurdità di tutta la faccenda. Quelle altissime torri di libri formavano una città futuristica attorno a lei. Ci si nascose dentro e si appisolò. I suoi sogni si intersecavano come aerei nel cielo. Nella sua testa una voce continuava a dire, insensatamente, «Yiwen è vaporosa come una nuvola». «Il Comitato centrale del Partito comunista cinese annuncia con profondo dolore....». Si voltò, e nel farlo una pagina di «Questioni di scienze naturali» le si accartocciò sotto la guancia, lei spostò una mano per toglierla. «...il fedele combattente comunista, più volte messo alla prova, Hu Yaobang, grande rivoluzionario proletario...».

Gran Madre Coltello, pensò confusamente, borbottava sempre «yào bāng» quando sfregava la loro unica pentola per il riso. L'espressione, che significava «nazione fulgida» era anche, casualmente, il nome del segretario generale del Partito. L'ex segretario generale, caduto in disgrazia.

«È stato compiuto ogni tentativo per salvarlo...».

Ai-ming aprì gli occhi.

«È deceduto alle 7.53 del 15 aprile 1989. Aveva settantatré anni». La sedia si mosse. Il rumore del legno che grattava sul legno sembrava provenire dalle sue stesse ossa. Una spalla bruciava di dolore, l'altra sembrava più lunga e inerte. Le parve di sentire gente che piangeva. Il pianto si avvicinava, entrava insieme alla pioggia che sgocciolava e scuriva il vialetto di cemento davanti alla porta. Era sabato, ma i suoi genitori erano tutti e due al lavoro. Attraversò la stanza per sdraiarsi sul letto, troppo irrequieta per studiare, e guardò a lungo la pioggia.

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Passero uscì nella piazza. Le condizioni erano peggiorate, gli studenti erano tutti sporchi di fango, sembravano dei poveri disgraziati. Rifiuti ovunque, e una puzza spaventosa nell'accampamento. Uno dopo l'altro i presenti si avvicendavano al microfono, presentandosi come insegnanti, intellettuali, leader studenteschi.

Si trattenne a lungo a guardare. I discorsi («Non ci si inginocchia!») si fecero sempre più veementi finché, spinti dalla passione («No ai compromessi!») e dalla marea montante delle emozioni, anche loro conclusero chiedendo ai manifestanti di restare saldi e rischiare tutto («Indietro non si torna!»). Il cielo si apri, scatenando una pioggia fitta. I tendoni crollarono imprigionando gli studenti rimasti sotto: li sentiva gridare in un miscuglio di risate, lamenti e imprecazioni. Gli striscioni si piegarono verso il basso, le bandiere si appiccicarono alle aste, davanti al ritratto del presidente Mao un paio di calzoncini abbandonati e qualche maglietta bagnata sembravano gusci di tartaruga. Passero vide una ragazza alta, da sola, la bandana rosa in testa, e si chiese se potesse essere Yiwen, la figlia dei vicini. La pioggia ne sfocava la figura, e lui ebbe l'impressione di osservare il passato, o un futuro che non sarebbe arrivato mai. Sentì dei passi alle sue spalle e si girò. Fan correva verso di lui, a saltelli aggraziati, reggendo un ombrello di un azzurro brillante, come un trofeo sollevato in aria.


Fu assegnato al blocco sul Ponte di Muxidi, così vicino a casa che gli sembrava di vigilare sul proprio giardino sul retro. Passero e una decina di suoi vicini presero posto sul tetto di un autobus a cui avevano bucato le ruote. Attorno a loro si alzavano ovunque canti degli anni Venti e Trenta, e i vicini, tra cui Ling, passavano in giro torroncini, tè e pasticcini. Per tutta la notte seguì con lo sguardo la sagoma di Ling tra la folla sottostante. Distribuiva copie di un supplemento non autorizzato del «Quotidiano del popolo», stampato clandestinamente dalla stessa redazione del giornale. Nell'ultima settimana Passero aveva visto pochissimo sua moglie. Non era mai a casa, si era buttata a capofitto nei dibattiti in corso a Radio Pechino. Giornalisti e direttori, Ling compresa, si erano schierati con fermezza dalla parte degli studenti e non aspettavano più l'approvazione ufficiale prima di trasmettere i loro servizi. La Ling che aveva incontrato per la prima volta nella stanza di Kai, l'acuta studentessa di filosofia, aveva atteso pazientemente la sua occasione, e adesso eccola, come se fosse sempre stata lì. In effetti, in tutta Pechino, la gente che sembrava rassegnata a nascondersi sotto dieci strati di cappotti adesso se ne sbarazzava, via, tutti in una volta. Avevano un altro atteggiamento, erano fieri, addirittura felici, in fiore.

Lottando contro il sonno, Passero si scoprì a ricordare il beccheggiare della corriera per Wuhan, quando lui e Kai erano andati in cerca del Compagno Occhiodivetro, e una ragazza dalle guance rosse si era addormentata sulle sue ginocchia mentre suonava A volo d'uccello. Anche lui, allora, si era sentito perfettamente felice. La musica sembrava purificare tutti. Forse i messaggi degli studenti avevano prodotto un effetto simile: idee più semplici avevano messo in moto il treno dei desideri. Uno slogan su una bandana o su una maglietta, LIBERTÀ O MORTE, aveva innescato uno sciopero della fame e una impasse politica, nonché la volontà e la voglia di cambiare le proprie condizioni.

La seconda notte qualcuno disse a Passero di portare una mascherina di cotone, salviette e fazzoletti, perché ci si aspettava che l'esercito usasse i lacrimogeni.

Eppure, eppure. Il mattino dopo l'Esercito popolare di liberazione avviò i convogli e cominciò a uscire in retromarcia dal quartiere. I soldati, esausti, andando via salutavano con la mano, alcuni piangendo, altri ridendo. Man mano che si allontanavano le strade si riempivano di cordoni di fiori intrecciati.

Il sabato Ai-ming rientrò in casa senza fiato, raggiante. Disse che gli studenti avevano intavolato un dialogo con il governo, acconsentendo al pieno ritiro da piazza Tian'anmen. «Yiwen sta tornando a casa». Si voltò verso Passero e disse, «Non dovrai più sederti su quell'autobus rotto a far finta di essere un combattente».

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[...] I blindati si fermarono e altri soldati si rovesciarono fuori. «Fascisti, fascisti!» urlò un vecchio. Era in calzoni corti e canottiera bianca. Fu subito attorniato da tre militari. Passero vide un adolescente con la macchina fotografica, nell'atto di scattare. I soldati si voltarono e gli spararono. Passero si mise a correre verso il ragazzo, gridando. I soldati continuavano a sparare. Uno di loro avanzò con aria feroce, trafiggendo con la baionetta lo stomaco del ragazzo. Il giovane afferrò la baionetta con entrambe le mani, urlando, cercando di estrarla. Quando Passero li ebbe raggiunti, il soldato era già andato via e lo studente era rannicchiato a terra, sangue e organi interni che uscivano dal corpo. La tracolla della macchina fotografica, arrotolata attorno al polso, si muoveva con un moto allucinatorio. Mattoni piovvero sui militari, uno di loro cadde, la folla a un tratto raddoppiò, triplicò, circondando il soldato vulnerabile. Un materasso in fiamme volò al rallentatore sopra una camionetta dell'esercito. Qualcuno lo aveva lanciato da un appartamento, e il materasso esplose mentre cadeva. «Perché siete venuti qui?» piangeva una donna. «Non c'è bisogno di voi. Non capite? Vi hanno preso in giro. Sono tutte bugie!». Se nessuno mi aggredisce, non aggredisco nessuno! «Come potete puntarci addosso le armi?». «Noi non ci metteremo più in ginocchio!». Ma se gli altri mi aggrediscono, devo aggredirli. «Assassini, assassini,..». «Vergogna, vergogna!».

Passero si accosciò vicino al ragazzo, che lo fissava come se vedesse una faccia nota, l'unica persona visibile. «Dimmi come ti chiami» disse Passero. Stava urlando, lavorava freneticamente cercando di fermare il fiotto di sangue con le mani e poi con la camicia. Il ragazzo disse di chiamarsi Guoting, studiava all'Università del Popolo. «Che cosa mi hanno fatto?» chiese, curioso. Passero non trovò le parole. Sembrava ieri che portava la sua bambina in giro e in giro per il cortile, nella loro casa al Sud, e sottovoce le cantava una ninnananna, Ai-ming, alza gli occhi al cielo, non guardare per terra. Guarda da un'altra parte, Ai-ming... Ma quest'anno ne aveva compiuti quarantanove e il tempo, che così a lungo era parso distendersi in modo insopportabile, aveva preso a contrarsi. Strinse la mano del ragazzo, il sangue si allargava strisciando nella sua direzione. «Guoting» disse al ragazzo con voce ferma. «Non avere paura. Non ti lascio. Alza gli occhi al cielo. Vedi, il cielo ci appartiene...». I soldati non lasciavano alla gente lo spazio per tornare indietro o ritirarsi. Il rumore della folla gli impediva di pensare. Un soldato caduto tra le mani della folla implorava pietà. Il ragazzo per terra stava morendo. Possibile che il centro della sua vita arrivasse ora, in ritardo, torcendosi per tornare a riprenderlo? Qualche minuto dopo Passero si alzò e il corpo senza vita del ragazzo fu portato via con un carretto. Le strade.sembravano contemporaneamente vuote e piene.

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Stesa sul cemento, ai piedi del Monumento agli Eroi del Popolo, Ai-ming guardava il cielo grigio di fumo. Malgrado l'afa, la coperta di chissà chi le copriva i piedi, un'altra era drappeggiata sulle sue spalle. Continuavano ad arrivare studenti stravolti e isterici, gridavano che l'esercito sparava a Muxidi, gli ospedali nella zona ovest della città, dal Fuxing al Tongren, erano pieni di morti, i feriti si contavano a migliaia. Strada dopo strada, per quanti pechinesi si trovasse davanti, l'Esercito popolare di liberazione si apriva la via verso il centro. Ai-ming tirò Yiwen più vicina a sé. «Dobbiamo andare via prima che sia troppo tardi. Ti prego».

Yiwen le accarezzò i capelli, in un intontimento apatico. «È già troppo tardi» disse. Non piangeva più, era come se fosse già andata via. «Ore fa, era già troppo tardi».

Col passare dei minuti, le voci si rincorrevano sempre di più. Morti a Fengtai, a Muxidi, a Xidan. Gli altoparlanti tornarono in vita di colpo; solo che adesso non erano più le trasmissioni degli studenti, il governo aveva ripreso il controllo: Per giorni e giorni l'esercito ha mantenuto la massima calma, ma adesso è deciso ad affrontare con fermezza la rivolta controrivoluzionaria... Ai-ming chiuse gli occhi. Come poteva essere, allo stesso tempo, così afoso e così freddo? Tutto quello che vedeva era pervaso da un alone di irrealtà. Cittadini e studenti devono evacuare immediatamente la piazza. Non possiamo garantire la sicurezza di quanti violeranno l'ordine, diventando gli unici responsabili di tutte le conseguenze... Il cemento tremava come se il tumulto fosse proprio sotto di loro. «Che ore sono?» chiese Ai-ming a nessuno in particolare, e quattro o cinque voci risposero. Le tre, le tre e due minuti, quasi le tre. Nell'angolo nord-ovest un incendio, che non aveva visto iniziare, divampava ora altissimo nella notte, gettando bagliori sui militari in attesa. Il fuoco consumava le tende saccheggiate, i tavoli improvvisati, tutte le carte del sindacato indipendente. «Spero che abbiano bruciato gli elenchi» disse Ai-ming. «Spero che si siano ricordati di far sparire tutti i nomi». Gli agitatori hanno aggredito selvaggiamente i soldati dell'esercito. Collaborate con l'Esercito popolare per difendere la Costituzione e salvaguardare la sicurezza del paese...

Un ragazzo con un enorme fucile fu trascinato urlante fuori da una tenda. Il ragazzo gridava piangendo che i soldati avevano sparato al suo fratello maggiore, alla schiena. «Mio fratello è morto!» urlava. «È morto, è morto. Io li ammazzo! lasciatemi che li ammazzo!». Uno studente del servizio d'ordine sbatté il fucile più e più volte sul cemento fino a spaccarlo in due. «Vuoi che ammazzino anche noi?» disse. Un altro gli mise un braccio attorno alle spalle per portarlo via.

Cosa c'era da dire? Le dita di Yiwen si mossero lente nell'aria, come afflosciandosi.

Ormai l'esercito li aveva circondati. Il professor Liu Xiaobo e il musicista Hou Dejian, che avevano fatto lo sciopero della fame per solidarietà con gli studenti, si precipitarono fuori dalle tende, facendo di corsa la spola con il reggimento dei soldati, a pochi metri di distanza. Cercavano di negoziare la ritirata. Erano seguiti da piccoli capannelli che si disperdevano e subito si riformavano. Nel frattempo, i leader tenevano discorsi sulla necessità della non-violenza e la purezza del sacrificio. «Io non ho paura» continuava a mormorare Yiwen, tutto il corpo scosso da un tremito. Con un'esplosione di urla, i soldati che erano rimasti nascosti nel Museo nazionale uscirono marciando, a migliaia, le lunghe baionette innestate sui fucili a comporre una scintillante parata. Ai-ming vide che i carri armati accerchiavano completamente la piazza. Provò quasi gratitudine quando i lampioni si spensero, gli altoparlanti tacquero, e una nuova quiete li circondò come un tunnel. Era troppo tardi per andarsene, troppo tardi per tornare indietro.

Gli studenti arrampicati sulla base del Monumento erano nel caos, urlavano nei megafoni, cercavano di organizzare un voto al buio.

«Chi è deciso a rimanere e chi vorrebbe andar via?».

Hou Dejian riuscì a impadronirsi di un megafono. «Studenti, un'evacuazione pacifica è ancora possibile». L'esercito, disse, aveva acconsentito ad aprire un corridoio e a lasciarli uscire dall'angolo sud-est della piazza. Nessuno avrebbe fatto loro del male.

«Vergogna! Vergogna, vigliacchi!». I fischi attorno ad Ai-ming lo sovrastarono.

Alcune voci gridarono che un esercito ribelle, guidato da Zhao Ziyang, stava arrivando a salvarli.

Uno studente vicino a lei si alzò in piedi. «Dobbiamo reggere fino alle sei. Dopo interverrà l'esercito degli Stati Uniti».

«Hou Dejian, vergognati! Vergogna!».

«Dobbiamo restare qui. Dal nostro sacrificio nascerà una nuova Cina!».

Sul margine settentrionale della piazza i soldati cominciarono a sparare in alto. A quella scarica di centinaia di fucili, sembrò che l'aria stessa esplodesse. Un lampione sopra di loro scoppiò. Un ragazzo vicino ad Ai-ming si spaventò tanto da svenire. Lo riportarono al presente con qualche brusco scrollone.

Si iniziò a votare. Ciascuno gridava, in contemporanea con gli altri, il proprio voto. Lei gridò «Andiamo via!», e lì accanto, Yiwen controbatté, «Restiamo!».

Le voci scemarono. Sentì il ronzio dei lampioni, già spenti ma ancora incandescenti, e la voce esausta, appena udibile, di Yiwen, «Resistere, resistere. Come possiamo lasciare che finisca così?».

I soldati avanzavano rapidamente. Vide i cordoni agitarsi, venivano verso di loro.

«Andiamo via!» gridò una ragazza più avanti. «Hanno votato per andare via».

La sua voce scatenò una reazione violentissima. «Non è vero!». «Vogliamo restare!». «La maggioranza ha votato per restare!».

Yiwen si alzò barcollando. «In tanti sono morti per noi!» gridò. «E adesso vorremmo collaborare con gli assassini? Non conosciamo vergogna?». Altri urlarono parole simili, ma le grida si trasformarono in un pianto di sfinimento. Erano in piazza da più di cinque ore, e solo adesso Ai-ming si sentì crollare, si ritrovò a pensare alla promessa fatta a suo padre, non riusciva più a capire perché Yiwen fosse disposta a rinunciare alla sua vita e alla vita degli altri. Per che cosa? Per tenere piazza Tian'anmen, che non era mai stata loro.

«Allineatevi, allineatevi in fila per dieci...».

«Fate avanzare i vostri battaglioni! Allacciamo le braccia!».

Lei circondò la vita di Yiwen e, con l'altro braccio, quella di una ragazzina minuscola accanto a lei. C'erano ancora migliaia, forse molte migliaia di studenti. Gli stendardi delle Università si alzarono incerti, tremanti, come già sul punto di cadere. Yiwen e Ai-ming furono spostate e si ritrovarono a marciare sotto la bandiera della Beida. È la prima e unica volta, pensò Ai-ming, che farò parte dell'Università di Pechino. I risultati che una volta aveva desiderato per sé sembravano appartenere a un'altra vita, erano le ambizioni di una persona completamente diversa.

I carri armati entrarono nella piazza, le vibrazioni squassavano tutto. La gente attorno a lei si mise a urlare, Ai-ming si voltò e vide il punto in cui era stata eretta la Dea della Democrazia. La statua era leggera, quasi fatta d'aria. L'esercito, pensò con la mente annebbiata, non aveva bisogno dei carri armati per abbatterla. Avrebbero potuto farlo a mani nude. Il tremore prodotto da blindati ed elicotteri proseguiva, sembrava squarciare il cemento stesso. Adesso si sarebbero messi a sfilare?, si chiese. Premendo su entrambi i lati, i soldati cominciarono a incanalare gli studenti in uno stretto corridoio umano. Vide un militare colpire col manganello un ragazzo davanti a sé. Dietro di lui una ragazza si voltò e sputò in faccia al soldato. Ma la processione continuava comunque a spingerli inesorabilmente in avanti. Tutt'attorno a lei la gente piangeva. In prima linea, i capi degli studenti cominciarono a cantare L'Internazionale.


        Insorgete, schiavi, insorgete!
        Non dite che non abbiamo niente.
        Noi saremo i padroni del mondo

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