Copertina
Autore Scarlett Thomas
Titolo Che fine ha fatto Mr Y.
EdizioneNewton Compton, Roma, 2007, Nuova narrativa 84 , pag. 380, cop.ril.sov., dim. 15,5x23x3,2 cm , Isbn 978-88-541-1099-1
OriginaleThe End of Mr. Y. [2006]
TraduttoreMilvia Faccia
LettoreRenato di Stefano, 2008
Classe narrativa inglese , fantascienza
PrimaPagina


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Pagina 9

UNO



Ora tu hai una scelta.

Ora tu... Sono affacciata alla finestra del mio ufficio, fumando di nascosto una sigaretta e cercando di leggere Margins nella smorta luce invernale, quando odo un rumore mai sentito prima. OK, forse questo rumore – crash, bang ecc. – l'ho già sentito altre volte, ma il fatto è che viene dal basso, e questo non è normale. Non dovrebbe esservi nulla sotto di me: sono al piano terra. Ma il suolo vibra, come se qualcosa spingesse per uscire, e mi viene in mente una mamma intenta a scuotere il piumone o Dio che scrolla lo spazio-tempo. Poi penso: Maledizione è un terremoto, butto via la sigaretta e corro fuori della stanza quasi nello stesso momento in cui comincia a suonare l'allarme.

Quando sento un allarme, non sempre mi precipito. Chi lo fa? Di solito è solo un segnale innocuo: una prova, un'esercitazione. Mentre sto per raggiungere l'uscita laterale del palazzo, la vibrazione cessa. Che faccio, torno in ufficio? Ma è impossibile rimanere qui dentro quando suona l'allarme. È troppo forte, ti penetra nel cervello. Uscendo, passo vicino al tabellone del Servizio Salute e Sicurezza, che mostra foto di persone vittime di qualche incidente. Le immagini si confondono: un uomo con il mal di schiena ha anche un attacco di cuore, e qualcuno cerca di rianimarlo. Tutti si muovono come in un ologramma. L'anno scorso avrei dovuto frequentare un paio di corsi d'addestramento del Servizio Salute e Sicurezza, ma non l'ho fatto.

Apro la porta e vedo gente che lascia il Russell Building e si dirige camminando o correndo oltre il nostro isolato, su per i gradini di cemento verso il Newton Building e la biblioteca. Girò intorno al lato destro dell'edificio e salgo gli scalini due alla volta. Il cielo è grigio, con una pioggerella sottile sospesa nell'aria come un'interferenza TV. A volte, in questi pomeriggi di gennaio il sole si accovaccia in un angolo del cielo simile a un Buddha vestito di arancione in un documentario sul significato della vita. Oggi non c'è sole. Raggiungo il margine della folla che si è formata e smetto di correre. Tutti stanno guardando la stessa cosa, ansimando ed emettendo suoni come davanti a uno spettacolo pirotecnico.

È il Newton Building.

Sta crollando.

Penso a quel giocattolo – l'ho visto di recente sulla scrivania di qualcuno? – un cavallino fissato su un pulsante di legno. Se schiacciate il pulsante da sotto, il cavallino cade sulle ginocchia. È così che sembra ora il Newton Building. Sta crollando, ma in maniera asimmetrica; un angolo è andato, poi un altro, poi... Poi si ferma. Scricchiola e si ferma. Una finestra al terzo piano si spalanca, e lo schermo di un computer va a schiantarsi su quel che resta del cortile di cemento. Quattro uomini con i caschi e i giubbotti fluorescenti si avvicinano lentamente al cortile semidistrutto; poi arriva un altro uomo, dice loro qualcosa, e se ne vanno via tutti.

Due uomini in abito grigio sono in piedi accanto a me.

«Déjà vu», dice uno di loro.

Mi guardo intorno in cerca di qualcuno che conosco. C'è Mary Robinson, capo del dipartimento, che parla con Lisa Hobbes. Non vedo molti altri del dipartimento di Inglese, ma noto Max Truman che se ne sta per conto suo, fumando una sigaretta arrotolata a mano. Saprà cosa sta succedendo.

«Ciao, Ariel», borbotta quando mi avvicino a lui.

Max borbotta sempre; non in modo timido, ma come se ti stesse dicendo quanto ti costerà liberarti del tuo peggior nemico o quanto devi tirar fuori per truccare una corsa di cavalli. Chissà se gli sono simpatica. Non credo che si fidi di me. E perché dovrebbe? Sono relativamente giovane, relativamente nuova in facoltà, e probabilmente sembro ambiziosa, anche se non è vero. Ho anche lunghi capelli rossi, e la gente dice che metto soggezione (per via dei capelli? o di qualcos'altro?). Quelli che non dicono che metto soggezione a volte sostengono che ho un aspetto "equivoco" o "strano". Uno dei miei ex inquilini diceva che non gli sarebbe piaciuto trovarsi con me su un'isola deserta, ma non mi ha mai spiegato perché.

«Ciao, Max», dico. Poi: «Wow».

«Probabilmente non hai mai sentito parlare del tunnel, vero?». Scuoto la testa. «C'è un tunnel ferroviario che corre qui sotto», continua, accennando con gli occhi verso il basso. Fa un tiro dalla sigaretta, ma sembra che non succeda nulla, così se la toglie di bocca e la usa per indicare il campus. «Passa sotto il Russell laggiù, e poi sotto il Newton. Va, o andava, dalla città alla costa. È in disuso da cent'anni o giù di lì. Questa è la seconda volta che frana e si porta appresso il Newton. Avrebbero dovuto riempirlo di cemento, dopo l'ultima volta», aggiunge.

Guardo nella direzione indicata da Max e comincio a tracciare mentalmente linee rette che collegano il Newton con il Russell, immaginando il tunnel al di sotto. Comunque la metti, anche l'edificio di Studi inglesi e americani si trova sul percorso.

«Almeno nessuno si è fatto male», dice. «Stamattina quelli della manutenzione si sono accorti di una crepa nel muro e hanno fatto evacuare tutti».

Lisa rabbrividisce. «Non posso credere che sia successo», dice, guardando il Newton Building. Il cielo grigio si è oscurato e adesso la pioggia cade più fitta. Il Newton ha un aspetto insolito senza luci accese: è come se fosse morto.

«Nemmeno io», dico.

Per tre o quattro minuti, restiamo a guardare in silenzio l'edificio; poi si avvicina un uomo con un megafono che ci esorta ad andare tutti a casa senza tornare nei nostri uffici. Mi viene da piangere. C'è qualcosa di profondamente triste nel cemento che va in pezzi.


Non so gli altri, ma per me non è facile andarmene a casa così. Ho solo un mazzo di chiavi del mio appartamento, e l'ho lasciato in ufficio insieme al cappotto, la sciarpa, i guanti, il cappello e lo zainetto.

C'è un addetto alla sicurezza intento a fermare la gente che si affolla all'ingresso principale, perciò scendo i gradini e prendo un'altra direzione. Sulla porta dell'ufficio non c'è il mio nome, ma solo quello dell'occupante ufficiale della stanza: il mio supervisore, il professor Saul Burlem. L'ho incontrato due volte, prima di venire qui: a una conferenza a Greenwich e al mio esame di ammissione. Scomparve dopo appena una settimana dal mio arrivo. Ricordo che entrai in ufficio un giovedì mattina, notando che c'era qualcosa di diverso. Per cominciare, le imposte e le tende della finestra erano chiuse: Burlem le chiudeva sempre ogni sera, ma nessuno di noi toccava mai quelle orribili tende grigie. Inoltre, la stanza puzzava di fumo di sigaretta. Quella mattina mi aspettavo che lui arrivasse verso le dieci, ma non si fece vedere. Il lunedì successivo chiesi dove fosse, ma nessuno seppe dirmelo. A un certo punto, qualcuno fece in modo che i suoi corsi fossero coperti. Non so se vi siano delle chiacchiere in facoltà – nessuno spettegola con me – ma tutti sembrano pensare che io sia qui solo per portare avanti la mia ricerca e che la sua assenza non dovrebbe interessarmi più di tanto. Naturalmente, lui è proprio il motivo per cui sono venuta alla facoltà: Burlem è l'unica persona al mondo che abbia compiuto seri studi su uno dei miei argomenti principali, lo scrittore del diciannovesimo secolo Thomas E. Lumas. Senza di lui, non so davvero cosa ci faccio qui. E il fatto che non ci sia mi dà una strana sensazione; non proprio di perdita, ma qualcosa del genere.


La mia auto è nel parcheggio del Newton. Quando ci arrivo, non sono troppo sorpresa di trovare degli uomini con l'elmetto che stanno dicendo alla gente di lasciar perdere le macchine e andare a casa a piedi o col bus. Io provo a discutere, dico che voglio correre il rischio, che il Newton Building non tornerà nella posizione di prima, come quando riavvolgi un videotape, per poi crollare in una direzione completamente diversa, ma quelli molto gentilmente mi invitano a togliermi dalle scatole e a prendere il bus come tutti gli altri, così alla fine mi avvio verso la fermata. È solo l'inizio di gennaio, ma alcuni narcisi e bucaneve sono spuntati fuori in qualche modo e formano piccole linee umide lungo la strada. La fermata del bus è deprimente; c'è una fila di persone che sembrano fredde e fragili come quei fiori, perciò decido di andare a piedi.

Credo ci sia una scorciatoia che porta in città attraverso il bosco, ma non so dov'è, quindi seguo la strada che avrei fatto in auto ed esco dal campus, mentre continuo a rivedere mentalmente la scena del palazzo che crolla, finché mi rendo conto che sto ricordando cose che non sono nemmeno successe e smetto di pensarci del tutto. Poi rifletto sul tunnel ferroviario. Posso capire perché l'hanno scavato: dopotutto il campus si trova su una collina scoscesa e sembra più logico passarci sotto, invece che sopra. Max ha detto che non viene usato da un centinaio d'anni. Mi chiedo cosa ci fosse quassù un secolo fa. Non l'università, naturalmente, che è stata costruita negli anni Sessanta. Fa freddo. Forse avrei dovuto aspettare il bus alla fermata, ma non ne passa nessuno mentre cammino. Quando arrivo sulla strada che porta in città ho ormai le dita congelate nei guanti, e comincio a esaminare le vie laterali sulla destra cercando un percorso più breve. Davanti alla prima c'è un cartello di strada senza uscita mezzo cancellato dagli escrementi dei gabbiani, ma la seconda sembra più promettente, con case a schiera di mattoni rossi che curvano verso sinistra. La imbocco.

Pensavo che fosse solo una via residenziale, ma dopo un po' le case finiscono e c'è un piccolo parco con due altalene e uno scivolo arrugginiti sotto un intrico di spogli rami di quercia. Più avanti vedo un pub e una piccola fila di botteghe. C'è un negozio dall'aria squallida di qualche opera pia, già chiuso, e il genere di parrucchiere dove il lunedì fanno la tintura e la messa in piega a metà prezzo. C'è un chiosco di giornali, una sala scommesse e poi, toh, un negozio di libri usati. È ancora aperto. Sto congelando. Entro.

All'interno fa caldo, e si sente un leggero odore di lucido per mobili. La porta ha un campanello che continua a suonare per tre secondi buoni dopo che ho richiuso, e di lì a un momento una ragazza viene fuori da dietro una serie di scaffali tenendo in mano un barattolo di lucido e uno strofinaccio giallo. Sorride appena e mi dice che il negozio chiuderà tra dieci minuti, ma se voglio posso dare un'occhiata in giro. Poi si siede e comincia a digitare qualcosa su una tastiera collegata a un computer sulla scrivania di fronte.

«Avete un catalogo computerizzato di tutti i vostri libri?», le chiedo.

Lei smette di digitare e alza gli occhi. «Sì, ma non lo so usare. Sto solo sostituendo la mia amica. Mi dispiace».

«Oh. OK».

«Che libro cercava?»

«Non importa».

«No, mi dica. Potrei averlo visto mentre spolveravo».

«Uhm... va bene, allora. Ecco, ci sarebbe questo autore, Thomas E. Lumas... avete qualcosa di suo?». È una domanda che faccio sempre nei negozi di libri usati. È raro che abbiano qualcosa, e io possiedo già la maggior parte dei suoi libri, ma continuo a chiedere. Spero ancora di trovare qualche copia migliore o più antica. Qualcosa con una prefazione diversa o una copertina meno rovinata.

«Mi faccia pensare...». Aggrotta la fronte. «Il nome non mi è nuovo».

«Potrebbe esserle capitato La mela nel giardino. È un libro famoso. Ma nessuno degli altri è stato stampato. Lumas scriveva nella seconda metà del diciannovesimo secolo, ma non divenne mai famoso come avrebbe meritato...».

«La mela nel giardino. No, non è quello che ho visto», dice. «Aspetti». Gira intorno al grande scaffale in fondo al negozio. «L, Lu, Lumas... No, qui non c'è niente. Non so in quale sezione l'hanno messo. Cos'è, narrativa?»

«In parte», rispondo. «Ma scrisse anche un libro sugli esperimenti mentali, delle poesie, un trattato sul governo, qualche opera scientifica e qualcosa intitolato Che fine ha fatto Mr Y, che è uno dei romanzi più rari...».

«Che fine ha fatto Mr Y. Ecco!», esclama eccitata. «Torno subito».

Sale le scale sul retro prima che io abbia il tempo di dirle che deve essersi sbagliata. È impossibile credere che ne abbia davvero una copia lassù. Darei tutto ciò che possiedo per una copia di Che fine ha fatto Mr Y, l'ultimo e più misterioso libro di Lumas. Non so con cosa l'abbia confuso, ma è del tutto assurdo pensare che ce l'abbia. Nessuno ce l'ha. Ne esiste una copia conservata nel caveau di una banca in Germania, ma non è sul catalogo di nessuna biblioteca. Ritengo che forse una volta Saul Burlem ne abbia vista una, ma non ne sono sicura. Che fine ha fatto Mr Y è considerata un'opera maledetta, e anche se naturalmente io non credo in queste cose, certa gente pensa che se uno la legge muore.

«Sì, eccolo qui», dice la ragazza, scendendo le scale con una piccola scatola di cartone. «È questo il libro di cui parlava?».

Posa la scatola sul bancone.

Guardo dentro. E improvvisamente mi manca il respiro. C'è: un piccolo libro con la rilegatura rigida in tela color crema, con caratteri marroni sulla copertina e sul dorso, senza sopraccoperta, ma per il resto quasi perfetto. Ma non può essere. Sollevo la copertina per leggere il frontespizio e i particolari di stampa. Oh, merda. È proprio una copia di Che fine ha fatto Mr Y. E adesso che faccio?

«Quant'è?», domando cautamente con un filo di voce.

«Ecco il problema», osserva la ragazza, rigirando la scatola. «La proprietaria deve aver preso scatole come questa a un'asta in città, credo, e se sono al piano di sopra significa che ancora deve decidere il prezzo». Sorride. «Probabilmente, non avrei dovuto neanche mostrargliela. Non può tornare domani, quando c'è lei?»

«Veramente...», comincio.

I pensieri mi saettano nella mente come raggi cosmici. Devo dirle che non sono di queste parti, chiedendole di telefonare alla proprietaria? No. Evidentemente la proprietaria non sa che il libro è qui. Non voglio correre il rischio che ne abbia sentito parlare e si rifiuti di vendermelo, oppure che me lo faccia pagare migliaia di sterline. Cosa posso fare per convincerla a darmi il libro? I secondi passano. La ragazza sta sollevando il ricevitore del telefono sulla scrivania.

«Chiamo la mia amica», dice, «così saprò che cosa devo fare».

Mentre lei attende la linea, io do un'occhiata nella scatola. È incredibile, ci sono altri libri di Lumas e un paio di traduzioni di Derrida che non ho, oltre a quella che sembra una prima edizione di Eureka! di Edgar Allan Poe. Come sono finiti insieme qui dentro, questi testi? Non posso immaginare che qualcuno vi abbia visto un collegamento, a meno che non siano serviti per qualcosa di simile alla mia tesi. È possibile che qualcun altro stia lavorando allo stesso argomento? Improbabile, soprattutto perché ha dato via i libri. Ma chi potrebbe essersene sbarazzato? Mi sento come se stessi guardando l'orologio di Paley. Sembra quasi che questa scatola sia stata preparata per attirare proprio me.

«Sì», sta dicendo la ragazza all'amica. «Una scatola piccola. Al piano di sopra. Sì, in quella pila nel bagno. Uhm... pare un misto di roba vecchia e nuova. Alcuni dei libri vecchi sono un po' ammuffiti e sembrano di poco valore. Edizioni economiche, penso...». Guarda nella scatola e tira fuori un paio di libri di Derrida. Io le faccio cenno di sì. «Già, proprio un misto. Oh, davvero? Ottimo. Sì. Cinquanta sterline? Sul serio? Sono un sacco di soldi. OK, glielo dirò. Sì. Mi dispiace. OK. Ci vediamo dopo».

Riattacca e mi sorride. «Bene», riferisce. «Ho una notizia buona e una cattiva. La buona è che se vuole può prendersi l'intera scatola, la cattiva è che non posso vendere i libri separatamente, quindi o tutto o niente. Sam ha detto che ha comprato lei stessa la scatola a un'asta, e che la proprietaria non l'ha ancora vista, ma evidentemente deve averle già detto che non ha spazio sugli scaffali per altra roba... Ma l'altra cattiva notizia è che tutta la scatola costa cinquanta sterline. Perciò...».

«La prendo», dico.

«Sul serio? È disposta a spendere una somma simile per una scatola di libri?». Sorride stringendosi nelle spalle. «Bene, OK. Allora immagino che dovrà darmi cinquanta sterline, grazie».

Mi tremano le mani, mentre prendo il borsellino nello zainetto, ne tiro fuori tre banconote sgualcite da dieci e una da venti, e gliele porgo. Non mi fermo a pensare che è quasi l'unico denaro che ho e che nelle prossime tre settimane non potrò comprarmi da mangiare. In realtà, l'unica cosa che mi importa è uscire da questo negozio con Che fine ha fatto Mr Y, prima che qualcuno capisca o gli venga in mente qualcosa e cerchi di trattenermi. Il cuore mi batte all'impazzata. Avrò un collasso e morirò per lo shock, prima di poter leggere una riga del libro? Merda, merda, merda.

«Fantastico, grazie. Mi dispiace che costi tanto», dice la ragazza.

«Non c'è problema», riesco a rispondere. «In ogni caso, me ne servono un sacco di questi per la mia tesi».

Infilo Che fine ha fatto Mr Y. nello zainetto, al sicuro, poi prendo la scatola ed esco dal negozio tenendola stretta mentre mi dirigo verso casa nell'oscurità, con il freddo che mi fa bruciare gli occhi, completamente incapace di dare un senso a quello che è successo.

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Pagina 17

DUE



Quando arrivo sotto casa sono quasi le cinque e mezza. La maggior parte dei negozi della via sta cominciando a chiudere, ma l'edicola sul marciapiede opposto è illuminata, con la gente che si ferma a comprare un giornale o un pacchetto di sigarette. Anche se la pizzeria sotto casa è ancora al buio, so che Luigi, il proprietario, è dentro da qualche parte a fare quello che serve per quando aprirà alle sette. Le luci del negozio accanto, quello che vende costumi, sono spente, mentre al piano superiore del Café Paradis, che non chiude prima delle sei, c'è un tenue chiarore. Dietro i negozi, un treno locale sferraglia lentamente sulle vecchie rotaie, e alla fine della strada lampeggiano i segnali del passaggio a livello.

L'andito di cemento tra il portone e le scale che portano al mio appartamento è freddo come al solito, e immerso nell'oscurità. Non vi sono biciclette, il che significa che Wolfgang, il mio vicino, non c'è. Non so come fa a scaldarsi in casa sua (anche se credo che tutto lo slivoviz che beve gli dia una mano), ma nella mia è una lotta costante. Non ho idea di quando siano stati costruiti i due appartamenti, ma sono entrambi troppo ampi, con soffitti alti e lunghi corridoi echeggianti. Il riscaldamento centrale sarebbe meraviglioso, ma il padrone di casa non vuole saperne. Prima di togliermi il cappotto, poso la scatola con i libri e lo zainetto sul grande tavolo di quercia della cucina, accendo le luci e dalla camera da letto trascino la stufa elettrica, infilo la spina nella presa e osservo le due resistenze che diventano rosse (mi sembra sempre che cerchino di scusarsi). Poi accendo il forno a gas e tutti i fornelli del piano di cottura. Chiudo la porta della cucina e solo allora tiro fuori i miei acquisti.

Sto tremando, ma non per il freddo. Prendo con attenzione Che fine ha fatto Mr Y. dallo zainetto e lo depongo sul tavolo. Pare fuori posto, vicino alla scatola con gli altri libri e alla tazza del caffè che ho bevuto stamattina, perciò sposto la scatola e metto la tazza nell'acquaio. Adesso, sul tavolo c'è solo il libro. Lo prendo e lo sfioro con una mano, avvertendo la freddezza della copertina telata color crema. Lo giro e tocco il rovescio, come se potesse essere diverso. Torno a posarlo, mentre il cuore mi batte come un nastro per telescrivente. Preparo la mia piccola caffettiera e la metto su uno dei fornelli accesi, poi riempio mezzo bicchiere con lo slivoviz che mi ha regalato Wolfgang e lo inghiotto in due sorsi.

Mentre il caffè è sul fuoco, controllo le trappole per topi. Sia Wolfgang che io abbiamo topi in casa. Lui parla di prendere un gatto, io uso le trappole. Non vengono uccisi, semplicemente restano chiusi in un involucro di plastica finché io li trovo e li libero. Non credo che il sistema funzioni: li butto fuori, e quelli tornano subito dentro, ma non posso ucciderli. Oggi ce ne sono tre, che hanno un'aria incazzata nelle loro piccole prigioni trasparenti; li porto giù e li libero nel cortile. Non credevo di dovermi preoccupare dei topi nel mio appartamento, ma mangiano tutto quello che trovano, e una volta uno mi è salito sul viso mentre ero a letto.

Quando torno su, prendo quattro grosse patate dal contenitore sul ripiano delle verdure, le lavo rapidamente, le salo e le metto nel forno a fuoco basso. È il massimo che mi sento di cucinare in questo momento; non ho nemmeno fame. Il divano è nella cucina, perché non ha senso tenerlo nel soggiorno vuoto, dove non c'è riscaldamento. Quindi, mentre la stanza comincia a scaldarsi e a riempirsi dell'odore delle patate arrosto, mi tolgo finalmente le scarpe da ginnastica e mi raggomitolo sui cuscini con il mio caffè, un pacchetto di sigarette al ginseng e Che fine ha fatto Mr Y. Leggo la riga iniziale della prefazione, prima mentalmente, poi ad alta voce, mentre un altro treno passa sferragliando: «La trattazione che segue potrà sembrare al lettore una semplice fantasia, o un sogno messo per iscritto al risveglio, in quei momenti febbrili quando si è ancora suggestionati dai giochi di prestigio prodotti dalla mente allorché gli occhi sono chiusi».

Non muoio. Non che me lo aspettassi sul serio. E comunque, come potrebbe un libro essere maledetto? Le stesse parole – che all'inizio non afferro bene – sembrano semplicemente dei miracoli. Il solo fatto che siano là, che esistano ancora, stampate in caratteri neri su pagine tagliate a mano ingiallite dal tempo, è questo che mi sorprende. Non riesco a immaginare quante altre mani hanno toccato questa pagina o quanti altri occhi l'hanno vista. È stato pubblicato nel 1893, e poi che è successo? Qualcuno l'ha letto davvero? Quando scrisse Che fine ha fatto Mr Y., Lumas era già stato dimenticato. Aveva conosciuto una certa notorietà una trentina di anni prima, e la gente conosceva il suo nome, ma poi tutti avevano perso interesse per lui, decidendo che era matto o in ogni caso un po' strano. Una volta andò in quel posto nello Yorkshire dove Charles Darwin stava facendo quella che chiamava "idroterapia": disse qualcosa di villano sui cirripedi, dopo di che diede un pugno in faccia a Darwin. Questo fu nel 1859. In seguito, sembra si sia dedicato ad attività sempre più esoteriche, consultando medium, indagando su avvenimenti paranormali e diventando un cliente abituale del Royal London Homoeopathic Hospital. Pare che dopo il 1880 abbia smesso di pubblicare opere. Poi scrisse Che fine ha fatto Mr Y. e morì il giorno successivo alla pubblicazione, e come lui morirono anche tutti quelli che avevano avuto a che fare con il libro (l'editore, il curatore, il compositore). Da lì la cosiddetta "maledizione".

Ma le ragioni potrebbero essere altre. Lumas andava contro corrente. Preferiva il biologo evoluzionista Lamarck (secondo il quale gli organismi trasmettono alla prole le caratteristiche acquisite) a Darwin (che negava questa possibilità), quando perfino gente come Samuel Butler – che qualcuno definì «il più grande rompicoglioni del diciannovesimo secolo» – stava cominciando ad accettare l'idea che in realtà siamo tutti mutanti darwiniani. Scriveva lettere al «Times» criticando non solo i suoi contemporanei, ma anche le più importanti figure nella storia del pensiero, compresi Aristotele e Bacone. Lumas era molto incuriosito dalla possibilità che esista una quarta dimensione dello spazio e scrisse varie storie soprannaturali sull'argomento, riuscendo in qualche modo a scombussolare quelli che non ci credevano. Il suo commento era «Ma sono soltanto racconti!», anche se tutti sapevano che si serviva della finzione per elaborare le sue idee filosofiche. La maggior parte di queste idee riguardavano lo sviluppo e la natura del pensiero, specialmente il pensiero scientifico, e spesso chiamava le sue opere di fantasia "esperimenti mentali".

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Pagina 24

«Lumas può farti diventare matto», disse tornando a sedersi.

Mi piace l'idea della fotografia, comunque», osservai. «Mi ricorda quel suo racconto, Il dagherrotipo».

«Lo ha letto?».

Annuii. «Sì, credo che sia il mio preferito».

«Come diavolo ha fatto a procurarselo?»

«L'ho trovato su eBay. Era in una collezione. Possiedo quasi tutti i libri di Lumas, tranne Che fine ha fatto Mr Y. Ne ho pescati parecchi nei siti di libri usati».

«E tutto questo per un articolo su una rivista?»

«Già. Mi do da fare piuttosto intensamente. Per un mese vivrò e respirerò Samuel Butler, per così dire. Poi troverò qualcosa che da lui mi porterà al prossimo pezzo. La rubrica è intitolata "Libera associazione". Ho cominciato circa tre anni fa con il Big Bang».

Burlem rise. «E dove andò a parare?»

«Alle proprietà dell'idrogeno, poi la velocità della luce, la relatività, la meccanica quantistica, la teoria delle probabilità, il gatto di Schrödinger, la funzione d'onda, la luce, l'etere luminifero, che è il mio il mio esperimento preferito, il paradosso...».

«Così, lei è una scienziata? Si intende di tutta questa roba?».

Alzai le spalle. «Dio, no. Per niente. Mi piacerebbe. Forse non avrei dovuto cominciare con il Big Bang, ma quando uno lo fa, questo è il risultato. A un certo punto, sono passata dall'intelligenza artificiale a Butler, e ora sono alle prese con Lumas. Intanto che ci lavoro, probabilmente deciderò quale filo seguire per il prossimo articolo, così da poter ordinare tutti i libri che mi serviranno. Potrei scrivere qualcosa sulla storia della fotografia partendo dal Dagherrotipo, oppure prendere lo spunto per parlare della quarta dimensione e di quel libro di Zollner, anche se ciò mi riporterebbe alla scienza».

Ne Il Dagherrotipo, un uomo si sveglia e trova una copia della propria casa in un parco dall'altra parte della strada, con intorno una folla di persone. Da dove è venuta? Subito la gente lo accusa di aver perso la ragione e di essersi fatto costruire nottetempo un duplicato della sua casa. Lui fa notare che è impossibile. Chi riuscirebbe a costruire una casa in una notte? E poi la casa nel parco non sembra nemmeno nuova. Infatti, è una replica esatta della casa "reale", compresi certi graffi sui pannelli della porta e le macchie di ossidazione sul batacchio di ottone. L'unica differenza è che la sua chiave non funziona, come se il buco della serratura fosse ostruito da qualcosa. All'inizio l'uomo cerca di ignorare la faccenda, ma ben presto questa prende il sopravvento sulla sua vita, e lui deve cercare di trovare una spiegazione. Per colpa della casa nel parco perde il lavoro di insegnante e la fidanzata lo lascia per un altro. Interviene anche la polizia, accusandolo di ogni sorta di crimini. Inoltre, la casa possiede qualche strana proprietà, soprattutto il fatto che non vi si può entrare. È possibile vedere attraverso le finestre gli oggetti che sono all'interno – un tavolo, un vaso di fiori, un cassettone, un pianoforte – ma nessuno riesce a rompere i vetri o ad abbattere la porta. La casa è una specie di blocco solido, come se dentro non vi fosse spazio.

Un giorno, quando l'uomo della storia ha quasi perso la ragione, un misterioso vecchio si presenta a casa sua (quella vera) con una cassetta piena di attrezzi, dicendogli che ha sentito parlare della sua spiacevole situazione e che pensa di sapere cosa è successo. Tira fuori un astuccio a soffietto e gli spiega cos'è un dagherrotipo e come funziona. Dapprima l'uomo si mostra impaziente: tutti sanno come funzionano i dagherrotipi! Ma poi il visitatore fa un'affermazione impossibile. Se gli uomini, esseri tridimensionali, sono in grado di creare versioni bidimensionali delle cose intorno a loro, sarebbe forse assurdo presumere che esseri quadridimensionali possano realizzare qualcosa di simile a una macchina per dagherrotipi che produca non copie piatte a due dimensioni, bensì a tre?

L'uomo va in collera e butta fuori il fotografo, pensando che debba esservi qualche altra spiegazione. Non trovandone, però, finisce per concludere che il visitatore potrebbe aver ragione. Ripesca il suo biglietto da visita e decide di andare immediatamente da lui. Ma quando la cameriera lo fa entrare nell'abitazione del vecchio, scopre qualcosa di molto strano. Il fotografo è in piedi nello studio con la macchina per dagherrotipi. Ma non è la persona reale, è solo una copia inanimata.

«Sa cosa mi piace de Il Dagherrotipo?», chiese Burlem.

«Cosa?»

«Il fatto che non fornisca una soluzione, che l'uomo non trovi una risposta».

Fino a quel momento non vi era stata musica nella Sala dipinta, solo il brusio di voci e risate che echeggiava nelle vaste stanze. Ma qualcuno dovette ricordarsi che la musica era prevista, e le prime gravi note del Dixit Dominus di Händel si diffusero per la sala, seguite dal primo verso intonato da tutte le voci del coro: Dixit Dominus Domino meo, sede a dextris meis.

«Quindi», domandò Burlem alzando la voce per farsi sentire, «lei lavora a tempo pieno per questa rivista?»

«No, scrivo solo il mio articolo ogni mese».

«È tutto quello che fa?»

«Per il momento sì».

«Riesce a ricavarne di che vivere?»

«Più o meno. La rivista va piuttosto bene. Posso pagare l'affitto e comprarmi qualche scatola di lenticchie. E anche qualche libro, naturalmente».

All'inizio, la rivista era una piccola cosa, curata da una donna che ho conosciuto all'università. Ora ha una rete di distribuzione e viene venduta in tutti i più importanti negozi di musica del Paese. È ben pubblicizzata e ha un grafico che non usa la colla per impaginare.

«Cosa studia all'università? Non scienze, immagino».

«No, letteratura inglese e filosofia. Ma sto seriamente pensando di tornare a fare materie scientifiche. Probabilmente prenderò fisica teorica». Gli spiegai che desideravo capire davvero cose come la relatività e il gatto di Schrödinger, e cercare di riesumare il buon vecchio etere. Credo che fossi un po' sbronza, perché ciarlai per un pezzo dell'etere luminifero. Burlem conosceva l'argomento – venne fuori che teneva un corso di secondo livello su letteratura e scienza del diciannovesimo secolo – ma io continuai a lungo, dicendo quanto è straordinario il fatto che per secoli gli uomini non siano riusciti a capire perché la luce può viaggiare nel vuoto e il suono no (nel vuoto potete vedere una campana, ma non sentire i suoi rintocchi). Nel diciannovesimo secolo, la gente credeva che la luce viaggiasse attraverso qualcosa di invisibile, l'etere luminifero. Nel 1887, Albert Michelson ed Edward Morley tentarono di dimostrare che l'etere esiste, ma alla fine dovettero concludere il contrario. Naturalmente, chiacchierando con Burlem non ricordavo la data dell'esperimento né i nomi degli scienziati, ma avevo presenti le parole di Michelson nel riferirsi all'oggetto delle sue ricerche: «Il caro vecchio etere, che ormai è stato abbandonato, ma al quale personalmente rimango ancora attaccato». Parlai con entusiasmo di tutta la poesia che c'è nella fisica teorica, e poi andai avanti per un po' a spiegare quanto mi piacciono le università, specialmente quelle con grandi biblioteche.

Burlem mi interruppe dicendo: «Lasci perdere. Fanculo la fisica teorica. Prepari una tesi con me. Se ho capito bene, non ne sta già facendo una, vero?».

Disse proprio così, fanculo la fisica teorica.

«Su cosa dovrei farla?», chiesi.

«Quali argomenti la interessano?».

Risi. «Tutti?». Alzai le spalle. «Penso che sia questo il mio problema. Voglio conoscere tutto». Dovevo essere ubriaca, per ammettere una cosa del genere. Almeno non aggiunsi che volevo conoscere tutto per avere maggiori probabilità di trovare qualcosa in cui credere sul serio.

«Andiamo», insistette lui, «qual è il suo punto forte?»

«Il mio punto forte?».

Bevve un sorso di vino. «Già».

«Non credo di saperlo ancora. È così che funziona la rubrica della rivista. Libera associazione. Sono brava in questo».

«Insomma, ha cominciato con il Big Bang e ha proseguito con argomenti scientifici fino a incontrare Lumas. Deve esserci un legame tra tutte le cose sulle quali ha scritto».

Presi anch'io un altro goccio. «Le idee di Lumas sulla quarta dimensione sono particolarmente interessanti. Voglio dire, non anticipò esattamente la teoria delle stringhe, ma...».

«Cos'è la teoria delle stringhe?».

Mi strinsi nelle spalle. «Non me lo chieda. È il motivo per cui voglio prendere fisica teorica. O almeno, penso che lo farò».

Burlem rise. «Che cazzo. Su, faccia uno sforzo. Trovi il legame».

Ci pensai su per un momento. «Suppongo che tutto ciò che ho scritto abbia qualcosa a che vedere con gli esperimenti del pensiero, o "esperimenti mentali", come li chiamava Lumas».

«Bene. E allora?»

«Uhm, non so. Ma mi piace che si possa parlare di scienza senza necessariamente ricorrere alla matematica, servendosi invece di metafore. Ecco l'approccio che uso per i miei articoli. Per ciascuna di queste idee e teorie, si trova sempre una storia che ci si abbina».

«Interessante. Mi faccia un esempio».

«Be', c'è il gatto di Schrödinger, ovviamente. Chiunque è in grado di capire che un gatto in una scatola non può essere contemporaneamente vivo e morto, ma pochi capirebbero lo stesso principio espresso matematicamente. Poi ci sono i treni di Einstein. Tutte le sue idee sulla relatività speciale sembrano essere state espresse in termini di treni. Mi piace. E quando qualcuno vuole sapere qualcosa sulla quarta dimensione, va ancora a leggere Flatlandia, che fu scritto verso il 1880. Immagino che si possa considerare Butler nello stesso modo. Erewhon è sostanzialmente un esperimento del pensiero per elaborare idee sulla società e le macchine».

«Presenti una proposta, allora. Scriva una tesi su questi esperimenti del pensiero, sarei molto interessato a farle da relatore. Lavori su qualche altro romanzo, su altri poeti. Le consiglio di dare un'occhiata anche a Thomas Hardy e Tennyson. Cerchi di non lasciarsi trascinare troppo. Si ponga un limite di tempo. Non scriva la storia degli esperimenti mentali dall'inizio dei tempi. Scelga un certo periodo, diciamo dal 1859 al 1939, o roba del genere. Cominci con Darwin e finisca, non so, con la bomba atomica».

«O con il gatto di Schrödinger. Mi pare che fu negli anni Trenta. La bomba è troppo reale; voglio dire, è dove l'esperimento mentale diventa davvero realtà».

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Pagina 38

QUATTRO



A volte mi sveglio con una sensazione così intensa di sconforto che riesco appena a respirare. Di solito non è stata prodotta da nulla di ovvio, e la considero una combinazione di infanzia infelice e di brutti sogni (due cose che vanno benissimo insieme), scuotendomela in fretta di dosso. Dopotutto non ho molto di cui essere insoddisfatta. Certo, non ho mai ottenuto nessuno dei posti nell'editoria per i quali ho fatto domanda dopo l'università. Che importa? Era dieci anni fa, e comunque sono contenta della mia rubrica sulla rivista. Me ne infischio che mia madre sia fuggita con un gruppo di hippy, che mio padre viva in un ostello nel nord e che mia sorella non mi mandi più nemmeno un biglietto d'auguri a Natale. Non m'importa che tutte le mie ex coinquiline si siano sposate, lasciandomi a vivere da sola. A me piace vivere da sola, non era questo il problema, solo che non potevo permettermelo nella grande casa di Hackney, che sembrava generare stanze vuote come piccoli universi. Trasferirmi qui mi ha permesso di sostenermi con quello che guadagno e di leggere i miei libri, quindi in realtà non ci sono motivi per cui io debba sentirmi triste o frustrata.

Talvolta mi piace pensare che vivo con i fantasmi. Non del mio passato – non credo in cose del genere – ma in forma di nuvolette di pensieri e di libri sospese nell'aria come pupazzi di seta. Mi capita anche di vedere le mie idee che fluttuano in giro, ma difficilmente durano a lungo. Somigliano più a delle efemere: nascono, grandi e brillanti, e poi cominciano a svolazzare qua e là ronzando come matte, prima di finire sul pavimento, morte, circa ventiquattr'ore dopo. Ad ogni modo, non sono sicura di aver mai avuto pensieri originali, così non mi preoccupo. Quasi sempre, scopro che Derrida ha già pensato tutto, il che sembra una gran cosa da dire, mentre in realtà Derrida non è tanto complesso; è solo che i suoi scritti sono densi. E ormai è un fantasma anche lui. O magari lo è sempre stato: non l'ho mai incontrato, perciò come posso essere sicura che fosse reale? Alcuni dei fantasmi più simpatici con cui vivo sono quelli dei miei scrittori di scienza preferiti del diciannovesimo secolo. La maggior parte di loro aveva torto, naturalmente, ma che differenza fa? Non significa nulla. Tutti abbiamo torto.

Certe volte, faccio un mio esperimento mentale che funziona così: che succederebbe se tutti avessero ragione? Aristotele e Platone, Davide e Golia, Hobbes e Locke, Hitler e Gandhi, Tom e Jerry. Avrebbe senso? E poi mi viene in mente mia madre e penso che no, non tutti hanno ragione. Per parafrasare il fisico Wolfgang Pauli, lei non ha nemmeno torto. Forse è a questo punto che si trova la società umana ora, all'inizio del ventunesimo secolo: non ha neanche torto. La gente del diciannovesimo secolo si sbagliava, nel complesso, ma noi stiamo facendo qualcosa di molto peggio. Viviamo in base al principio di indeterminazione e al teorema dell'incompiutezza, con filosofi secondo i quali il mondo è diventato un simulacro, una copia senza l'originale. Viviamo in un mondo dove nulla può essere reale; un mondo di infiniti sistemi chiusi e di particelle che potrebbero star facendo qualsiasi cosa tu voglia (ma probabilmente non lo fanno).

Forse siamo tutti come mia madre. Non mi piace pensare a lei o alla mia infanzia, ma la faccenda si può riassumere abbastanza rapidamente. Abitavamo in un complesso popolare, dove leggere un libro era considerato una disgustosa combinazione di pigrizia e presunzione, e solo mia madre e io, per quanto ne so, avevamo la tessera della biblioteca. Mentre i miei coetanei facevano sesso tra loro (all'incirca dagli otto anni in su), e gli altri adulti bevevano, scommettevano, allevavano cani violenti e gatti rognosi, e pensavano a come diventare ricchi e famosi, ogni tanto mia madre mi portava alla biblioteca, dove mi lasciava nell'area riservata ai bambini e andava a cercare il significato della vita in libri di astrologia, guarigione taumaturgica e telepatia. Se non fosse stato per lei, probabilmente non avrei nemmeno saputo dell'esistenza delle biblioteche. È l'unica cosa buona che abbia mai fatto per me. Spesso, di notte si sedeva in fondo alle scale con la sua vestaglia rosa e aspettava gli alieni. Mio padre, invece, era solito portarmi al parco e fotografarmi mentre danneggiavo panchine e tracciavo graffiti sui muri della metropolitana; poi mandava le foto al giornale locale per dimostrare che il comune stava perdendo la guerra contro i teppisti. Mostrava la forma migliore quando era sobrio per metà, e soleva comprarmi automobili giocattolo e figurine di calciatori. Era convinto che ogni cosa fosse un complotto del governo, mentre mia madre pensava che si trattasse di una cospirazione su scala più grande. Mi insegnavano che tutto ciò che ti viene detto da chiunque è una bugia. Ma poi scoprii che anche loro mentivano.

Non che non mi divertissi a gironzolare con gli altri, facendo giochi pericolosi sulla via principale, rubando le biciclette dei bambini ricchi, dando fuoco a quello che capitava e lasciando che i ragazzi più grandi mi palpeggiassero per cinquanta pence a volta. In questo modo misi insieme un bel po' di soldi, e alla fine potei comprarmi una bicicletta che non dovesse essere restituita o gettata nel fiume. Dopo di che, lasciai perdere il sesso e cominciai a pedalare quotidianamente fino alla biblioteca. Fu allora che presi l'abitudine di rimpinzarmi di letture. È facile a farsi, quando trascorri ogni giorno ore e ore circondata da più libri di quanti riuscirai mai a leggere. Ne inizi uno ma sei distratto dal pensiero che avresti potuto benissimo cominciarne un altro diverso. Alla fine della giornata ne hai sfogliati due, iniziati quattro e letto la conclusione di sei o sette. Puoi divorare un'intera biblioteca senza leggere alcun libro come si deve. I romanzi, però, li leggevo dal principio alla fine. Ma non ero una di quelle ragazze che leggono Tolstoj; preferivo certa roba per adulti che non ti permettevano di prendere a prestito.

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Pagina 80

Sento bussare alla porta ed esco immediatamente dalla rete.

È il tecnico. «Ariel Manto?», dice, guardando un pezzo di carta.

«Sì».

«Sono venuto a inserire una nuova password».

«Oh, sì. Benissimo. È quel computer lì».

Cerco di concentrarmi su qualcos'altro mentre lui traffica con il sistema, pensando che meno casino faccio, meno sospetta sembrerà tutta la faccenda. Quindi, non tento di spiegare o giustificare il motivo per cui mi occorre un nuovo codice, lasciando che il tecnico continui il suo lavoro mentre io comincio a digitare alla tastiera le note su Mr Y. Mi piacerebbe scrivere un intero capitolo su Che fine ha fatto Mr Y. per la mia tesi. Sarebbe abbastanza facile, considerando la mia ossessione per il libro, e potrebbe anche essere un grande articolo o un buon testo per una conferenza. L'unico problema è che non so come convincere la gente che si tratta di un esperimento mentale.

Gli esperimenti mentali o, in tedesco, gedankenexperiments, non possono essere per nessuna ragione effettuati fisicamente, ma devono essere condotti all'interno della mente, per mezzo della logica e del ragionamento. Esperimenti del genere, etici e filosofici, esistono da centinaia, se non migliaia di anni, ma fu quando cominciarono ad essere usati in un contesto scientifico che vennero definiti "del pensiero", secondo una traduzione letterale di gedankenexperiments, anche se Lumas si riferì sempre ad essi come «esperimenti della mente». L'etere luminifero è il risultato di un esperimento del pensiero per modo di dire, il quale postulava che, se la luce è un'onda, deve esservi qualcosa in cui si muove. Non puoi avere un'onda nell'acqua senza acqua, quindi qual era il "fluido" della luce? Così la gente inventò come risposta l'etere luminifero, ma solo per abbandonarlo quando Michelson e Morley dimostrarono che l'etere, purtroppo, non esiste.

Edgar Allan Poe usò i principi dell'esperimento mentale per risolvere il paradosso di Olbers e, secondo alcuni, per formulare a grandi linee la teoria del Big Bang un buon centinaio di anni prima di chiunque altro. Il suo "poema in prosa" Eureka! espone varie idee scientifiche e cosmologiche, ma Poe non era uno scienziato empirico, perciò queste teorie sono presentate sotto forma di esperimenti della mente o, forse, di qualcosa vicino al modo in cui egli definiva l'infinito, ossia il «pensiero di un pensiero». La sua soluzione del paradosso di Olbers è uno dei più raffinati esperimenti mentali della storia. Nel 1823, Wilhelm Olbers si chiese perché le stelle ci appaiono nel cielo notturno così come le vediamo. All'epoca, la maggior parte della gente credeva che l'universo fosse infinito ed eterno. Se il cielo è infinito, però, deve sicuramente contenere un numero infinito di stelle. Ma se vi fosse un numero infinito di stelle, allora il nostro cielo notturno dovrebbe essere bianco, non nero. Olbers pensava che ciò fosse dovuto a nubi di polvere, e scrisse: «Quale fortuna che la Terra non riceva la luce stellare da ogni punto della volta celeste!». Edgar Allan Poe rifletté sulla questione, decidendo che una soluzione più semplice e plausibile per i «vuoti che i nostri telescopi trovano in innumerevoli direzioni» è che alcune stelle sono talmente distanti che la loro luce non ha ancora avuto il tempo di raggiungerci.

Forse, uno dei più famosi esperimenti del pensiero della storia è quello di Einstein, quando si domandò cosa sarebbe accaduto se avesse potuto afferrarsi a un raggio luminoso. Viaggiando alla velocità della luce, logicamente, il raggio luminoso gli sarebbe parso immobile, come quando sei su un treno che avanza alla stessa velocità di un altro sul binarioo accanto, e i passeggeri a bordo di quest'ultimo ti sembrano fermi. A cosa somiglierebbe allora la luce se apparisse immobile? A un'onda statica di colore giallo? A una spruzzata di particelle? E cosa vedresti, se potessi guardarti allo specchio mentre viaggi alla velocità della luce? Probabilmente nulla, saresti invisibile. Einstein si rese conto che non possono esistere campi elettromagnetici fermi. Le equazioni di Maxwell, secondo cui in teoria potresti raggiungere un raggio luminoso, dimostrano anche che la luce non può essere statica. Quindi, una delle due cose dev'essere sbagliata. Sarebbe interessante se fosse la seconda, e tu potessi procedere insieme alla luce e vederla ferma, ma per varie ragioni che al mio attuale livello di conoscenza della fisica mi sfuggono, non è così. La teoria della relatività speciale di Einstein stabilisce che, a prescindere da quanto rapidamente avanzi, la luce rispetto a te viaggia sempre alla sua velocità, c. Non importa se procedi a un chilometro o a mille chilometri all'ora. La luce che vedi intorno è sempre più veloce di te e viaggia sempre alla velocità c. Se tu avanzassi con una velocità pari alla metà di quella della luce, la luce che va nella tua direzione non ti sembrerebbe meno veloce. Rispetto a te, darebbe l'impressione di viaggiare sempre alla velocità della luce, c.

«Supponiamo che la nostra vecchia amica, la carrozza ferroviaria, viaggi sui binari con una velocità costante v», dice Einstein nel suo libro Il significato della relatività. Poi continua spiegando che se tu camminassi lungo la carrozza nella direzione del moto, non procederesti né con la velocità del treno, né con la tua, ma con la somma delle due. Se il treno viaggiasse a cento chilometri all'ora e tu a uno, in realtà avanzeresti alla velocità di centouno chilometri orari rispetto alla massicciata. Analogamente, se io stessi guidando sull'autostrada lungo la linea ferroviaria a una velocità di ottantacinque chilometri orari e questo treno mi superasse, sembrerebbe procedere a quindici chilometri orari relativamente a me; e tu, che cammini al suo interno, mi daresti l'impressione di avanzare a sedici chilometri all'ora. Se guardassi fuori del finestrino, mi vedresti andare in senso opposto. Tutto questo riguarda la velocità relativa newtoniana e non si applica alla luce.

Le equazioni di Einstein, il risultato finale dei suoi originali esperimenti del pensiero, dimostrano che materia ed energia sono manifestazioni diverse della stessa cosa, e che se tu cercassi di avvicinarti alla velocità della luce, diventeresti più pesante quanto più ti avvicini, mentre la tua energia si trasforma in massa. Egli dimostrò anche che spazio e tempo sono sostanzialmente identici. Per Lumas, la quarta dimensione è uno spazio contenente esseri, o almeno pensieri. Per H.G. Wells, è un altro mondo verdastro popolato di spiriti, mentre Zollner lo vedeva come un posto pieno di fantasmi che sembrano non chiedere di meglio che aiutare i maghi. Per Einstein, invece, non si tratta di un luogo, e nemmeno semplicemente di tempo, ma di una quarta dimensione di spazio-tempo: non semplicemente l'orologio, ma l'orologio che ticchetta sulla parete, relativamente a te.

Il tecnico si schiarisce la gola. «Ci siamo quasi», dice.

«Ottimo. Grazie».

A volte mi chiedo che impressione doveva fare essere Einstein, seduto in un antiquato ufficio brevetti a osservare i treni e la ferrovia fuori della finestra. C'è qualcosa di romantico, naturalmente, nel modo in cui possono essere le vite di altre persone. Alzo per un attimo lo sguardo dai miei appunti e lancio un'occhiata oltre i grandi vetri incorniciati d'acciaio. Improvvisamente mi colpisce un pensiero, una curiosa associazione con Lumas, e torno ai miei fogli. Scrivo:

Metafora (come nella prefazione di Lumas)... Tropo... (Troposfera! Strano). Modo di vedere il mondo. Non puoi usare treni come metafore se non ve ne sono. Cfr. différance. Può esistere un pensiero senza il linguaggio per esprimerlo? In che modo il linguaggio (o la metafora) influenza il pensiero? Cfr. Poetica. Se la sera non esistesse, nessuno penserebbe che è come la vecchiaia.

«Bene», dice il tecnico. «Tutto a posto. Se vuole venire qui a inserire la nuova password...».

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Pagina 126

«Per favore, dimmi che non approvi l'insegnamento del creazionismo ai bambini», dice Heather ad Adam dopo cinque minuti che abbiamo iniziato a mangiare. «O come lo chiamano ora: disegno intelligente».

Stiamo cenando a base di pasta e verdure al forno, come promesso, con abbondante insalata. Prima di questa nuova svolta nella conversazione, Heather ha parlato dei suoi problemi nel trovare un uomo decente all'università. La pasta è saltellante come lei, e se non stai attento le bianche spirali ti scivolano via dalla forchetta. Le verdure — pomodorini, funghi, melanzane e cipolle arrostite — sono state ricoperte di olio d'oliva e succo di limone, raggiungendo una consistenza appiccicosa e quasi caramellata. Vi è anche del pane all'aglio, e io sto mangiando a quattro palmenti. Finora, in realtà, sono stata molto più interessata al cibo che alla conversazione. Di solito odio le conversazioni da cena informale, ma perfino io mi rendo conto che questa potrebbe essere interessante.

«In che senso?», chiede Adam.

«Come parte dei corsi di scienza».

«Creazionismo e disegno intelligente non sono due cose diverse?», intervengo.

«Non proprio», risponde lei. «Il disegno intelligente pretende di essere scientifico, ma non lo è. Dopotutto riguarda cose che non puoi sapere».

«Quelli del disegno intelligente sono gli stessi che sostengono che l'evoluzione è troppo complicata per essersi verificata da sola, vero?», domando.

«Già», dice Heather. «Roba da matti. Solo perché non la capiscono...».

«Non insegno religione come una scienza», spiega Adam, «ma inseriamo elementi scientifici nei nostri corsi, se è utile».

«Di che genere?»

«Insegniamo miti della creazione e parliamo anche del Big Bang».

«In che modo, esattamente, il Big Bang è considerato un mito?», chiede Heather.

«È una storia, come quella che il mondo è nato da un uovo gigante o che Dio disse: "Sia fatta la luce", e improvvisamente la luce fu. Si tratta semplicemente di storie sulla genesi del mondo. Nessuno di noi era, là a raccogliere fatti reali, perciò siamo costretti a concludere che l'intera faccenda è inconoscibile».

«Ma in realtà facciamo ancora parte del Big Bang», osserva Heather. «Ce l'abbiamo sotto gli occhi. Siamo "là" in questo preciso istante. E comunque la scienza è in grado di capire le cose senza sperimentarle direttamente. Non abbiamo mai visto nemmeno i dinosauri. Tra parentesi, prendete altro vino e tutto il resto».

«Non voglio certo litigare», sorride Adam, «ma non posso essere d'accordo con la teoria del Big Bang più di quanto lo sia con la gente che pensa che il mondo sia sostenuto da tartarughe giganti».

«Ma non puoi non accettare la teoria del Big Bang!», protesta lei.

«Perché no?»

«Perché non si tratta di un'opinione, ma di una teoria ben consolidata, sorretta da un sacco di prove. Non è qualcosa che puoi decidere di accettare o no. Potresti cercare di confutarla, ma questo è un altro discorso».

«Allora tu puoi farti un'opinione, diciamo, sul creazionismo o sull'esistenza di Dio, mentre io non posso fare altrettanto sul fatto che l'universo avrebbe avuto inizio come un granello infinitamente piccolo che, per nessuna ragione, a un certo punto sarebbe esploso?»

«OK, ammetto che la faccenda dell'inizio è un po' stiracchiata».

«E poi abbiamo il problema di quello che c'era prima dell'inizio», osservo.

«Sì, sì», dice Heather, «ma puoi mettere tutto da parte, quando consideri le prove del Big Bang. Una volta assodato che ogni cosa nell'universo si muove e che ciascun pezzo si allontana da tutti gli altri, allora capisci che ieri tutti i pezzi erano un po' più vicini e il giorno prima ancora di più. Riavvolgi il film fino all'inizio, e logicamente scopri che tutte le cose dovevano essere unite tra loro. Non sei d'accordo, Adam?»

«Devo? Oh, posso avere un altro po' di verdure?»

«Solo se sei d'accordo con me», ride Heather.

«Oh, be', in tal caso...». Adam solleva le mani come se cercasse di non essere travolto da qualcosa di grosso.

«Sto solo scherzando. Ecco...». Gli avvicina il vassoio. «Ma ancora non vedo come puoi non accettare il fatto scientifico».

«"Fatto" è una parola. La scienza stessa non è che un'insieme di parole. Io sto ipotizzando che esista una verità oltre le parole e ciò che chiamiamo "realtà". Deve esserci; se poi esiste davvero, cioè».

«Puoi ripetere?», dice Heather aggrottando la fronte.

«Aha», osservo, annuendo e sollevando un sopracciglio. «Qui può prenderti in castagna».

«È tutta un'illusione», continua Adam. «Miti della creazione, religione, scienza. Ci siamo inventati che il tempo funziona in un certo modo; così, ad esempio, puoi immaginare di riavvolgere il film dell'universo per vedere quello che c'era nella porzione di tempo che chiamiamo "ieri", ma ieri esiste solo perché l'abbiamo creato noi, non è reale. Non puoi nemmeno dimostrarmi che vi sia mai stato. Tutto ciò che diciamo a noi stessi di credere è semplicemente una finzione, una storia».

«Be'», replica Heather, «questa è una cosa su cui non puoi ragionare, il che mi rende diffidente. E in ogni caso, se la realtà è solo un'illusione, perché ci preoccupiamo?»

«Ci preoccupiamo di cosa?»

«Di capire. Di scoprire la verità».

«Puoi cercare di trovarla all'esterno della realtà».

«Facendo cosa, esattamente?».

Adam alza le spalle. «Meditazione, penso. Oppure prendendoti una bella sbronza».

Sto per dire qualcosa di significativo su Derrida, ma ora Heather sembra davvero scossa, così decido di tacere.

«La meditazione non è una scienza», dice.

«Questo è il punto», ribatte Adam.

«Per amor di Dio», esclama lei, ansimando leggermente. «Tutta quella roba fumosa, superstiziosa... Senza offesa, ma quando si tratta di scienza ti servono parole e logica. Tengo un corso serale sul metodo scientifico per adulti che vogliono riprendere gli studi, e porto sempre l'esempio delle tele di ragno fuori dell'aula in cui insegno. In pratica, c'è un lungo corridoio con luci arancione costantemente accese applicate alle pareti. La sera, vedi le ragnatele sopra le luci, con zanzare e altri insetti notturni rimasti intrappolati. Allora pensi: "Non sono intelligenti i ragni a costruire le loro tele dove finiranno le prede attirate dalla luce?". Oppure puoi andare oltre, rendendoti conto che vedi solo le tele vicino alle luci e che perciò ti sembrano le uniche. Un poeta potrebbe lavorare di fantasia sull'ingegnosità dei ragni, ma uno scienziato controllerebbe esattamente quante ragnatele vi sono e dove, concludendo che alcune di esse sono state realizzate vicino alle luci solo per caso».

«Ma tutto questo non fa che dimostrare quanto sto dicendo», replica Adam. «Io non concluderei che i ragni sfruttano la luce per intrappolare gli insetti. Piuttosto, darei per scontato che non potrò mai capire quello che fanno e perché, dal momento che non sono un ragno».

«Ma gli scienziati devono cercare di capire le cose. Devono chiedersi perché».

«Certo, ma non otterranno mai la risposta giusta».

«Comunque», intervengo con voce più alta di quanto vorrei. «Ehm... comunque, vorrei dire che questa roba sulla scienza e il linguaggio è davvero interessante in rapporto a qualcosa che ho letto sul Big Bang. È un po' complicato, però dimostra che se parti da alcuni presupposti sul Big Bang, poi il ragionamento ti porta a una situazione in cui viviamo o in un multiverso, o in un universo creato da Dio. In realtà, non esistono altre alternative».

«Alla fine della serata, la mia testa sarà da buttare», geme Heather.

«Bevi un altro po' di vino», le consiglia Adam sorridendo.

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