Copertina
Autore Nancy Thorndike Greenspan
Titolo La fine di ogni certezza
SottotitoloLa vita e la scienza di Max Born
EdizioneCodice, Torino, 2007 , pag. 480, ill., cop.fle., dim. 14x21,5x3 cm , Isbn 978-88-7578-068-5
OriginaleThe End of the Certain World. The Life and the Science of Max Born: The Nobel Physicist Who Ignited the Quantum Revolution [2005]
TraduttoreAndrea Migliori
LettoreCorrado Leonardo, 2008
Classe biografie , storia della scienza , fisica
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Indice


  ix Abbreviazioni
xiii Introduzione

  3 Prologo

    Capitolo 1
  7 Una specie di guscio

    Capitolo 2
 31 Un desiderio più nobile

    Capitolo 3
 67 Questioni di fisica

    Capitolo 4
101 Un boccone amaro da ingoiare

    Capitolo 5
129 In Germania non c'è un altro Born

    Capitolo 6
159 Pensando disperatamente ai quanti

    Capitolo 7
193 Ma Dio gioca davvero a dadi!

    Capitolo 8
225 Un futuro oscuro

    Capitolo 9
259 Capire quanto si è sacrificabili

    Capitolo 10
283 Parlando di cose terribili

    Capitolo 11
319 Peggio di quanto potessimo immaginare

    Capitolo 12
351 Ci sono così tanti "se"

    Capitolo 13
387 Una sciagura del nostro tempo

    Capitolo 14
417 Un viaggio a Stoccolma

451 Epilogo

455 Nota conclusiva
457 Ringraziamenti
461 Bibliografia
469 Indice dei nomi


 

 

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Pagina xiii

Introduzione


Otto anni fa incontrai Irene Born Newton-John: eravamo entrambe ospiti di sua figlia Olivia, in California. Nel corso di un lungo fine settimana mi parlò di suo padre: la scoperta della meccanica quantistica, l'esilio della famiglia dalla Germania nazista e le personalità dei suoi numerosi studenti diventati poi famosi. Erano passati 70 anni, ma lei vedeva ancora gli occhi mefistofelici di Edward Teller, e non aveva dimenticato i concerti di Bach per due pianoforti eseguiti da suo padre, Max Born, insieme al suo giovane assistente, Werner Heisenberg. Si ricordava delle visite di Albert Einstein, quando era ancora una ragazzina, e di come fossero occasioni speciali. La storia era affascinante, così come la donna che la raccontava; Irene, però, si rammaricava di una cosa: nonostante suo padre avesse contribuito in maniera fondamentale alla rivoluzione quantistica - la scoperta scientifica più importante del XX secolo - nessuno ne aveva mai scritto una biografia.

Tornata a casa, la storia di Irene mi ronzava ancora in testa. Avevo sempre avuto un interesse particolare per la prima metà del Novecento: le ripercussioni politiche della Prima guerra mondiale, l'esplosione creativa della scienza, della letteratura e delle arti negli anni Venti, la Grande Depressione, i cambiamenti radicali avvenuti in Germania, la Seconda guerra mondiale, e la bomba. Mi resi conto che tutti questi elementi erano racchiusi, come in un ritratto, nella vita di Max Born. Chiamai Irene e le chiesi il permesso di scrivere la biografia di suo padre. Acconsentì. Pochi mesi dopo, a Londra, incontrai suo fratello, il professor Gustav Born, che nel testamento del padre era stato nominato responsabile delle sue carte e che divenne subito, semplicemente, Gustav. Gentilmente mi autorizzò a usare quei documenti per scrivere la biografia, e io ebbi libero accesso all'archivio di famiglia conservato all'Università di Edimburgo.

Le migliaia di lettere, i diari e le foto che vi erano conservate costituivano una fonte storica fino ad allora pressoché inutilizzata, nella quale erano registrate non solo la vita di Max Born e della sua famiglia, ma anche la storia di quegli sviluppi scientifici e politici, in Germania e in Europa, che lo avevano toccato così profondamente. Si trattava di testimonianze capaci di affascinare e di turbare al tempo stesso. La più sconcertante era una lettera indirizzata a Born e firmata da Adolf Hitler, nella quale lo si ringraziava per i servizi resi all'Università di Gottinga, dalla quale i nazisti lo sospesero nel 1933 perché ebreo. Appresi in seguito che la firma era stata apposta con l' autopen, ma ciò non attenuò di molto lo choc.

Le carte di Edimburgo rivelano gli aspetti privati della personalità di Born, nelle relazioni così come nei pensieri, e costituiscono il complemento delle circa 10000 lettere della sua corrispondenza scientifica conservate negli archivi pubblici (Max Born e sua moglie Hedi erano degli scrittori di lettere incredibilmente prolifici). In tutti i documenti la religione, la guerra e la ricerca scientifica emergono come i fattori che marcarono la sua crescita personale in maniera decisiva, anche se paradossale: come ebreo tedesco assimilato, Born non era interessato agli aspetti formali della religione, sebbene sia stata quest'ultima a determinare buona parte della sua esistenza; era un pacifista, ma fu responsabile della formazione scientifica di molti tra gli inventori della bomba atomica. La ricerca teorica delle verità fondamentali gli diede una visione ottimistica del futuro, consentendogli di sottrarsi al presente. Inoltre dal lavoro traeva forza e motivazione, e i risultati ottenuti gli davano orgoglio ed entusiasmo. Fu sempre modesto sui suoi successi: alcune delle sue idee furono attribuite al suo ex assistente Werner Heisenberg, mentre altre vennero semplicemente assorbite nella teoria della meccanica quantistica nota come "interpretazione di Copenaghen".

Anche la sua vita privata rivela un paradosso: una moglie di cui aveva un bisogno disperato, ma che negli ultimi anni della sua vita veniva descritta come una croce da portare; tuttavia, anche se in alcuni momenti i loro rapporti furono complicati, lui decise di andare avanti.

Come ho già detto, la vita di Born contiene tutti gli elementi che hanno attirato la mia attenzione e che hanno reso questa storia tanto affascinante. Una delle cose più belle è che, nonostante tutte le avversità che dovette affrontare nel corso della sua vita, Born tenne sempre duro e alla fine uscì vincitore. Quando, ormai vecchio, aveva già accettato con serenità il proprio destino, ricevette inaspettatamente il riconoscimento per cui si era battuto, e che meritava. È raro che la vita si concluda così, ma proprio per questo, quando succede, è fonte di una gioia particolare.

Nancy Greenspan, Bethesda, Maryland

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Pagina 3

Prologo


Dicembre 1953. Edimburgo, Scozia

Una domenica sera, Max Born stava riposando nel salotto al primo piano di casa sua ascoltando la radio. Erano le nove e un quarto, e la voce tranquilla che aveva appena iniziato a parlare era quella di J. Robert Oppenheimer, che 27 anni prima era stato studente di dottorato di Born in Germania. Oppenheimer era a Londra per tenere sei conferenze sulla fisica quantistica nell'ambito delle prestigiose Reith Lectures organizzate dalla BBC.

Born aveva già ascoltato con piacere le prime tre e stava pregustando la quarta, intitolata "Atomo e vuoto nel terzo millennio": l'argomento della serata riguardava in modo particolare il suo settore di ricerca. L'oratore cominciò parlando dell'eccitazione che avevano provocato le scoperte quantistiche degli anni Venti e dei fisici illustri che a queste ultime erano legati, ma senza citare Born. Oppenheimer diede una spiegazione lucida di quella scoperta, ma non menzionò il suo vecchio insegnante neanche una volta. L'omissione di Oppenheimer non poteva essere frutto d'ignoranza, perché in realtà erano state proprio quelle ricerche a spingerlo ad andare in Germania per lavorare con Born.

Oppenheimer raccontò ai suoi ascoltatori che quando i ricercatori tentavano di determinare la posizione di una particella non la trovavano mai dove si sarebbero aspettati di trovarla, né la osservavano espandersi. Spiegò che «l'espandersi delle onde nello spazio, quindi, non significava che l'elettrone stesso si espandesse; significava che la probabilità o la possibilità di trovare l'elettrone, cercandolo, si espandeva con l'espandersi delle onde». Questo concetto basilare, che Oppenheimer spiegò in maniera così semplice, aveva cambiato la natura della scienza, originando la transizione dal mondo deterministico della meccanica newtoniana al moderno mondo statistico della teoria dei quanti. Era stato Born a scoprire quel principio e a dare il via al mutamento.

La carriera di Born, dopo 45 anni nei quali aveva formato i fisici teorici del futuro, era giunta alla fine. Un paio di settimane prima, all'Università di Edimburgo, il suo dipartimento gli aveva donato una raccolta di articoli scritti dai suoi colleghi e dai suoi studenti - Albert Einstein, Erwin Schrödinger, Theodore von Kármán, Alfred Landé, Louis de Broglie, David Bohm - come riconoscimento di un'eredità scientifica che comprendeva contributi importantissimi alla teoria dei quanti, alla fisica dello stato solido, all'ottica, alla relatività ristretta e alla teoria dei campi. Per Born era giunto il momento di fare un bilancio della propria vita, e la coincidenza con questa dimenticanza di Oppenheimer rendeva la cosa ancora più evidente.

Born rifletté sulla conferenza per qualche giorno e poi scrisse a Oppenheimer. Era l'11 dicembre del 1953, e Born compiva 71 anni. Ventun'anni e un giorno prima, i suoi amici Paul Dirac e Erwin Schrödinger, insieme a Werner Heisenberg, che un tempo era stato suo assistente, avevano ricevuto il premio Nobel per i loro contributi alla teoria dei quanti. Born, che aveva stimolato la ricerca della soluzione del mistero quantistico, giocando un ruolo fondamentale nella nuova, rivoluzionaria teoria, ne era rimasto escluso.

La lettera di Born cominciava nel tradizionale stile europeo, con una serie di osservazioni benevole, per poi venire al punto.

Ho apprezzato molto la sua enfasi sull'importanza dell'interpretazione statistica della meccanica quantistica che io ho inaugurato 27 anni fa, ma non posso nascondere il mio disappunto per il fatto che non abbia menzionato il mio ruolo sull'argomento, mentre ha citato altri, come Bohr, Heisenberg ecc. Ormai sono molto vecchio e non ho più ambizioni, né brama di onori. Sono stato zitto per 27 anni, ma ora credo di avere almeno il diritto di chiedere: perché la mia partecipazione, o forse dovrei dire il mio ruolo guida, nell'evoluzione dalla concezione meccanicistica a quella moderna è trascurato quasi ovunque? Tutto è cominciato nel 1934 [sic], quando solo Heisenberg ha avuto il premio Nobel per il lavoro svolto in collaborazione con me e, in parte, con Jordan. All'epoca [1925], non sapeva cosa fossero le matrici, ma poco tempo dopo venne coniata l'espressione "matrici di Heisenberg". Posso capirlo: chi può discriminare il contributo di tre collaboratori, se non essi stessi? Ma con l'interpretazione statistica della funzione d'onda la faccenda è diversa. Mi scontrai con l'opposizione violenta di Heisenberg, che in una lettera definì le mie idee «un tradimento nei confronti dello spirito della meccanica delle matrici». Quando emigrai, per i tragici fatti del nazismo, la lettera andò persa, ma Heisenberg ha riconosciuto apertamente la veridicità dei miei ricordi.

Una settimana dopo Oppenheimer rispose che aveva voluto mantenere i nomi al minimo per ridurre la confusione. Nel tentativo di riparare alla gaffe, aggiunse: «Sono uno degli ultimi a poter dimenticare il suo ruolo nella vicenda, poiché io sono stato tra coloro che hanno appreso ciò che lei ha scoperto più o meno nel momento stesso in cui ciò accadeva».

Lo stesso giorno in cui scrisse la lettera, Born e sua moglie lasciarono la casa in cui avevano abitato per 17 anni e si trasferirono in albergo, prima di lasciare per sempre Edimburgo. Fino a quel giorno era stato un lungo viaggio attraverso piccole dispute scientifiche e guerre mondiali, meccanica dei quanti ed esplosioni atomiche. Adesso stavano per tornare in Germania, dove tutto era cominciato.

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Pagina 67

Capitolo 3

Questioni di fisica


Qualche settimana dopo la morte di Minkowski, la Società Matematica di Gottinga tenne la sua abituale riunione. L'assemblea, come sempre, incuteva timore: Felix Klein e gli altri notabili, matematici e scienziati, sedevano solennemente al tavolo principale, davanti a una lunga lavagna; lungo due tavoli disposti perpendicolarmente al primo si affollavano i membri della facoltà più giovani e meno affermati, desiderosi di mettersi in mostra. Klein aprì la seduta con una presentazione dei libri scientifici pubblicati di recente, che erano impilati sul tavolo. Poi li distribuì tra i membri più giovani, che li sfogliarono fingendo indifferenza nei confronti dell'oratore della serata che intanto si alzava a parlare. In realtà non vedevano l'ora di balzare all'attacco.

Max Born si accinse a presentare le sue nuove ricerche. Era agitato e profondamente consapevole di quale fosse la posta in gioco quella sera. Privo del sostegno di Minkowski, doveva convincere la facoltà ad accettare la sua tesi di abilitazione. Sul suo cammino incombeva lo spettro di Klein, il guastafeste.

Da quando era morto Minkowski, Born aveva esteso il campo delle sue ricerche agli effetti dell'accelerazione sulla forma e sulla struttura dell'elettrone. Si trattava di un tema controverso. Gli scienziati non erano d'accordo sul fatto che un elettrone dovesse cambiare forma, e sulla modalità del cambiamento, quando si muoveva di moto uniforme, anche senza considerare l'effetto aggiuntivo dell'accelerazione. Da una parte c'era Lorentz, convinto che i corpi che si muovevano a velocità costante si contraessero nella direzione del moto, e che la contrazione aumentasse avvicinandosi alla velocità della luce. Dall'altra c'era Max Abraham, antirelativista irriducibile, secondo il quale gli elettroni erano rigidi anche a velocità elevate. I fisici, e tra loro Lorentz e Abraham, erano in disaccordo anche sull'idea che il moto di un elettrone ne modificasse la massa - cioè che il suo moto generasse un campo elettromagnetico interagente con l'elettrone con conseguente creazione di una "auto-energia" e dunque con un aumento della sua massa - e sull'entità di tale effetto. Partendo dall'ipotesi di un elettrone che si contraeva, Lorentz derivò un'equazione semplice che permetteva di calcolare questa massa auto-generata. Abraham, che rifiutava la formulazione di Lorentz, sviluppò una formula più complessa per il suo elettrone rigido. Quella sera Abraham, ben noto a Born e agli altri per il suo sarcasmo feroce, sedeva a uno dei tavoli più lunghi.

L'obiettivo della presentazione di Born era quello di generalizzare le idee di Lorentz dall'effetto del movimento su un elettrone in moto rettilineo uniforme all'effetto dell'accelerazione su un elettrone relativistico rigido. Attraverso l'analisi delle forze esercitate su un elettrone rigido, Born si proponeva di descriverne il moto. Prima, però, doveva risolvere il problema della deformazione indotta dalla relatività, dato che "rigidità" significa "assenza di deformazioni". Per farlo, sviluppò una nuova definizione di rigidità che legava lo spazio e il tempo mediante una rotazione nello spazio quadridimensionale di Minkowski. La sua definizione consentiva a un osservatore posto nel sistema di riferimento dell'oggetto in movimento di vederne il corpo come rigido, mentre un osservatore in un altro sistema di riferimento avrebbe visto una deformazione. Si trattava di un concetto di corpo rigido veramente nuovo.

In piedi di fronte alla lavagna, Born cominciò a presentare la sua nuova definizione, ma non poté andare oltre. Klein lo interruppe seccamente, accusandolo di aver frainteso il concetto. Forse perché non aveva afferrato la definizione, o perché aveva scelto di ignorarla, Klein disse a Born di «studiare la letteratura matematica prima di rivolger[si] all'Associazione».

Quando Born replicò alle critiche, da uno dei tavoli più lunghi partì un altro attacco: era Abraham, che affermava che la «conoscenza della fisica [da parte di Born) sembrava scarsa quanto quella della matematica».

Giunsero altre offese, e Max ne fu travolto. Klein pose fine alla presentazione e dichiarò che si trattava del peggior seminario cui avesse mai assistito. Born tornò al suo posto completamente distrutto.

Dopo la riunione, mentre cercava di ritirarsi inosservato, venne fermato da Carl Runge, il suo supervisore di dottorato. «Il suo lavoro mi interessa», gli disse Runge, «credo che Klein non l'abbia capito a fondo: venga a trovarmi domattina e me lo spieghi».

Tale consolazione, nel «momento [più] triste» della sua vita, aiutò Born a superare la notte. Tuttavia, vedendo nel fiasco della sua lezione un segno di «incapacità e [...] presunzione», decise che sarebbe tornato a Breslavia e sarebbe diventato un ingegnere. Le parole di Runge e Hilbert, seguite dall'invito a tenere un altro seminario, non gli fecero cambiare idea, al punto che Runge finì per accusarlo di aver paura di tentare. Ferito da quest'accusa di vigliaccheria, Born accettò di fare un'altra presentazione. Dal suo esito sarebbero dipesi i progetti futuri.

Dopo qualche settimana di meticolosa preparazione, Born, nervoso, si trovò nuovamente di fronte ai membri della società. Questa volta fu Runge, e non Klein, a presentarlo, dicendo ai presenti che Klein aveva frainteso e aveva chiesto che Born ripetesse il suo seminario. La discussione che Born fece della teoria dell'elettrone non fu interrotta da critiche o da commenti. Quando ebbe finito, levò lo sguardo dai suo appunti e vide l'espressione amichevole dei presenti. Al termine della riunione, Woldemar Voigt, professore di fisica teorica, andò a cercarlo per offrirgli il suo appoggio nel caso avesse voluto scrivere la sua tesi di abilitazione. Era una sera che andava festeggiata: alla cantina Mütze Born annegò tutti i pensieri legati a Breslavia e all'ingegneria.

Born cominciò il profilo biografico richiesto dalla domanda di abilitazione con le parole «Io, Max Born, di religione ebraica ...». Anche dopo aver ottenuto l'abilitazione, aveva di fronte a sé il lungo cammino in salita che portava da semplice professore incaricato a professore ordinario e in Germania, nel 1909, solo 20 ordinari su 12 000 erano ebrei». In molte università vigeva una regola non scritta che non permetteva a una facoltà di avere più di un professore ebreo. Gottinga aveva infranto tale consuetudine solamente nel 1902, per l'insistenza di Hilbert e grazie all'aiuto di Klein, per far arrivare Minkowski nonostante nel dipartimento di astronomia ci fosse già, come docente ebreo, Karl Schwarzschild. Le cattedre avevano una lista d'attesa e gli ebrei erano agli ultimi posti. La situazione non era migliorata di molto dai tempi di Gustav Born.

Più o meno nello stesso periodo in cui Born preparava l'abilitazione, un altro giovane fisico, Paul Ehrenfest, che Born aveva conosciuto di sfuggita all'inizio del suo soggiorno a Gottinga, gli scrisse per chiedergli una copia del suo primo articolo sulla relatività. Dalla corrispondenza che si scambiarono i due scoprirono di essere d'accordo sul fatto che la teoria della relatività di Einstein non implicava una teoria dell'elettrone. In una lettera di 15 pagine, Born cercò di arruolare Ehrenfest come «valoroso alleato» nel tentativo di fare chiarezza sulla relatività, concordando con lui sul fatto che:

Per Einstein, Planck e Minkowski 1) la massa non è elettromagnetica, 2) l'elettricità è totalmente priva di struttura. Non si capisce, quindi, cosa dovrebbe essere un "elettrone", perché, se esiste, non esplode con un rumore udibile, ecc. ecc.

Quindi, si chiedeva, come si poteva spiegare la teoria dell'elettrone, dato che la relatività non lo faceva? Born diede a Ehrenfest la stessa risposta contenuta nel suo precedente intervento alla Società Matematica, che nel frattempo aveva sviluppato in un articolo che stava per essere pubblicato: occorreva definire la relatività come una cinematica (il ramo della fisica che studia il movimento) generalizzata che inglobasse la meccanica classica come caso particolare, per poi studiare in tale contesto un elettrone rigido sottoposto a un'accelerazione. L'articolo di Born sulla relatività, La teoria dei corpi rigidi nella cinematica del principio di relatività, apparve nell'edizione di agosto degli "Annalen der Physik". Il suo approccio è stato considerato un «tour de force matematico» per il modo in cui deriva la traiettoria iperbolica di un corpo rigido nello spazio-tempo quadridimensionale di Minkowski. Una delle conclusioni cui giunse fu che la carica di un elettrone rigido doveva essere distribuita in cerchi concentrici; un'altra fu che all'aumentare dell'accelerazione diminuivano le dimensioni apparenti dell'elettrone. Born vide in tali risultati una conferma importante dell'approccio atomistico all'elettrodinamica.

Quell'articolo non fu che l'inizio. Il suo riserbo e la sua modestia nascondevano una grande ambizione intellettuale. Scrisse a Ehrenfest:

Soprattutto, ho bisogno di tempo. Nei prossimi dieci anni spero di riuscire a presentarle una dinamica che racchiuda dentro di sé l'elettricità e la meccanica, che non manchi di rigore in alcuna sua parte, e che rappresenti una buona base per lo studio della natura, fino al giorno in cui nuove scoperte ci faranno prendere direzioni completamente nuove.

È possibile che in tali aspirazioni abbia avuto un ruolo anche una componente emotiva. Solo sei mesi dopo, nell'analizzare degli articoli sulla relatività e la rigidità, Born avrebbe detto a Hilbert: «Tutto ciò mi sta molto a cuore, nella speranza di una conferma sperimentale del "Postulato del Mondo"». Era questo il nome che Minkowski aveva dato al suo concetto di relatività.

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Pagina 193

Capitolo 7

Ma Dio gioca davvero a dadi!


Una mattina di dicembre del 1925, più o meno a un mese dal suo arrivo al Massachusetts Institute of Technology (MIT), Max Born aprì una busta che conteneva la ristampa di un articolo scientifico. Il titolo, Le equazioni fondamentali della meccanica quantistica, lo colpì. L'autore veniva citato come «P.A.M. Dirac, 1851 Exhibition Senior Research Student, St. John's College, Cambridge», chiaramente un giovane fisico britannico, uno di cui Born non aveva mai sentito parlare. Leggendo l'articolo, Born vide che lo sconosciuto Dirac aveva formulato una teoria della meccanica quantistica simile a quella che Born aveva appena completato con Jordan e Heisenberg. Riconobbe immediatamente che «l'autore di quei lavori doveva essere molto giovane, eppure tutto era perfetto, a suo modo, e ammirevole». In maniera piuttosto incredibile — e facendo tutto da solo — Dirac aveva sviluppato, scritto e inviato ai "Proceedings of the Royal Society" gli elementi essenziali della meccanica quantistica nove giorni prima che Born, Jordan e Heisenberg spedissero la loro versione a "Zeitschrift für Physik". Born non riusciva a capacitarsi di come Dirac fosse riuscito in un'impresa simile: seduto nel suo ufficio al MIT, da solo, a migliaia di chilometri — e separato da un oceano — da Gottinga e dai suoi colleghi, Born dovette sentirsi disorientato. In seguito avrebbe definito l'articolo di Dirac una delle sorprese più grandi della sua carriera accademica.

Col passar del tempo, il mistero di chi fosse Dirac e di come avesse portato a compimento un lavoro così precoce e sorprendente venne svelato: verso la metà agosto, il fisico matematico di Cambridge Ralph Fowler aveva ricevuto la bozza del fondamentale articolo di Heisenberg sulla teoria dei quanti e lo aveva girato al suo studente, l'allampanato e taciturno Dirac, accompagnandolo con un biglietto: «Che ne pensa? Mi piacerebbe saperlo». Tre mesi dopo, Dirac, che prima di approdare alla fisica aveva studiato ingegneria e matematica, aveva risposto alla domanda con una formulazione tutta sua della meccanica quantistica. Nella strana moltiplicazione di Heisenberg non aveva riconosciuto un'operazione matriciale, ma ne aveva colto la natura non commutativa, e per affrontarla aveva sviluppato un insieme di regole matematiche con il quale aveva poi formulato la sua teoria.

Dirac e Born sarebbero diventati amici nel piccolo mondo dei ricercatori quantistici; ma prima che un'opportunità simile si presentasse, Born avrebbe dovuto percorrere ancora molte miglia predicando il verbo quantistico ai neofiti del Nuovo Mondo.

Un mese prima, l'11 novembre, dopo 14 giorni di navigazione, i Born avevano cominciato la loro prima giornata a New York alle cinque del mattino, al suono della sirena di una nave. Il Vestfalia gettò l'ancora fuori dal porto, e i funzionari dell'immigrazione salirono per contare i passeggeri e compilarne gli elenchi. Guardando in direzione della città, i Born videro una fitta nebbia tagliata qua e là dai grattacieli, che si innalzavano «dalla foschia e dal fumo come spettri grigi». Alle dieci e mezzo il piroscafo attraccò. I Born percorsero la passerella, entrarono in una lunga sala grigia di ferro e attesero che venisse chiamata la lettera "B" per recuperare i bagagli e dirigersi alla dogana. Furono accolti immediatamente dalla segretaria del mecenate di Born, Henry Goldman, che li aiutò a sbrigare le formalità e li accompagnò all'Hotel Astor.

Hedi si ritrovò in un «calderone», una città che ribolliva di rumori, velocità e confusione. Nella New York del 1925 si demoliva e si costruiva, il traffico era congestionato e i guidatori impazienti, il lusso e la povertà convivevano fianco a fianco. Dalla finestra dell'hotel Hedi vide una vecchia casa che veniva abbattuta per fare posto a un grattacielo. Contò i semafori a ogni angolo e studiò le strategie adottate dai pedoni per attraversare quelle strade piene di macchine; fu impressionata dal lusso sfrenato dell'Hotel Astor: lenzuola pulite ogni giorno, asciugamani cambiati più volte al giorno, caraffe di acqua ghiacciata ai pasti, 100 fattorini a disposizione per qualsiasi servizio, negozi all'interno e telefoni al posto dei campanelli per chiamare il personale di servizio. I Born pagavano cinque dollari al giorno, metà del prezzo normale, perché il gestore era un amico dei Goldman.

Max e Hedi passarono tre giorni passeggiando per le vie di New York, tra i numerosi pranzi, i tè e le cene nello sfarzoso appartamento dei Goldman, sulla Quinta Strada. La loro collezione di dipinti e sculture di Rembrandt, Tiziano, Holbein, Rubens, Hals, Van Dick, Cellini, Della Robbia e Donatello — Goldman era in grado di descriverli uno a uno, amorevolmente, nonostante fosse quasi cieco — era in grado di rivaleggiare con il vicino Metropolitan Museum of Art. Il primo giorno, a Hedi sembrò di stare in un manicomio; il terzo, fu dispiaciuta di dover partire per Boston.

Boston era diversa. I Born si sistemarono in un bilocale situato vicino a una rumorosa ferrovia. Mentre Hedi esplorava la città, Max trascorreva la giornata al MIT, per tornare a casa verso le sei del pomeriggio. Doveva tenere un totale di 30 ore di lezione — 10 sulla teoria dei reticoli e 20 sulla struttura atomica, compresa la nuova teoria quantistica — ai docenti dell'istituto e agli studenti. Per essere sicuro di riuscire a parlare fluentemente, si fece assegnare due assistenti di fisica per tradurre in inglese le 30 lezioni che aveva già scritto in tedesco. Tenne anche cinque lezioni al Jefferson Laboratory di Harvard, su invito del direttore Theodore Lyman.

Le lezioni sulla teoria dei reticoli non crearono difficoltà; le idee quantistiche, invece, erano nuove, e non erano mai state presentate o discusse prima. Quando cominciò le lezioni, era già stato dato alle stampe solo l'articolo originale di Heisenberg. Born condusse lentamente il suo pubblico dai primi lavori di Bohr e Sommerfeld alle idee di Heisenberg sulla moltiplicazione quantistica, per giungere al lavoro svolto in un primo tempo da Born stesso e da Jordan, e in seguito da tutti e tre insieme, e che aveva portato allo sviluppo formale della meccanica quantistica. Non aveva idea di come sarebbero state accolte tutte queste idee; tuttavia, lontano dalla frenesia di Gottinga, l'analisi del lavoro svolto gli faceva credere che «la nuova teoria ha effettivamente delle basi abbastanza affidabili» e che era possibile farne oggetto di lezioni «senza farsi troppi scrupoli».

La fiducia di Born si basava per lo più su un'intuizione, per quanto abbastanza ragionevole. Anche se la meccanica quantistica era in grado di spiegare una parte dei dati spettroscopici, come le serie di Balmer (le quattro linee spettrali dell'idrogeno nella regione della luce visibile), era chiaro che ci fosse bisogno di nuovi calcoli. Perciò concluse le sue lezioni al MIT definendo semplicemente i risultati come un «primo passo» e dicendo che «solo un'ulteriore estensione della teoria, che con ogni probabilità sarà laboriosa, ci dirà se i principi qui esposti sono veramente sufficienti a descrivere la struttura atomica».

Negli ultimi tre mesi passati a Gottinga, Born era stato impegnato senza sosta nella scoperta dei segreti del mondo quantistico, e l'aver dovuto abbandonare le sue ricerche e i suoi collaboratori era stato molto frustrante. Dopo meno di dieci giorni dal suo arrivo a Boston, però, trovò un nuovo collaboratore. Norbert Wiener, un giovane matematico del MIT che Hilbert e Courant avevano già invitato a Gottinga in estate, aveva sviluppato un metodo più preciso per effettuare le analisi di Fourier. Born pensò che avrebbero potuto servirsene per applicare la teoria dei quanti ai problemi dello spettro continuo, come la teoria delle collisioni (ad esempio, quando due atomi si scontrano), problemi la cui risoluzione mediante le matrici sembrava impossibile. Gli esperimenti di Franck sulle collisioni nel laboratorio di Gottinga avevano risvegliato l'interesse di Born non solo verso le interazioni tra materia e materia, ma anche verso quelle tra la materia e la radiazione. Nell'articolo a tre, Born aveva descritto a grandi linee il problema e aveva abbozzato una soluzione che consisteva nel sostituire un elemento di matrice associato a due stati discreti con una funzione di due variabili continue. L'ignoranza delle regole di transizione gli aveva impedito di andare oltre. Utilizzando il nuovo metodo di Wiener, i due si misero subito a generalizzare le matrici come operatori lineari. Il loro articolo — che venne terminato prima delle festività natalizie — fu il primo lavoro sulla meccanica quantistica scritto negli Stati Uniti.

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Proprio mentre il viaggio di Born negli Stati Uniti volgeva al termine, il fisico austriaco Erwin Schrödinger aveva pubblicato una versione alternativa della meccanica delle onde quantistiche: basata sulla teoria ondulatoria della materia sviluppata dal giovane fisico francese Louis de Broglie, la formulazione di Schrödinger sembrava contraddire la teoria delle particelle e le discontinuità di Gottinga. Le onde di Schrödinger erano continue, come tutte le onde; gli elettroni si muovevano intorno a un nucleo su orbite ben definite, corrispondenti a un numero intero di lunghezze d'onda elettroniche. Con le sue equazioni d'onda, Schrödinger era stato in grado di dedurre correttamente la formula della serie di Balmer delle linee spettrali dell'idrogeno. A differenza delle matrici indecifrabili di Gottinga, il suo strumento analitico, basato sul calcolo differenziale, era ben noto ai fisici, in particolar modo agli studenti. Per molti fisici, quella di Schrödinger divenne rapidamente l'unica vera teoria.

Born venne a sapere del lavoro di Schrödinger solo al suo ritorno, ma la teoria ondulatoria della materia di de Broglie gli era familiare. L'estate precedente, subito dopo che lui e Jordan avevano finito il lavoro sui campi aperiodici dal quale avrebbero preso le mosse per studiare le collisioni atomiche, Born aveva scritto a Einstein che secondo lui la teoria di de Broglie avrebbe potuto essere «di grandissima importanza». Quello che lo attraeva maggiormente era il «misterioso calcolo differenziale sul quale sembra basarsi la teoria quantistica della struttura atomica». La lotta che intraprese con l'articolo che gli aveva passato Heisenberg, però, gli aveva fatto trascurare tutte queste riflessioni e sprofondare la mente nell'algebra delle matrici. Le collisioni lo attraevano ancora, come è dimostrato dalla discussione nell'articolo a tre, ma le idee sul calcolo differenziale vennero messe da parte e non riapparvero neanche quando cominciò a collaborare con Norbert Wiener per riesaminare le collisioni.

Ora, dopo aver studiato l'articolo di Schrödinger, Born si rese conto che lui e Wiener si erano fermati a un passo dalla scoperta della meccanica ondulatoria. Servendosi di una complicata e oscura teoria degli operatori, avevano sviluppato una formula equivalente alla legge di commutazione di Schrödinger, ma l'avevano applicata solo alla variabile tempo, anziché al tempo e alla quantità di moto contemporaneamente. Born scriverà poi che la meccanica ondulatoria era stata «l'esempio più clamoroso di come io sia passato vicino a una scoperta importante e me la sia lasciata sfuggire».

Nonostante la frustrazione per una simile svista, Born capì rapidamente l'utilità della meccanica ondulatoria di Schrödinger nell'analisi delle collisioni. Fortunatamente non c'erano ragioni teoriche che si opponessero all'uso di tale formulazione della teoria quantistica: Pauli e Schrödinger avevano appena dimostrato, in maniera indipendente, che i due formalismi così diversi - quello che descriveva le onde e quello che descriveva le particelle - erano matematicamente equivalenti. Questo risultato stupefacente risolse tutte le controversie su quale fosse la forma corretta di teoria dei quanti.

Nei due mesi che seguirono, Born lavorò alla sua nuova teoria delle collisioni e alla fine di giugno pubblicò un articolo di quattro pagine. L' abstract iniziale recitava così: «Attraverso lo studio delle collisioni si afferma che la meccanica quantistica nella forma di Schrödinger permette di descrivere non solo gli stati stazionari, ma anche i salti quantici». Born voleva vedere se la funzione d'onda di Schrödinger fosse in grado di descrivere la collisione di una particella libera, come un elettrone, con un atomo. La adattò a descrivere l'interazione del sistema complessivo e utilizzò la teoria delle perturbazioni per trovare un'espressione per la funzione d'onda della particella diffusa, trovando che in effetti il sistema ammetteva una soluzione, che ai suoi occhi apparve come l'unica soluzione possibile.

Non si ottiene una risposta alla domanda "qual è lo stato dopo la collisione?", ma solo alla domanda "qual è la probabilità che la collisione dia un certo stato finale?" [...]. Ecco spuntare tutto il problema del determinismo. [...] Personalmente propendo per rinunciare al determinismo nel mondo degli atomi. Ma questa è una questione filosofica per la quale gli argomenti fisici da soli non bastano.

Born cercava i salti elettronici, e li aveva trovati. In questo suo articolo preliminare aveva scoperto anche il carattere probabilistico - e non deterministico - del risultato della collisione. Non ne fu particolarmente sorpreso. Le «considerazioni statistiche» erano cosa di ordinaria amministrazione, disse poi, in cui si trovava a suo agio. Di qui la sua riflessione, che non sembrava affatto destinata ad annunciare una rivoluzione scientifica (o a completare la rivoluzione quantistica, come pure fece). Nella sua mente, abbandonare il determinismo avrebbe richiesto un'analisi più approfondita.

Nell'articolo successivo, comunque, Born richiamò l'attenzione sull'importanza di quest'idea, spiegando più in dettaglio come le onde elettroniche non fossero nubi omogenee di elettricità, come trovare un elettrone in un certo posto dopo una collisione (più precisamente, il valore assoluto del quadrato della funzione d'onda della particella diffusa dava la probabilità di trovare quest'ultima in una data direzione rispetto a quella della particella incidente). Queste onde di probabilità non erano onde fisiche, come quelle di Schrödinger; erano «campi fantasma» che, secondo la rappresentazione che Einstein aveva dato delle onde, avrebbero la sola funzione di indicare la traiettoria ai quanti di luce. Nell'affermare la sua ipotesi nell'introduzione dell'articolo, Born mise in evidenza una sorta di paradosso: «Il moto delle particelle segue regole probabilistiche, ma la probabilità stessa si propaga conformemente alle leggi della causalità. [...] Ciò significa che la conoscenza dello stato in tutti i punti a un dato istante determina la distribuzione dello stato per tutti gli istanti successivi».

La causalità aveva costituito per secoli il fondamento delle leggi di natura. Come disse uno scienziato: «Il principio di causalità è [...] l'espressione generale del fatto che tutto quello che accade in natura è soggetto a delle leggi la cui validità non ammette eccezioni». L'interpretazione statistica di Born della funzione d'onda di Schrödinger - un elemento essenziale della meccanica quantistica - annunciava la morte della causalità. La sua controparte, l' acausalità, non era un'idea nuova: la teoria di Bohr-Kramers-Slater aveva già provato a ricorrervi, due anni prima; BKS, però, era il risultato di un'ipotesi statistica, un artificio nato per evitare i quanti. Il risultato di Born era diverso: la sua scoperta nasceva da un fondamento logico.

Born si aspettava che qualche fisico avrebbe «ipotizzato l'esistenza di altri parametri, esterni alla teoria, che determinano il singolo evento», cioè che qualcosa di più fondamentale avrebbe ristabilito le relazioni di causa/effetto.

La sua previsione era fondata, anche se i primi attacchi vennero da uno del suo campo: in una lettera andata persa, ma non dimenticata da Born, Heisenberg lo definì un «traditore» della meccanica quantistica per aver usato l'equazione d'onda di Schrödinger nella sua analisi. Vedendo che la comunità dei fisici propendeva per la meccanica ondulatoria, Heisenberg espresse il proprio disgusto a Born e a Pauli: «Quanto più penso agli aspetti fisici della teoria di Schrödinger, tanto più repellenti li trovo». L'interpretazione classica del comportamento degli elettroni proposta da Schrödinger non si addiceva a Heisenberg.

Il suo risentimento nei confronti di Born fu di breve durata; Schrödinger, invece, mostrò di non gradire né le idee di Heisenberg né quelle di Born. Nel suo articolo sull'equivalenza delle due teorie, in una nota a piè di pagina, scrisse: «Non sono al corrente di alcuna relazione di parentela di alcun genere [fra la meccanica ondulatoria e quella delle matrici]. Io conoscevo, ovviamente, la teoria di Heisenberg, ma mi sentivo scoraggiato, per non dire respinto, dai metodi dell'algebra trascendente, che mi appariva difficile, e dalla mancanza di visualizzabilità». Schrödinger era così turbato dall'interpretazione di Born della funzione d'onda che a un certo punto rimpianse di aver scritto l'articolo originale. Non era il formalismo matematico, ma l'interpretazione fisica ad alimentare il dissidio: le onde di Schrödinger erano reali, nella nuova teoria di Born, invece, erano probabilistiche; il gruppo di Gottinga credeva nei salti quantici, Schrödinger li trovava privi di senso. Quell'autunno, a Copenaghen, Bohr perseguitò Schrödinger sull'esistenza dei salti quantici così implacabilmente che Schrödinger finì per ammalarsi. Imperterrito, Bohr, seduto al suo capezzale, continuò a tormentarlo, per fargli cambiare idea a ogni costo.

Schrödinger era tutt'altro che isolato nella sua opposizione: Einstein, Planck e von Laue erano d'accordo con lui. Per Einstein, l'interpretazione statistica di Born era «sicuramente impressionante. Ma una voce interiore mi dice che non è ancora quella vera. La teoria dice molto, ma non ci avvicina veramente al segreto del "Grande Vecchio". Io, comunque, sono convinto che Lui non giochi a dadi».

Born e Einstein (così come Bohr e Einstein) ne discussero per il resto dei loro giorni.

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Max, Hedi e Gustav ricevettero i visti di uscita agli inizi di maggio. Gritli sarebbe rimasta a Salem e Irene si sarebbe trasferita dai Weyl, a Gottinga. Max prese il treno notturno per Berlino, per andare a discutere della situazione con Ehrenfest (che era arrivato dall'Olanda) e con Schrödinger; quando tornò cominciò a fare i bagagli. Quella del 9 maggio fu la sera della tristezza e degli addii; il giorno seguente, i tre salirono sul treno diretto in Italia, portando con loro un paio di valigie. Lasciarono dietro di sé quasi tutto, dai ricordi più cari a tutta la fisica fatta da Max all'istituto, senza avere la più pallida idea di quando sarebbero tornati. I Born non erano che tre dei circa 25000 ebrei che fuggirono dalla Germania quella primavera; li avrebbero seguiti altri 300000 dei 500000 ebrei tedeschi (meno dell'1 per cento di tutta la popolazione).

Quando era arrivato all'università, 12 anni prima, Born si era prefisso un obiettivo: «Portare la fisica di Gottinga verso vette ancora più alte». Si era assicurato la nomina di Franck, aveva raccolto fondi per la ricerca e aveva scoperto dei giovani talenti eccezionali: gli otto futuri premi Nobel Werner Heisenberg, Wolfgang Pauli, Maria Göppert-Mayer, Max Delbrück, Enrico Fermi, Eugene Wigner, Linus Pauling e Gerard Herzberg; e le menti ugualmente superlative di Pascual Jordan, Friedrich Hund, J. Robert Oppenheimer, Victor Weisskopf, Edward Teller, Fritz London, Yakov Frenkel e molti altri. Durante la sua permanenza, Gottinga era diventato un punto di riferimento internazionale per la fisica, un centro di importanza fondamentale per la rivoluzione quantistica. Il 10 maggio, mentre il treno lasciava la stazione, Born pronunciò un ultimo addio.


La stessa sera della partenza dei Born, le associazioni studentesche avevano organizzato in tutto il paese delle imponenti cerimonie per bruciare i libri sediziosi: al suono delle bande e con le bandiere che sventolavano, gli studenti si mettevano in fila per gettare su enormi pire sfavillanti le opere di Thomas Mann, Bertholt Brecht, Upton Sinclair, Ernest Hemingway, Paul Tillich e dozzine di altri autori, purificando la Germania dallo "spirito non-tedesco". Arrivando a Monaco, i Born videro le fiamme che si levavano dal falò.

A Gottinga la gente si raccolse nell'auditorium per ascoltare i discorsi di oratori esagitati. Squillarono le trombe; la banda delle SS intonò una marcia, dopo di che una folla di cittadini seguì la svastica alla luce delle torce, attraversando la città vecchia per raggiungere il parco che era stato da poco ribattezzato in onore di Adolf Hitler. Irene Born li osservò dirigersi verso una catasta di libri alta tre metri, in cima alla quale c'era una cartello sul quale era scritto "Lenin". Uno dei manifestanti le diede fuoco e poi, come ricordò la signora Ilse Neumann-Graul, la folla festeggiò bevendo birra. La signora Neumann aveva una ragione in più per essere contenta: il governo nazista aveva appena chiamato suo marito a ricoprire l'incarico di rettore dell'università. Il cordiale e apparentemente apolitico Neumann, che in passato aveva cenato spesso in compagnia dei Born, era stato un nazista della prima ora.

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All'improvviso, a metà gennaio, a Edimburgo spuntarono Fuchs, Kellermann e Rolli, quasi come un regalo del nuovo anno (Helli Königsberger rimase in Canada ancora un po'). Born avrebbe voluto che i suoi collaboratori rimanessero, ma non aveva fondi per pagarli perché l'università aveva cancellato tutti gli aiuti finanziari e il Carnegie Trust aveva deciso di non dare borse a «cittadini stranieri appartenenti a nazioni ostili». Finì col trovare un incarico didattico per Kellermann, mentre Fuchs rimase a lavorare nell'istituto di Born fino a maggio, quando Peierls lo invitò a Birmingham per partecipare alla ricerca bellica; Peierls non specificò la natura del lavoro, ma sia Born che Fuchs sapevano che voleva dire ricerca atomica.

Poco tempo prima Born aveva espresso a Simon la sua disapprovazione per quel tipo di ricerca, pur riconoscendo che «quella potrebbe essere l'unica via di uscita»: sapevano entrambi che quella era la bomba atomica. Simon rispose con la sua solita ambivalenza: «Se l'avremo molto prima degli altri e se finirà nelle mani giuste e se sarà gestita dalle persone giuste anche in seguito, allora può darsi che tutto abbia un lieto fine. Ma ci sono così tanti "se"».

Appellandosi alle convinzioni ideologiche di Fuchs, Born cercò di dissuaderlo dall'andare a lavorare con Peierls. Raccontò poi a Gustav:

Quando Fuchs andò a Birmingham a lavorare con quelli dell'uranio, gli feci un discorso molto serio. Gli dissi che un loro successo avrebbe significato una nuova concentrazione di potere nelle mani di pochi, con ogni probabilità quelli sbagliati, capitalisti e nazionalisti; lo avvertii, dato che si proclamava comunista, che il risultato del suo lavoro avrebbe portato a un rafforzamento del capitalismo. Rispose che andava fatto, perché sapevano che i tedeschi [lo stavano facendo].

Gli emigrati, in Gran Bretagna e in America, conoscevano bene le capacità dei loro ex colleghi tedeschi: solo qualche anno prima vivevano felici tutti insieme, uniti dallo spirito di Gottinga, Monaco, Berlino e Copenaghen.

A giugno, ignorando gli avvertimenti di Born, Klaus Fuchs era a Birmingham. Un anno dopo fu naturalizzato e firmò il giuramento di segretezza britannico, il che gli consentì di cominciare a lavorare sul progetto Tube Alloy (la bomba atomica).

Born trascorse l'estate del 1941 insegnando agli allievi di un programma di addestramento aereo; avere un'opportunità, anche se piccola, per combattere contro i nazisti era un sollievo. Nel tempo libero andava con Hedi a passeggiare nelle Pentlands, oppure al cinema, giocava a bridge con i Fürth e leggeva moltissimo. I suoi gusti erano eclettici: un libro sui grandi matematici, racconti polizieschi, una rassegna di archeologia preistorica. Si occupava poco, però, della ricerca. L'energia e l'entusiasmo dell'autunno precedente erano svaniti: sapeva che, non partecipando alla ricerca bellica, era stato messo da parte, in qualche modo escluso dall'ambiente scientifico. Gli capitò di giustificarsi con Lindemann per averlo importunato con un suggerimento di carattere militare, dicendo: «Ma forse lei considererà le mie conoscenze leggermente sopra la media». Non era una vanteria, ma un'offerta di aiuto.

Un'iniziativa che quell'estate tenne occupato Born fu un nuovo tentativo di aiutare gli ebrei in Palestina. Scrisse a Chaim Weizmann, presidente dell'Organizzazione Mondiale Sionista nonché suo amico da quando si erano conosciuti a Karlsbad, cinque anni prima. Born avrebbe voluto contattare nuovamente Lindemann (che era appena diventato Lord Cherwell) e chiese l'opinione di Weizmann. Sentiva che gli ebrei che erano stati salvati avevano il dovere «di aiutare e pensare al futuro».

Col sostegno di Weizmann, sollecitò Lindemann affinché aiutasse gli ebrei che erano stati perseguitati, dando loro una terra dove stabilirsi; quella terra non poteva che essere la Palestina. Con la caduta del nazismo, una parte degli ebrei sarebbe tornata nei paesi d'origine ma, osservava Born, «non dobbiamo essere troppo ottimisti, considerando il fatto che anche qui, in questa nazione, ci sono manifestazioni di propaganda antisemita, per esempio da parte dei polacchi». Cherwell rispose che avrebbe inoltrato le sue osservazioni, e si scusò per la risposta affrettata».

La guerra era entrata in una nuova fase. Il 22 giugno 1941 la Germania aveva stracciato il patto di non aggressione con la Russia e aveva sferrato un attacco massiccio contro l'alleato di un tempo. Mosca, Leningrado e Stalingrado furono oggetto di un'offensiva violentissima, che costrinse i russi a ritirarsi. Tutti si chiedevano, preoccupati, se la Russia avrebbe resistito. Le previsioni di Courant e Ladenburg sul rifiuto americano di farsi coinvolgere scoraggiarono Born, soprattutto alla luce dei nuovi avvenimenti. In preda alla frustrazione, Born predisse a Gustav: «Gli americani si prenderanno una batosta dai giapponesi, e a quel punto forse si sveglieranno».

Born investì la sua energia intellettuale in un dibattito filosofico simile a quello cui aveva partecipato a Berlino nel corso della guerra precedente. La comunità dei fisici, come la società britannica in generale, si era divisa sul tema del socialismo (il socialismo e il comunismo erano considerati praticamente la stessa cosa; la sola distinzione valida era tra marxista e non marxista). La Gran Bretagna aveva cominciato a pendere verso il socialismo durante la Depressione, quando, nel 1932, il tasso di disoccupazione era arrivato al 22,5 per cento. Di fronte al picco di disoccupazione, il Partito laburista, che a quell'epoca riuniva gli intellettuali di sinistra e una base essenzialmente operaia, denunciò «la povertà in mezzo all'abbondanza» e puntò il dito contro il capitalismo. La sua soluzione era quella di introdurre il socialismo e la pianificazione governativa, per mettere un freno all'avidità capitalista e privilegiare i lavoratori. Tutto questo avrebbe contribuito a una diminuzione delle divisioni di classe.

La guerra non fece passare in secondo piano queste idee; semmai, ne aiutò la diffusione. Come diceva un soldato a un altro nel film La squadriglia dell'aurora del 1941: «In questa guerra abbiamo scoperto che siamo tutti vicini di casa, e non lo dimenticheremo quando sarà tutto finito».

Uno dei fondatori della Società per la Libertà nella Scienza, il chimico di origine ungherese Michael Polanyi, riteneva che il comunismo subordinasse la libertà di pensiero - in particolare, la scoperta della verità scientifica - al benessere sociale. Pensava che solo un sistema capitalista democratico potesse garantire tale libertà, anche se non era contrario alla pianificazione economica a patto che la libertà di pensiero fosse la prima priorità. Avendo ricevuto uno dei loro opuscoli, nel quale si lasciava intendere che il socialismo limitava il libero pensiero, Born gli scrisse una lettera in cui tale premessa era messa in discussione, e il suo vecchio amico Polanyi gli rispose cercando di lusingarlo: «I socialisti come te, che aspirano a rinnovare la società sotto l'aspetto economico pur mantenendo intatta la libertà di pensiero, dovrebbero unirsi a noi».

Il dibattito era aperto: Born replicò che lui «non era un socialista, come sembri credere, se tale espressione significa una fede cieca nelle teorie marxiste»; per lui il materialismo dialettico era «robaccia». Tuttavia, con il «sistema occidentale del profitto e degli interessi costituiti», alle masse toccavano la miseria e la povertà mentre il lusso era appannaggio di pochi. Inoltre il sistema capitalista - un impulso immorale verso il profitto - aveva favorito la crescita militare della Germania e del Giappone. Born voleva moderare «l'inferiorità etica del sistema dei profitti» mettendo insieme l'efficienza produttiva del libero mercato con un'attenzione speciale nei confronti dei diritti dei lavoratori. Basandosi su dei resoconti che aveva letto, fece l'elogio del sistema russo per «aver dato all'economia un nuovo fondamento etico, nel quale non c'è posto per l'inimicizia tra il lavoratore e i dirigenti», e poi, per confutare la posizione del gruppo di Polanyi, citò la Svezia, dove la regolamentazione del commercio aveva avuto successo senza che venisse compromessa la libertà del pensiero scientifico.

Un altro degli opuscoli della società ricevuto da Born paragonava le forze economiche a quelle fisiche, citando i tre scopritori della meccanica quantistica, «un austriaco, un prussiano e un inglese». In un post scriptum di due pagine a una lettera di due pagine, Born spiegò a Polanyi l'impressione che gli aveva fatto quella frase: «Immagino che si stia parlando di Schrödinger, Heisenberg e Dirac. So bene che questa è la posizione ufficiale sostenuta dal comitato dei Nobel, fatta eccezione per l'aggiunta di un francese (de Broglie); ma io e Jordan siamo stati esclusi».

Dopo di che Born tracciò la genealogia della teoria dei quanti: de Broglie e Heisenberg erano i fondatori, e gli altri, tra cui lui stesso, erano la discendenza. Associate alle idee di Heisenberg c'erano quelle di Born - che introdusse il formalismo della meccanica quantistica - e quelle di Jordan cui Born aveva chiesto aiuto - e, qualche mese dopo, quelle di Dirac. La teoria di Schrödinger era nata da quella di de Broglie.

Non vi è alcun dubbio che io sia stato il primo che abbia mai scritto una formula di meccanica quantistica vera e propria, non solo pq-qp = h/2πi, ma anche q° = δH/δp, p° = δH/δq sotto forma di equazioni matriciali. Ma gli americani le attribuiscono sempre a Heisenberg (il quale, in realtà, sapeva a malapena cosa fosse una matrice quando gli mostrai queste equazioni; all'epoca era mio assistente, e l'articolo mio e di Jordan fu scritto quando lui era via da Gottinga, durante le grandi vacanze). [...] Non ho mai protestato pubblicamente, perché se mai si scriverà la storia dello sviluppo sulla base delle pubblicazioni originali (e non dei libri di testo) la verità verrà a galla. Tuttavia credo che non ti dispiacerà se te ne parlo privatamente, dato che io e te siamo in una posizione simile, privi dell'appoggio di una nazione potente.

Polanyi non aveva mai sentito questa versione dei fatti. Chiese le copie degli articoli, per capire come mai Born rivendicasse la priorità e per trovare la ragione per cui Heisenberg non si era preoccupato di correggere la versione ufficiale. Born rispose immediatamente che per lui non era una questione di priorità; voleva solo che il suo contributo fosse riconosciuto: «Eravamo in un rapporto di collaborazione stretta; lui trovò una proprietà importantissima, non la forma finale della teoria». Per il comportamento di Heisenberg, Born aveva trovato una spiegazione razionale convincente: se Heisenberg si fosse espresso pubblicamente in favore di un rifugiato, i nazisti se la sarebbero presa con lui: «Gli sarebbe costato ben più del premio, forse addirittura la vita stessa». Born mandò a Polanyi un elenco degli articoli originali sulla formulazione della meccanica quantistica, nonché la lettera di scuse che Heisenberg gli aveva scritto dopo l'annuncio del conferimento del Nobel.

Quando ebbe finito di esaminare gli articoli, Polanyi si schierò dalla parte di Born, ma non fu d'accordo sulla difesa che quest'ultimo aveva fatto di Heisenberg. Secondo lui, tra il 1926 e il 1933 Heisenberg aveva avuto tutte le possibilità «di chiarire la situazione cui allude nella sua lettera. In quell'occasione avrebbe potuto dirti "ho dichiarato pubblicamente come stavano le cose. Non è colpa mia se non si sono voluti accettare i fatti". Nella sua lettera non vedo nulla del genere».

In realtà quello che aveva offeso maggiormente Born era stato il fatto che l'Accademia svedese avesse premiato Dirac, perché riteneva che il proprio contributo alla formulazione teorica fosse paragonabile a quello di Dirac; costui si era servito dell'intuizione di Heisenberg per sviluppare una teoria definitiva, proprio come Born. Born, però, non voleva che Polanyi gli causasse dei problemi. Di problemi, disse, ne aveva già abbastanza per conto proprio con Raman, il suo ex sostenitore indiano, che era al tempo stesso un amico e «un collega difficile».

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Era il momento giusto per esercitare la propria influenza. Per Born la scienza era meravigliosa, una «benefattrice del genere umano», ma se guardava intorno a sé vedeva che «era stata ridotta a un nero strumento di distruzione e di morte». Si rivolse anche a Einstein, affermando la necessità che gli scienziati «si unissero per propiziare la nascita di un ordine mondiale accettabile». Aveva studiato il codice etico dei medici, e pensava che gli scienziati avrebbero dovuto adottare un codice internazionale analogo «in base al quale la nostra comunità scientifica potrebbe fungere da mezzo di controllo e di stabilizzazione mondiale, anziché ridursi a strumento nelle mani dell'industria e del governo». Lo starsene lì seduto a Edimburgo dava a Born un senso di impotenza, in modo particolare perché quelli con cui avrebbe voluto lavorare a questa iniziativa non erano disponibili: uno di loro, Ralph Fowler, era ammalato e l'altro, Niels Bohr, era introvabile.

Nella sua risposta Einstein cercò di scoraggiarlo. Non credeva che un'iniziativa del genere avrebbe avuto grande successo: «L'opinione su ciò che dovrebbe e non dovrebbe essere cresce e muore come un albero, e non esiste alcun fertilizzante, di nessun tipo, in grado di migliorare le cose». Born replicò che era troppo stanco per insistere da solo.

Tuttavia, quando emerse il coinvolgimento degli scienziati negli orrori della Germania nazista Born rinnovò i suoi sforzi: mise insieme una breve descrizione di alcuni esempi di esperimenti biologici condotti dagli scienziati tedeschi su ebrei e altri prigionieri, servendosene per sostenere la necessità che gli scienziati adottassero un codice etico; mandò poi il materiale al biologo Julian Huxley, ma venne a sapere che era molto malato; allora provò con Kingsley Martin, redattore di "The New Statesman and the Nation", che apprezzò la proposta e gli suggerì di inviarla ad A.V. Hill, segretario della Royal Society. Quindi Born chiese a Hill quale fosse la sua opinione a proposito di un codice etico e dell'eventualità che la Royal Society adottasse una linea di condotta esplicita per estromettere gli scienziati le cui scoperte scientifiche erano state ottenute con metodi inumani.

Hill rispose che la Royal Society si prefiggeva di «migliorare la conoscenza naturale» e non di occuparsi di «morale e politica», ma che comunque avrebbe chiesto il parere di tre altri funzionari. Nell'inoltrare la richiesta, Hill aggiunse un commento: «Personalmente, sono alquanto dispiaciuto che una personalità così illustre possa essere così ingenua: ma forse il mio è un pregiudizio!». Hill considerava le idee di Born «piuttosto stravaganti».

Il vantaggio che ormai avevano gli Alleati nel 1945 stimolò un gran numero di riflessioni sul futuro. A una riunione della Royal Society, Dirac chiese a Born di unirsi a lui per appoggiare la candidatura di Heisenberg come socio straniero. Preso alla sprovvista, Born acconsentì, ma ben presto venne assalito dai dubbi; aveva l'impressione che se avesse tributato degli onori a un tedesco avrebbe tradito la memoria dei parenti e degli amici che erano stati assassinati. Prima di prendere una decisione del genere voleva aspettare e vedere come si sarebbero distribuiti i meriti e le colpe. Dirac gli disse che «le scoperte di Heisenberg verranno ricordate quando Hitler sarà già stato dimenticato», e avanzò la candidatura di Heisenberg (che non fu eletto); secondo Dirac, che viveva per lo più nel mondo della scienza, non si trattava di una proposta così disdicevole.

Invece per Simon, le cui opinioni erano tenute da Born in grande considerazione, lo era senza ombra di dubbio. Si disse d'accordo con Born sul fatto che in quel momento non fosse opportuno proporre un tedesco — neanche von Laue — e di sicuro non Heisenberg, il quale, osservò, «sul piano personale si era comportato molto male». Nella corrispondenza tra Born e Simon di tanto in tanto saltava fuori il nome di Heisenberg, con Born che lasciava filtrare delle indiscrezioni. Una di queste riguardava un episodio avvenuto qualche anno prima, quando a Stalingrado i russi stavano resistendo con successo all'assedio tedesco, pagando un prezzo enorme in vite umane: in quell'occasione Heisenberg aveva osservato che certamente i tedeschi avrebbero vinto la volta successiva.

La richiesta di Dirac non fece che accrescere il desiderio di Born di trovare sostenitori per il suo codice etico e, non sapendo dove fosse Bohr, gli scrisse tramite Ladenburg. Fino a quel momento, disse Born a Bohr, solo i comunisti avevano approvato un codice, e la sua impressione era che lo avessero fatto più per ragioni politiche che etiche, dato che erano nemici della Germania. Gli parlò di Hill e di Dirac, e raccontò di un articolo apparso di recente in cui un corrispondente di guerra, dopo aver visto con i propri occhi gli orrori del campo di sterminio di Buchenwald, aveva visitato la fabbrica di strumenti ottici Zeiss, vicino a Jena; lì aveva incontrato quattro fisici, uno dei quali, Georg Joos, era stato il successore di Franck a Gottinga. Nella lettera Born citava il giornalista, che aveva chiesto loro se sapessero di Buchenwald: «oH sì, ne erano a conoscenza; ma non erano dei politici, e cose del genere non li interessavano. Il loro compito era occuparsi di cose scientifiche».

«Ecco qual è la situazione», scriveva Born, «ovunque questo atteggiamento per cui gli scienziati non si interessano ai problemi etici del genere umano, e non se ne sentono toccati. Ritengo che si tratti di un'attitudine assolutamente pericolosa e funesta, e spero che tu condivida la mia opinione». Non sappiamo se Bohr rispose: se anche lo fece, la lettera non è arrivata fino a noi.

La guerra stava per finire, e le notizie di morte e di distruzione provenienti dalla Germania si stavano diffondendo in tutto il loro orrore. La perdita di molte persone care sconvolse Born. Dopo il bombardamento incendiario di Dresda, aveva scritto a Courant:

Ora anche i tedeschi sapranno cosa vuol dire, e per loro il peggio deve ancora arrivare. Sono soprattutto le persone sbagliate quelle che soffrono di più. Ma non riesco a provare granché, per nessuno di loro. Anche se loro stessi non si sono comportati come dei selvaggi, hanno comunque permesso che dei criminali salissero al potere. Quando Dresda è stata distrutta ho sentito la barbarie del nostro tempo in modo particolarmente intenso, poiché amavo quella vecchia architettura barocca e rococò. Ma dietro quelle facciate così belle è cresciuta una mente così diabolica che non sembra esserci altra soluzione che la sua distruzione totale.

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