Copertina
Autore Charles Tilly
Titolo Conflitto e democrazia in Europa, 1650-2000
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2007, Sintesi , pag. 382, cop.fle., dim. 14,5x21x2,4 cm , Isbn 978-88-424-2011-8
OriginaleContention and Democracy in Europe, 1650-2000 [2004]
TraduttoreMichela Barbot
LettoreRiccardo Terzi, 2008
Classe politica , scienze sociali , storia contemporanea , paesi: Gran Bretagna
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Indice

 XI    Prefazione

  1 1. Conflitto e democrazia

  7    Spiegare il conflitto, la democratizzazione
       e le loro connessioni
 37    Storie di democratizzazione
 46    Le strategie esplicative

 59 2. Regimi e conflitto

 63    Coercizione, capitale e impegno
 75    L'interazione tra regimi e conflitto
 81    Le identità in politica
 90    Venti democratici

 97 3. Il conflitto non democratico in Europa

112    Il conflitto iberico
123    Penisola iberica vs. Paesi Bassi

131 4. La Francia

138    Una pluralità di regimi
146    La rivoluzione borghese
150    Rivoluzione e resistenza
156    La controrivoluzione
160    Rivoluzione e cittadinanza
165    Rivoluzione, scontro, conquista e
       democratizzazione (1830-2000)
169    Segnali di democratizzazione
179    Tre secoli e mezzo

183 5. Le Isole britanniche

192    Sprazzi di democrazia
198    Quanto Gloriosa fu la Rivoluzione?
204    L'emancipazione cattolica e la democratizzazione
       conflittuale
217    Il processo di democratizzazione
226    Francia vs. Gran Bretagna

231 6. La Svizzera e le sue peculiarità

236    Un'altra era rivoluzionaria
244    Che cosa dobbiamo spiegare?
252    La disuguaglianza in Svizzera
256    Le reti fiduciarie
260    La politica pubblica
266    Dinamiche di democratizzazione
270    La Svizzera in prospettiva comparata
275    Appendice. Una cronologia della politica
                  conflittuale in Svizzera (1830-1848)

281 7. Democrazia e altri regimi in Europa (1815-2000)

290    Una mappa approssimativa della democratizzazione
       europea
295    La Russia fra il 1815 e il 2000
311    I Balcani
315    La Penisola iberica
320    La Russia, i Balcani e la Penisola iberica in
       prospettiva comparata
327    Il resto d'Europa

331 8. Europa e altri paesi

336    La transizione conflittuale altrove
342    Alcune estrapolazioni
349    Come promuovere la democratizzazione

353    Bibliografia

377    Indice dei nomi

 

 

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Pagina XI

Prefazione


I lettori benedetti (o afflitti) da una buona memoria non faticheranno a riconoscere che questo libro invade un campo autorevolmente battuto, a suo tempo, dal mio maestro Barrington Moore Jr.; esso, tuttavia, si distingue dall'opera profondamente ispiratrice di Moore, Le origini sociali della dittatura e della democrazia (1969), in quanto concentra l'attenzione sui processi di democratizzazione e di de-democratizzazione, rifugge dalle analisi che passano retroattivamente dall'effetto alla causa e, infine, muovendo da un confronto ravvicinato tra Inghilterra e Francia, giunge a una spiegazione dei cambiamenti intercorsi nell'intera Europa. Altri estimatori di Barrington Moore (per esempio Dietrich Rueschemeyer, Evelyne Huber e John Stephens) ne hanno seguito le orme concentrandosi sugli effetti di lungo periodo, chiedendosi perché paesi diversi abbiano originato tipi diversi di regimi politici. Pur non rifuggendo dal delineare l'impatto di singole storie sulla politica contemporanea, questo libro si focalizza soprattutto sull'identificazione dei meccanismi e dei processi che promuovono, inibiscono o fanno regredire la democratizzazione. Si concentra, cioè, sulle traiettorie, più che sulle origini e sulle destinazioni. Del resto, chiunque conosca il lavoro di Moore non potrà non vedere come la sua enfasi sulle conseguenze politiche del conflitto abbia condizionato profondamente gli sforzi dei suoi allievi.

Sia chiaro che, al pari di Barrington Moore, io non ho una visione ingenua delle democrazie reali: fatta eccezione per alcuni momenti rivoluzionari, non so di alcun regime nazionale europeo, passato o presente, in cui un ristretto numero di persone, invariabilmente di sesso maschile, ricche e ben introdotte, non abbia fatto valere un'influenza abnorme sul sistema di governo. In tutti i regimi formalmente democratici di cui sono a conoscenza, alcune minoranze marginalizzate sono state private di ogni tutela rispetto alle azioni arbitrarie dei governi. Lo stesso sistema americano, nel quale vivo, mi appare come una democrazia profondamente difettosa che in modo ricorrente si de-democratizza, escludendo segmenti significativi della sua popolazione dalla politica, inscrivendo le disuguaglianze sociali nella vita pubblica, vanificando la volontà popolare, fallendo nel fornire pari protezione ai suoi cittadini. In questo libro, dunque, l'aggettivo "democratico" significa semplicemente meno non-democratico della maggior parte degli altri regimi, ovvero in grado di discostarsi in qualche misura dalla tirannide e dall'autoritarismo monolitico (le due forme di governo più ricorrenti in ogni parte del mondo negli ultimi 5000 anni).

Mi si permetta anche di segnalare tre difficoltà in cui sono incorso scrivendo questo libro: scale d'osservazione multiple, diverse letterature di riferimento e spiegazioni "sovversive". Le mie risposte a queste difficoltà potranno, forse, non suscitare un generale consenso.

Cominciamo dalle scale d'osservazione. Le analisi condotte nel libro alternano scale molto diverse: il continente europeo colto come un insieme lungo archi temporali significativi, le principali regioni europee attraverso i secoli, interi paesi in periodi compresi fra 20 e 350 anni, singole regioni di una stessa nazione (per esempio, nelle Isole britanniche, Inghilterra, Irlanda e Scozia) durante archi di tempo variabili, particolari crisi, episodi e persone in momenti specifici. A nessuno di questi livelli ho raccolto e illustrato evidenze continue ed esaustive. Una volta penetrato a fondo nella mia indagine, ho rapidamente abbandonato il progetto iniziale di elaborare degli indici annui di democratizzazione per tutte le entità politiche europee dal 1650 al 2000; ho infatti compreso che il punto centrale non era tanto fornire una spiegazione chiara e coerente di una singola variabile, bensì seguire un processo complesso attraverso i suoi numerosi livelli. Di conseguenza, le prove presentate si spostano ripetutamente su scale diverse, restando inevitabilmente incomplete in ognuna di esse.

Ed ecco la seconda difficoltà. Il libro attinge a un'ampia e va- riegata letteratura in materia di storia europea, democratizzazione e conflitti politici. Con molta probabilità, gli specialisti di queste discipline avvertiranno come io abbia tralasciato aspetti che essi reputano importanti in ognuna di queste fonti, e dunque che attribuisca alle mie argomentazioni più originalità di quanto esse meritino, oltre a tentare di eludere le obiezioni che questo o quell'analista potrebbe sollevare circa le mie descrizioni e spiegazioni. Sono consapevole di questa eventualità. Ma, al tempo stesso, considero che l'alternativa – ovvero la piena citazione e discussione della letteratura e delle sue controversie – sarebbe stata, alla fine, decisamente peggiore: avrebbe prodotto un libro lungo il doppio e denso il doppio. Scrivendo un'opera che considera l'intera Europa dal 1650 in poi, ho necessariamente e continuamente fatto riferimento ad articoli, monografie, sinossi, manuali ed enciclopedie che consentissero di chiarire eventi, stabilire cronologie, identificare luoghi, fatti e persone. Eccetto i casi in cui mi è sembrato che i lettori necessitassero di una puntualizzazione o di un maggior approfondimento di qualche asserzione, ho menzionato queste pubblicazioni solo nel momento in cui le ho citate letteralmente o vi ho attinto dati empirici non immediatamente disponibili altrove.

La mia decisione di ridimensionare le citazioni e le discussioni della letteratura disponibile ha significato anche resistere alla tentazione di prendere pubblicamente posizione per l'uno o per l'altro schieramento nei dibattiti aperti. Qualsiasi specialista di storia della Francia, per esempio, potrà facilmente riconoscere che il Capitolo 4 rigetta buona parte del revisionismo sulla Rivoluzione francese e sulle sue conseguenze promosso dal compianto François Furet. (Il capitolo rievoca persino l'idea di una rivoluzione borghese, molto osteggiata da un'intera generazione di storici francesi.) Dal momento che ho scritto ampiamente di storiografia europea, teorie sui conflitti politici, rivoluzioni e democratizzazione, i lettori che vorranno sapere dove mi colloco all'interno di questi grandi dibattiti non avranno problemi ad approfondire le mie posizioni.

La mia terza difficoltà, infine, ha riguardato la presenza di spiegazioni "sovversive". TAnto il senso comune quanto la maggior parte delle scienze sociali considerano le disposizioni individuali come le cause fondamentali dei processi sociali. Culturalisti, fenomenologisti, comportamentisti e individualisti metodologici convergono tutti sulla ricostruzione delle disposizioni degli individui immediatamente antecedenti l'azione quali spiegazioni dell'azione stessa; e quindi propongono di aggregare le azioni individuali all'interno di processi sociali come, per esempio, la democratizzazione e la de-democratizzazione. Anni di manifesta insoddisfazione da parte mia circa la logica della spiegazione mediante le disposizioni individuali non hanno, ahimè, prodotto quasi nessun cambiamento nelle pratiche di ricerca prevalenti. Anziché fare prediche astratte, questo libro semplicemente sovverte tali pratiche, invitando i lettori a valutare se le sue spiegazioni diano conto della democratizzazione e della de-democratizzazione europea meglio di quanto non facciano gli altri approcci in circolazione.

Le spiegazioni del mio libro si qualificano come sovversive in tre direzioni: com'è visualizzato nelle Tabelle 1.1-1.3 (pp. 25-28), i meccanismi e i processi posti sotto esame per spiegare la democratizzazione (1) trattano le disposizioni individuali principalmente come effetti piuttosto che come cause; (2) privilegiano meccanismi relazionali rispetto a meccanismi cognitivi e ambientali; (3) insistono sul fatto che meccanismi quali la mediazione, anziché spostarsi su un livello sempre più microscopico, sul modello di quanto avviene nelle spiegazioni chimiche dei processi molecolari, operano, invece, allo stesso livello dei processi sociali oggetto di spiegazione. Perfino tra la minoranza di scienziati sociali che hanno mostrato entusiasmo nei confronti dei meccanismi come spiegazioni, queste tre posizioni sono chiaramente qualificate come sovversive. Scrivendo questo libro, a ogni modo, ho deciso che, dal momento che le mie rimostranze non avevano prodotto risultati significativi, sarebbe stato preferibile dedicarmi semplicemente al lavoro esplicativo, lasciandone giudicare ai lettori i risultati, sovversivi o meno che siano. Di conseguenza, ho talora confrontato le mie spiegazioni con le altre attualmente disponibili, ma non ho mai evocato un'eventuale competizione fra loro.

Ho anche evitato, infine, di far debordare le mie tesi in questioni di concettualizzazione, misurazione, spiegazione, ed elaborazione teorica.

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Pagina 179

Tre secoli e mezzo

Per gran parte dei decenni compresi fra il 1650 e il 2000 i regimi francesi operarono secondo modalità non democratiche. Rispetto ai loro omologhi contemporanei (anche se non per gli standard del XX secolo), nel XVII e XVIII secolo essi imposero ai loro sudditi dei controlli di tipo autoritario: il governo acquisì un'impressionante giurisdizione sulle risorse, le attività e la popolazione, mentre a livello nazionale prevalse una consultazione popolare incerta, ristretta, ineguale, con scarne protezioni legali per le minoranze e i dissidenti. Poi, la Rivoluzione e il regime napoleonico gettarono le basi per la democratizzazione. Fra il 1789 e il 1793 i francesi istituirono effettivamente alcuni elementi tipici di un governo democratico, salvo poi reimporre un controllo autoritario destinato a restare in vigore fino alla sconfitta di Napoleone.

La riorganizzazione rivoluzionaria attivò numerosi meccanismi promotori di democrazia: marginalizzazione delle istituzioni del controllo indiretto che attribuivano il potere ai nobili e al clero; imposizione delle elezioni e delle assemblee legislative come dispositivi standard di governo; integrazione o distruzione delle reti clientelari esistenti; promozione della formazione di coalizioni politiche interclassiste; e via elencando. Abbiamo visto questi meccanismi all'opera nelle esperienze degli operai organizzati, della coscrizione militare, delle associazioni popolari e (anche se in modo più incerto) nelle relazioni fra gli ebrei e lo stato. La democrazia si sviluppò e decadde a seconda dei regimi: fiorì temporaneamente nel 1848, regredì con il Secondo Impero, si ravvivò con un duro scontro sotto la Terza Repubblica e si spense quasi completamente durante l'occupazione tedesca, per poi rinascere come frutto della Resistenza dopo il 1944. Quando ebbe luogo, la de-democratizzazione si svolse attraverso rovesciamenti dei processi causali standard: inscrizione delle disuguaglianze fra categorie direttamente nella politica pubblica, distacco da quest'ultima delle reti fiduciarie ecc.

Negli anni dell'immediato dopoguerra, gli Alleati vittoriosi (che mantennero truppe di stanza in Francia fino agli anni cinquanta) appoggiarono il governo e, allo stesso tempo, posero dei limiti alla crescita del consistente Partito comunista francese. La loro presenza, tuttavia, non riuscì a impedire le migliaia di esecuzioni sommarie avvenute durante la Liberazione, né la consegna di un potere sostanzialmente dittatoriale nelle mani di Charles de Gaulle nel 1944-1945. De Gaulle salì nuovamente al potere, con analoghe prerogative autoritarie, nel 1958, poiché sembrò l'unico in grado di porre fine alla disastrosa guerra civile in Algeria.

La storia francese dopo il 1650 illustra in modo particolarmente icastico la stretta correlazione tra conflitto e democrazia. Quando i regimi trancesi si democratizzarono, lo fecero non malgrado il conflitto popolare, bensì a causa di esso. Non che le masse abbiano sempre e comunque rivendicato la democrazia e che, invece, le classi dominanti vi si siano sempre opposte: al contrario, solo raramente la consultazione protetta è aumentata perché un gruppo di individui fedeli al programma democratico sia riuscito a prendere in mano lo stato e a guidare il regime verso una consultazione e una protezione vincolanti, ampie e paritetiche. Possiamo indubbiamente considerare gli anni 1789-1793, 1848, 1879 e 1946-1948 come momenti di questo genere, ma solo per riconoscere che essi si situarono fra i picchi di conflitto del periodo che abbiamo preso in considerazione. In definitiva, in Francia sia la democratizzazione sia la de-democratizzazione avvennero, quanto meno in buona misura, come esiti di conflitti popolari, di ampie lotte sul potere statale.

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Pagina 231

6. La Svizzera e le sue peculiarità


Come abbiamo ripetutamente osservato, tre secoli e mezzo corrono veloci su scala nazionale e internazionale. I nostri sorvoli sulla storia europea ci offrono panoramiche su importanti trend e variazioni nella democratizzazione, ma non permettono di cogliere da vicino i meccanismi cruciali del cambiamento. Per vederli chiaramente in azione, dobbiamo fare un ingrandimento. Nei diciannove anni compresi fra il 1830 e il 1848, la Svizzera costituisce uno straordinario microcosmo ai fini dello studio della democratizzazione e della de-democratizzazione, e inoltre permette di analizzare come il regime democratico più antico e più lungamente operante in Europa abbia affrontato le transizioni che lo hanno formato. Contrariamente alla fama della Svizzera di paese politicamente e civilmente stabile, per quanto noioso e chiuso, vi osserveremo aspre divisioni e conflitti armati; vedremo come essa, lungi dal fluire senza scosse nella democrazia in conseguenza di abitudini e culture di lunga data, abbia dato forma a istituzioni democratiche come soluzione di compromesso, improvvisata e contrastata, a una vera e propria crisi rivoluzionaria.

Composte di una manciata di feudi perennemente in guerra nei territori dei diversi imperi tedeschi succedutisi nel tempo, molte aree della Svizzera acquistarono un'indipendenza de facto con la Pace di Basilea del 1499 e de jure, come Federazione, all'atto della Pace di Westfalia del 1648. Il controllo sulle principali vie transalpine di comunicazione, di commercio e di movimento delle truppe garantì a porzioni della Svizzera i mezzi di sopravvivenza commerciale e politica, ma, al tempo stesso, le rese oggetto di incessanti interventi e ingerenze da parte delle potenze vicine. «La peculiarità del vecchio ordine sociale della Svizzera», ebbe modo di osservare Karl Deutsch,

si esprimeva anzitutto nella singolarità dei suoi cantoni di montagna. Quello di Uri, per esempio, è un cantone rurale, ma popolato da contadini ricchi, ben armati e superbamente informati; è una sorta di città naturale circondata di montagne invece che di mura, cui si accede attraverso passi montani invece che porte. È anche una regione agricola con uno stile di autogoverno, effettivo e percepito, tipicamente urbano. Più in basso, nelle regioni centrali, esiste la lega che unisce i borghesi residenti in città-stato quali Berna e Zurigo con i contadini dei rispettivi cantoni, il che configura un altro tipo di relazione ancora fra gli abitanti delle città e quelli della campagna. Storicamente, quindi, i diritti delle piccole città erano ben stabiliti e il loro autogoverno ampiamente rispettato (Deutsch 1976, pp. 34-35).

Fino alla fine del XVIII secolo, la Federazione non fu altro che una lasca alleanza di tredici cantoni che intratteneva strette relazioni con i territori alleati di Ginevra, dei Grigioni e del Vallese, più alcuni territori (per esempio Vaud, Lugano, Bellinzona e la Valtellina) soggetti, a seconda dei casi, ai singoli componenti o alla Federazione tutta intera.

Profonde linee di demarcazione linguistiche e religiose attraversavano le montagne. Da una valle all'altra, innumerevoli versioni delle lingue romanze e germaniche si mischiavano dando origine a infinite variazioni. Molto prima della Riforma, le Alpi alimentarono credenze e pratiche che la Chiesa cattolica considerava eretiche; le vicine montagne della Savoia, dal canto loro, divennero il cuore del credo valdese. La Riforma del XVI secolo trovò terreno fertile in gran parte della regione alpina, ma la Chiesa cattolica riuscì a riconquistare l'obbedienza della popolazione con le buone o con le cattive. Le lotte religiose del XVI e XVII secolo lasciarono dietro di sé non solo una spaccatura profonda fra cattolici e protestanti, ma anche la comparsa di innumerevoli sette, con Ginevra (liberata dalla Savoia nel corso di un intenso conflitto) calvinista e Basilea seguace di Zwingli. Dato lo strettissimo controllo cantonale su residenza, cittadinanza ed espressione religiosa, la frammentazione confessionale e linguistica persistette fino a Ottocento inoltrato.

Dal XVI al XVIII secolo, la Svizzera si astenne quasi completamente dal partecipare direttamente alle guerre internazionali, ma rifornì di eccellenti truppe mercenarie gran parte dell'Europa (Casparis 1982). Le élite cantonali trassero cospicue entrate sia dal commercio di mercenari sia dalle rendite e dalle imposte pagate dalla popolazione rurale sotto il loro controllo. In quel periodo, la politica svizzera operò principalmente a un livello locale e cantonale: verso l'esterno cercando di tenere a debita distanza le altre potenze, verso l'interno barcamenandosi fra le enormi disparità e particolarità dei privilegi. Dei circa 1,6 milioni di persone che vivevano nel territorio dell'attuale Svizzera verso la fine del XVIII secolo, meno di 200 000 avevano diritto di partecipare alla politica pubblica (Böning 1998, pp. 6-7). A quell'epoca, comunque, i cittadini qualificati dei singoli cantoni erano coinvolti in livelli di deliberazione democratica ignoti a quasi tutto il resto d'Europa.

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Pagina 244

Che cosa dobbiamo spiegare?

L'esperienza svizzera è degna di nota soprattutto in ragione della sua transizione a un governo rappresentativo in presenza di persistenti differenze linguistiche. Sono infatti esistite a lungo distinzioni fondamentali fra i cantoni del Nord e dell'Est, di lingua tedesca, quelli sulla frontiera occidentale di lingua francese, quelli sulla frontiera meridionale, di lingua italiana, e le enclave del Sud-est, di lingua romanza (romancio). Questa complessità si riflette nei nomi stessi dei cantoni. Gli svizzeri di lingua tedesca, per esempio, chiamano Waadt il cantone qui citato sotto il nome di Vaud. C'è addirittura un cantone che assume i quattro nomi di Grisons (in francese), Graubünden (in tedesco), Grigioni (in italiano) e Grischun (in romancio). La Svizzera è caratterizzata anche da nette differenze fra città e città nei dialetti tedeschi conosciuti generalmente come Schwyzerdütsch, che di fatto costituiscono la lingua d'elezione per la comunicazione verbale fra gli svizzeri formalmente di lingua tedesca (ovvero fra circa i due terzi della popolazione totale). Essendo le divisioni più aspre quelle su base religiosa, ereditate dai tempi della Riforma, gli svizzeri raramente hanno litigato per questioni linguistiche. La separazione del 1979 del francofono Giura dalla regione di Berna, prevalentemente tedesca, costituisce un'eccezione alle prassi elvetiche tradizionali.

La Svizzera, poi, si distingue anche, e soprattutto, per la vitalità delle sue istituzioni rappresentative, che fa il paio con strutture statali relativamente deboli. Altrove, in Europa, regimi analoghi sono caduti sotto i colpi della conquista operata da vicini caratterizzati da una più elevata (e molto meno democratica) capacità di governo. La topografia svizzera, la sua capacità di chiamare i cittadini alle armi nell'emergenza e le rivalità fra i suoi potenti vicini le hanno concesso uno status di intoccabilità simile a quello di microstati come il Liechtenstein e Andorra. La vigorosa indipendenza svizzera ha anche ispirato molti politici regionali europei, al punto che i nazionalisti baschi del XIX secolo proposero che la loro terra diventasse "una Svizzera dei Pirenei" (Agirreazkuenaga e Urquijo 1994, pp. 11-12).

Qualsiasi altra cosa si possa dire sull'itinerario svizzero verso la democrazia, quel che è certo è che esso passò attraverso un intenso conflitto popolare e un'altrettanto intensa azione militare. Lo stesso processo che creò un governo centrale a più elevata capacità, inoltre, produsse anche la ristretta, ma genuina democrazia elvetica: rispetto a quanto vi era prima, una cittadinanza relativamente ampia – benché ineguale –, una consultazione vincolante dei cittadini e una sostanziale protezione di questi ultimi dall'azione arbitraria dei funzionari governativi. Se confrontato con i modelli di democrazia della Francia o della Gran Bretagna di tardo Ottocento, tuttavia, il sistema confederale svizzero appare quanto mai eterogeneo: una specifica costituzione, una lingua dominante e una cittadinanza distintiva per ogni cantone; molteplici autorità e statuti; e un'eccezionale combinazione di esclusività e capacità di creare nicchie per nuovi attori politici. Questi residui della storia politica svizzera sono passati pressoché indenni attraverso i consecutivi cambiamenti costituzionali che ha subito il paese e continuano tuttora a esercitare effetti profondi sulla politica del conflitto (Giugni e Passy 1997; Kriesi 1980, 1981; Kriesi et al. 1981, 1995).

Concentriamoci ora sul periodo critico compreso fra il 1830 e il 1848. In quei diciannove anni, la Svizzera passò da una precaria federazione fra cantoni internamente oligarchici, ineguali, litigiosi, politicamente connessi fra loro soltanto da labili istituzioni centrali, a un'unione semidemocratica relativamente solida. In questo percorso, il paese conobbe ripetuti conflitti armati, numerose rivoluzioni su piccola scala e una guerra civile che avrebbe potuto spaccarlo per sempre. L'appendice a questo capitolo traccia una cronologia degli eventi conflittuali su larga scala conosciuti dalla Svizzera in quel turbolento periodo.

Data la seriosa e pacifica reputazione che il paese si sarebbe costruito in seguito, la cronologia ci restituisce delle novità sorprendenti. Nel corso del 1831, 1832, 1833, 1834, 1839, 1841, 1844, 1845, 1847 e 1848, in una parte o nell'altra della Svizzera ebbero luogo aspri conflitti armati in merito alle forme e alle prerogative del governo. Centinaia di cittadini perirono in scontri armati. Cantone dopo cantone, tutti si divisero in fazioni armate. L'accordo di pace del 1847-1848 giunse solo come risultato di un'aperta guerra civile. E tuttavia tale accordo fu l'inizio di un lungo periodo di limitata, ma stabile, democrazia su scala nazionale. L'aspetto più notevole è che i cantoni caratterizzati da democrazia diretta a livello locale e cantonale – Lucerna, Uri, Schwyz (Svitto), Unterwald e Zug – costituirono il nucleo della resistenza alla riforma democratica su scala nazionale, mentre, al contrario, i cantoni che avevano istituito sistemi di democrazia rappresentativa anziché diretta – Ginevra, Friburgo, Vaud, Berna, Solothurn, Aargau, Zurigo, Thurgau, Sciaffusa e Ticino – generalmente scelsero di sostenere la causa federale e la democrazia rappresentativa a livello nazionale. La cattolica Friburgo (che aveva creato delle istituzioni cantonali rappresentative) fu la principale eccezione. In definitiva, vi furono due paradossi: una lotta popolare armata che sfociò nella democrazia, e un'opposizione alla democrazia nazionale decisamente più tenace fra quanti praticavano una democrazia diretta nel proprio territorio.

A un esame più ravvicinato dei processi politici svizzeri, in verità, entrambi i paradossi sono destinati a cadere. La soluzione del secondo paradosso contribuisce anche allo scioglimento del primo. La "democrazia diretta" delle regioni che si opponevano alla riforma federale, in realtà, era costituita da un governo assembleare basato su un'uguaglianza gelosamente difesa all'interno di una ristretta classe di cittadini qualificati. Del tutto analogamente a quelle aree dell'Europa urbana in cui le città godevano di una considerevole autonomia politica, i cittadini maschi dei cantoni e dei comuni svizzeri avevano il diritto-dovere di prestare servizio nelle milizie civiche, a tal punto che ancora a Ottocento inoltrato i cittadini con diritto di voto abitualmente portavano la spada, il pugnale o la baionetta come segni di distinzione. Nei secoli precedenti gli anni quaranta dell'Ottocento, inoltre, spesso si erano spontaneamente formati dei raduni di uomini in armi per protestare contro le azioni delle autorità; a volte riuscirono persino a rovesciare i regimi con la forza, a dar vita ad assemblee temporanee per giudicare o mettere in discussione le azioni delle autorità, o a imporre alle stesse di convocare direttamente delle assemblee di cittadini. (Nel Capitolo 2 abbiamo illustrato la variante grigionese dell'assemblea insurrezionale, la cosiddetta Strafgericht.) Dietro questa uguaglianza pubblica, quindi, persistevano oligarchia, sciovinismo e coercizione. Sebbene talvolta la maggioranza dell'assemblea respingesse le proposte avanzate dai funzionari comunali o cantonali, in pratica i pubblici uffici al più alto livello erano dominati dai possidenti, i quali raramente permisero che una seria opposizione al loro ruolo potesse esprimersi pubblicamente.

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Pagina 270

La Svizzera in prospettiva comparata

L'esperienza svizzera in quanto tale pone seriamente in discussione la possibilità dell'esistenza di una sequenza standard nella transizione dei regimi da un governo non democratico a forme istituzionali democratiche. Posta a confronto con i Paesi Bassi, la Penisola iberica, la Francia e le Isole britanniche, la Svizzera dimostra che è possibile — benché difficile — che la democratizzazione abbia luogo lungo una traiettoria da "stato debole". In prospettiva comparata, la storia svizzera degli anni trenta e quaranta dell'Ottocento ci dice molto a proposito delle tesi principali di questo libro.

1. Combinazioni variabili di coercizione, capitale e impegno in diverse regioni promuovono la formazione di tipologie significativamente diverse di regimi e delineano percorsi differenti di cambiamento di tali regimi. In Svizzera osserviamo un'estesa, e relativamente omogenea, accumulazione e, insieme, una ridotta concentrazione di coercizione, capitale e impegno. Questa combinazione produsse regimi politici altamente frammentati e un percorso di democratizzazione da "stato debole".

2. Le traiettorie dei regimi all'interno di uno spazio bidimensionale definito (a) dal grado di capacità di governo e (b) dall'ampiezza della consultazione protetta influenzano in modo significativo sia le loro prospettive di democrazia sia le caratteristiche di tale democrazia, se e quando essa nasce. Anche oggi, la decentralizzazione, la segmentazione e l'accentuata variabilità tipiche della Svizzera rendono le sue istituzioni democratiche uniche al mondo.

3. Nel lungo periodo, gli incrementi di capacità di governo e di consultazione protetta si rafforzano vicendevolmente, man mano che, da un lato, l'espansione dello Stato genera resistenze, negoziazioni e assetti provvisori, mentre, dall'altro, la consultazione protetta alimenta le richieste di espansione dell'intervento governativo, che a sua volta stimola la crescita della capacità di governo. Nonostante lo stato nazionale svizzero rimanesse più debole nei confronti delle sue componenti cantonali e dei suoi cittadini rispetto alla maggior parte degli stati europei, sia la conquista francese sia l'esperienza della Sonderbund produssero incrementi nella capacità governativa centrale, in assenza della quale nessuna autorità avrebbe potuto imporre il rispetto dei diritti e dei doveri democratici su scala nazionale.

4. Ai due poli opposti, quando la capacità di governo cresce di più e più rapidamente della consultazione, la strada verso la democrazia (ammesso che questa si produca) passa dall'autoritarismo; quando accade il contrario (sviluppo maggiore e più rapido della consultazione rispetto alla capacità di governo) e il regime comunque sopravvive, la strada allora si snoda attraverso una zona rischiosa di costruzione della capacità di governo. La Svizzera illustra con grande evidenza il secondo caso e tutti i relativi pericoli.

5. Sebbene le forme organizzative adottate dai regimi in via di democratizzazione — elezioni, cariche a scadenza, rappresentanze di settore, assemblee deliberative ecc. — spesso imitino o adattino istituzioni che hanno solidi precedenti nei villaggi, nelle città, nelle giurisdizioni regionali, negli apparati nazionali vicini, quasi mai, tuttavia, esse originano direttamente da tali istituzioni. Di fatto, la democrazia diretta sopravvisse in alcuni comuni e in alcuni cantoni, ma, fatta eccezione per alcune istituzioni come i referendum e le iniziative pubbliche, a livello nazionale gli svizzeri istituirono una democrazia rigorosamente rappresentativa.

6. La creazione della cittadinanza — intesa come insieme di diritti e doveri che connettono intere categorie di una popolazione ai funzionari del governo cui essa è sottoposta — è una condizione necessaria ma non sufficiente ai fini della democratizzazione. A livello nazionale, con tutte le sue particolarità, la cittadinanza svizzera si costituì soltanto nel 1848, ma poi divenne totalmente essenziale al funzionamento del sistema democratico.

7. Nei regimi a elevata capacità di governo, talvolta può formarsi una cittadinanza non democratica la quale, se associata a un'ampia integrazione di cittadini nel regime, può addirittura ridurre o inibire la democrazia. Possiamo scorgerne esempi in vari momenti della storia iberica, francese e britannica, ma solo a livelli regionali in quella dei Paesi Bassi e della Svizzera.

8. Nondimeno, ceteris paribus, la preesistenza della cittadinanza ha generalmente il potere di agevolare la democratizzazione. Fra le esperienze nazionali esaminate finora, la Francia fornisce la più chiara esemplificazione di questo principio. La Svizzera ne illustra il corollario, ossia le difficoltà di creazione di una democrazia nazionale senza una precedente esperienza di cittadinanza moderatamente ampia ed egualitaria.

9. Tanto la creazione della cittadinanza quanto la democratizzazione dipendono sia dai cambiamenti all'interno di tre arene fondamentali — la disuguaglianza fra categorie sociali ("categoriale"), le reti fiduciarie e la politica pubblica –, sia dalle interazioni fra questi cambiamenti. Tutte le esperienze esaminate mostrano che simili cambiamenti hanno funzionato secondo le aspettative nel caso dei Paesi Bassi, della Francia e delle Isole britanniche e (con maggior in dettaglio) in Svizzera. Il prossimo capitolo ce li mostrerà all'opera altrove in Europa.

10. Le regolarità del processo di democratizzazione non consistono di sequenze generali standard o di una serie di condizioni sufficienti, ma sono date da meccanismi causali ricorrenti che, in combinazioni e sequenze variabili, producono cambiamenti nella disuguaglianza fra categorie, nelle reti fiduciarie e nella politica pubblica. Considerate nel loro insieme, le storie che abbiamo passato in rassegna pongono profondamente in dubbio ogni nozione di sequenza generale standard o di condizioni sufficienti generalmente applicabili. Esse offrono, quanto meno, un plausibile sostegno all'efficacia dei meccanismi compresi nel nostro inventario.

11. In circostanze specifiche, la rivoluzione, la conquista, lo scontro e la colonizzazione hanno il potere di accelerare e concentrare alcuni di questi meccanismi causali cruciali. Abbiamo visto chiaramente come nei casi dei Paesi Bassi, della Francia, delle Isole britanniche e della Svizzera queste crisi abbiano accelerato i meccanismi standard di promozione della democrazia. Il prossimo capitolo mostrerà che hanno accelerato il prodursi di effetti analoghi anche nella Penisola iberica e in altri paesi.

12. Pressoché tutti i meccanismi causali che promuovono la democrazia implicano il conflitto popolare — nei termini di attori politicamente organizzati che avanzano rivendicazioni pubbliche e collettive ad altri attori, inclusi quelli governativi — come causa, effetto diretto o effetto collaterale. Le storie qui passate al vaglio hanno fornito una molteplicità di spunti, ma anzitutto dimostrato le profonde interconnessioni fra la democratizzazione e il conflitto popolare.

13. Nel corso del processo di democratizzazione, i repertori del conflitto politico (vale a dire le forme disponibili di attività rivendicativa) passano da interazioni prevalentemente circoscritte, specifiche e dicotome basate largamente su identità incorporate, a interazioni prevalentemente cosmopolite, modulari, autonome largamente basate su identità separate. Con relativa rapidità in Svizzera, e più irregolarmente negli altri paesi, ebbe luogo proprio un cambiamento di questo genere, con le forme standard di organizzazione dei movimenti sociali che si andavano affermando parallelamente all'avanzata della democratizzazione.


In tutti questi aspetti, la tumultuosa esperienza svizzera fra il 1830 e il 1848 conferma e sostiene le tesi principali di questo libro. Un confronto diretto della Svizzera con i Paesi Bassi, la Penisola iberica, la Francia e la Gran Bretagna, tuttavia, integra tre ulteriori principi al set originario.


14. Finché le forze militari conservano un'estesa autonomia politica, la democratizzazione non può avanzare. Sia pure in modi assai diversi, i Paesi Bassi, la Penisola iberica, la Francia, le Isole britanniche e la Svizzera illustrano bene gli ostacoli alla democratizzazione posti dalle milizie locali e dagli eserciti nazionali. Queste unità armate forniscono ai loro membri e ai loro patroni incentivi pressoché irresistibili a conseguire vantaggi con mezzi non democratici.

15. L'inscrizione delle identità religiose nella politica pubblica – e in particolare l'esclusione su base confessionale di intere categorie dalla piena cittadinanza – costituisce un'altra insormontabile barriera alla democratizzazione. Sebbene non sia errato sostenere che sia la Svizzera sia i Paesi Bassi congegnarono compromessi e sotterfugi per mantenere un certo grado di inscrizione della religione nella politica pubblica, nel complesso tutti i nostri casi confermano ampiamente questa nuova generalizzazione.

16. Le relazioni con altri paesi e con il sistema internazionale influenzano ripetutamente il percorso e la cronologia della democratizzazione o della de-democratizzazione. Le guerre e le rivoluzioni sono il caso più evidente, ma ciascuna delle nostre storie mostra incessanti interazioni fra processi politici interni e attori esterni. La concentrazione internazionale di fasi di democratizzazione e de-democratizzazione in periodi di guerre e rivoluzioni generalizzate evidenzia l'importanza di questo insieme di effetti esterni.

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Il resto d'Europa

La mia indagine ha trascurato alcuni regimi europei: i paesi nordici, la Germania, l'Austria, l'Italia, la Polonia, la Cecoslovacchia, l'Ungheria e una serie di microstati. Nei tre secoli e mezzo compresi fra il 1650 e il 2000 ognuno di questi regimi ha seguito percorsi di avvicinamento o allontanamento dalla consultazione protetta in parte diversi. La loro inclusione nella nostra analisi ne potrebbe modificare sostanzialmente le conclusioni? Credo di no. Consideriamo, per tutti, il caso italiano. L'Italia potrebbe certamente integrare le nostre storie con una sequenza affascinante di progressiva unificazione, a partire da piccoli regimi autonomi, attraverso la conquista, lo scontro e la rivoluzione. Una disamina dell'Italia dal 1650 in poi ci mostrerebbe:

– una stupefacente batteria di tirannidi e oligarchie durante i secoli XVII e XVIII;

– la conquista francese, una temporanea unificazione e una parziale democratizzazione sotto Napoleone;

– la segmentazione e la de-democratizzazione postnapoleoniche;

– una precaria democratizzazione di alcuni segmenti durante l'unificazione dello stato che ebbe luogo fra il 1848 e la prima guerra mondiale;

– un conflitto quasi rivoluzionario durante e dopo la guerra;

– la formazione di un regime fascista dopo il primo conflitto mondiale;

– una democratizzazione più duratura, avviata dall'occupazione alleata alla fine della guerra;

– l'instaurazione di una versione di consultazione protetta vulnerabile, specifica, ma indubbiamente riconoscibile durante il dopoguerra;

– persistenti (anche se in evoluzione) differenze regionali nelle relazioni con il governo centrale.


Nel 1848, il Piemonte introdusse delle modeste concessioni in termini di governo rappresentativo e mantenne delle istituzioni relativamente democratiche anche quando, dal 1859, divenne il cuore dell'Italia unita. La Sicilia andò incontro a un'esperienza notevolmente diversa. Poggiando sull'ampio sostegno della borghesia e dei contadini senza terra, Garibaldi fece dell'isola la base per l'attuazione della sua versione di nazionalismo democratico. La sconfitta del suo movimento a opera dell'esercito piemontese appoggiato dalla Francia, nel corso della guerra civile del 1860-1862, bloccò l'iniziativa garibaldina e integrò il Sud nel nuovo regime secondo le regole imposte dal Nord.

«Ciò che rendeva la Sicilia diversa dal Piemonte», riflette Lucy Riall,

era la profonda differenza del rapporto fra stato e società, che si era prodotta in gran parte in conseguenza delle riforme borboniche della fine del Settecento e dei primi dell'Ottocento. Suona quindi come un'ironia il fatto che mentre sia i Borboni che la Destra si resero conto che un'efficace riforma rappresentava la chiave per governare la Sicilia, i loro tentativi riformatori peggiorarono di fatto i problemi esistenti. Aumentando i poteri dello stato nelle aree rurali, essi allo stesso tempo introdussero nuovi elementi di conflitto all'interno delle comunità e rafforzarono la posizione di quei gruppi che avevano interesse a conservare lo status quo. L'accentramento amministrativo aggiunse un ulteriore livello di corruzione nel governo locale e rese la Sicilia più, e non meno, ingovernabile di prima (Riall 1998, p. 228; trad. it. p. 262).


Per usare una memorabile espressione di Antonio Gramsci, fu una rivoluzione democratica fallita – «la rivoluzione mancata» – a produrre un risultato non democratico. In questo e in molti altri aspetti l'accidentata storia della democratizzazione e de-democratizzazione italiana incorpora, sia pure in combinazioni e sequenze peculiari, i meccanismi e i processi che abbiamo visto ampiamente all'opera altrove in Europa.

Se è indubbio che il fascismo nacque come movimento virulentemente antidemocratico e che instaurò un regime dichiaratamente autoritario, tuttavia con il suo parziale isolamento delle disuguaglianze fra categorie dalla politica pubblica, la parziale soppressione e integrazione delle reti fiduciarie precedentemente separate e la forzata imposizione di una cittadinanza autoritaria, esso modificò il rapporto fra gli italiani e lo stato secondo modalità che poi, in presenza di una sconfitta militare e di una conquista straniera, promossero la democratizzazione. Dopo il crollo del fascismo nel luglio del 1943, le forze germaniche invasero la penisola, incontrando una resistenza popolare organizzata soltanto a Napoli; nei due anni che occorsero agli Alleati, con il crescente sostegno della popolazione, per cacciare i tedeschi, fu costruito fra la popolazione civile e le forze d'occupazione un rapporto che finì per generare un certo grado di fiducia reciproca. Su questo poggiarono í fragili pilastri di un regime nuovamente democratico. Anche in Italia, come nel resto d'Europa, il motore della democratizzazione è stato il conflitto.

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8. Europa e altri paesi


La colonizzazione, la conquista, lo scontro e la rivoluzione svolsero tutti un ruolo nella democratizzazione indotta dall'Europa al di fuori del proprio continente, dove, con una palese contraddizione, gli europei dell'Ottocento promossero la contemporanea diffusione sia della democrazia sia della tirannide: la prima fra i colonizzatori europei e i loro discendenti, la seconda sulle popolazioni che colonizzarono e fra di esse. Possiamo distinguere quattro modalità di penetrazione coloniale: le colonie d'insediamento, la presa di controllo di economie complesse, i sistemi di lavoro coatto e una forma di controllo più soft, ma comunque orientata allo sfruttamento.

Nei territori oggetto d'insediamento, le potenze europee generalmente sterminarono, ghettizzarono o ridussero in schiavitù le popolazioni indigene. Nelle regioni americane, africane e dell'Oceania con estesi insediamenti coloniali si adottarono fin dal primo momento regimi relativamente autoritari, giacché tipicamente la colonizzazione esordì in forma di piantagioni, proprietà di compagnie con diritti privilegiati, colonie penali o zone sottoposte ad amministrazione militare. Poi i coloni europei instaurarono nelle proprie comunità regimi parzialmente democratici, e solo molto lentamente e con riluttanza aprirono l'accesso alla politica pubblica a quel che restava delle popolazioni indigene.

La presa di controllo di economie complesse operò diversamente e richiese una densità di insediamento europeo di gran lunga inferiore. In Africa e (soprattutto) in Asia, talvolta gli europei tentarono di estrarre reddito e sviluppare attività commerciali da una varietà di strutture agricole e industriali che restavano in larga misura fuori dal loro diretto controllo; l'India britannica costituisce il caso estremo di questo modello. In tali circostanze emersero in genere dei nuovi regimi politici compositi, che mutuarono parte della loro organizzazione dalla potenza coloniale e di questa subirono il controllo, ma che riuscirono a spuntare già prima della conquista dell'indipendenza vera e propria un considerevole grado di autonomia. Già molto prima dell'indipendenza formale dell'India dalla Gran Bretagna (1950), attivisti indiani riuniti nel Congresso Nazionale (formatosi nel 1885) si erano associati, avevano mosso petizioni e condotto campagne sia in India sia in Gran Bretagna.

Laddove i coloni costruirono le loro economie avvalendosi del lavoro coatto e legalmente sanzionato di indigeni, immigrati o deportati, l'avvicinamento alla democrazia avvenne attraverso un'intensa lotta sulle condizioni dell'integrazione politica di questi lavoratori e dei loro discendenti. Haiti e la Giamaica offrono due casi estremi e opposti di questo modello. Haiti si liberò del giogo europeo negli anni novanta del Settecento, ma non introdusse mai stabilmente una consultazione protetta poiché i leader della lotta di liberazione piegarono ciò che rimaneva dell'apparato governativo a proprio vantaggio. L'emancipazione degli schiavi in Giamaica (1834), avvenuta con il sostegno della Gran Bretagna, innescò una transizione segnata da aspri conflitti verso un'imperfetta, ma genuina pratica democratica (Sheller 2000). Diversamente dalla Giamaica e da Haiti, i colonizzatori europei dei futuri Stati Uniti esordirono sterminando, sradicando e segregando le popolazioni native, fondarono le economie delle regioni più importanti sul lavoro di africani ridotti in schiavitù e combatterono una spietata guerra civile sulle differenze regionali a questo riguardo. Per quanto una massiccia migrazione degli schiavi liberati e dei loro discendenti verso settentrione abbia infine eliminato lo stridente contrasto fra il libero lavoro dei bianchi al Nord e quello servile degli schiavi di colore al Sud, se si guarda ai diritti degli afroamericani, ancora ai giorni nostri gli Stati Uniti paiono assai lontani dal conseguimento di una compiuta democrazia.

Anche il Canada produsse una frattura fra Nord e Sud, ma di tipo diverso. La fascia collocata immediatamente a ridosso dell'attuale confine statunitense non si discostò dal modello del Nord degli Stati Uniti nello sterminio delle popolazioni indigene e attrasse un gran numero di coloni da sud sia nell'epoca rivoluzionaria sia all'inizio dell'Ottocento. Nelle sterminate regioni settentrionali del paese, invece, l'insediamento europeo fu piuttosto rarefatto e limitato a mercanti, minatori, soldati e fornitori di servizi che, per la sopravvivenza, instaurarono strette relazioni commerciali e di lavoro con la popolazione indigena. In Canada come altrove, l'insediamento europeo non fu particolarmente concentrato dove l'attività dei coloni consisteva essenzialmente nel commercio ed esportazione di materie prime; in genere, in questi regimi coloniali a scarsa densità la democratizzazione fu nulla o assai modesta. Anzi, in alcune di queste colonie gli europei instaurarono sistemi tirannici locali o mantennero quelli già esistenti, mentre in altre crearono delle enclave sostanzialmente europee dalle quali diramavano nell'hinterland tentacoli economici e politici. Nel caso di colonie europee di questo tipo, gli eventuali processi di democratizzazione si svilupparono come effetto delle lotte anticoloniali o postcoloniali: in periodi diversi, l'America Latina, l'Africa, l'Asia e l'Oceania furono tutte teatro di rivolte con queste caratteristiche. Giunti al 2000, la grande maggioranza di questi regimi postcoloniali ha adottato le strutture formali del governo democratico, ma nonostante l'esistenza di elezioni competitive e di governi civili sono ancora lontani da un'effettiva consultazione protetta.

Grazie anche all'appoggio delle sue colonie, dal 1800 in poi l'Europa ha costituito nel mondo il modello prevalente di democratizzazione. Tipicamente, i regimi in via di democratizzazione adottarono strutture legislative, giudiziarie ed esecutive, elezioni competitive, partiti politici, definizioni dei diritti politici e garanzie pubbliche delle libertà civili, concentrandosi in particolare sui diritti dell'individuo. Nonostante per lungo tempo la definizione di individuo pubblico politico fosse stata soggetta a ogni sorta di restrizione, in prevalenza questi regimi istituirono e imposero il rispetto del diritti e dei doveri politici a livello di singola persona. Certo, riconobbero anche il diritto di imprese, famiglie, chiese, associazioni e altre entità collettive a esistere e a operare, ma, in linea di massima, queste organizzazioni non acquisirono una rappresentanza formale né diritti di voto né gli altri elementi caratteristici della partecipazione democratica. Anzi, la maggior parte dei regimi democratici investì considerevoli energie nel limitare l'influenza delle entità collettive sui diritti politici individuali.

La prevalenza del modello costituzionale europeo non va ascritta al fatto che incarnasse la sola versione logicamente possibile di consultazione protetta. Anche nell'esperienza strettamente europea, infatti, altri due complessi di programmi e pratiche si trovarono talvolta a competere con le forme democratiche incentrate sull'individuo e a elevata capacità governativa. Il primo rivendica la segmentazione degli stati centralizzati in unità dotate di ampio autogoverno e internamente democratiche: villaggi, regioni, cooperative e congregazioni. Le comunità religiose, gli anarchici, i comunisti e i democratici radicali accarezzarono a più riprese il sogno di una democrazia locale libera da costituzioni e dalle ingerenze del potere centrale. Di tanto in tanto, riuscirono anche a tradurre il sogno in realtà: le numerose Comuni francesi del 1871 si organizzarono attorno a questa visione del decentramento, e ancora nel 1975, quando il controllo dello stato centrale fu assunto da una giunta militare di sinistra, i rivoluzionari portoghesi sperimentarono una democrazia dei piccoli produttori (Downs 1989).

I socialisti europei, per converso, talora teorizzarono e talora tentarono di attuare una democratizzazione di stampo collettivistico. L'Europa possedeva una consolidata tradizione di rappresentanza politica formale di entità corporate come gli "stati", le comunità, le corporazioni, le confraternite ecc. I socialisti piegarono questa tradizione ai loro scopi. In molti modelli di socialismo di stato, non furono i singoli individui ma le collettività ad acquisire il diritto a una consultazione relativamente estesa, egualitaria, vincolante e protetta. Nella visione socialista, tali entità collettive assunsero il più delle volte la forma di unità economiche (fabbriche, fattorie, produttori di un certo bene ecc.) oppure di nazionalità e/o località.

Rispetto airegimi autoritari o oligarchici che sostituirono, nelle loro fasi iniziali i regimi socialisti del XX secolo realizzarono spesso una parziale democratizzazione. Il fatto che poi tutti abbiano deviato verso l'autoritarismo non contraddice la possibilità logica di una democratizzazione basata sulla rappresentanza collettiva. Anzi, è prassi comune che le camere alte di regimi costituzionali bicamerali che in altri ambiti operano incontestabilmente secondo i principi democratici controbilancino la rappresentanza popolare delle camere basse con concessioni a élite costituite e ai poteri regionali. I movimenti sociali e la politica dei gruppi d'interesse, inoltre, spesso creano legami semi-formali fra le collettività e i governi; le associazioni di agricoltori, per esempio, negoziano abitualmente con il ministro dell'Agricoltura, così come quelle sindacali trattano con quello del Lavoro. È evidente, dunque, che un certo grado di rappresentanza collettiva esiste, malgrado la netta inclinazione verso la cittadinanza individuale.

L'Europa e le sue colonie adottarono il modello di democrazia costituzionale individualistica basata su un'elevata capacità di governo. (Per comodità, seguiamo Guillermo O'Donnel [1999] nel definire con il termine "Occidente" sia i regimi democratici europei sia i loro omologhi d'America e Oceania.) Una volta attuato, questo modello prevalse in tutto il mondo. Molti ritengono che ciò sia accaduto perché, almeno in linea di principio, in tutte le altre versioni di democrazia si annidavano difetti e debolezze fatali. Poiché il mondo ha condotto l'esperimento una sola volta, è arduo isolare le prove di tale superiorità dagli effetti del dominio economico e politico dell'Occidente durante le principali fasi storiche di democratizzazione. Nel concreto dispiegarsi degli avvenimenti storici, inoltre, l'attribuzione di una patente di democrazia da parte dell'Occidente a qualsiasi regime ha di regola offerto consistenti vantaggi ai detentori del potere in quest'ultimo. E tale riconoscimento giungeva più facilmente se il regime in questione adottava le forme e le pratiche organizzative tipiche della democrazia occidentale.

A dire il vero, le potenze occidentali non si sono limitate a fornire dei prestigiosi modelli di democratizzazione: spesso li hanno anche imposti. Laurence Whitehead sottolinea che quando la Gran Bretagna concesse l'indipendenza alle colonie caraibiche, rese la decolonizzazione meno indigesta al proprio elettorato premendo affinché i nuovi regimi adottassero il modello politico di Westminster; così, dopo il 1945, in rapida sequenza Trinidad, Barbados, Santa Lucia, Dominica e Antigua introdussero costituzioni sul modello britannico (Whitehead 2001, p. 10). Analogamente, gli Stati Uniti spinsero i loro clienti latinoamericani — Repubblica Dominicana, Grenada, Panama, Nicaragua, El Salvador e Guatemala – a organizzare la propria politica pubblica alla maniera statunitense, distinguendosi in questo modo dalla pericolosamente socialista Cuba (Whitehead 2001, p. 8). In altre parole, questi regimi non scelsero liberamente le forme di governo democratico per loro più attraenti, ma dovettero rispondere a forti pressioni internazionali.

L'enorme influenza dei modelli democratici occidentali solleva due importanti interrogativi ai fini della nostra indagine. Primo: fino a che punto e in che modo i ritardatari sulla strada della democratizzazione potrebbero semplicemente mutuare da altri le forme organizzative e introdurle a scatola chiusa senza incorrere in quei dolorosi e diffusi conflitti che abbiamo osservato nel corso della democratizzazione europea? Se una simile trasposizione potesse aver luogo senza alcun trauma conflittuale, l'eventualità solleverebbe dei dubbi circa quel nesso causale tra conflitto e democratizzazione che ha costituito il nocciolo della nostra discussione nei precedenti capitoli. La circostanza ci indurrebbe quanto meno a chiederci perché gli europei abbiano incontrato tali difficoltà a compiere ciò che i loro successori hanno ottenuto tanto facilmente. Secondo: anche altrove le alterazioni nella disuguaglianza fra categorie, nelle reti fiduciarie e nella politica pubblica nascono e interagiscono come è accaduto in Europa? In caso di risposta negativa, se ne potrebbe dedurre che forse le condizioni necessarie che io ho specificato non sono poi così necessarie. Può anche essere che l'Europa nel suo complesso costituisca un caso speciale: il tormentato inventore destinato a vedere altri trarre profitto dalla sua invenzione, senza dover sopportare il travaglio che l'ha originata.

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