Copertina
Autore Alessandro Timpano
Titolo Partenoir
EdizioneTullio Pironti, Napoli, 2006 , pag. 160, cop.fle., dim. 140x210x11 mm , Isbn 978-88-7937-352-4
LettoreElisabetta Cavalli, 2006
Classe gialli , noir
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Pagina 9

L'ultima corsa per Pasquale Aiello. Un ultimo breve tratto, quello che da piazza Municipio porta dritto alla stazione centrale, al capolinea, e poi a casa.

A quell'ora della notte, con le strade sgombre e quasi nessuno alle fermate, è un tragitto che si percorre velocemente e anche il pesante R2 a due carrozze con snodo centrale guidato da Aiello teneva l'andatura da corsa di ogni autobus notturno napoletano che si rispetti.

C'era un solo passeggero, seduto all'inizio della vettura di coda, ben accucciato nel suo cappotto e con gli occhi socchiusi.

A fine turno era sempre la stessa storia, tutti i pensieri della giornata, la voglia di stare con sua moglie, i progetti per la domenica, la fame lasciavano il posto al desiderio prepotente di sprofondare nel sonno.

Ancora un paio di chilometri e poi via.

All'ultima fermata era salito un altro passeggero.

Corso Umberto di notte fonda è un vialone dritto e deserto come una pista d'aeroporto, delimitato da rade file di alberi e da bui palazzotti dell'ultima metà dell'ottocento.

Solo di tanto in tanto, tra un vicolo e l'altro, tra una saracinesca e l'altra, si scorge una goffa e tozza puttana o un viado e qualche immigrato barbone che dorme su un giaciglio di scatoloni di cartone e vecchi plaid lerci.

Pasquale accese la sua radiolina, un po' per vincere il sonno e un po' per celebrare il termine del turno, come faceva ogni notte.

Si era sintonizzato su un'emittente locale che stava trasmettendo una di quelle idiote canzonette neomelodiche che i bulletti dei quartieri di Napoli mandano a tutto volume dalle loro autoradio rubate.

L'autista sperò che i suoi due passeggeri dovessero scendere al capolinea, risparmiandogli un'altra fermata. Invece il secondo arrivato si era già alzato e stava prenotando lo stop.

Era un uomo alto e ricurvo, che portava un cappello a falde basso sulla fronte e una sciarpa verde ben avvolta intorno al collo.

Si stava allontanando dalla porta in fondo e stava procedendo verso la porta centrale. L'altro passeggero, sempre ben stretto nel suo capottino color cammello, aveva la testa poggiata contro il finestrino.

Aiello lo sentì gemere debolmente poco prima di fermarsi. Un lieve gemito strozzato.

Solo all'apertura della porta guardò nello specchietto retrovisore e vide l'uomo in piedi chinato sul passeggero seduto. I volti di entrambi erano nascosti dal largo cappello del primo.

Dopo qualche istante, l'uomo cominciò a voltare la testa e pian piano il suo cappello lasciò intravedere il volto dell'uomo seduto, poi il volto di entrambi.

Lo sguardo dell'uomo seduto era rivolto verso l'esterno e verso l'alto, talmente verso l'alto che le pupille erano quasi scomparse dietro le palpebre spalancate.

La bocca era aperta in una smorfia innaturale e la lingua poggiata sul labbro inferiore.

Il volto del secondo uomo era pallido e scarno, dai tratti spigolosi. Gli occhi molto ravvicinati erano socchiusi come se si stesse concentrando mentre voltava lentamente il capo e i denti grandi e giallastri strappavano un grosso pezzo dal collo dell'altro.

Aiello vide il suo muso insozzato di sangue solo per un breve istante, prima che balzasse fuori dall'autobus per infilare un vicolo in direzione del porto.

Successivamente, l'autista avrebbe ricordato quei momenti come lunghissimi, ma in realtà la sua reazione fu immediata ed incontrollata. Partì a razzo, facendo sbandare più volte il pesante veicolo e lasciando strisce nere di gomma sui cordoli laterali che delimitano la corsia preferenziale. Arrivò allo stazionamento in un istante, con la gola attanagliata da conati di vomito.

Il gruppo di colleghi verso cui correva lo accolse con un divertito: «Pascalì, ch'è stato?» al quale non seppe rispondere che con una serie di balbettii.

All'interno dell'autobus il corpo dell'uomo era finito per terra e dalla sua giugulare sprizzava ancora un fioco zampillo di sangue. Durante la corsa una delle sue caviglie era finita trasversalmente alla porta centrale che, incontrando l'ostacolo, continuava a chiudersi e ad aprirsi.

Indossava calzini verdi.

Intanto, la radiolina trasmetteva le ultime note dell'idiota canzone neomelodica.

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Pagina 28

«Allora, ragazzi. Dobbiamo fare piano e aprire un buco non più grande di un metro. Non ci vorrà molto» disse Filippo.

«Chi comincia?» chiese Antonio.

«Vado io» rispose Alfredo.

Si alternarono Alfredo, Ciro e Antonio, mentre gli altri allontanavano il materiale di risulta. Antonio era il più impaziente di tutti.

«Anto', dai la picconata piano e poi tira giù, un poco alla volta» disse Filippo interrompendo per un attimo il suo lavoro.

Antonio continuò a picchiare nella stessa maniera.

«No, non così, piano. Bisogna fare piano» continuò Filippo.

Antonio si fermò per un istante, voltando lo sguardo da un lato. Poi ricominciò a picconare più forte di prima.

«Non è così che dobbiamo lavorare. Ma non mi senti?»

«Ahé! M'è rutt' o' cazz', strunz'». La reazione di Antonio fu improvvisa. La manata sul mento fece cadere Filippo a schiena a terra nella melma. Il suo primo istinto fu quello di raccogliere gli occhiali. Altrettanto immediato fu l'intervento di Alfredo: «Ohé, calma! Dobbiamo stare calmi, se no va tutto a puttane. Totò, vedi di stare tranquillo».

«Dai a me. Continuo io a scavare» intervenne Mario. Antonio si allontanò di qualche metro, guardando Filippo con aria di sfida. Filippo stava cercando di togliersi di dosso un po' di fanghiglia maleodorante. Aveva conosciuto Antonio da poco, ai primi incontri preparatori, e non gli era piaciuto dal principio. "Deve essersene accorto" pensò, "è uno su cui fare poco affidamento. Faremo bene a starci attenti".

«Stacci attento» gli sussurrò Alfredo, confermando i suoi pensieri. Era stato lui a introdurre Antonio nel gruppo. Lo conosceva da diversi anni ed era uno dei pochi che riuscivano a tenerlo a bada. Avevano abitato nello stesso quartiere dell'infanzia, prima che Antonio si trasferisse nel suo domicilio forzato. Avevano giocato insieme tantissime volte tra i vicoli della Sanità, dove Antonio aveva cominciato a commettere i primi furtarelli, poi gli scippi e le rapine al centro. Alfredo aveva varie volte tentato di aiutarlo, ma ora sperava di non aver commesso un errore a portarlo laggiù. Erano necessarie calma e disciplina. Era certo che la prospettiva di mettere le mani su tutti quei soldi lo avrebbe messo in riga, ma bisognava sorvegliarlo; non poteva averne piena fiducia.

«Sono arrivato da qualche parte!» sbottò improvvisamente Mario. Si avvicinarono tutti allo scavo nel muro. Il fondo del buco dava nel vuoto.

«Ci siamo» disse Filippo, «bisogna ingrandirlo».

Fu fatto in un quarto d'ora. Ora il foro era abbastanza ampio per lasciar passare una persona e anche per la carriola, che era l'oggetto più ingombrante. Mario fu il primo a poggiare le ginocchia sui mattoni e a infilare la testa nel buco.

Stava voltandosi per prendere la torcia quando si sentì sfiorare la mano.

«Cazzo» disse, ritirandola di scatto.

«Che c'è?» chiesero gli altri.

«Non lo so, c'è qualcosa».

Illuminò la cavità con la sua torcia. Oltre il muro, una cinquantina di centimetri più in là, c'era della roccia che avanzava per un paio di metri prima di sprofondare in un baratro. Almeno Mario intuì che si trattasse di roccia, perché ciò che vide fu una massa informe e pelosa, che mutava continuamente forma. Sgusciò fuori dal buco tanto velocemente che battè la testa e si scorticò le ginocchia.

«Porca puttana! È pieno di topi qui!»

Erano a migliaia. Si muovevano velocemente, scavalcandosi l'un l'altro impazziti per l'improvvisa presenza di luce. Qualcuno stava saltando fuori dal buco per poi inoltrarsi nell'oscurità del tunnel, schiacciato contro la parete e basso al suolo.

«Prendi una fiamma!» gridò Alfredo a Mario, mentre ne impugnava un'altra. Puntarono le fiamme ossidriche verso il buco, ricacciando i topi all'interno. Alfredo dovette attendere che i mattoni roventi si raffreddassero prima di infilarsi dentro. Sbucato dall'altra parte cominciò ad aprirsi un varco nella distesa di ratti. Dopo poco lo raggiunse anche Mario.

Erano in piedi sulla roccia e, leggermente ricurvi, schiena contro schiena, continuavano ad arrostire più topi possibile, mentre centinaia di altri gli sgusciavano tra le gambe. La massa finora silenziosa emetteva un suono acuto e disperato, che copriva lo sfrigolio dei corpi che si trovavano sotto il getto spaventosamente caldo della fiamma ossidrica. La piattaforma rocciosa su cui Alfredo e Mario si trovavano era larga un paio di metri e lunga cinque. Ci volle mezz'ora per sgombrarla dalla sgradevole presenza.

Molti dei topi si erano infilati negli anfratti nei muri ai lati. La maggior parte era ammassata contro le pareti, lontano dalle fiamme. Mario ed Alfredo dovettero uscire. La puzza di pelo e carne bruciata era diventata insopportabile nonostante la mascherina. Entrarono subito Antonio e Ciro, per evitare che la massa di bestie occupasse di nuovo la superficie. Con l'aiuto delle pale sgombrarono la parte centrale del basamento di tufo dai corpi fumanti, spingendoli contro i ratti ammassati ai lati. Non molto dopo, alcuni di loro, acquisita sicurezza, cominciarono a banchettare con i loro simili cotti a puntino.

Il salto che si trovava davanti ai cinque uomini era profondo. Puntando con le torce non si riusciva a vederne il fondo. Filippo lo misurò con il filo di nylon.

«All'incirca venti metri» disse, «Sul fondo c'è dell'acqua».

«Scendiamo?» chiese Mario impaziente.

«Qui non possiamo rimanere» rispose Alfredo guardando il cumulo di topi ai loro lati.

«Vado per primo» si propose Filippo. Voleva scendere per primo non per mostrarsi coraggioso, ma perché voleva controllare il percorso e la situazione del fondo. Non era un tipo che riponeva scarsa fiducia nel prossimo, semplicemente si fidava di se stesso più di chiunque altro. Fissarono per diversi centimetri nel tufo due punteruoli sfalsati con un anello all'estremità attraverso cui fu fatta passare una robusta corda legata a un terzo punteruolo più dietro. Poi fecero dei nodi lungo la fune, a una distanza di un metro e mezzo circa l'uno dall'altro, in modo da facilitare la discesa e la risalita al ritorno.

Filippo cominciò a scendere lungo la parete di umido tufo. Dovendo usare tutte e due le mani aveva fissato la torcia alla cintura rivolta verso il basso, in modo da illuminare il suolo. Gli altri, da sopra, lo accompagnavano con i fasci delle loro torce.

Sceso a quindici metri cominciò a intravedere il fondo, mentre luci fioche erano l'unica cosa che riusciva a vedere in alto. Immerse gli stivali in venti centimetri di acqua limpida e immobile. Qua e là galleggiavano i corpi dei ratti precipitati dall'alto, alcuni dei quali si dibattevano ancora debolmente.

Si inoltrò per alcuni metri verso sinistra. Il luogo in cui si trovava era strano e suggestivo. Due pareti di roccia gialla che salivano verso l'alto nell'oscurità, verso un tetto che non era possibile vedere, poco distanti l'una dall'altra, ai piedi delle quali stagnava una via d'acqua come un lento ruscello in fondo a un canyon. Da entrambi i lati non si vedeva altro. Filippo camminò per una cinquantina di metri prima di decidersi a tornare indietro. Quando rivide i bagliori delle torce in alto urlò: «Va bene, venite giù piano».

Ci volle del tempo a calare giù tutta l'attrezzatura e poi a scendere. L'ultimo fu Ciro, che ebbe qualche problema alla partenza. Una volta messosi in posizione di discesa cominciò a calarsi con una certa sicurezza, poggiando i piedi contro il tufo piuttosto che sui nodi della corda. Quando Filippo cominciò a intravederlo, più o meno a metà strada, non fece in tempo a dirgli di non fidarsi di quella roccia umidiccia. La sporgenza a cui Ciro aveva affidato l'ultimo appoggio si ruppe, cadendo a un passo da Antonio.

Ciro rimase aggrappato alla corda con le mani scorticate e tutto quello che riuscì a dire fu: «Mannaccia a' Maronna...» con la voce strozzata dall'incomoda posizione e dallo spavento che lo aveva colpito come un diretto alla bocca dello stomaco. Per scendere i restanti otto metri impiegò diversi minuti.

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Pagina 62

Come al solito, dopo ogni circo, il popolo di Generoso era totalmente stravolto. Filippo e Ciro si erano lasciati tutti alle spalle e stavano percorrendo il lungo tunnel, che si era ridotto in altezza di una cinquantina di centimetri. Si sentivano stanchi e deboli, ma avrebbero dato metà del loro sangue in cambio di un po' di luce solare. Sentivano l'oscurità penetrargli attraverso la pelle. Da cento metri prima, ai due lati non si aprivano più celle. Poco più avanti la strada terminava con una curva e si frammentava in quattro stretti passaggi, ognuno non più largo di un metro e mezzo. Il primo sulla destra si ripiegava di novanta gradi e sembrava prendere una direzione parallela alla galleria principale, da cui distava una quindicina di metri. I due uomini lo scelsero per via della leggera pendenza verso l'alto. All'inizio del tunnel, intanto, Carminiello Fido, al secolo Carmine Chiariello, stava preparando la sua battuta di caccia. Era sudato e sudicio, come sempre. Si diceva che fosse solito dormire insieme ai suoi cani e in effetti ne portava indosso l'odore, che si poteva avvertire nel raggio di un paio di metri quando passava, strascicando lentamente le sue enormi caviglie afflitte da una tremenda flebite. Ma, nonostante le apparenze, Carminiello Fido era considerato il re degli addestratori di pit-bull nell'area vesuviana ed era richiestissimo da tutti gli allevatori e organizzatori di combattimenti clandestini tra cani dell'hinterland. I suoi metodi di addestramento avevano fatto scuola, ma erano talmente drastici che pochi ne facevano uso. Per rafforzare il morso dei cani era solito fargli addentare un pezzo di cuoio e poi lasciarli sospesi su una fornace. La fine atroce dei cani che non resistevano almeno un minuto non veniva considerata una perdita, ma un rapido criterio di selezione. Grazie a svariate torture, poi, riusciva a inculcare nelle povere bestie l'associazione cane in piedi o in movimento uguale dolore, cane immobile a terra uguale ricompensa. La malavita organizzata che gestisce le scommesse clandestine gli assicurava buoni guadagni, grazie ai quali Carminiello mandava avanti un grande canile palestra. Ma non era per soldi che lo faceva. La sua era un'autentica passione. Per Generoso aveva addestrato un gruppo speciale, per il quale aveva dovuto cominciare tutto da capo. Al nuovo tipo di addestramento Generoso aveva collaborato fornendo tre o quattro volte gli sparring partner adeguati. Utilizzare manichini imbottiti di carne di manzo non era sufficiente. Era necessario che i cani imparassero ad avere a che fare con uomini in fuga. I cani di Carminiello erano macchine. Nei piccoli occhi chiari si poteva scorgerne l'alienazione. Le zampe tozze erano incredibilmente muscolose e le mascelle potevano esercitare una pressione impressionante, dotandoli di un micidiale morso di tigre. Qualche volta Generoso aveva voluto utilizzarli per il suo circo, ma non era stato facile gestirli, tanto che qualche spettatore ci aveva rimesso le dita di un piede, nonostante le catene che ne delimitavano il raggio d'azione. Carminiello li portò oltre la camera del circo, dopodiché li liberò uno per uno, con l'atteggiamento solenne di un antico falconiere. La cinghia di cuoio che le aveva trattenute non aveva ancora toccato terra quando le bestia già correvano, con la bassa fronte e il collo rigido protesi in avanti a seguire la pista olfattiva. Ciro e Filippo camminavano tranquillamente. Il silenzio era totale. Il percorso si snodava regolarmente e manteneva una lieve pendenza. Filippo stimò che da quando lo avevano imboccato erano risaliti di almeno cinque o sei metri. Quando udirono i primi rumori alle loro spalle si fermarono per alcuni preziosi istanti, trattenendo il fiato, nel tentativo di decifrarli. Non riuscirono a capirne l'origine, ma si resero conto benissimo che qualunque cosa fosse si stava avvicinando rapidamente. Cominciarono a camminare sempre più spediti, puntando le torce alle loro spalle, poi a correre. Quando i suoni divennero più chiaramente udibili, le loro torce cominciarono a illuminare qualcosa. Dal movimento e dalla distanza relativa capirono che quelle coppie di tondini debolmente luminosi dovevano essere occhi e Ciro ripensò con terrore ai varani. D'improvviso tutte le lampade lungo la volta del tunnel si accesero, accecando per diversi secondi i due uomini che però non smisero di correre. Quando i loro occhi si furono abituati all'improvvisa luce videro che il branco, silenzioso, rapido e determinato, era a non più di trenta metri da loro. Sentivano il rumore, ora distinguibile, dei cani ansimanti proprio dietro di loro, amplificato dalle pareti della galleria. Gli sembrava di sentire l'umido e il calore di quei respiri affannosi sul collo e sulle gambe. Il tunnel si stava allargando. Adesso era di circa tre metri e questo permise a Ciro e a Filippo di accelerare la loro fuga, ma la stazza di Ciro lo rendeva più lento e le sue gambe andavano saturandosi di acido lattico e diventavano sempre più rigide. I cani lo avvertirono e, come leoni a caccia che scelgono gli individui più vulnerabili del branco di bufali, puntarono decisi su di lui.

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