Copertina
Autore Alexis de Tocqueville
Titolo La democrazia in America
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2007 [1968], Classici del pensiero , pag. 886, cop.fle., dim. 12x19x4,5 cm , Isbn 978-88-02-07714-7
OriginaleDémocratie en Amérique [1835]
CuratoreNicola Matteucci
LettoreRiccardo Terzi, 2007
Classe classici francesi , politica , paesi: USA
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Indice


  9 Avvertenza alla dodicesima edizione

    LIBRO PRIMO
 15 Introduzione

    PARTE PRIMA - LE ISTITUZIONI DEGLI STATI UNITI

    [...]

    PARTE SECONDA - IL FUNZIONAMENTO DELLE ISTITUZIONI:
    LA VITA POLITICA

    [...]


    LIBRO SECONDO
487 Avvertenza

    PARTE PRIMA - INFLUSSO DELLA DEMOCRAZIA SUL MOVIMENTO
    INTELLETTUALE NEGLI STATI UNITI

    [...]

    PARTE SECONDA - INFLUSSO DELLA DEMOCRAZIA
    SUI SENTIMENTI DEGLI AMERICANI

    [...]

    PARTE TERZA - INFLUSSO DELLA DEMOCRAZIA SUI COSTUMI
    PROPRIAMENTE DETTI

    [...]

    PARTE QUARTA - INFLUSSO ESERCITATO DALLE IDEE E DAI
    SENTIMENTI DEMOCRATICI SULLA SOCIETÀ POLITICA

    [...]


    NOTE

    LIBRO PRIMO
831 Parte prima
855 Parte seconda

860 LIBRO SECONDO

871 Indice dei nomi


 

 

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Pagina 15

INTRODUZIONE



Tra le novità che attirarono la mia attenzione durante la mia permanenza negli Stati Uniti, nessuna mi ha maggiormente colpito dell'uguaglianza delle condizioni. Senza fatica constatai la prodigiosa influenza che essa esercita sull'andamento della società: essa dà allo spirito pubblico una determinata direzione, alle leggi un determinato indirizzo, ai governanti dei nuovi princìpi, ai governati abitudini particolari.

Subito mi accorsi che questo fatto estende la sua influenza assai oltre la vita politica e le leggi, e che domina non meno la società civile che il governo: infatti crea opinioni, fa sorgere sentimenti, suggerisce usanze e modifica tutto ciò che non crea direttamente.

Pertanto, più studiavo la società americana, più vedevo nell'uguaglianza delle condizioni la forza generatrice da cui pareva derivare ogni fatto particolare; e me la ritrovavo continuamente davanti come un punto centrale, in cui convergevano tutte le mie osservazioni.

Ripensai allora al nostro emisfero, e mi parve di scorgervi qualche analogia con lo spettacolo che mi offriva il Nuovo Mondo. Constatai che anche qui l'uguaglianza delle condizioni, pur senza aver raggiunto come negli Stati Uniti i suoi estremi limiti, vi si avvicinava tuttavia ogni giorno di più; mi sembrò inoltre che questa stessa democrazia che regna sulle società americane, anche in Europa avanzasse rapidamente verso il potere.

Fin da quel momento cominciai a pensare al libro che ora leggerete.

Una grande rivoluzione democratica si sta infatti attuando tra noi: tutti la vedono, ma non tutti la giudicano nello stesso modo. Alcuni infatti, considerandola una novità puramente accidentale, sperano di riuscire ancora a fermarla; mentre altri pensano che niente e nessuno possa più resisterle, perché la considerano il fenomeno storico più continuo, più antico, più duraturo che si conosca.

Risalgo un attimo a considerare le condizioni della Francia, quali erano settecento anni fa: la trovo divisa tra un ristretto numero di famiglie che possiedono la terra e governano gli abitanti; il diritto di comandare viene trasmesso, in questo periodo, di generazione in generazione insieme al patrimonio ereditario; gli uomini hanno un solo mezzo per prevalere gli uni sugli altri, la forza; non c'è che un'unica fonte di potere, la proprietà fondiaria.

Ma ecco che il potere politico del clero si afferma e rapidamente si estende. Il clero apre le sue file a tutti, al povero come al ricco, al plebeo come al nobile; attraverso la Chiesa l'uguaglianza comincia a penetrare in seno al governo e colui che, nella sua condizione di servo, avrebbe vegetato in un'eterna schiavitù, ora, come prete, ha il suo posto tra i nobili e spesso si asside anche al di sopra dei Re.

Con l'andare del tempo la società diventa sempre più stabile e più civile, di conseguenza più complessi e più vari si fanno anche i diversi rapporti tra gli uomini. Il bisogno di leggi civili si fa sentire fortemente: appaiono allora i legisti, che escono dall'aula oscura dei tribunali e dal ridotto polveroso delle cancellerie per andare a prendere posto nella corte del principe, accanto ai baroni feudali coperti di ermellino e di ferro.

I Re vanno in rovina per portare a termine grandi imprese; i nobili s'indeboliscono nelle guerre private; i plebei invece si arricchiscono con il commercio. L'influenza del denaro comincia a farsi sentire anche sugli affari di Stato. Il commercio è ormai una nuova fonte di potenza e i finanzieri divengono un potere politico disprezzato, ma adulato.

Poco per volta, diffondendosi il sapere, si nota un risveglio dell'amore per la letteratura e per le arti; la cultura diviene ora un elemento di successo, la scienza un mezzo per governare, l'intelligenza una forza sociale: gli uomini di lettere arrivano al maneggio degli affari politici.

Frattanto, insieme all'aprirsi di nuove vie attraverso le quali giungere al potere, si può notare un regresso dell'importanza che prima veniva attribuita alla nascita. Nell'XI secolo infatti la nobiltà aveva un valore incalcolabile, nel XIII la si può già comprare; la prima concessione di nobiltà risale al 1270, e così l'uguaglianza viene a introdursi nel governo per mezzo dell'aristocrazia stessa.

Durante questi ultimi settecento anni accadde talvolta che i nobili diedero un potere politico al popolo, per farsene un alleato contro l'autorità del sovrano o nelle lotte per togliere il potere ai loro rivali.

Ancora più spesso sono stati gli stessi Re ad innalzare al governo le classi sociali inferiori per umiliare l'aristocrazia.

In Francia i Re si sono dimostrati i livellatori più attivi e più costanti: quand'erano ambiziosi ed energici, si adoprarono per portare il popolo allo stesso livello dei nobili; quand'erano moderati e deboli, permisero addirittura che il popolo si ponesse al di sopra di loro stessi. I primi sono stati d'aiuto alla democrazia con le loro capacità, i secondi con i loro vizi. Luigi XI e Luigi XIV cercarono di rendere tutti uguali al disotto del trono, Luigi XV ha finito per scendere lui stesso nella polvere con tutta la sua corte.

Da quando i cittadini cominciarono a possedere la terra in modo diverso dalla «tenure» feudale e da quando la ricchezza mobiliare, ormai conosciuta, poté a sua volta creare l'influenza politica e dare il potere, non ci furono scoperte nelle arti, né vennero apportati perfezionamenti in campo commerciale e industriale, che non divenissero altrettanti elementi di uguaglianza tra gli uomini. A partire da questo momento tutti i metodi che si scoprono, i bisogni che sorgono, i desideri che richiedono di essere soddisfatti, sono altrettanti progressi verso il livellamento universale. Il gusto del lusso, l'amore per la guerra, l'impero della moda, tutte le passioni del cuore umano, dalle più superficiali alle più profonde, sembrano lavorare di comune accordo per impoverire i ricchi e arricchire i poveri.

Da quando le attività intellettuali divennero fonte di potenza e di ricchezza, si guardò a ogni sviluppo della scienza, a ogni nuova scoperta, a ogni nuova idea come a uno strumento di potere messo alla portata del popolo. La poesia, l'eloquenza, la memoria, le doti spirituali, il fuoco dell'immaginazione, la profondità del pensiero, tutti questi doni distribuiti a caso dal Cielo, giovarono alla democrazia; e, anche quando si trovarono in possesso dei suoi avversari, servirono ancora la sua causa, ponendo in rilievo la grandezza naturale dell'uomo. Le conquiste della democrazia si estesero, dunque, parallelamente a quelle della civiltà e del sapere, e la letteratura divenne un arsenale aperto a tutti, in cui i deboli e i poveri si recarono ogni giorno a cercare delle armi.

Se si scorrono le pagine della nostra storia, si può dire che non s'incontra un solo avvenimento di particolare importanza che in questi ultimi settecento anni non si sia risolto in favore dell'uguaglianza sociale.

Le crociate e le guerre con gli Inglesi decimano i nobili e dividono le loro terre; il costituirsi dei comuni introduce la libertà democratica in seno alla monarchia feudale; l'invenzione delle armi da fuoco rende uguali il plebeo e il nobile sul campo di battaglia; la stampa offre le medesime risorse alla loro intelligenza; la posta porta le notizie alla soglia della capanna del povero come alla porta dei palazzi; il protestantesimo sostiene che tutti gli uomini sono ugualmente in grado di trovare la via del Cielo. La scoperta dell'America apre mille strade nuove alla fortuna e offre ricchezza e potere all'oscuro avventuriero.

Se, partendo dall'XI secolo, esaminate gli avvenimenti che si svolgono in Francia di cinquanta in cinquant'anni, dovrete constatare che, alla fine di ognuno di questi periodi, si è operata una duplice rivoluzione nelle condizioni sociali. Il nobile sarà indietreggiato nella scala sociale, il plebeo vi sarà avanzato; l'uno scende, l'altro sale. Ogni mezzo secolo li avvicina e ben presto si troveranno fianco a fianco.

Questa non è una caratteristica della sola Francia. Infatti, da qualsiasi parte si guardi, si vede sempre la stessa rivoluzione che continua in tutto il mondo cristiano.

Dappertutto si è visto come i diversi avvenimenti della vita dei popoli contribuiscano alla fortuna della democrazia. Tutti gli uomini l'hanno aiutata con i loro sforzi, quelli che si proponevano di contribuire al suo successo, e quelli che non pensavano affatto a servirla, quelli che per essa hanno combattuto, e quelli che si sono dichiarati suoi nemici: tutti sono stati spinti alla rinfusa sulla stessa via e hanno lavorato insieme, gli uni loro malgrado, gli altri a propria insaputa, ciechi strumenti nelle mani di Dio.

Il graduale sviluppo dell'uguaglianza delle condizioni è pertanto un fatto provvidenziale; e ne ha i caratteri essenziali: è universale, duraturo, si sottrae ogni giorno alla potenza dell'uomo; tutti gli avvenimenti, come anche tutti gli uomini, ne favoriscono lo sviluppo.

Sarebbe quindi saggio credere che un movimento sociale, che ha così lontane origini, potrà essere arrestato dagli sforzi di una generazione? C'è forse qualcuno che può pensare che la democrazia, dopo aver distrutto il feudalesimo e aver vinto i Re, indietreggerà poi davanti ai borghesi e ai ricchi? È possibile che si arresti proprio ora che è divenuta tanto forte e i suoi avversari tanto deboli?

Dove ci stiamo dunque dirigendo? Nessuno saprebbe rispondere, perché ci mancano ormai i termini di confronto: le condizioni sono più uguali oggi tra i cristiani di quanto lo siano mai state in altre epoche o presso altre nazioni del mondo; così la grandiosità di ciò che è già stato fatto impedisce di prevedere che cosa si potrà ancora fare.

Tutto il mio libro, appunto, è stato scritto sotto l'impressione di una specie di terrore religioso, sorto nella mia anima alla vista di questa rivoluzione irresistibile, che progredisce da tanti secoli, sormontando qualsiasi ostacolo, e che ancor oggi avanza in mezzo alle rovine che essa stessa ha prodotte.

Non è necessario che sia Dio in persona a parlare, per scoprire i segni sicuri del suo volere; basta esaminare il cammino abituale della natura e la tendenza costante degli avvenimenti. So, senza bisogno che me lo dica il Creatore, che gli astri seguono nello spazio le orbite che il suo dito ha tracciato.

Se lunghe osservazioni e meditazioni sincere portassero gli uomini del nostro tempo a riconoscere che lo sviluppo graduale e progressivo dell'uguaglianza rappresenta nello stesso tempo il passato e l'avvenire della loro storia, questa constatazione darebbe, da sola, a una tale evoluzione il carattere sacro della volontà del signore sovrano. Allora, voler arrestare il cammino della democrazia apparirebbe come lottare contro Dio stesso, e perciò alle nazioni non resterebbe che adattarsi alla condizione sociale loro imposta dalla Provvidenza.

Mi sembra che i popoli cristiani offrano ai nostri giorni uno spettacolo sconcertante; il movimento che li trascina è già troppo forte perché lo si possa fermare, e d'altra parte non è ancora abbastanza rapido, perché si debba perdere ogni speranza di poterlo dirigere: il destino di questi popoli è nelle loro mani, ma ad esse ben presto sfuggirà.

Educare la democrazia, rianimare, se è possibile, le sue fedi, purificare i suoi costumi, regolare i suoi movimenti, sostituire, poco per volta, la scienza degli affari all'inesperienza, la conoscenza dei suoi reali interessi ai suoi ciechi istinti; adattare il suo governo ai tempi e ai luoghi, modificarlo secondo le circostanze e gli uomini: questo è il principale dovere che oggi s'impone ai nostri governanti.

È necessaria una scienza politica nuova per un mondo ormai completamente rinnovato.

Ma proprio a questo còmpito noi non pensiamo affatto: posti in mezzo a un fiume vorticoso, ci ostiniamo a fissare qualche rottame che ancora si scorge sulla riva, mentre la corrente ci trascina e ci sospinge indietro verso gli abissi.

Non c'è un popolo in Europa presso il quale la grande rivoluzione sociale, che ho appena delineata, abbia compiuto progressi più rapidi che presso di noi; ma essa è sempre avanzata a caso.

Mai i capi di Stato si sono preoccupati di prepararle anticipatamente il terreno; essa si è compiuta loro malgrado o a loro insaputa. Le classi più potenti, più intelligenti e più morali della nazione non hanno mai cercato di impadronirsi della democrazia, onde poterla dirigere. Così essa è stata abbandonata ai suoi istinti selvaggi; è cresciuta come quei bambini che, rimasti privi delle cure paterne, crescono da soli nelle strade delle nostre città, e che della società non conoscono altro che i vizi e le miserie. Sembrava che nessuno si fosse ancora accorto della sua esistenza, quando si è impadronita improvvisamente del potere. Tutti allora si sono sottomessi servilmente ai suoi più piccoli desideri, adorandola come la personificazione della forza; ma quando, in séguito, i suoi stessi eccessi la indebolirono, i legislatori concepirono l'imprudente progetto di distruggerla, invece di tentare di educarla e di correggerla: non volendo insegnarle a governare, non pensarono che a respingerla dal governo.

Ne è derivato che la rivoluzione democratica si è effettuata nell'assetto materiale della società, senza che si verificasse nelle leggi, nelle idee, nelle abitudini e nei costumi quel cambiamento che sarebbe stato necessario per rendere questa rivoluzione utile e positiva. Così noi abbiamo la democrazia, senza avere ciò che dovrebbe attenuarne i difetti e farne risaltare i naturali pregi: mentre scorgiamo i mali che essa reca con sé, non ci rendiamo ancora conto dei beni che potrebbe apportarci.

Quando il potere regio, appoggiandosi sull'aristocrazia, governava in pace i popoli europei, la società, pur in mezzo alle proprie miserie, godeva di vantaggi di vario genere, che difficilmente si possono concepire e apprezzare ai giorni nostri.

La potenza di alcuni sudditi innalzava barriere insormontabili alla tirannide del principe; e i Re, sentendo di essere agli occhi della folla rivestiti d'un carattere quasi divino, trovavano, nel rispetto stesso che si creavano attorno, la ragione per non abusare affatto del proprio potere.

I nobili, posti ad un'enorme distanza dal popolo, dimostravano tuttavia nei suoi confronti quel particolare interesse benevolo e tranquillo, che il pastore ha per il suo gregge, e, pur senza vedere nel povero un proprio pari, vegliavano sulla sua sorte come su un deposito ad essi affidato dalla Provvidenza.

Il popolo, non avendo ancora concepito l'idea di un assetto sociale diverso dal suo, né immaginando di poter mai uguagliare i propri capi, accoglieva i loro benefici e non contestava affatto i loro diritti. Li amava, quand'erano clementi e giusti, e si sottometteva senza fatica e senza bassezza ai loro rigori, come a dei mali inevitabili inviati da Dio. Gli usi e i costumi avevano d'altra parte posto dei limiti alla tirannide e fondato una specie di diritto in mezzo alla stessa forza.

Il nobile non pensava che gli si volessero togliere dei privilegi che riteneva legittimi; il servo accettava la propria inferiorità come un effetto dell'ordine immutabile della natura: si comprende come si sia potuta stabilire una reciproca benevolenza tra queste due classi tanto nettamente separate dalla sorte. A quel tempo si potevano trovare nella società ingiustizia e miseria, ma non degradazione spirituale.

Non è infatti l'uso del potere o l'abitudine all'obbedienza che deprava gli uomini, ma l'uso di un potere illegittimo e l'obbedienza a un potere che si ritiene usurpatore ed oppressore.

Da un lato c'erano le ricchezze, la forza, gli agi, e con essi la ricerca del lusso, le raffinatezze del gusto, i piaceri dello spirito, il culto delle arti; dall'altro il lavoro, la volgarità e l'ignoranza.

Eppure in mezzo a questa folla ignorante e grossolana si potevano trovare passioni forti, sentimenti generosi, fedi profonde e virtù primitive.

Il corpo sociale così organizzato avrebbe potuto avere stabilità, potenza e, soprattutto, gloria.

Ma ecco che i ranghi si confondono, che le barriere innalzate tra gli uomini si abbassano; si dividono le proprietà, si divide il potere, la civiltà si diffonde, le intelligenze si uguagliano; l'assetto sociale diviene democratico e l'impero della democrazia si stabilisce infine facilmente nelle istituzioni e nei costumi.

Io immagino, così, una società in cui tutti, considerando la legge come opera propria, l'amerebbero e vi si sottometterebbero senza fatica, e in cui, essendo l'autorità del governo rispettata non in quanto divina, ma perché necessaria, l'amore verso il capo dello Stato non sarebbe una passione, ma un sentimento ragionevole e tranquillo. Quando ciascuno avesse dei diritti e la sicurezza di poterli conservare, verrebbe a stabilirsi tra tutte le classi una fiducia sincera e una sorta di reciproca condiscendenza, lontana sia dall'orgoglio che dalla bassezza.

Il popolo, educato ai suoi veri interessi, capirebbe che, per trarre profitto dai vantaggi della società, bisogna sottomettersi alle sue esigenze. La libera associazione dei cittadini potrebbe allora sostituire la potenza individuale dei nobili, e lo Stato sarebbe al sicuro dalla tirannide e dalla licenza.

Capisco che in uno Stato democratico, così costituito, la società non rimarrà immobile, ma i necessari movimenti del corpo sociale potranno essere regolati e graduali; se vi si troverà meno splendore che in un sistema aristocratico, vi si troveranno però anche meno miserie; i godimenti saranno meno eccessivi, ma il benessere sarà più generale; le scienze eccelleranno meno, ma l'ignoranza sarà più rara; i sentimenti meno energici, ma le abitudini più dolci; ci saranno più vizi, ma meno delitti.

In mancanza dell'entusiasmo e dell'ardore della fede, l'educazione e l'esperienza faranno fare talvolta ai cittadini grandi sacrifici; ogni uomo, essendo ugualmente debole, sentirà un uguale bisogno dei suoi simili; e, sapendo di poter contare sul loro aiuto solo a condizione di prestar loro a sua volta appoggio, scoprirà senza fatica che per lui l'interesse particolare si confonde con quello generale.

La nazione, considerata nel suo insieme, avrà forse meno splendore, meno gloria, meno forza; ma la maggioranza dei cittadini godrà di un benessere maggiore, e il popolo si dimostrerà tranquillo, non perché disperi di poter star meglio, ma perché sa di star bene.

Se poi non tutto sarà buono e utile in un simile stato di cose, la società tuttavia potrà godere di ciò che di buono e di utile si potrà presentare, e gli uomini, abbandonando per sempre i vantaggi sociali che può dare l'aristocrazia, trarrebbero dalla democrazia tutto il bene che essa può loro offrire.

Invece noi, abbandonando l'ordine sociale dei nostri avi, eliminando alla rinfusa le loro istituzioni, le loro idee e i loro costumi, cosa vi abbiamo sostituito?

Il prestigio del potere regio è svanito, senza che fosse sostituito dalla maestà delle leggi; oggi il popolo disprezza l'autorità, ma la teme, e la paura ottiene da lui più di quanto ottenessero in passato il rispetto e l'amore.

Mi accorgo che abbiamo distrutta le forze individuali che potevano lottare separatamente contro la tirannide; ma vedo che solo il governo ha assorbito tutte le prerogative tolte alle famiglie, alle corporazioni, agli uomini: alla forza talvolta oppressiva, ma spesso conservatrice, di un ristretto numero di cittadini, è così seguita la debolezza di tutti.

La divisione delle fortune ha accorciato la distanza che separava il povero dal ricco, ma in questo avvicinamento essi sembrano aver trovato nuove ragioni per odiarsi. Temendosi e invidiandosi reciprocamente, si respingono a vicenda dal potere: per l'uno come per l'altro l'idea dei diritti non esiste affatto, e la forza appare ad entrambi come la sola ragione del presente e l'unica garanzia per l'avvenire.

Il povero ha conservato la maggior parte dei pregiudizi dei suoi avi e non la loro fede, la loro ignoranza e non le loro virtù; ha accettato, come regola delle sue azioni, la dottrina dell'interesse senza conoscerne la scienza, e il suo egoismo è sprovvisto di discernimento, quanto lo era un tempo la sua devozione.

La società è tranquilla, non perché abbia coscienza della propria forza e del proprio benessere, ma, al contrario, perché si sente debole e inferma; teme di morire facendo uno sforzo: tutti sentono il male, ma nessuno ha il coraggio e l'energia necessari per cercare il meglio. Si hanno desideri, rimpianti, dolori, gioie che non producono nulla di visibile o di duraturo, simili del tutto alle passioni senili che finiscono nell'impotenza.

Così abbiamo abbandonato quanto poteva esserci di buono nell'antica condizione, senza acquistare quello che di utile avrebbe potuto offrire la condizione attuale; abbiamo distrutto una società aristocratica e, arrestandoci compiaciuti in mezzo alle rovine dell'antico edificio, sembriamo volerci rimanere per sempre.

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