Copertina
Autore Alexis de Tocqueville
Titolo La rivoluzione democratica in Francia
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2007 [1969], Classici del pensiero , pag. 1072, cop.fle., dim. 12x19x5,5 cm , Isbn 978-88-02-07783-3
OriginaleL'Ancien Régime et la Révolution
EdizioneMichel-Lévy, Paris, 1856
CuratoreNicola Matteucci
LettoreRiccardo Terzi, 2008
Classe classici francesi , politica , paesi: Francia , regioni: Sicilia , viaggi
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Indice


  7 Introduzione
 67 Nota biografica
 79 Nota bibliografica
115 Nota storica

  I.  SCRITTI GIOVANILI
    - Frammenti del viaggio in Sicilia, 133
    - Fantasticherie sulla storia d'Inghilterra, 153
    - La rivoluzione di luglio, 180

 II.  SCRITTI E DISCORSI POLITICI
    - L'assetto sociale e politico della Francia prima e
      dopo il 1789, 191
    - Discorso sulla libertà religiosa, 228
    - Relazione sull'opera di Macarel intitolata:
      «Corso di diritto amministrativo», 234
    - Della classe media e del popolo, 247
    - Relazione sull'opera di A. É. Cherbuliez intitolata:
      «La democrazia in Svizzera», 251
    - Discorso sulla rivoluzione sociale, 269
    - Discorso sul diritto al lavoro, 281

III.  RICORDI
297   PARTE PRIMA
      [...]

349   PARTE SECONDA
      [...]

469   PARTE TERZA
      [...]

543   APPENDICI


 IV.  LA RIVOLUZIONE

      Parte prima - L'ANTICO REGIME E LA RIVOLUZIONE
595   Premessa
605   LIBRO PRIMO
      [...]

629   LIBRO SECONDO
      [...]

729   LIBRO TERZO
      [...]

797   APPENDICI E NOTE

      Parte seconda - FRAMMENTI E NOTE INEDITE SULLA RIVOLUZIONE

901   Libro primo - LA PRERIVOLUZIONE FRANCESE
      [...]

971   Libro secondo - LE IDEE DELL'OTTANTANOVE E GLI SVILUPPI
                      DELLA RIVOLUZIONE
      [...]

989   Libro terzo - LA CRISI DELLA REPUBBLICA
      [...]

989   Libro quarto - IL DISPOTISMO DEMOCRATICO

1043  Libro quinto - OSSERVAZIONI DI CARATTERE GENERALI
                     SULLA RIVOLUZIONE FRANCESE
      [...]

1061  Indice dei nomi


 

 

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Pagina 134

FRAMMENTI DEL VIAGGIO IN SICILIA



Il vascello, sul quale eravamo imbarcati, era un piccolo brigantino di 75 tonnellate [...]

Procedevamo lentamente, avendo davanti agli occhi il superbo spettacolo della baia di Napoli, mentre arrivavano al nostro udito gli ultimi rumori di vita che si alzavano da questa popolosa città; la riva di Ercolano ci passò davanti. Presto scorgemmo la collina che nasconde Pompei. Era già notte, quando ci trovammo vicino alle rocce di Capri. Il giorno dopo, svegliandoci, eravamo ancora in vista di quelle rocce scoscese e ci rimanemmo per tutta la giornata : sembrava che ci inseguissero come un rimorso.

Quest'isola somiglia al rifugio di un uccello da preda: è la vera dimora di un tiranno. È là che Tiberio attirava le sue vittime da ogni parte dell'Impero romano; ma è anche là — e questo ci consola — che, stremato dalle infermità di una vecchiaia indegna, deluso di tutto, anche del piacere che aveva creduto di poter trovare alla vista dei dolori degli uomini, e disgustato delle sue gioie mostruose, si lasciò infine sfuggire la verità dal fondo del suo animo crudele. È da Capri, infatti, che è datata quella lettera indirizzata al Senato, in cui diceva: «Perché scrivervi, Padri coscritti? Che cosa ho da dirvi? Che gli Dèi mi facciano perire più miseramente di quanto non lo fanno già, se lo so».

Verso sera, alla calma che ci aveva fatto sostare, successe un vento d'ovest, e incominciammo ad avere delle difficoltà. La mattina dopo le coste non erano più in vista. Lottammo tutta la giornata contro il vento contrario. Il mare gradatamente si ingrossava. Il sole era appena tramontato, ed io ero seduto nella cabina con la testa appoggiata alla mano e percorrevo con gli occhi la linea dell'orizzonte: una nuvola nera lo copriva di tanto in tanto. Vedevo distaccarsi, in lontananza, su questo colore scuro la schiuma delle onde. Prevedevo la tempesta, senza credere che fosse tanto vicina a noi. Tuttavia già incominciavamo a sprofondare nelle onde, e la loro schiuma pioveva da ogni parte sul ponte. Presto dei lampi solcarono il cielo mentre la tempesta veniva annunciata da un tuono sordo e lontano. Mi ricordo che, molte volte, ho contemplato con piacere durante la notte l'avvicinarsi di un temporale. Trovavo qualche cosa di sublime e di affascinante in quella calma che lo precede, in quella specie di raccoglimento e di attesa di tutta la creazione nel momento stesso della crisi che si prepara; ma chi non ha assistito a questo stesso spettacolo su un mare senza coste, ignora scena più terribile che possa offrire la natura.

Quando risuonarono i primi brontolii del tuono, per un momento sulla nave regnò la confusione. La voce del capitano si faceva sentire da poppa, e il grido monotono dei marinai annunciava un cambiamento di manovra. Il vento aumentava con una rapidità terribile, il tuono si avvicinava. Ogni lampo illuminava per un momento la distesa dell'acqua, poi ci ritrovavamo immersi nell'oscurità più completa. Le onde ribollivano intorno a noi con una forza di cui non avevo idea: si sarebbe detto che il mare fosse un'immensa caldaia in ebollizione. Ricorderò per tutta la vita l'impressione profonda che provai quando, in un momento di calma, sentii accanto a me un certo numero di voci ripetere in sordina le risposte di un salmo. Cercai da dove venissero queste voci, e vidi che si alzavano da sotto una vela, dove si erano rifugiati dieci o dodici poveri passeggeri. Qual è il filosofo tanto sicuro dei suoi sistemi, da non essere tentato di comportarsi come loro, alla vista di questa terribile manifestazione della onnipotenza divina?

Già l'uragano era quasi sulle nostre teste. Molte volte avevamo visto il tuono cadere in mare abbastanza vicino a noi; temevamo di affondare da un momento all'altro. Improvvisamente un'ondata ci colpisce di traverso e ci rovescia interamente sul fianco; l'acqua rovescia i banchi, penetra nelle cabine; grida terribili si alzano da ogni parte, e un cane, che si era rifugiato fra i barili, emise un ululato che fu l'accordo più lugubre che si possa immaginare. L'allarme fu intenso, ma non durò che un istante: la nave si rimise subito sulla chiglia. Una pioggia spaventosa tolse all'uragano una gran parte del suo pericolo; e, benché il mare fosse ancora molto agitato, ognuno credette di poter trovare il riposo in mezzo ai torrenti d'acqua dai quali eravamo inondati. La notte, sicuramente, sembrò lunga a tutti. Quanto a noi, quando, dopo due ore di un sonno interrotto ad ogni momento dalle violente scosse della nave e dall'infuriare del vento fra le sartie, ci svegliammo completamente, sentimmo che il mare era ben lontano dall'essere calmo. Tuttavia, siccome il sole si levava splendente, pensai che la cosa fosse superata e tutto felice misi la testa fuori della nostra cabina: i marinai, alcuni aggrappati alle corde, altri appoggiati agli alberi, sembravano assorti nella contemplazione di una sola cosa. Una inquietudine generale si dipingeva sui loro volti e l'immobilità del loro atteggiamento era più significativo dell'agitazione della notte. Guardai allora il cielo: ad ovest un vento impetuoso sembrava far volare sulle nostre teste un'enorme nuvola carica di pioggia, e vidi chiaramente che una nuova tempesta già si annunciava. Cercai allora di scoprire che cosa da lontano colpisse tanto la vista dell'equipaggio; finalmente, attraverso la nebbia, vidi alzarsi le forme vaghe di alte montagne che, correndo dal nord al mezzogiorno, ci sbarravano il cammino, mentre la tempesta, che incominciava, e il mare il cui furore aumentava di momento in momento, ci spingevano verso quella parte. Mi trascinai sul ponte, perché nessuna creatura vivente avrebbe potuto camminarvi un momento senza essere lanciata in mare, e, aggrapandomi ad ogni cosa, arrivai finalmente al timone: il capitano stesso lo teneva, e gli chiesi se credeva che ci fosse pericolo. Quest'uomo mi guardò con occhio truce e mi rispose: «Credo così» con voce rude, e si rifiutò di aggiungere una parola. Quando feci per tornare in cabina, un vecchio marinaio mi prese per la manica e mi disse, digrignando i denti: «È stata la vostra furia di partire che ci ha fatto lasciare il porto. Vedrete fra un istante che cosa ne deriverà per voi e per noi». La notte avevo visto questi stessi uomini pieni di coraggio e di speranza: saltavano allora da una corda all'altra e, posti fra l'acqua e il fuoco, gridavano passando: «È niente, signori, una burrasca». Ma questa volta, lo confesso, credetti che fossimo perduti senza scampo. Rientrai nella cabina; riferii a Édouard come stavano le cose, aggiungendo che occorreva prepararsi ad afferrare le più piccole opportunità di salvezza, per quanto non ne vedessi alcuna. In quel momento un marinaio venne a recitare una preghiera per le anime del purgatorio. Ricordammo, allora, la religione nella quale eravamo nati e alla quale erano stati indirizzati i nostri primi pensieri; recitammo una breve preghiera e poi ci sedemmo sulla porta della cabina. Incrociai le braccia sul petto e cominciai a rivivere con la mente i pochi anni che avevo già vissuto. Confesso francamente che, nel momento in cui mi credevo vicino a comparire davanti al Giudice supremo, lo scopo dell'esistenza umana mi sembrò del tutto diverso da quel che avevo creduto fino ad allora. Le imprese, che avevo considerato fino a quell'istante come le più importanti, mi sembrarono infinitamente piccole, mentre al contrario la grande immagine dell'eternità, alzandosi a vista d'occhio, faceva scomparire tutto il resto dietro di sé. Rimpiansi allora amaramente di non avere in mio potere una di quelle coscienze preparate a qualsiasi avvenimento; sentivo che questo aiuto sarebbe valso di più del coraggio umano contro un pericolo col quale non si poteva combattere e davanti al quale non si poteva andare. Ma il momento più duro fu quando cominciai a pensare alle persone che avrei lasciato in questo mondo. Quando mi figurai il momento in cui la voce pubblica avrebbe portato l'annuncio dell'accaduto sino alle loro orecchie, sentii venirmi le lacrime agli occhi e mi affrettai ad occuparmi di qualche altra cosa, per non perdere le forze di cui pensavo di essere sul punto di aver bisogno. La nuvola si sciolse su di noi con un grande impeto; mentre le onde diventavano di una grandezza enorme, vedemmo passare davanti a noi molte isole. Seppi allora che la tempesta ci aveva gettati durante la notte a quaranta leghe dalla nostra rotta, in mezzo all'arcipelago delle Lipari [...].


È facile credere che avevamo una terribile impazienza di lasciare questa miserabile casa di legno, in cui avevamo passato ore così tristi. Ma siccome in questo paese, in cui le misure di polizia contro i viaggiatori sono moltiplicate in confronto del poco che lo sono contro i ladri di ogni specie, sembra che si sia fatto uno studio per intralciare il più possibile la circolazione, ci dichiararono che bisognava restare sulla nave fino a mezzogiorno del giorno dopo, ora in cui i doganieri avrebbero avuto la compiacenza di venire a farci visita [...].


Il 12 marzo, compiuta la visita, approdiamo finalmente ad una piccola spiaggia vicina. Saltammo sull'erba gridando gaiamente: «Finalmente, Sicilia, ti abbiamo».

Ci mettemmo subito a percorrere la terra che era davanti a noi. Mai vista più deliziosa si offrì a della povera gente, che credeva di sentire ancora sotto i piedi il ponte tremante di una nave. Non si vedevano sulla spiaggia quelle lunghe strisce di sabbia arida, che rattristano lo sguardo sulle rive dell'Oceano e che sono del resto così bene intonate al cielo nebbioso delle sue coste. Qui l'onda arrivava a bagnare l'erba. A trenta passi dalla riva si vedevano delle aloe di una grandezza enorme, fichi d'India in lunghe file e arbusti in fiore. Avevamo lasciato l'inverno in Italia. Qui la primavera si presentava ai nostri occhi con tutti i suoi colori e tutti i suoi profumi. A due colpi di fucile c'era un villaggio in mezzo agli ulivi e ai fichi europei. Sulle colline verdi di fronte c'erano le rovine di un castello. Poi la vallata risaliva rapidamente in mezzo al verde e ai fiori e formava un triangolo abbastanza esteso verso mezzogiorno. È così che la Sicilia si offrì per la prima volta a noi sulla spiaggia di Olivieri [...].

Là incominciammo ad imparare che non è né la bellezza, né la ricchezza naturale di un paese che fa il benessere dei suoi abitanti. La prima cosa che ci colpì fu l'assenza assoluta di vetri. Nessuna eccezione.

Il 13 marzo, prima che si facesse giorno, ci mettemmo in cammino. La carovana era così formata: un soldato col fucile in mano, il pugnale attaccato alla cintura e un berretto di cotone sulla testa, apriva la marcia sopra un cavallo vigoroso.

Dopo di lui venivamo noi in fila: alcuni in sella, altri issati in modo abbastanza scomodo, su qualche parte dei bagagli. Tre giovani contadini a piedi nudi, col colorito abbronzato degli Arabi, correvano senza posa dalla testa alla coda della colonna, per affrettare il passo dei nostri muli, mandando ogni tanto quel grido selvaggio che non si conosce che in Sicilia e ripetendo ad ogni istante la loro esclamazione preferita: kasso [...].


La prima cosa che si vede avvicinandosi alla città è il monte Pellegrino, la cui massa quadrata e isolata protegge Palermo dai venti del nord-ovest e rende lo scirocco più terribile. Quindici anni fa il popolo credeva, a quanto si dice, che se Napoleone si fosse reso padrone della Sicilia, avrebbe fatto gettare questa montagna in mare. Nulla al mondo esprime meglio la specie di potere soprannaturale che quest'uomo aveva saputo acquistare sullo spirito dei suoi contemporanei [...].


Il 17 marzo, lasciamo Palermo [...].

Dopo aver camminato due ore in queste solitudini, la guida ci fece segno di guardare qualche cosa che si alzava in lontananza su una collina. Fummo pieni di stupore scorgendo in piedi e isolato un tempio greco nel più perfetto stato di conservazione. Là era Segesta. Per quanto fossimo abituati, dal nostro arrivo in Italia, a contemplare rovine di tutte le epoche e di tutte le forme e a capire, davanti ad esempi terribili, la fragilità delle cose umane, non ci era ancora capitato di incontrare, così all'improvviso in mezzo al deserto, il cadavere di una grande città. Mai impressione fu così piena e così completa. Ci arrestammo immobili: cercavamo di raggruppare, intorno a questi resti superbi della grandezza antica, altri templi, palazzi e portici. Avremmo anche voluto rendere al suolo quella fertilità che fece Segesta così potente, fin dai suoi primi anni; e poi ci rallegrammo di non vedere piccole case moderne vicino a questo colosso antico [...].


Presto arrivammo sulle rive ripide di un torrente. È lo Scamandro; più lontano scorre il Simoenta. Perché questi nomi troiani, le rovine di questa città troiana e, in generale, i ricordi che si riferiscono all'antichità classica ci interessano di più di quelli che riguardano tempi più moderni, o anche avvenimenti che ci toccano da vicino? [...].


Lasciando Selinunte, procediamo sia su greti di fiumi, sia attraverso aride vallate senza alberi, né abitanti [...].


Si può dire, benché questo dapprima possa sembrare difficile a credersi, che non ci sono villaggi in Sicilia, ma solo città e anche in numero abbastanza grande. Si è molto sorpresi, dopo aver attraversato un deserto quasi completo per otto o dieci leghe, nell'arrivare all'improvviso in una città di ventimila anime, che nessuna grande strada e nessun rumore esterno vi annunciano da lontano. È là che si è ritirato quel po' di industria e di benessere che resta nell'isola, come il calore in un corpo paralitico si ritira a poco a poco verso il cuore. Non è impossibile dare una causa a questo singolare stato di cose. I soli grandi proprietari delle terre della Sicilia sono i nobili e, soprattutto, le comunità; queste due classi di uomini sono ben lontani da qualsiasi idea di miglioramento delle loro proprietà e si sono abituati da tempo a un certo profitto che devono avere. I nobili lo dissipano a Palermo o a Napoli, senza pensare ai loro beni in Sicilia se non per le quietanze che vi mandano. Ce n'è anche un gran numero, ci hanno detto, che non sono mai andati a visitare le loro terre. Quanto ai monaci, razza eminentemente abitudinaria per natura, essi mangiano tranquillamente questi stessi profitti senza pensare ad aumentarli. Tuttavia il popolo, che ha solo pochi o punti interessi nella terra e i cui raccolti sono privi di sbocchi commerciali, lascia a poco a poco la campagna. Si sa quale piccolo numero di abitanti basti per coltivare male una immensa distesa di terra: i dintorni di Roma ne fanno fede.

Chi visitasse per mare le coste della Sicilia, potrebbe facilmente crederla ricca e fiorente, mentre non c'è paese più miserabile al mondo; la giudicherebbe popolata, mentre le sue campagne sono deserte e lo resteranno finché la divisione delle proprietà e la vendita dei prodotti non diano al popolo un interesse sufficiente per ritornarci [...].


Arrivati a questo punto si vede l'immensa cinta che formavano le mura di Girgenti (Agrigento). Giudicammo che non doveva avere meno di cinque o sei leghe di circonferenza. Quasi tutto ciò che resta di antico è ordinato su questa muraglia naturale che guarda il mare. Vedemmo prima il tempio di Giunone Lucina dal quale molte colonne e il fregio sono cadute. Passammo poi al tempio della Concordia. Questo è quanto di più straordinario abbia mai incontrato per la conservazione. Non manca nulla: frontone, fregio, interno; il tempo ha rispettato tutto. Ha fatto di più: gli ha dato un colore ammirevole, e noi lo vediamo più bello senza dubbio di quanto non apparisse a coloro che lo costruirono circa duemilacinquecento anni fa. Questi templi somigliano in tutto e per tutto a quello di Segesta, tranne che sono più piccoli. è lo stesso modulo di colonne, la stessa semplicità di linee, la stessa disposizione degli accessori.

È una cosa straordinaria che i Greci, che pur avevano una immaginazione così ricca, non abbiano mai avuto l'idea di cambiare in nulla il sistema di architettura che avevano adottato una volta. Non so se mi sbaglio, ma credo di vedere qui una forza di convinzione nella fede del bello e del grande, che non potrebbe appartenere che a un popolo particolarmente dotato per eccellere in tutte le arti.

Sempre sulla stessa linea di questi templi, ma più lontano, sono i resti del Giove Olimpio. Questi resti sono estremamente importanti per il fatto che annunciano un edificio più vasto di tutti quelli che ci ha lasciato l'antichità. In generale i Greci e anche i Romani, che avevano tanto di grande nel genio e nella maniera di trattare le cose di questo mondo, non hanno mai teso al gusto del gigantesco in fatto di arte. Giudicavano, con ragione, che è più difficile fare molto-bello che fare molto-grande, e che è quasi impossibile dare insieme molto-bello e molto-grande [...].


Arrivati a Catania, volevamo partire la sera stessa per Nicolosi e tentare durante la notte la grande ascensione dell'Etna [...]. E, in effetti, ci muovemmo da Nicolosi alle quattro.

Uscendo dalla città, si attraversano alcuni campi coltivati; poi si entra in un terreno invaso dalla lava, ancora incolto e orribile. Di là si vede meglio Catania in mezzo ai boschetti e alle lave che la circondano.

Presto si lasciano le lave e ci si trova allora, senza trapassi, in mezzo a un paese incantato, che vi sorprenderebbe ovunque ma che vi riempie di stupore in Sicilia. Sono orti continui, alternati a capanne e a graziosi villaggi: qui nessuno spazio perduto: dappertutto un'aria di prosperità e di abbondanza. Notai, nella maggior parte dei campi, grano, viti ed alberi da frutta che crescevano e prosperavano insieme. Mi domandavo, mentre camminavo, da dove potesse provenire questa grande prosperità locale. Non la si può attribuire alla sola ricchezza del suolo, poiché tutta la Sicilia è un paese molto fertile, che domanda anche meno cura della maggior parte degli altri paesi. La prima ragione che trovai di un tale fenomeno è questa: le terre attorno all'Etna, essendo situate fra due delle più grandi città della Sicilia, Catania e Messina, trovano in queste due città una possibilità di smercio di prodotti, che non esiste nel centro dell'isola né sulla costa meridionale. La seconda spiegazione, che ammisi con più difficoltà, finì poi per sembrarmi più pertinente. Le terre che circondano l'Etna sono soggette a spaventose devastazioni, perciò i signori e i monaci se ne sono stancati e così il popolo ne è divenuto il proprietario. Ora qui la divisione della terra è quasi senza limiti. Ciascuno trae un interesse dalla terra, per quanto piccolo sia. È la sola parte della Sicilia in cui il contadino è padrone.

Ma, ora, da dove viene che questo estremo frazionamento delle proprietà, che tante persone sensate considerano in Francia come un male, deve essere considerato come un bene, e un gran bene, in Sicilia? È facile immaginarlo; e si potrà così aggiungere questo esempio a tanti altri che provano come non ci siano princìpi assoluti sotto il sole.

Capisco bene, infatti, che in un paese molto avanzato, nel quale il clima porti all'attività e tutte le classi hanno voglia di arricchirsi, come in Francia e soprattutto in Inghilterra, per esempio, l'estremo frazionamento della proprietà possa nuocere all'agricoltura, e di conseguenza alla prosperità interna, perché toglie grandi mezzi di miglioramento fondiario e anche di azione a persone che avrebbero la volontà e la capacità di utilizzarli; ma, al contrario, quando si tratta di stimolare e di svegliare un infelice popolo per metà paralizzato, per il quale il riposo è un piacere e nel quale le classi alte sono intorpidite nella loro pigrizia ereditaria o nei loro vizi, non conosco mezzo più efficace che la divisione delle terre. Se dunque fossi Re d'Inghilterra, favorirei la grande proprietà; e, se fossi padrone della Sicilia, incoraggerei con tutto il mio potere la piccola: ma, non essendo né l'uno né l'altro, torno al più presto al mio diario [...].

Era notte quando arrivammo a Nicolosi [...].

Alle undici di sera bussarono alla nostra porta per dirci di prepararci [...].

La nostra prima preoccupazione, appena fummo fuori, fu quella di esaminare le condizioni del cielo. Ci accorgemmo con grande gioia che il vento era caduto e che si scorgevano le stelle; solo la luna ci mancava completamente. Una oscurità profonda ci circondava. Tuttavia non tardammo a scoprire che stavamo attraversando vaste pianure di sabbia vulcanica, in cui il piede dei nostri muli affondava profondamente. Qualche tempo dopo ci parve di inoltrarci nei meandri di una vasta colata di lava. Finalmente raggiungemmo la regione dei boschi [...].

Qui entrammo tutti in un profondo silenzio. Questa marcia notturna in mezzo a una delle foreste più antiche del globo, gli effetti bizzarri che la nostra lanterna produceva sui tronchi nodosi delle querce, i ricordi delle leggende che sembravano agitarsi intorno a noi, e persino il fruscìo delle foglie attraverso le quali camminavamo: tutto questo ci trasportava in un mondo diverso da quello reale [...].


Finalmente arrivammo ai piedi dell'ultimo cono dell'Etna. Ne scorgevamo i più piccoli particolari e già credevamo di raggiungere l'orlo del cratere. Ci ingannavamo in questo, come si vedrà. Occorse un'altra ora per arrivare a quel punto, che pensavamo tanto vicino a noi, e un'ora della marcia più faticosa che abbia mai fatta in vita mia. Ci si arrampica prima, per venti minuti circa, su un pendio di ghiaccio coperto di asperità molto appuntite e sdrucciolevoli, dove è difficile appoggiare il piede. Poi si passa sull'ultima altura formata dalla caduta della cenere, la cui inclinazione, quindi, è molto ripida. Su questo suolo, malfermo e inclinato come un tetto, non si può fare un passo senza affondare profondamente e indietreggiare spesso di più di una tesa. Avevo già provato il disagio di una simile marcia visitando il Vesuvio. Ma qui era ben altra cosa: alla difficoltà di avanzare su un simile cammino si univa quella di respirare a una tale altezza, e questi due inconvenienti si rafforzavano l'un l'altro. Ci trovavamo allora a circa 1.700 tese (più di 10.000 piedi) al di sopra di Catania. L'aria era rarefatta e tuttavia per nulla leggera: le emanazioni vulcaniche la caricavano di miasmi solforosi. Ogni dieci o quindici passi bisognava fermarsi. Ci gettavamo allora sulla cenere e, per alcuni secondi, sentivamo nel petto dei battiti straordinari. Avevo la testa cerchiata come se fosse stata chiusa in una calotta di ferro. Edoardo mi confessò di non essere sicuro di arrivare in cima.

Facevamo una di queste pause forzate, quando la guida, battendosi le mani, esclamò con un accento che mi pare ancora di sentire: «Il sole, il sole». Ci volgemmo immediatamente verso oriente: il cielo era carico di nuvole, e tuttavia il disco del sole, simile a una mola di ferro ardente, si faceva luce attraverso gli ostacoli e si mostrava per metà al di sopra del mare della Grecia. Un colore rossastro e violaceo si era diffuso sulle onde e faceva apparire, come insanguinate, le montagne della Calabria, che si stendevano di fronte a noi. Era uno di quegli spettacoli che si vedono una sola volta nella vita; una di quelle bellezze severe e terribili della natura, che vi fanno rientrare in voi stessi e rendono schiacciante la vostra piccolezza. A questa grandezza si mescolava qualche cosa di triste e di stranamente lugubre. Questo astro immenso gettava attorno a sé solo una luce incerta. Sembrava trascinarsi verso il mezzo del cielo più che salirci. È così, ci dicevamo, che si leverà senza dubbio l'ultimo giorno del mondo.

Questo spettacolo ci restituì la forza che incominciava a venirci meno. Facemmo degli sforzi straordinari e in pochi istanti arrivammo sull'orlo del cratere. Non vi gettammo lo sguardo che con una sorta di terrore. Un fumo bianco come la neve ribolliva e si agitava con rumore nella profondità che nascondeva; risaliva fino ai bordi dell'enorme coppa, e poi si arrestava, ridiscendeva, risaliva ancora; ne usciva solo una piccola quantità, ma era abbastanza per originare una nuvola che occupava una parte del cielo e in mezzo alla quale ci trovavamo spesso nostro malgrado.

Il sole si era appena sollevato al di sopra delle onde del mare, che noi lo vedemmo affondare in una linea di nuvole. Ne uscì subito splendente [...].


Da ogni parte intorno a noi si stendeva il mare, e la Sicilia sfuggiva in punta davanti ai nostri occhi.

L'ombra dell'Etna si proiettava fin nei dintorni di Trapani e copriva quasi totalmente l'isola con l'immenso cono che formava. Ma quest'ombra non era immobile. Come un essere animato, la vedevamo agitarsi senza posa. Si restringeva di secondo in secondo, e nel suo cammino all'indietro scopriva ad ogni istante delle intere regioni. L'isola ci sembrava più nodosa che montagnosa. In mezzo alle sue innumerevoli colline si vedeva serpeggiare una linea blu: era un fiume; una piccola placca bianca faceva riconoscere un lago; qualche cosa di brillante al sole annunciava una città. Quanto ai poveri umani, sarebbe stato necessario, per scorgerli, possedere l'occhio di colui che creò con la stessa facilità un insetto e l'Etna [...].

Eccola, dunque, finalmente, ci dicevamo, questa Sicilia, la mèta del nostro viaggio, l'argomento delle nostre discussioni da tanti mesi, eccola tutta intera sotto i nostri piedi. Girando su noi stessi possiamo percorrerla in un istante; ne tocchiamo con gli occhi tutti i punti; quasi nulla ce ne sfugge ed essa è ben lungi dall'occupare l'orizzonte. Noi venivamo dall'Italia: avevamo calpestato la cenere dei più grandi uomini che furono mai esistiti e respirato la polvere dei loro monumenti, eravamo pieni delle grandezze della storia. Ma qualcos'altro ancora parlava, qui, all'immaginazione: tutti gli oggetti che scorgevamo, tutte le idee che venivano ad offrirsi, numerosissime, alla nostra mente, ci riportavano ai tempi primitivi. Toccavamo le prime età del mondo, quelle età di semplicità e di innocenza in cui gli uomini non erano ancora rattristati dal ricordo del passato, né spaventati dall'incertezza dell'avvenire, in cui, contenti della felicità presente e fiduciosi nella sua durata, raccoglievano quel che la terra dava loro senza coltivarla, e, vicini agli déi per la purezza del cuore, ne incontravano ancora ad ogni passo la traccia e vivevano, in un certo senso, in mezzo a loro; è qui che la leggenda ci mostra i primi uomini. È questa la patria delle divinità della mitologia greca. Vicino a questi luoghi, Plutone rapì Proserpina alla madre; in questo bosco che abbiamo appena attraversato, Cerere sospese la sua rapida corsa e, stanca delle sue vane ricerche, si sedette su una roccia e, benché dea, pianse, dicono i Greci, perché era madre. Apollo ha custodito le mandrie in queste valli; questi boschetti che si estendono fin sulla riva del mare hanno risuonato del flauto di Pan; le ninfe si sono smarrite sotto le loro ombre e hanno respirato il loro profumo. Qui Galatea fuggiva Polifemo, e Akis, sul punto di soccombere sotto i colpi del suo rivale, incantava ancora queste rive e vi lasciava il suo nome... In lontananza si scorge il lago d'Ercole e le rocce dei Ciclopi.

Terra degli déi e degli eroi! Povera Sicilia! che cosa sono diventate le tue brillanti chimere? [...].

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Pagina 191

L'ASSETTO SOCIALE E POLITICO DELLA FRANCIA
PRIMA E DOPO IL 1789



PARTE PRIMA


Fu benefica o funesta l'influenza che la Francia ha esercitato sugli uomini d'oggi? Solo l'avvenire ce lo dirà. Ma nessuno può mettere in dubbio l'esistenza di questa influenza e che abbia ancora tuttora una grande importanza.

Volendo stabilire quali siano le cause degli importanti cambiamenti realizzati dai Francesi con le armi, con gli scritti o con gli esempi, si scopre, fra molte altre, quella che bisogna ritenere essere la principale: da molti secoli, tutte le vecchie nazioni europee si adoperano sordamente a distruggere la disuguaglianza esistente in seno ad esse. La Francia, all'interno delle proprie frontiere, ridusse i tempi di questa rivoluzione che si faceva strada a fatica in tutto il resto dell'Europa. Per prima, vide chiaramente ciò che voleva fare; mentre le altre nazioni stavano solo intuendolo, a tentoni, nel dubbio. Afferrando al volo le idee principali sparse nel mondo da cinque secoli, la Francia fu la prima nazione in Europa a formulare improvvisamente la scienza nuova, di cui le nazioni vicine raccoglievano con fatica i vari elementi. Ebbe il coraggio di dire ciò che gli altri allora osavano solo pensare, e non esitò a tentare di realizzare ciò che gli altri si limitavano a sperare possibile in un imprecisato futuro.

L'Europa feudale era stata frazionata in mille, differenti Stati sovrani. Ogni nazione, e per così dire ogni città, isolandosi dal genere umano, aveva adottato misure e opinioni particolari, cui gli uomini aderivano non tanto perché sembravano loro ragionevoli o giuste, ma solo perché erano le loro.

Verso la fine del medioevo nasce la confusione: le nazioni si scoprono l'un l'altra, si conoscono, si capiscono e si imitano. Ogni popolo perde fiducia nella regola particolare che si era costruita, senza trovare qualcosa di più perfetto nei propri vicini. Nasce, così, naturalmente, l'idea di una regola comune la quale, non essendo né decisamente nazionale, né decisamente straniera, potesse applicarsi in ogni tempo a ogni uomo.

Mentre la mente umana esita e, ancora costretta dai vecchi schemi, tenta già di liberarsene, il popolo francese, spezzando ad un tratto il vincolo dei ricordi, calpestando le vecchie usanze, ripudiando gli antichi costumi, rifuggendo violentemente le tradizioni familiari, le opinioni di classe, lo spirito provinciale, i pregiudizi nazionali, l'autorità delle credenze, proclama che la verità è una, che essa non si modifica né nel tempo, né nello spazio, che non è affatto relativa ma assoluta, che bisogna cercarla in fondo alle cose, tralasciando la forma, che ognuno la può scoprire e deve adeguarsi ad essa.

Si parla dell'influenza che hanno esercitato le idee francesi, e ci si sbaglia. In quanto francesi, queste idee hanno ottenuto soltanto un potere limitato. È per il loro valore generale e, se così posso dire, per il loro aspetto umano che esse sono state accolte. I Francesi hanno ottenuto un potere ben più grande con il metodo filosofico — che per primi hanno osato adottare con vigore — che non con la loro filosofia; più per il modo in cui hanno diretto i loro sforzi, che non per il risultato. La loro filosofia era soltanto loro; ma il loro metodo è stato come uno strumento in mano a tutti coloro che aspiravano a distruggere.

La Francia, dunque, si è messa a capo di due grandi rivoluzioni — una politica e una filosofica, una nazionale e una intellettuale — ma non ne ha provocato la nascita. Da ciò il suo potere nel diffonderla. Ciò che la rendeva così forte non era tanto quello che aveva in sé, quanto ciò che trovava in quelle stesse persone che faceva agire. Ha agito come Roma, che conquistò le nazioni straniere con gli stranieri. La Francia non ha sparso intorno a sé i germi della Rivoluzione, ha sviluppato quelli che già vi erano: non è stata il dio che crea, ma il raggio di sole che fa germogliare.

Da cinquant'anni, quasi tutte le nazioni europee hanno subito, chi più chi meno, questa influenza rivoluzionaria dei Francesi; ma la maggior parte di esse l'ha subita senza spiegarsela. Hanno ubbidito ad un comune impulso, senza conoscerne l'origine. L'osservatore, che percorre le contrade vicine alla Francia, scopre senza fatica che molti eventi, costumi, idee sono stati il prodotto diretto o indiretto della Rivoluzione francese, e nel contempo nota che, in questi stessi luoghi, vi è una profonda ignoranza delle cause che hanno prodotto e degli effetti che hanno seguito questa Rivoluzione all'interno della Francia stessa. Mai un paese ha esercitato una maggiore influenza sui suoi vicini; restando loro totalmente sconosciuto.

Ci è sembrato che ciò fosse particolarmente evidente in Inghilterra.

All'incirca da vent'anni, da quando vi è una profonda pace fra le due grandi nazioni occidentali, si sono dati fra di loro importanti scambi. Molti costumi sono diventati comuni ai due popoli, molte opinioni si sono estese dall'una all'altra. I Francesi hanno attinto alle leggi inglesi i principi della libertà costituzionale e l'idea dell'ordine legale. Certi gusti democratici, che si incontrano in Inghilterra, e la maggior parte delle teorie sull'uguaglianza civile, che sono state là predicate, sembrano essere di origine francese. Ma i due popoli hanno nel loro genio naturale tante profonde differenze che, pur cessando di essere nemici, non hanno potuto conoscersi; si sono imitati senza comprendersi. Gli Inglesi, che affollano la Francia e la percorrono tutti i giorni in ogni senso, in genere non sanno quanto vi succede. A Londra sono pubblicati eccellenti resoconti su quanto succede nelle Indie, si sa pressappoco quale sia l'assetto sociale e politico dei popoli che vivono ai nostri antipodi. Ma gli Inglesi hanno soltanto una nozione superficiale delle istituzioni della Francia, conoscono soltanto in maniera imperfetta le idee che qui vigono, i pregiudizi che ancora vi dominano, i cambiamenti che vi si attuano, i costumi che vi si tramandano. Non sanno quale sia la divisione dei partiti presso i loro vicini, la classificazione degli abitanti, la separazione degli interessi, o, se sanno qualcuna di queste cose, è per sentito dire. Ognuno si limita ad una conoscenza superficiale, più pericolosa della completa ignoranza; e si preoccupa poco di documentarsi.

Ne consegue che questi grandi popoli, in un certo senso, si cercano nell'ombra, si intravvedono soltanto sotto una luce incerta e si incontrano come per caso.

Lo scopo di queste lettere non è di esporre nei particolari la presente situazione della Francia; un'intera vita potrebbe a malapena bastare per tale proposito. L'unico obiettivo che l'autore si propone è quello di chiarire qualche punto importante, il cui esame deve facilmente portare le menti riflessive alla conoscenza di tutti gli altri.

Legami nascosti ma pressoché infrangibili stringono le idee di un secolo a quelle del secolo che l'ha preceduto. Una generazione ha un bel dichiarare la guerra alle generazioni precedenti, è più facile combatterle che rendersene dissimili. Non si saprebbe dunque parlare d'una nazione, a una data epoca, senza dire quello che essa era un mezzo secolo avanti; questo è soprattutto necessario, quando si tratta d'un popolo che, durante gli ultimi cinquant'anni, si è trovato in uno stato quasi continuo di rivoluzione. Gli stranieri che sentono parlare di questo popolo e che non hanno seguìto con occhio diligente le trasformazioni successive che ha subito, sanno solamente che grandi mutamenti si sono operati nel suo seno, ma ignorano quali istituzioni dell'antico regime sono state abbandonate, e quali altre si sono conservate in mezzo a così lunghi travagli.

Mi propongo, in questa prima parte, di dare sullo stato di Francia avanti la grande Rivoluzione del 1789, alcune spiegazioni, senza le quali lo stato attuale sarebbe difficile a comprendere.

Al tramonto dell'antica monarchia, la Chiesa di Francia presentava uno spettacolo analogo in qualche punto a quello che offre nei nostri giorni la Chiesa d'Inghilterra.

Luigi XIV, che aveva distrutto tutti i grandi organismi individuali, disciolto o abbassato tutti i corpi, non aveva lasciato al clero se non le apparenze d'una vita indipendente. Il clero aveva conservato alcune assemblee annuali, nelle quali fissava da sé le proprie tasse; possedeva una porzione considerevole di beni stabili del regno e s'ingeriva in mille maniere nell'amministrazione pubblica. Pur restando sottomesso ai principali dommi della Chiesa cattolica, il clero francese aveva preso tuttavia a fronte della Santa Sede un'attitudine ferma e quasi ostile.

Isolando i preti francesi dalla loro guida spirituale, lasciando loro nel medesimo tempo ricchezze e potenza, Luigi XIV non aveva fatto se non seguire la stessa tendenza dispotica, che si ritrova in tutti gli atti del suo regno. Egli sentiva che sarebbe stato sempre il padrone del clero, di cui lui in persona sceglieva i capi, e si mostrava interessato perché il clero fosse forte, in modo che lo potesse aiutare a regnare sullo spirito dei popoli, e potesse resistere con lui all'invadenza del Papa.

La Chiesa di Francia sotto Luigi XIV era al tempo stesso una istituzione religiosa e politica. Nel periodo che separa la morte di questo principe e la Rivoluzione francese, la fede si era gradualmente indebolita, il prete e il popolo erano diventati a poco a poco stranieri l'uno all'altro. Questo cambiamento fu prodotto da cause che sarebbe lungo enumerare. Alla fine del secolo XVIII, il clero francese possedeva ancora i suoi beni; si mescolava ancora a tutti gli affari dello Stato, ma lo spirito della popolazione gli sfuggiva da tutte le parti, e la Chiesa era diventata una istituzione meramente politica, da istituzione originariamente religiosa.

Forse non è facile far comprendere agli Inglesi dei nostri giorni quello che era la noblesse di Francia. Gli Inglesi non hanno nella loro lingua un'espressione che renda esattamente l'antica idea francese di noblesse. Nobility dice di più e gentry di meno. Aristocratie è una parola di cui non ci si può servire più senza un qualche chiarimento. Ciò che s'intende generalmente per aristocrazia, prendendo la parola nel suo significato corrente, è l'insieme delle classi superiori. La nobiltà francese era un corpo aristocratico; ma si avrebbe avuto torto di dire che essa formava da sola l'aristocrazia del paese, perché accanto ad essa si trovavano delle classi altrettanto istruite, altrettanto ricche e su per giù egualmente influenti. La nobiltà francese stava dunque all'aristocrazia inglese dei nostri giorni, come la specie rispetto al genere; essa formava una casta, e non un'aristocrazia. In questo rassomigliava a tutte le nobiltà continentali. Non che in Francia non si potesse diventar nobili, comprando certe cariche o per un atto di volonta d'un principe; ma l'annobilimento che faceva uscire qualcuno dalle file del terzo stato, non l'introduceva, a dire il vero, in quelle della noblesse. Il gentiluomo di nuova data si arrestava, per così dire, sul limite dei due ordini; un po' più al di sopra dell'uno, ma più basso dell'altro, egli scorgeva da lontano la terra promessa, nella quale i suoi figli soltanto sarebbero potuti entrare. La nascita era dunque in realtà la sola fonte a cui si attingeva la nobiltà; si nasceva nobili, non lo si diventava.

Circa ventimila famiglie sparse sulla superficie del regno componevano questo grande corpo; coteste famiglie riconoscevano fra di loro una sorte di eguaglianza teorica fondata sul privilegio della nascita. «Io non sono che il primo gentiluomo del mio reame» aveva detto Enrico IV. Questa frase colorisce lo spirito che ancora regnava nella nobiltà francese alla fine del secolo XVIII. Tuttavia, esistevano ancora, fra i nobili, immense differenze; alcuni possedevano ancora grandi proprietà fondiarie, altri trovavano appena di che vivere attorno al maniero paterno. I primi passavano la più grande parte della loro vita alla corte; questi altri conservavano con orgoglio, nel fondo delle loro province, una mediocrità ereditaria. Agli uni, l'uso apriva il cammino delle grandi dignità dello Stato, mentre gli altri, dopo avere raggiunto nell'esercito un grado poco elevato, ultimo termine delle loro speranze, rientravano tranquillamente nei loro domestici focolari per non uscirne più.

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