Copertina
Autore Tzvetan Todorov
Titolo Lo spirito dell'illuminismo
EdizioneGarzanti, Milano, 2007, Le forme , pag. 128, cop.ril.sov., dim. 13x20,4x1,5 cm , Isbn 978-88-11-60066-4
OriginaleL'esprit des Lumières [2006]
TraduttoreEmanuela Lana
LettoreRenato di Stefano, 2007
Classe politica , filosofia , diritto
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Indice


1. Il progetto                            9
2. Rifiuti e deviazioni                  25
3. Autonomia                             37
4. Laicità                               49
5. Verità                                63
6. Umanità                               79
7. Universalità                          91
8. L'illuminismo e l'Europa             105

Ringraziamenti                          121
Nota bibliografica                      122
Note                                    123


 

 

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Pagina 9

1. Il progetto



Non è semplice dire in che cosa consista esattamente il progetto dell'illuminismo, per due motivi. Innanzitutto è un periodo di conclusione, di ricapitolazione, di sintesi e non d'innovazione radicale. Le sue idee portanti non nascono nel XVIII secolo; quando non derivano dall'età classica, portano i segni dell'alto medioevo, del rinascimento e del classicismo. Gli illuministi fanno proprie e formulano opinioni che in passato erano in contrasto. Pertanto, come più volte hanno sottolineato gli storici, bisogna liberarsi di alcune immagini convenzionali. Essi sono al tempo stesso razionalisti ed empiristi, eredi tanto di Cartesio quanto di Locke, accolgono gli antichi e i moderni, gli universalisti e i particolaristi, sono appassionati di storia e di eternità, di dettagli e di astrazioni, di natura e di arte, di libertà e di uguaglianza. Non si tratta di elementi nuovi, ma vengono combinati in maniera differente: non soltanto sono stati organizzati tra loro, ma, aspetto essenziale, all'epoca dei lumi queste idee lasciano i libri per entrare a far parte del mondo reale.

Il secondo ostacolo consiste nel fatto che il pensiero dell'illuminismo è sviluppato da moltissimi individui che non condividono affatto le medesime opinioni e sono costantemente impegnati in accese discussioni, da un paese all'altro e all'interno del proprio. Il tempo trascorso ci aiuta a effettuare una scelta, senza dubbio, ma solo fino a un certo punto: le divergenze di allora hanno dato vita a scuole di pensiero che si scontrano ancora oggi. L'illuminismo ha rappresentato un'epoca di dibattiti piuttosto che di consensi. Molteplicità temibile, dunque e tuttavia, anche questo è sicuro, identifichiamo senza troppa difficoltà l'esistenza di ciò che si può definire come un progetto dell'illuminismo.

Tre sono le idee alla base del progetto, arricchito anche dalle loro innumerevoli conseguenze: l'autonomia, la finalità umana delle nostre azioni e in ultimo l'universalità. Cerchiamo di spiegarci meglio.

Il primo aspetto essenziale di questo movimento consiste nel privilegiare ciò che ciascuno sceglie e decide in autonomia, a detrimento di quanto ci viene imposto da un'autorità esterna. Tale preferenza comporta due aspetti, l'uno critico e l'altro costruttivo: bisogna sottrarsi a ogni forma di tutela imposta agli uomini dall'esterno e lasciarsi guidare dalle leggi, norme e regole volute dagli stessi individui ai quali esse si rivolgono. Emancipazione e autonomia sono i termini che indicano le due fasi, altrettanto indispensabili, di un medesimo processo. Per potervisi dedicare bisogna disporre di una completa libertà di analizzare, discutere, criticare, dubitare: non esistono più dogmi o istituzioni intoccabili. Una conseguenza indiretta, ma decisiva, di questa scelta è il vincolo imposto alle caratteristiche di ogni forma di autorità: deve essere della stessa natura degli uomini, vale a dire naturale e non soprannaturale. E in questo senso che l'illuminismo dà vita a un mondo «disincantato», che obbedisce da un capo all'altro alle stesse leggi fisiche o, per quanto riguarda le società umane, rivela gli stessi meccanismi di comportamento.

La tutela sotto la quale vivevano gli uomini prima dell'illuminismo era innanzitutto di natura religiosa; la sua origine, perciò, era al tempo stesso anteriore alla società di allora (in tal caso si parla di «eteronomia») e soprannaturale. Le critiche più numerose saranno rivolte alla religione, in modo che l'umanità possa assumere le redini del proprio destino. Si tratta comunque di una critica mirata: viene rifiutata la sottomissione della società o dell'individuo a precetti la cui sola legittimità deriva dal fatto che la tradizione li attribuisce alle divinità o agli antenati; non deve essere più l'autorità del passato a orientare la vita degli uomini, ma il progetto che essi hanno sul loro avvenire. In compenso, non si fa parola dell'esperienza religiosa in quanto tale, né dell'idea di trascendenza, né dell'una o dell'altra dottrina morale sviluppata da una specifica religione; la critica riguarda la struttura della società, non il contenuto delle confessioni. La religione esce dallo stato senza per questo abbandonare l'individuo. La corrente principale dell'illuminismo non s'ispira all'ateismo, ma alla religione naturale, al deismo, o a una delle loro numerose varianti. L'osservazione e la descrizione delle confessioni professate nel mondo intero, alle quali si dedicano gli illuministi, hanno lo scopo non di rifiutare le religioni, ma di condurre a un atteggiamento di tolleranza e alla difesa della libertà di coscienza.

Dopo essersi liberati dall'antico giogo, gli uomini stabiliranno leggi e norme nuove con l'aiuto di mezzi semplicemente umani: non c'è più spazio qui per la magia, né per la rivelazione. Alla certezza della Luce discesa dall'alto si sostituirà la pluralità delle luci che si diffondono dall'uno all'altro. La prima autonomia a essere conquistata è quella della conoscenza. Essa prende le mosse dal principio che nessuna automa, a prescindere dalla solidità e dal prestigio di cui possa godere, è al riparo dalle critiche. La conoscenza ha solo due fonti, la ragione e l'esperienza, entrambe alla portata di tutti. La ragione è valorizzata come strumento di conoscenza, non come motore dei comportamenti umani, si oppone alla fede, non alle passioni. Esse, al contrario, sono a loro volta libere dai vincoli che provengono dall'esterno.

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La storia europea moderna, dal rinascimento fino all'illuminismo, da Erasmo a Rousseau, si identifica con un consolidamento della separazione tra istituzioni pubbliche e tradizioni religiose e un accrescimento della libertà individuale. In effetti, il potere temporale della chiesa è destabilizzato senza essere abolito, come provano i numerosi tentativi compiuti a favore della tolleranza religiosa. Una testimonianza fra le tante: «Sono indignato come voi», scrive Rousseau a Voltaire nel 1756 «che la fede di ciascuno non sia nella più totale libertà e che l'uomo abbia l'ardire di controllare l'intimo delle coscienze, dove non può penetrar».

Uno dopo l'altro, interi segmenti della società reclamano il ritiro della tutela religiosa e il diritto all'autonomia. Una delle rivendicazioni più significative è quella di Cesare Beccaria , autore del trattato Dei delitti e delle pene (pubblicato all'età di ventisei anni), nel quale formula con chiarezza la distinzione tra peccato e delitto, che consente di sottrarre l'azione dei tribunali alla sfera d'influenza religiosa. Le leggi riguardano soltanto le relazioni degli uomini nella città; le loro trasgressioni non hanno nulla a che vedere con la dottrina religiosa. I peccati, poi, non cadono sotto la scure della legge: diritto e teologia non sono più considerati un'unica entità.

Beccaria mette in risalto anche un'altra minaccia per la libertà dell'individuo, proveniente questa volta non dalla chiesa (che non deve esercitare il potere temporale), né dallo stato (che non deve occuparsi di questioni attinenti alla sfera spirituale), ma dalla famiglia. In essa il capo può esercitare un'autorità oppressiva sugli altri membri, privandoli così dell'indipendenza che hanno acquisito nei confronti delle strutture sociali. Proprio come ogni individuo che abbia raggiunto l'età della ragione ha il diritto di rivolgersi direttamente a Dio, così può affidarsi direttamente alla repubblica di cui è membro, per beneficiare dei diritti che essa garantisce. Allora, «lo spirito repubblicano non solo spirerà nelle piazze e nelle adunanze della nazione, ma anche nelle domestiche mura, dove sta gran parte della felicità o della miseria degli uomini».

In una democrazia liberale moderna, il comportamento dell'individuo si divide, dunque, non tanto tra ordine temporale e spirituale, ma in tre sfere. A uno dei poli si colloca la sfera privata e personale che l'individuo gestisce da solo, senza che nessuno abbia nulla da obiettare: dopo la Riforma, la libertà di coscienza si è ampliata fino a diventare libertà di tutti i comportamenti privati. Al polo opposto si colloca la sfera legale, in cui l'individuo si vede imporre norme rigide, garantite dallo stato, che non può trasgredire senza divenire un criminale. Tra le due si trova una terza vasta area, pubblica o sociale, fortemente caratterizzata da norme e valori, che lasciano, comunque, una certa libertà. Mentre le leggi formulano ordini e infliggono pene, qui ci si accontenta di fornire consigli o esprimere disapprovazioni, nel quadro di un dibattito pubblico: per esempio regole morali, pressioni esercitate dalla moda o dallo spirito dei tempi, o anche prescrizioni religiose (dunque rappresenta il luogo in cui un tempo agiva il potere spirituale).

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Pagina 58

Tutte le società occidentali contemporanee praticano diverse forme di laicità, che a partire dagli anni Novanta del XX secolo è stata messa in discussione, in seguito all'ascesa dell'islamismo. La diffusione di una versione fondamentalista della religione musulmana ha avuto sulla vita di numerosi paesi due importanti conseguenze, strettamente connesse tra loro: gli atti terroristici, che non hanno come obiettivo specifico la laicità, e la sottomissione delle donne, che invece ha tale obiettivo. Quest'ultima pratica non è esclusivamente islamica, perché si ritrova su un vasto territorio che include il Mediterraneo e il Medio Oriente, in cui sono professate diverse religioni. Rimane il fatto che nell'Europa contemporanea l'ineguaglianza delle donne è rivendicata principalmente da alcuni rappresentanti dell'islam. Nel loro caso, un'interpretazione troppo letterale dei testi sacri porta a giustificare la supremazia degli uomini – padre, fratello o marito – su donne che hanno raggiunto la maggiore età, privandole delle libertà individuali di cui godono tutte le altre donne, cittadine dello stesso paese. La minaccia denunciata da Beccaria diventa nuovamente realtà.

Una simile interpretazione ha l'effetto di erigere un culto della verginità e della fedeltà, privando così le giovani del controllo sul proprio corpo e vietando alle donne sposate di lavorare all'esterno o anche soltanto di uscire di casa e subire lo sguardo di sconosciuti. Fatto ancora più grave, le donne vengono picchiate per ogni trasgressione di queste regole, in accordo con le prescrizioni religiose, come rivendicano pubblicamente alcuni rappresentanti di quest'islam integralista. Non possiamo dimenticare le dichiarazioni di Hani Ramadan, alloa direttore del Centro islamico di Ginevra, che spiegava come la legge religiosa fosse in realtà molto clemente: «La lapidazione prevista in caso di adulterio è possibile solo se quattro persone sono state testimoni oculari del crimine». Quanti altri la pensano allo stesso modo senza avere il coraggio di sostenerlo in pubblico?

Numerose voci di donne musulmane si sono levate per denunciare questa situazione. In Francia, l'associazione «Ni putes ni soumises» si è impegnata in questa lotta; ha organizzato una marcia nazionale e nel 2002 ha pubblicato un manifesto nel quale si può leggere: «Ni putes ni soumises, semplicemente donne che vogliono vivere la propria libertà per manifestare il proprio desiderio di giustizia». Sono le famiglie, non gli imam, a voler sottomettere le donne, ma è proprio nei testi sacri che trovano la legittimazione dei loro divieti. Come conseguenza la libertà di queste donne risulta limitata e finisce per esserla anche l'uguaglianza di tutti i membri della stessa società. Ayaan Hirsi Ali, oggi deputata olandese e atea, ma somala di origine e musulmana di educazione, si impegna da molti anni per proteggere e aiutare le donne picchiate, violentate e mutilate in nome dei princìpi tratti dall'islam. La trama del film che ha scritto, Submission, nel 2004 ha portato all'assassinio del suo realizzatore, Theo Van Gogh. A sua volta, Ayaan Hirsi Ali rifiuta la sottomissione dell'individuo alle prescrizioni di un gruppo come quello dei musulmani fondamentalisti e rivendica al contrario la sottomissione di tutti i cittadini alle stesse leggi. Come ella afferma, «la libertà individuale e l'uguaglianza tra uomo e donna» non sono scelte facoltative, ma «valori universali», che appartengono alle leggi del paese. In una democrazia liberale, sottomettere con la forza agli uomini le donne e impedire loro di agire di propria iniziativa non sono azioni tollerabili.

Accanto a questi rifiuti della laicità, se ne può anche osservare la deviazione ottenuta attraverso semplificazione e sistematizzazione abusive. Sarebbe così se la società secolare divenisse sinonimo di una società da cui è bandito ogni elemento sacro. Nella società tradizionale il sacro è definito dal dogma religioso e può estendersi alle istituzioni come agli oggetti. La rivoluzione francese ha tentato di sacralizzare la nazione; si pensava che l'amore per la patria giocasse il ruolo attribuito in precedenza all'amore per Dio. I regimi totalitari, a loro volta, hanno voluto sacralizzare dei sostituti terreni del divino, come il popolo, il partito o la classe operaia. Le democrazie liberali contemporanee non sopprimono tutti i doveri dei cittadini, ma nemmeno li sacralizzano. Non impediscono agli individui di trovare il sacro all'interno della loro sfera privata: per uno è il lavoro a essere sacro, per un altro le vacanze, per un terzo i bambini e per altri ancora la religione... Tuttavia, nessuna istituzione, nessun oggetto è sacro: tutto può essere criticato. Perfino gli avvenimenti che nella società francese suscitano un giudizio di valore unanime, come il genocidio degli ebrei o la resistenza, non possiedono, nella sfera pubblica, un carattere sacro: perché la conoscenza possa compiere progressi, non deve urtarsi con zone vietate e il sacro è proprio una di quelle con cui non si ha il diritto di interferire.

Comunque, non è vero che nelle nostre società secolari non sia più presente il sacro; è solo che non si trova nei dogmi e tanto meno nelle reliquie, ma nei diritti degli esseri umani. Per noi è sacra una certa libertà dell'individuo: il suo diritto di praticare (o meno) la religione di sua scelta, di criticare le istituzioni, di cercare da sé la verità. È sacra la vita umana, per questo gli stati hanno rinunciato al diritto che avevano di colpirla con la pena di morte. È sacra l'integrità del corpo umano, per questo è bandita la tortura, anche quando la ragion di stato ne consiglia il ricorso, o è vietata l'infibulazione, praticata su ragazzine che non sono ancora in grado di decidere autonomamente.

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Oggi i diritti dell'uomo godono di un immenso prestigio e quasi tutti i governi vorrebbero apparirne difensori. Ciò non impedisce a questi governi, anche i più espliciti in tale rivendicazione, di rifiutarli all'atto pratico, quando sembra che le circostanze lo richiedano.

È il caso, per esempio, della pena di morte. Beccaria, nel suo trattato Dei delitti e delle pene, esprime meglio di tutti il pensiero dell'illuminismo a questo proposito. Ogni essere umano, in quanto membro della specie e non perché cittadino dell'uno o dell'altro paese, ha diritto alla vita e questo diritto è inalienabile: io rinuncio alla mia libertà naturale per godere di una libertà (e di una protezione) civile, ma non ho mai accordato alla comunità, né esplicitamente né tacitamente, un diritto di vita e di morte su di me. Che cosa potrebbe giustificare questo annullamento totale della volontà individuale a opera della volontà collettiva? Non è la necessità di impedire al criminale di nuocere, perché, per ucciderlo, è stato necessario come minimo arrestarlo ed egli deve quindi trovarsi già in prigione. Espiare la colpa? Una punizione simile avrebbe senso solo se si credesse a una forma di vita dopo la morte: nell'aldilà il condannato a morte potrebbe misurare la gravità della sua colpa in base alla severità della punizione. Se la persona non si trova in tale condizione, la lezione è del tutto inutile per lei.

Rimane un altra giustificazione frequentemente avanzata, il valore dissuasivo della condanna suprema per quelli che rimangono: la punizione esemplare. Tuttavia, nessuna analisi ha mai confermato che l'effetto sia stato regolarmente ottenuto e il paese occidentale che continua a praticare la pena di morte, gli Stati Uniti, è anche quello che ha il tasso di criminalità più elevato. Beccaria, per parte sua, dubita che un tale effetto sia possibile perché, invece di opporsi all'assassinio che si presume essa punisca, la pena di morte lo imita. «Il medesimo spirito di ferocia che guidava la mano del legislatore, reggeva quella del parricida e del sicario.» Egli pensa perfino che questa pena rischia di causare imitazioni. «Non è utile la pena di morte per l'esempio di atrocità che dà agli uomini.» È vero che in tempo di guerra ogni governo autorizza e incoraggia anche i propri cittadini a uccidere il maggior numero di nemici. Ma, giustamente, la guerra è dichiarata perché non è stato possibile raggiungere nessun accordo negoziato. In tempo di pace i cittadini di un paese vivono secondo la legge e imitare in piena legalità l'azione militare corrisponde a compromettere l'idea stessa di legge. «Parmi un assurdo che le leggi che sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio.»

Un'altra trasgressione dei diritti dell'uomo, praticata sporadicamente dai governi, è costituita dalla tortura. Ogni essere umano ha diritto all'integrità del proprio corpo; egli solo può rinunciarvi, infliggendosi mutilazioni o suicidandosi. Dunque, non diversamente dall'omicidio, la tortura non può essere legalizzata. I governi vi ricorrono, non per sadismo, ma per ottenere informazioni che giudicano indispensabili: vorrebbero, scrive Beccaria, «che il dolore divenisse il crogiuolo della verità». È un risultato pagato a caro prezzo perché, per estorcere queste confessioni la cui validità rimane dubbia (si confesserebbe qualunque cosa pur di far cessare il dolore), non solo si infligge una sofferenza intollerabile al torturato che ne rimarrà segnato per tutta la vita, ma si distrugge interiormente chi tortura, che perde il senso della comunità umana universale, e si rivolge a tutta la popolazione un messaggio che autorizza la trasgressione dei limiti posti dalla legge.

L'esercito francese ha praticato sistematicamente la tortura durante la guerra d'Algeria, in special modo a partire dal 1957, quando si è vista affidare le funzioni di controllo, con la giustificazione che, in una guerra civile come quella, il nemico era invisibile e ottenere informazioni era necessario per identificarlo. A ciò si aggiungeva spesso l'argomento della «bomba che esploderà entro un'ora», circostanza in realtà eccezionale, mentre la tortura riguardava migliaia di persone e continuava a lungo dopo l'ora presunta dell'attentato. Germaine Tillion, che allora cercava di impedire queste pratiche, scriveva all'arcivescovo di Parigi (il 7 dicembre 1957): «Nel corso degli ultimi sei mesi, numerose giovani donne musulmane e cristiane sono state torturate per motivi futili o inesistenti: denudamento, supplizio dell'affogamento, supplizio dell'elettricità talvolta con elettrodi applicati alle parti genitali, sospensione per i polsi con le mani legate dietro la schiena, un supplizio analogo a quello della croce, perché provoca l'asfissia».

È proprio così che è morto, nel novembre 2003, il prigioniero iracheno Manadel al-Jamadi, torturato nella prigione di Abu Graib a Baghdad dagli agenti della CIA. Dopo che gli erano state rotte sei costole e la testa avviluppata in un sacco di plastica, è stato sospeso per i polsi ammanettati dietro la schiena; meno di un'ora dopo il suo ingresso nella prigione è morto per soffocamento. Alcuni sopravvivono alla sola sospensione, come Jean Améry, prigioniero della Gestapo durante la seconda guerra mondiale, in Belgio, che ha lasciato un minuzioso racconto della sua esperienza in Intellettuale a Auschwitz. Altri che erano detenuti da tempo, usciti dal campo di Guantánamo, hanno raccontato di avervi subito percosse, di essere stati messi nudi in gabbie, obbligati a ingoiare medicine e a guardare film pornografici e minacciati da vicino da cani tenuti al guinzaglio: lontana reminiscenza dei topi che sfiorano il viso dei prigionieri in 1984.

I servizi segreti americani probabilmente non sono i soli a sottoporre i loro prigionieri alla tortura; in compenso, il governo degli Stati Uniti ha assunto una posizione eccezionale tentando di legalizzarla. All'indomani degli attentati dell'11 settembre 2001 il vicepresidente Cheney ha promesso di ricorrere a tutti i mezzi a sua disposizione per combattere il terrorismo. Un memorandum del dipartimento di Giustizia, datato 1° agosto 2002, elenca alcuni di questi mezzi: far soffocare gli individui senza provocare la morte, inondarli, non curare le loro ferite, impedire loro di dormire, assordarli e accecarli. Sovente si tratta di una tortura psicologica più che fisica, ma che porta i detenuti sull'orlo della pazzia e lascia disturbi permanenti. Il governo americano rifiuta sistematicamente di trattare questi terroristi secondo la convenzione di Ginevra che riguarda i prigionieri di guerra. Un senatore americano, John McCain, che era stato prigioniero in Vietnam e aveva subìto la tortura, ha presentato un progetto di legge che impone alle prigioni della CIA gli stessi regolamenti adottati nelle altre prigioni americane, ovvero, detto in altre parole che rende la tortura illegale. Il progetto, alla fine votato dal senato il 30 dicembre 2005, è stato aspramente osteggiato dalla Casa Bianca. Questi atti di tortura continuano a verificarsi molti anni dopo gli attentati terroristici e gli interventi militari. Ciò che colpisce, qui, è che la tortura non soltanto è tollerata, ma rivendicata in nome di una lotta per la sicurezza interna e per i diritti dell'uomo, gli stessi diritti di cui essa si fa beffe.

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Bisogna dire che, rispetto ad altre parti del mondo, l'Europa effettivamente si distingue per la molteplicità di stati presenti sul suo territorio. Confrontandola con la Cina, la cui superficie è all'incirca equivalente, non si può che restare colpiti dal contrasto: un solo stato, da un lato, si contrappone oggi a una quarantina di stati indipendenti, dall'altro. E in questa molteplicità, che si sarebbe potuta credere un ostacolo, che gli illuministi hanno visto il vantaggio dell'Europa; è il confronto con la Cina che sembra loro non lasciare alcun dubbio. Hume dichiara: «In Cina pare vi sia un fondo di civiltà e di scienza discretamente rilevante, che, nel corso di tanti secoli, ci si poteva naturalmente aspettare che maturasse in qualche cosa di più perfetto e compiuto di quello che finora è stato prodotto da quel paese. Ma la Cina è un grande impero, ove si parla una sola lingua, governato da una sola legge e in cui i sentimenti e le opinioni sono largamente condivisi». Un fondo originariamente ricco di inventiva e creatività è stato messo a tacere dalla presenza di un immenso impero unificato, in cui il regno incontrastato dell'autorità, delle tradizioni, delle solide reputazioni ha provocato la stagnazione delle menti. Contrariamente a ciò che afferma l'antico adagio, qui è la divisione che fa la forza! Hume forse è il primo pensatore a vedere l'identità dell'Europa più che in una caratteristica condivisa da tutti (l'eredità dell'impero romano, la religione cristiana), nella sua stessa pluralità: non quella degli individui, ma quella dei paesi che la formano. Rimane da capire per quale alchimia si riesca a trasformare, non il fango in oro, ma una caratteristica di per sé negativa (la differenza) in qualità positiva; e come la pluralità possa dare origine all'unità.

I pensatori del XVIII secolo hanno voluto sapere in che cosa potessero consistere i vantaggi della diversità e hanno formulato numerose ipotesi, forse perché si sono confrontati con questa domanda in vari ambiti. Per cominciare, la pluralità più problematica, quella delle religioni: in viaggio a L'Aia, Voltaire si rallegra della tolleranza che regna in essa, tutte le religioni sembrano buone e nessuna cerca di eliminare le altre. Dieci anni più tardi, durante il suo soggiorno in Inghilterra, osserva gli stessi vantaggi della pluralità e conclude: «Se in Inghilterra ci fosse una sola religione, ci sarebbe da temere il dispotismo; se ne ce fossero due, si taglierebbero la gola; ma se ce ne sono trenta, vivono in pace e felici». Possiamo immaginare le ragioni di questa preferenza: se una religione occupasse una posizione egemonica, i suoi adepti sarebbero inevitabilmente tentati di opprimere gli altri, fino a eliminarli. D'altro canto, la presenza di due religioni soltanto, alimenterebbe eccessivamente la rivalità: il ricordo delle guerre di religione, guerre civili che hanno insanguinato la Francia, è ancora vivo in tutti. La pluralità comincia con il numero tre e implica che un'autorità esterna, dunque non religiosa, assicuri la pace tra loro: è meglio separare potere spirituale e potere temporale. Montesquieu, per parte sua, non condanna le religioni, ma auspica che siano numerose: ciascuna di esse cerca di inculcare nei suoi fedeli regole di buona condotta «e che cosa può animare questo zelo più della loro molteplicità?» La pluralità favorisce l'emulazione e nessuna volontà che mira al bene è mai di troppo.

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La lezione dell'illuminismo consiste, pertanto, nel sostenere che la pluralità può dare origine a una nuova unità almeno in tre modi: incita alla tolleranza attraverso l'emulazione, sviluppa e protegge il libero spirito critico, facilita il distacco da sé portando a un'integrazione superiore di sé e dell'altro. Come non cogliere che la costruzione dell'Europa, oggi, può trarre vantaggio da questa lezione? Per un suo esito positivo, tale costruzione non deve limitarsi ai soli accordi che riguardano le tariffe doganali, né accontentarsi unicamente di migliorare le strutture burocratiche, ma assumere anche un certo spirito europeo, di cui gli abitanti del continente possono sentirsi fieri. Ora, a questo proposito c'è un problema: ciò che tutte le nazioni europee condividono – razionalità scientifica, difesa dello stato di diritto e dei diritti dell'uomo – possiede una vocazione universale e non specificamente europea. Al tempo stesso, questo sostrato comune non è sufficiente a organizzare un'entità politica durevole, deve essere completato da scelte particolari, radicate nella storia e nella cultura di ogni nazione. L'esempio della lingua è rivelatore: ogni gruppo umano parla la propria, invece di adottarne una universale; l'esistenza di una lingua di comunicazione internazionale, come oggi l'inglese, non sopprime affatto le lingue particolari.

Per di più, nel corso della loro lunga storia, le nazioni europee hanno visto confrontarsi le scelte ideologiche più diverse e ogni dottrina dominante ne ha suscitate altre che l'hanno combattuta. La fede appartiene alla tradizione europea, ma anche l'ateismo, la difesa della gerarchia e quella dell'uguaglianza, la continuità come il cambiamento, l'ampliamento dell'impero come la lotta antimperialista, la rivoluzione come la riforma o il conservatorismo. Le popolazioni europee sono veramente troppo diverse per poter essere ridotte a una manciata di elementi comuni; inoltre, hanno ricevuto l'apporto di altre popolazioni immigrate, che hanno portato con sé la propria religione, i propri costumi, la propria memoria. La «volontà di tutti», per dirla con Rousseau, non potrebbe imporsi senza che una parte degli europei subisca una pressione violenta da parte degli altri; altrimenti si tratterebbe solo di una finzione, di un tentativo di pavoneggiarsi con una maschera edificante.

In compenso, l'identità dell'Europa, e dunque la sua «volontà generale», potrà affermarsi se si fa leva sulle analisi effettuate all'epoca dei lumi e, invece di isolare una certa qualità per imporla a tutti, si prendono a fondamento dell'unità lo statuto accordato alle nostre differenze e le maniere di trarne profitto: favorendo la tolleranza e l'emulazione, il libero esercizio dello spirito critico, il distacco da sé che permette di proiettarsi nell'altro e giungere così a un livello di generalità che include il punto di vista di entrambi. Volendo scrivere una storia identica per tutti gli europei, saremmo obbligati a eliminarne ogni motivo di disaccordo; il risultato sarebbe una storia edificante, che dissimula tutto ciò che infastidisce, in accordo con le esigenze del «politicamente corretto» del momento. Tentando, invece, di scrivere una storia «generale», i francesi non si limiterebbero a studiare la storia che li riguarda ponendosi esclusivamente dal proprio punto di vista, ma terrebbero conto dello sguardo rivolto a questi stessi avvenimenti dai tedeschi, o dagli inglesi, o dagli spagnoli, o dagli algerini o dai vietnamiti. Scoprirebbero così che il loro popolo non sempre ha giocato i ruoli positivi dell'eroe e della vittima e sfuggirebbero in tal modo alla tentazione manichea di vedere il bene e il male distribuiti al di qua e al di là di una frontiera. È proprio questo l'atteggiamento che gli europei di domani potrebbero avere in comune e vagheggiare come la loro eredità più preziosa.

La capacità di integrare le differenze senza annullarle distingue l'Europa dagli altri grandi gruppi politici mondiali: dall'India o dalla Cina, dalla Russia o dagli Stati Uniti, in cui gli individui sono estremamente diversi, ma inseriti in seno a una nazione unica. L'Europa, invece, riconosce non solo i diritti degli individui, ma anche quelli delle comunità storiche, culturali e politiche che gli stati membri dell'Unione rappresentano. Questa lungimiranza non è un dono del cielo, è stata pagata a caro prezzo: prima di essere il continente che incarna la tolleranza e il riconoscimento reciproco, l'Europa è stato quello delle lacerazioni dolorose, dei conflitti mortali, delle guerre incessanti. Questa lunga esperienza di cui serba memoria, tanto nei suoi racconti quanto nei suoi edifici, se non addirittura nei suoi paesaggi, è il tributo che ha dovuto pagare per poter beneficiare, secoli più tardi, della pace.

L'illuminismo è la creazione più importante dell'Europa e non avrebbe potuto vedere la luce senza l'esistenza dell'area europea, al tempo stesso una e molteplice. Ora, è altrettanto vero anche l'inverso: è l'illuminismo all'origine dell'Europa, così come la concepiamo oggi. E allora possiamo dire senza timore di esagerare: senza Europa niente illuminismo; e anche: senza illuminismo niente Europa.

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