Copertina
Autore Adam Tooze
Titolo Il prezzo dello sterminio
SottotitoloAscesa e caduta dell'economia nazista
EdizioneGarzanti, Milano, 2008, Collezione storica , pag. 952, ill., cop.ril.sov., dim. 14,5x21,8x5,4 cm , Isbn 978-88-11-69324-6
OriginaleThe Wages of Destruction. The Making and Breaking of the Nazi Economy [2006]
TraduttoreRoberto Merlini
LettoreElisabetta Cavalli, 2008
Classe storia contemporanea , storia economica , paesi: Germania
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Indice


    Elenco delle abbreviazioni più frequenti          8

    Prefazione                                        9

 1. Introduzione                                     19

    Prima parte - LA RIPRESA

 2. «A ogni lavoratore il suo lavoro»                61
 3. La rottura                                       97
 4. Il regime e le imprese tedesche                 133
 5. Volksgemeinschaft nel rispetto del budget       175
 6. Salvare i contadini                             211

    Seconda parte - LA GUERRA IN EUROPA

 7. 1936: mancano quattro anni alla guerra          253
 8. Nella zona di pericolo                          301
 9. Nulla da guadagnare dall'attesa                 349
10. Rischiare il tutto per tutto:
    il primo inverno di guerra                      397
11. Vittoria a occidente — Sieg im Westen           447
12. Gran Bretagna e America:
    il dilemma strategico di Hitler                 479

    Terza parte - LA GUERRA MONDIALE

13. Prepararsi contemporaneamente per due guerre    517
14. La grandiosa strategia della guerra razziale    557
15. Dicembre 1941: il punto di svolta               585
16. Manodopera, cibo e genocidio                    617
17. Albert Speer, «l'uomo del miracolo»             661
18. Non c'è spazio per il dubbio                    707
19. Disintegrazione                                 747
20. La fine                                         783

    Appendice. Dati supplementari                   807

    Note                                            819
    Ringraziamenti                                  925
    Elenco delle figure                             929
    Elenco delle tabelle                            931
    Elenco delle illustrazioni                      933
    Indice dei nomi                                 935


 

 

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Pagina 9

Prefazione



Com'è potuto accadere? Nel 1938 il Terzo Reich diede avvio alla seconda campagna di conquista e distruzione messa in atto dalla Germania in meno di una generazione. All'inizio, la Wehrmacht di Hitler sembrava inarrestabile, ancora più preparata e più aggressiva delle armate del Kaiser. Ma mentre Hitler passava da una vittoria all'altra, i suoi nemici si moltiplicavano. Per la seconda volta, l'aspirazione tedesca a dominare il continente europeo si scontrava con un'opposizione fortissima. Nel dicembre del 1941 il Terzo Reich era in guerra non solo con l'impero britannico e l'Unione Sovietica, ma anche con gli Stati Uniti. Ci vollero tre anni e cinque mesi, ma alla fine Hitler subì una sconfitta molto più rovinosa di quella che travolse il Kaiser. La Germania, insieme a vaste zone dell'Europa orientale e occidentale, fu ridotta in macerie. La Polonia e la parte occidentale dell'Unione Sovietica vennero praticamente sventrate. La Francia e l'Italia andarono pericolosamente vicine alla guerra civile. Gli imperi d'oltremare di Gran Bretagna, Francia e Olanda furono irrimediabilmente scossi. E quando il mondo venne a conoscenza dell'incredibile genocidio perpetrato dal regime nazionalsocialista, la superiorità che un tempo si riconosceva pacificamente alla civiltà europea fu messa in dubbio per sempre. Com'è potuto accadere?

Sono gli uomini a fare la storia. In ultima istanza, la volontà umana – individuale e collettiva – dev'essere il punto di partenza per qualunque analisi storica della Germania nazista. Se vogliamo capire gli orribili misfatti del Terzo Reich, dobbiamo capire chi sono coloro che li hanno ordinati e compiuti. Dobbiamo studiare con la massima serietà Adolf Hitler e i suoi seguaci. Dobbiamo cercare di entrare nella loro mentalità e di imparare a orientarci negli interstizi più oscuri della loro ideologia. Non a caso la biografia – individuale e collettiva – è uno degli strumenti più illuminanti per lo studio del Terzo Reich. Ma se è vero che «sono gli uomini a fare la storia», è altrettanto vero, come disse Marx, che «non viene plasmata a loro piacimento; non viene assoggettata a circostanze scelte da loro, ma a circostanze incontrate direttamente, dettate e imposte dal passato».

Ma quali sono queste circostanze? In modo piuttosto sorprendente per coloro che lo ritengono un determinista economico semplicistico, Marx ha dato seguito al suo celebre aforisma non con una disquisizione sul modello di produzione, ma con un paragrafo sul modo in cui «la tradizione di tutte le generazioni estinte pesa come un incubo sul cervello dei viventi». Gli attori della storia, «proprio quando sembrano impegnati a rivoluzionare sé stessi e le cose, evocano ansiosamente gli spiriti del passato [...] e prendono a prestito da loro nomi, urli di guerra e costumi» che consentono di allestire «la nuova scena della storia mondiale in guisa venerabile». Hitler e i suoi scagnozzi sono vissuti certamente in un mondo autocostruito. È del tutto logico, perciò, che gli scritti recenti sul Terzo Reich si siano preoccupati della politica e dell'ideologia. Le crisi culturali che hanno travagliato l'Europa dei primi anni del XX secolo, il vuoto lasciato dalle tendenze secolarizzatrici di fine Ottocento, l'orrore radicalizzante della prima guerra mondiale, richiamano tutti quanti l'attenzione di chiunque sia interessato a scandagliare le motivazioni più profonde del nazionalsocialismo. Come possiamo capire altrimenti un regime che si è dato come obiettivo centrale lo sterminio degli ebrei europei, obiettivo in apparenza del tutto spoglio di una logica economica, un progetto che, ammesso che si possa mai comprendere, sembra intelligibile solo in base a una violenta teologia di purificazione redentrice?

La svolta culturale e ideologica nello studio del fascismo ha rimodellato in permanenza la nostra visione di Hitler e del suo regime. È difficile immaginarlo oggi, ma c'è stato un momento, non così lontano nel tempo, in cui gli storici screditavano regolarmente Mein Kampf come fonte storica e ritenevano ragionevole trattare Hitler come l'ennesimo imperialista opportunistico. Quell'epoca è definitivamente chiusa. Grazie al lavoro di due generazioni di storici, oggi abbiamo un'idea molto più precisa del modo in cui l'ideologia nazista condizionò il pensiero e l'azione della leadership nazista e più in generale della società tedesca. Ma mentre abbiamo fatto di tutto per identificare il filo conduttore ideologico e politico del regime di Hitler, altri elementi cruciali di quella vicenda sono stati relativamente trascurati. In particolare, gli storici hanno relegato in secondo piano o addirittura ignorato l'importanza dell'economia. La marginalizzazione della storia economica è anche colpa nostra. La terminologia statistica che permea gran parte della storia economica è inaccessibile ai lettori di formazione umanistica, e si è fatto troppo poco da entrambe le parti per colmare questo divario. Ma soprattutto, l'avversione all'analisi socioeconomica è stata motivata da un senso di noia; dall'impressione che non vi sia proprio nulla di nuovo da dire, che tutte le domande principali abbiano avuto risposta dalle prime due generazioni di storici e studiosi di scienze sociali che hanno pubblicato le loro opere dopo il 1945 occupandosi di argomenti come la ripresa economica del nazismo o la storia dell'economia di guerra.

Ci troviamo così davanti a una storiografia che procede a due velocità: mentre la nostra comprensione delle politiche razziali del regime e dei meccanismi interni della società tedesca sotto il nazionalsocialismo si è andata trasformando negli ultimi vent'anni, la storia economica del regime ha fatto pochissimi progressi. L'obiettivo di questo libro è avviare un processo di riallineamento intellettuale atteso da troppo tempo. A tale scopo, esso esamina criticamente i dati statistici e di archivio, in gran parte ignorati per sessant'anni, li mette a confronto con le ricerche più recenti, degli storici del Terzo Reich e degli studiosi che esplorano le dinamiche dell'economia tra le due guerre, e si chiede che luce getta tutto questo su alcuni interrogativi centrali per la storia del regime di Hitler: in che modo le crepe apertesi nella struttura globale di potere dalla grande depressione del 1929-1932 hanno consentito al governo di Hitler di avere un impatto così forte sulla scena mondiale? Qual era la relazione tra la straordinaria ambizione imperiale di Hitler e del suo movimento, e la particolare situazione dell'economia e della società tedesche negli anni Venti e Trenta? In che misura hanno contribuito le tensioni economiche nazionali e internazionali alla decisione, maturata da Hitler nel 1939, di scatenare la guerra, e al suo costante tentativo di estenderla? Quando e come il Terzo Reich sviluppò la strategia del Blitzkrieg che viene generalmente considerata il marchio di fabbrica del suo spettacolare successo nella seconda guerra mondiale? Quando il Blitzkrieg fallì alle porte di Mosca nel dicembre 1941, come fece il Terzo Reich a portare avanti la guerra per quasi tre anni e mezzo malgrado tutto? E come dobbiamo valutare la figura di Albert Speer? Negli ultimi anni questo singolare personaggio ha attirato una straordinaria attenzione, ma – ed è certamente un segno dei tempi – non in quanto ministro degli Armamenti; gli interrogativi che hanno incuriosito gli storici riguardano piuttosto il suo ruolo di architetto di Hitler, la sua conoscenza dell'Olocausto, e i tortuosi sforzi che fece dopo il 1945 per venire a patti con la verità. Questo libro offre per la prima volta da sessant'anni a questa parte un resoconto veramente critico dell'economia di guerra della Germania sia sotto Speer sia sotto i suoi predecessori, e getta nuova luce sul sostegno che diede al Terzo Reich fino alla sua sanguinosa fine. E solo riesaminando le basi economiche del Terzo Reich, concentrandoci sulle questioni della terra, del cibo e della manodopera che si può capire a fondo lo straordinario processo di radicalizzazione cumulativa che ha trovato la sua manifestazione più sconvolgente nell'Olocausto.

Il primo obiettivo di questo libro è pertanto riportare l'economia al centro della nostra analisi del regime di Hitler, fornendo una spiegazione economica che aiuti a comprendere e a sostenere le ricostruzioni storiche prodotte nell'ultima generazione. Non meno pressante, tuttavia, è l'esigenza di allineare la nostra disamina della storia economica del Terzo Reich alla sottile ma profonda riscrittura della storia dell'economia europea, che è in corso dalla fine degli anni Ottanta, ma che è passata largamente in sottordine rispetto alla storiografia predominante sulla Germania.

Non è esagerato affermare che gli storici della Germania del XX secolo hanno almeno un punto di partenza in comune: l'assunto della straordinaria forza dell'economia tedesca. Ovviamente, quando Hitler salì al potere, la Germania era nel pieno di una profonda crisi economica. Ma l'ortodossia della storia europea del XX secolo dipingeva la Germania come una superpotenza in divenire, una forza economica comparabile solo agli Stati Uniti. Nonostante l'acceso dibattito sulla arretratezza o meno della cultura politica tedesca, l'assunto della peculiare modernità economica della Germania è rimasto sostanzialmente incontestato. Tale assunto impronta di sé gran parte della storiografia tedesca, così come informa le ricostruzioni dell'imperialismo tedesco in politica estera. In effetti, il dogma della superiorità economica della Germania era così influente da condizionare non solo le ricostruzioni della storia tedesca, ma anche quelle della storia di altri paesi. Per quasi tutto il XX secolo, la Germania è stata il parametro di confronto per la Gran Bretagna, la Francia e persino gli Stati Uniti.

Oggi, agli inizi del XXI secolo, è dalla messa in discussione di questo assunto che dobbiamo partire. Sia l'esperienza concreta degli europei a partire dai primi anni Novanta, sia il lavoro di una generazione di economisti e di storici dell'economia, hanno messo in dubbio, se non demolito, il mito della superiorità economica della Germania. Si scopre così che il filo conduttore della storia economica europea nel XX secolo portava a una progressiva convergenza intorno a una norma che fu definita, per quasi tutto il periodo, non dalla Germania, ma dalla Gran Bretagna, che nel 1900 era già la prima potenza industriale e metropolitana del mondo. Inoltre, fino al 1945 la Gran Bretagna non fu un semplice paese europeo; fu il più grande impero globale che il mondo avesse mai conosciuto. Nel 1939, quando iniziò la guerra, il PIL cumulato degli imperi britannico e francese superava del 60 per cento quello della Germania e dell'Italia. Naturalmente, l'idea dell'intrinseca superiorità economica tedesca non era semplicemente il prodotto dell'immaginazione storica. A partire dalla fine del XIX secolo, la Germania fu sede di un nutrito gruppo di industrie di rilevanza internazionale. Nomi come Krupp, Siemens e IG Farben diedero sostanza al mito dell'invincibilità industriale tedesca. Vista in termini più ampi, tuttavia, l'economia tedesca differiva ben poco dalla media europea: negli anni Trenta il reddito nazionale pro capite era discreto, paragonabile a quello dell'Iran o del Sudafrica oggi. Il livello dei consumi di cui godeva la maggioranza della popolazione tedesca era modesto e inferiore a quello di quasi tutti gli altri paesi dell'Europa occidentale. La Germania hitleriana era un paese solo parzialmente modernizzato, in cui più di quindici milioni di persone vivevano di artigianato o di agricoltura.

Oggi la caratteristica fondamentale della storia economica del XX secolo non è più il peculiare predominio della Germania o di qualunque altro paese europeo, ma l'eclissi del «vecchio continente» a opera di una serie di nuove potenze economiche, in primis gli Stati Uniti. Nel 1870, all'epoca dell'unificazione nazionale tedesca, la popolazione di Stati Uniti e Germania era più o meno uguale e l'output totale dell'America, nonostante l'enorme abbondanza di terre coltivabili e di risorse, superava solo del 30 per cento quello della Germania. Poco prima che scoppiasse la prima guerra mondiale, l'economia americana era cresciuta fino a una dimensione quasi doppia di quella della Germania imperiale. Nel 1943, prima che i bombardamenti aerei arrivassero al culmine, la produzione totale dell'America era quasi quattro volte quella del Terzo Reich.

Iniziamo perciò il XXI secolo con una percezione storica diversa da quella che ha improntato le ricostruzioni della storia tedesca per quasi tutto il secolo scorso. Da una parte abbiamo un'idea più precisa della posizione veramente eccezionale che occupano gli Stati Uniti nell'economia globale di oggi. Dall'altra, l'esperienza comune europea della «convergenza» ci fornisce una prospettiva particolarmente disincantata sulla storia economica della Germania. La tesi fondamentale e potenzialmente più radicale del mio libro è che queste modifiche interconnesse della nostra percezione storica richiedono un ripensamento della storia del Terzo Reich, un ripensamento che ha l'effetto doppiamente inquietante di rendere la storia del nazismo più intelligibile, anzi sinistramente contemporanea, e di metterne ancora più in rilievo la fondamentale irrazionalità ideologica. La storia economica getta nuova luce sia sulle motivazioni dell'aggressione di Hitler, sia sulle ragioni del suo fallimento, o per meglio dire dell'inevitabilità di esso.

Sotto entrambi gli aspetti, l'America dovrebbe essere il cardine della nostra lettura critica del Terzo Reich. Nel tentativo di spiegare l'indilazionabilità dell'aggressione di Hitler, gli storici hanno sottovalutato la sua profonda consapevolezza della minaccia che veniva alla Germania, e alle altre potenze europee, dall'emergere degli Stati Uniti come superpotenza dominante a livello globale. Sulla base dei trend economici contemporanei, Hitler aveva capito già negli anni Venti che le potenze europee avevano davanti solo pochi anni per organizzarsi e far fronte a questo evento ineludibile. Aveva capito inoltre l'irresistibile attrazione già esercitata sugli europei dal ricco stile di vita americano, un'attrazione di cui possiamo apprezzare più chiaramente la forza grazie alla maggior consapevolezza della più generale transizione attraversata dalle economie europee nel periodo tra le due guerre. Come in molte economie semiperiferiche di oggi, negli anni Trenta la popolazione tedesca era già pienamente immersa nel mondo luccicante di Hollywood, ma nello stesso tempo milioni e milioni di persone vivevano in condizioni di sovraffollamento, senza servizi igienici e senza elettricità. I veicoli a motore, le radio e altre comodità della vita moderna come gli elettrodomestici erano aspirazioni dell'élite sociale. L'originalità del nazionalsocialismo stava nel fatto che, anziché accettare docilmente un posto nell'ordine economico globale dominato dai ricchi paesi di lingua inglese, Hitler cercò di mobilitare le frustrazioni represse del suo popolo per orchestrare una sfida epica a quest'ordine globale. Replicando ciò che avevano fatto gli europei in tutto il mondo nei tre secoli precedenti, la Germania si sarebbe ritagliata un hinterland imperiale; con un'ultima e grandiosa acquisizione di terre a est si sarebbe creata una base di autosufficienza per il benessere nazionale e la piattaforma necessaria per prevalere nella competizione tra superpotenze che l'avrebbe opposta agli Stati Uniti.

L'aggressione messa in atto dal regime di Hitler si può dunque razionalizzare come una comprensibile risposta alle tensioni causate dallo sviluppo ineguale del capitalismo, tensioni che naturalmente permangono anche oggi. Ma nello stesso tempo, l'analisi dei fondamentali dell'economia serve anche a mettere in luce la profonda irrazionalità del progetto hitleriano. Come cercherò di dimostrare, a partire dal 1933 il regime di Hitler avviò una campagna veramente straordinaria di mobilitazione economica. Il programma di armamento del Terzo Reich diede luogo al più grande trasferimento di risorse mai intrapreso da uno stato capitalista in tempo di pace. Hitler, tuttavia, non fu in grado di alterare l'equilibrio tra forza economica e forza militare. L'economia della Germania non era abbastanza solida da creare la forza militare che occorreva per schiacciare tutti i suoi vicini europei, incluse la Gran Bretagna e l'Unione Sovietica, per non parlare degli Stati Uniti. Anche se nel 1936 e nel 1938 Hitler riportò dei brillanti successi a breve termine, la diplomazia del Terzo Reich non fu in grado di realizzare l'alleanza antisovietica proposta in Mein Kampf. Di fronte alla prospettiva di una guerra contro Francia e Gran Bretagna, Hitler fu costretto all'ultimo momento a ricercare un accordo di convenienza con Stalin. L'efficacia devastante dei panzer, deus ex machina nei primi anni di guerra, non costituì certamente la base della strategia in preparazione dell'estate 1940, che di fatto colse di sorpresa la stessa leadership tedesca. E pur essendo indubbiamente spettacolari, le vittorie conseguite dall'esercito tedesco nel 1940 e nel 1941 non portarono a nulla. Arriviamo perciò alla stupefacente conclusione che nel settembre del 1939 Hitler entrò in guerra senza un piano coerente per sconfiggere il suo principale antagonista, l'impero britannico.

Perché Hitler fece questa epica scommessa? La domanda fondamentale è sicuramente questa. Anche se la conquista dello spazio vitale si può considerare un atto imperialistico, anche se al Terzo Reich si può riconoscere uno sforzo straordinario di mobilitazione delle proprie risorse a fini di belligeranza, anche se i soldati tedeschi combatterono valorosamente, la conduzione della guerra da parte di Hitler comportava dei rischi così elevati da sfidare qualunque razionalizzazione in termini di egoismo pragmatico. Ed è con questo interrogativo che ci ricolleghiamo alla storiografia tradizionale e alla sua insistenza sull'importanza dell'ideologia. Fu l'ideologia a fornire a Hitler la lente interpretativa attraverso cui lesse l'equilibrio internazionale del potere e lo sviluppo della lotta sempre più globalizzata che iniziò in Europa nell'estate del 1936 con la guerra civile spagnola. Nella mente di Hitler, la minaccia posta al Terzo Reich dagli Stati Uniti non si limitava alla convenzionale rivalità tra superpotenze. La minaccia era esistenziale e si abbinava al timore ossessivo di Hitler per la cospirazione ebraica mondiale, incarnata dagli «ebrei di Wall Street» e dai «media ebraici» degli Stati Uniti. Fu questa interpretazione fantastica del reale equilibrio di potere a dare al processo decisionale del Führer quel carattere volubile e fortemente orientato al rischio. La Germania non poteva accettare passivamente quel ruolo di satellite benestante degli Stati Uniti, che era sembrato essere il destino della repubblica di Weimar negli anni Venti, perché tale condizione l'avrebbe resa schiava della cospirazione ebraica mondiale e avrebbe causato la fine della razza ariana. A causa della pervasiva influenza degli ebrei, rivelata dalla crescente tensione internazionale della fine degli anni Trenta, un prospero futuro di partnership capitalista con le potenze occidentali era semplicemente impossibile. La guerra era inevitabile. La domanda non era se, ma quando.

Questo è un libro molto voluminoso, e siccome è scritto per essere letto dall'inizio alla fine, non voglio allentare la tensione rivelando il finale già nelle prime pagine. Mi limito a dire che, benché la storia del Terzo Reich sia stata profondamente analizzata in decenni di meticoloso lavoro investigativo, la vicenda narrata qui è nuova. Il mio obiettivo è fornire al lettore una comprensione più profonda e più vasta di come Hitler conquistò il potere e mobilitò il proprio paese per la guerra. Propongo un nuovo resoconto della dinamica che portò la Germania alla guerra e spiego sia come tale dinamica sostenne uno sforzo bellico efficace fino al 1941, sia come raggiunse il suo limite inevitabile nelle nevi della Russia. Poi il libro affronta quella che è certamente ancora la più importante sfida interpretativa che si pone a qualunque storico del Terzo Reich, e in particolare a uno storico dell'economia: spiegare l'Olocausto. Attingendo al materiale d'archivio e una generazione di brillanti ricerche storiche, metto in evidenza le connessioni tra la guerra agli ebrei e i più vasti progetti del regime, basati sull'imperialismo, il lavoro coatto e la riduzione deliberata alla fame. Nella mente dei leader nazisti c'erano, in effetti, non una ma tante logiche economiche a giustificazione del genocidio. Infine, prendendo spunto da questi capitoli decisivi sul periodo 1939-1942, documento la straordinaria mobilitazione coercitiva, voluta e orchestrata da Albert Speer, attraverso cui il regime sostenne lo sforzo bellico della Germania per tre durissimi anni.

Coloro che a questo punto vogliono già delle conclusioni più specifiche dovrebbero andare al capitolo 20, che offre una breve sintesi di alcuni punti critici. Per evitare di appesantire ulteriormente la trattazione, non ho infierito con una bibliografa completa. I titoli di tutte le opere citate appaiono integralmente alla prima occorrenza in ciascun capitolo. Una bibliografia completa, e altre risorse sulla storia economica del Terzo Reich, sono disponibili sulla pagina web dell'autore, all'indirizzo Internet www.hist.cam.ac.uk/academic_staff/further_details/tooze.hmtl.

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Pagina 19

1. Introduzione



Riesaminando criticamente il XX secolo, è difficile non concludere che la storia della Germania sia stata dominata da due temi principali: da una parte il perseguimento del progresso economico e tecnologico, che per gran parte del secolo ne fece, insieme agli Stati Uniti e poi al Giappone, alla Cina e all'India, una delle maggiori economie del mondo; dall'altra parte il perseguimento della guerra su una scala fino ad allora inimmaginabile.

La Germania aveva contribuito a scatenare la prima, devastante, guerra mondiale del XX secolo, ed era l'unica responsabile della seconda. Inoltre, durante quest'ultima, Hitler e il suo regime ampliarono i confini della guerra fino a includervi un genocidio che non ha eguali per intensità, portata e livello di pianificazione. Dopo la seconda catastrofe del 1945, le potenze occupanti fecero in modo di non lasciare alternative alla Germania. Anche se lo sport, la tecnologia, la scienza e la cultura vennero gradualmente riammessi in quanto aree di auto-espressione individuale e nazionale, e benché la politica tedesca fosse divenuta più multidimensionale a partire dalla fine degli anni Sessanta, fu la ricerca depoliticizzata del benessere materiale a dominare la vita nazionale, specie nella Germania occidentale, nel dopoguerra. Per contro, la prima resa, nel 1918, fu meno completa e le conclusioni tratte sia dai tedeschi sia dai loro ex nemici furono conseguentemente più ambigue. Una delle tante caratteristiche straordinarie della politica tedesca all'indomaní della prima guerra mondiale è che per tutta la durata della repubblica di Weimar l'elettorato tedesco dovette scegliere tra il perseguimento pacifico della prosperità nazionale e un nazionalismo militante che pretendeva, più o meno apertamente, la ripresa delle ostilità con la Francia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Poiché il libro sarà quasi tutto dedicato a una disamina del modo in cui Hitler sfruttò l'economia tedesca nel perseguimento di questa seconda opzione, mi sembra importante iniziare definendo chiaramente l'alternativa a cui si contrapponeva la sua visione, e spiegando come tale alternativa sia stata messa fuori gioco dai disastrosi eventi che portarono alla conquista del potere da parte di Hitler.

Sarebbe erroneo, tuttavia, negare l'esistenza di continuità tra tutti i partecipanti al dibattito strategico che si tenne in Germania negli anni Venti e Trenta e la tradizione imperialista dell'era guglielmina. L'ostilità verso i francesi e i polacchi e le mire imperiali sui paesi vicini, a ovest e a est, non rappresentavano nulla di nuovo. Ma un'enfasi eccessiva sulla continuità relega in secondo piano l'impatto radicale della sconfitta del novembre 1918 sulla politica tedesca, e la crisi traumatica che ne seguì. Questa agonia arrivò all'apice nel 1923, quando i francesi occuparono la Ruhr, cuore industriale dell'economia tedesca. Nei mesi successivi, in cui Berlino sponsorizzò una vasta campagna di resistenza passiva, il paese scivolò nell'iperinflazione e in un disordine politico così grave che nell'autunno del 1923 arrivò a mettere in discussione la sopravvivenza della Germania come stato-nazione. Il dibattito strategico in Germania non fu mai più lo stesso. Da una parte, la crisi del 1918-1923 diede origine all'ultranazionalismo – incarnato dall'ala radicale del DNVP e dal Partito nazista hitleriano –, apocalittico nella sua intensità quanto null'altro mai prima del 1914. Dall'altra parte, essa produsse anche un atteggiamento realmente innovativo nella politica estera ed economica della Germania. Questa alternativa al nazionalismo militante mirava anche a ottenere una revisione delle onerose condizioni imposte dal trattato di Versailles. Ma non intendeva farlo scommettendo sulla forza militare. La politica estera di Weimar guardava all'economia come al campo principale in cui la Germania poteva ancora esrcitare una significativa influenza sul mondo. E soprattutto, ricercava sicurezza e potere di influenza per la Germania sviluppando collegamenti finanziari con gli Stati Uniti e lavorando a una maggiore integrazione industriale con la Francia. Sotto alcuni aspetti cruciali, questo atteggiamento anticipava chiaramente la strategia perseguita dalla Germania Ovest dopo il 1945. Era una politica che godeva dell'appoggio di tutti i partiti della coalizione di Weimar: i socialdemocratici, i liberali di sinistra del DDP e il partito centrista cattolico. Ma era personificata da Gustav Stresemann, leader dei nazional-liberali e ministro degli Esteri della Germania tra il 1923 e il 1929.

Quattro anni dopo la stabilizzazione del 1924, le elezioni generali del 20 maggio 1928 rappresentarono la prima occasione in cui l'intero elettorato della Germania ebbe modo di esprimere il proprio verdetto sui risultati della politica estera della repubblica di Weimar e di Stresemann. Quest'ultimo decise di candidarsi in Baviera. Monaco, naturalmente, era anche uno dei covi del NSDAP; e in quanto leader di quel piccolo partito, Hitler sperava di farsi pubblicità scontrandosi con Stresemann. Gli elettori bavaresi si trovarono così di fronte a una drammatica alternativa tra la concezione di Stresemann del futuro della Germania, basata su quattro anni di «revisionismo economico», e il drastico rifiuto da parte di Hitler dei fondamenti della politica estera ed economica di Weimar. Entrambi presero molto sul serio la competizione elettorale. Pur ritenendo fondamentale far apparire Hitler poco più che un eccentrico, Stresemann ammetteva di aver dedicato del tempo a leggere almeno uno dei suoi discorsi per informarsi sulle tesi con cui si sarebbe dovuto confrontare. Hitler, da parte sua, sfruttò il duello elettorale con Stresemann per affinare le idee sulla politica estera e sull'economia che aveva formulato inizialmente in Mein Kampf, il suo manifesto politico, scritto nel carcere di Landsberg nel 1924. Fu così che nacque il manoscritto del «secondo libro» di Hitler, che fu completato nell'estate del 1928 e conteneva passaggi fondamentali dei suoi vibranti discorsi.


I


Gustav Stresemann aveva enunciato per la prima vota la sua concezione, secondo cui «la politica [...] è oggi anzitutto la politica dell'economia mondiale», quand'era un giovane e ambizioso rappresentante del Partito nazional-liberale al Reichstag guglielmino. E non si trattava di pura retorica: era un'esperienza profondamente radicata nella sua biografia. Nato nel 1878 a Berlino da un piccolo imbottigliatore indipendente della aromatica Weiss Bier, una delle bevande più apprezzate nella capitale, Stresemann aveva visto l'azienda del padre messa in ginocchio dalla concorrenza delle grandi aziende birrarie. Unico di sette figli a frequentare l'università, si era laureato con una tesi in Storia economica e aveva iniziato a lavorare nel 1901 come procuratore dell'industria leggera della Sassonia, con il compito di tutelare gli interessi delle imprese orientate all'esportazione di fronte alle arroganti pretese dell'industria pesante e dell'agricoltura protezionistica. In base alla sua lettura della storia economica e alla sua conoscenza sul campo della politica commerciale, Stresemann era convinto che le forze predominanti del XX secolo sarebbero state le tre grandi economie industriali: Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti. Le grandi potenze economiche erano certamente in concorrenza tra di loro, ma erano anche funzionalmente e inestricabilmente interconnesse. La Germania doveva acquisire materie prime e risorse alimentari sui mercati esteri per assicurare al suo popolo pane e lavoro. L'impero britannico era messo meglio sul fronte delle materie prime, ma doveva far conto sul mercato tedesco per le esportazioni. Inoltre, Stresemann era convinto fin dall'inizio che l'emergere degli Stati Uniti come forza predominante dell'economia mondiale avesse modificato in permanenza la dinamica della competizione tra le potenze europee. Nel XXI secolo, il futuro dell'equilibrio di potere in Europa sarebbe stato definito in larga misura dalla relazione tra gli interessi competitivi di Europa e Stati Uniti. Stresemann non sottovalutava di certo la forza militare o la volontà popolare come elementi di potenza. Nella corsa alla costruzione della marina più forte, fu un costante sostenitore della flotta imperiale, nella speranza che la Germania potesse un giorno rivaleggiare con i britannici nel supportare il commercio estero con la potenza navale. Dopo il 1914 fu uno dei più accesi sostenitori, all'interno del Reichstag, di una guerra incentrata sugli U-Boot. Ma anche nel suo momento di maggiore imperialismo, Stresemann era motivato soprattutto da una logica economica imperniata sugli Stati Uniti. L'annessione del Belgio, della costa settentrionale francese fino a Calais, del Marocco e di un vasto territorio dell'Europa orientale era «necessaria» per assicurare alla Germania una piattaforma adeguata alla competizione con l'America. Nessuna economia priva di un mercato sicuro di almeno 150 milioni di consumatori poteva sperare di competere con le economie di scala che Stresemann aveva visto direttamente all'opera nelle zone industriali degli Stati Uniti.

Non ci sono dubbi sul fatto che l'inattesa sconfitta del 1918 avesse profondamente sconvolto Stresemann, portandolo sull'orlo di un tracollo fisico e psicologico. Scosse definitivamente la sua fiducia nella forza militare come elemento di potenza, almeno per quanto riguardava la Germania. Ma soprattutto, gli instillò dei dubbi sul sistema sociale e politico tedesco, che si era dimostrato meno in grado di risollevarsi rispetto a quello della Gran Bretagna o della Francia. Ciò, tuttavia, non fece che rafforzare la sua fede nella forza determinante dell'economia. L'economia mondiale era l'unico ambito in cui la Germania fosse realmente indispensabile. Già nell'aprile del 1919 Stresemann affermava che, tenuto conto della debolezza militare, la politica estera tedesca si sarebbe dovuta basare sulla forza delle grandi aziende nazionali. «Oggi abbiamo bisogno di fiducia dall'estero. Il Reich non è più degno di fiducia [...] Ma il singolo individuo, e le singole grandi aziende, hanno ancora credito. Ciò deriva dal rispetto incondizionato del mondo per le conquiste dell'industria tedesca e degli operatori economici tedeschi». Ma soprattutto, l'economia era il solo ambito in cui la Germania poteva costruire un legame con gli Stati Uniti, l'unica potenza che avrebbe potuto aiutarla a controbilanciare l'aggressività dei francesi e il disinteresse dei britannici. E questa visione di una partnership transatlantica informò chiaramente le azioni di Stresemann, durante il suo breve ma decisivo incarico di cancelliere della repubblica nel 1923 e poi come ministro degli Esteri tra il 1924 e il 1929. Reprimendo un'ondata di sdegno nazionalistico e mettendo fine alla rovinosa campagna di resistenza passiva all'occupazione francese della Ruhr, e segnalando nel contempo la disponibilità della Germania a rifondere i danni di guarra, Stresemann riuscì ad avviare una relazione privilegiata con gli Stati Uniti.

Ciò ebbe ovviamente un prezzo. Da quel momento in poi Stresemann fu accusato dalla destra di essere un «candidato francese». E queste accuse trovarono nuova linfa nella sua decisione di impiegare tattiche cooperative, anziché competitive, per ottenere un ritiro anticipato delle forze francesi che pattugliavano la Renania. Naturalmente non c'era nulla di più lontano dalla verità. Stresemann era sotto tutti gli aspetti un acceso nazionalista tedesco. Non prese mai le distanze dalle posizioni imperialiste che aveva adottato durante la prima guerra mondiale, perché non vedeva alcuna ragione di rinnegarle. E non fu mai disposto ad accettare come soluzione di lungo termine il confine orientale con la Polonia definito dal plebiscito del 1921 e dalla decisione della Lega delle nazioni. La sua strategia, che si fondava sulla manipolazione degli interessi incrociati di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, era semplicemente più complessa dell'approccio aggressivo favorito dagli ultranazionalisti.

Il primo successo di Stresemann fu la costituzione del comitato Dawes, che si riunì a Parigi nel 1924 per definire un sistema gestibile attraverso cui la Germania potesse rifondere i danni di guerra senza mettere a repentaglio la propria stabilità finanziaria. Il presidente del comitato era il generale Charles G. Dawes, un banchiere e industriale di Chicago che aveva diretto le commesse militari americane e interalleate durante la prima guerra mondiale. Ma il vero architetto del piano fu Owen Young, presidente della General Electric e in quanto tale uno dei leader dell'industria americana». La General Electric era per giunta alleata della Allgemeine Elektrizitäts-Gesellschaft (AEG), seconda conglomerata dell'industria elettromeccanica tedesca. Dawes e Owen realizzarono abbondantemente le speranze che Strasemann riponeva negli Stati Uniti. Le pretese originarie nei confronti della Germania vennero sensibilmente ridotte, e il pagamento annuo di 2,5 miliardi di marchi-oro per i danni di guerra non divenne pienamente operativo fino al 1928-1929. La J.P. Morgan fece la sua parte promuovendo un entusiastico voto di fiducia da parte di Wall Street, con un immediato prestito iniziale di 100 milioni di dollari. La ricostituzione della parità prebellica tra Reichsmark-oro e dollaro mise fine all'instabilità della divisa tedesca. Un'ulteriore protezione fu assicurata dal cosiddetto Reparations Agent. Questo incarico era stato affidato a un giovane e brillante funzionario di Wall Street, Parker Gilbert, che aveva il compito di bloccare i trasferimenti dei rimborsi di guerra se avessero messo in pericolo la stabilità della moneta tedesca. Le istanze dei «creditori di guerra europei» vennero così relegate a pretese di secondo livello sulle finanze della Germania. Il capitale americano non affluì direttamente in Germania, come si sostiene talvolta. Tuttavia, dato l'ampio differenziale dei tassi di interesse tra gli Stati Uniti e la Germania, dove i risparmi erano evaporati per effetto dell'iperinflazione, le condizioni del finanziamento erano chiaramente favorevoli. E tra l'ottobre del 1925 e la fine del 1928 l'afflusso di capitali esteri fu così ingente che la Germania poté adempiere ai rimborsi di guerra senza nemmeno dover conseguire un avanzo nella bilancia commerciale. Era una soluzione conveniente per i britannici e per i francesi, perché consentiva loro di insistere nella pretesa dei rimborsi senza dover aprire i propri mercati a merci di importazione per miliardi di marchi-oro. Nello stesso tempo consentiva a Washington di esigere che la Francia e la Gran Bretagna onorassero i debiti che avevano contratto con l'America per effetto della guerra.

Questa sorta di giostra, in cui i tedeschi prendevano soldi a prestito dagli americani per pagare gli inglesi e i francesi, che poi ripagavano gli americani, creava ansia su tutti i soggetti coinvolti. Tuttavia soddisfò al suo scopo. Il congresso degli Stati Uniti pretendeva il massimo rimborso possibile dei debiti interalleati nei confronti dell'America. I nuovi finanziatori americani della Germania stavano facendo grossi profitti. E la repubblica di Weimar godeva di un tenore di vita notevolmente più alto di quello che avrebbe potuto godere se fosse stata costretta a pagare i debiti di guerra attraverso un surplus di esportazione. Hjalmar Schacht, il presidente della Reichsbank insediato da Stresemann nel novembre del 1923, era profondamente preoccupato per il crescente debito internazionale della Germania. Ma condivideva la visione strategica di Stresemann. All'aumentare dei finanziamenti americani alla Germania, cresceva l'interesse di Washington a fare sì che le eccessive nretese di Gran Bretagna e Francia non mettessero a repentaglio gli investimenti americani. In termini estremamente semplificati, ed estremamente cinici, la strategia della Germania consisteva nello sfruttare la protezione assicurata dal Reparations Agent per prendere a prestito talmente tanti soldi dall'America che il servizio di questo debito avrebbe reso impossibile trasferire i risarcimenti. Più sottilmente, Stresemann e Schacht miravano a trasformare gli interessi finanziari americani nella forza principale che premeva per la revisione dei danni di guerra a carico della Germania, consentendo a Berlino di normalizzare i suoi rapporti con Londra e Parigi. E alla fine degli anni Venti questa strategia sembrava funzionare. Nel 1928, anziché i tedeschi, furono gli americani, e segnatamente il presidente della Federal Reserve, Benjamin Strong, a premere per la rinegoziazione del debito di guerra della Germania prima che le intere somme dovute in base al piano Dawes diventassero esigibili. Strong prese questa posizione non per amore della Germania, ma per salvaguardare l'enorme partecipazione finanziaria dell'America all'economia tedesca. Una crisi completa avrebbe potuto facilmente destabilizzare alcune delle più grandi banche d'America.

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20. La fine



Le fauci della sconfitta si chiusero finalmente sul Terzo Reich nell'ultima settimana di aprile del 1945. Poco prima di mezzogiorno del 25 aprile pattuglie avanzate della LXIX divisione di fanteria della I armata americana e della I armata ucraina dell'esercito sovietico si ricongiunsero sulle rive dell'Elba nella piccola città sassone di Strehla, tra le macabre rovine di un ponte provvisorio su cui transitavano i profughi. Le banchine del fiume, dove gli uomini del tenente Albert Kotzebue abbracciarono i loro colleghi sovietici, erano disseminate di cadaveri smembrati di decine di anziani e di bambini. Tre giorni prima erano stati vittime dei soldati della Wehrmacht in ritirata, che erano così ansiosi di sfuggire alla cattura da parte dell'Armata rossa da far saltare il ponte di barche mentre centinaia di civili lo stavano ancora attraversando. La duplice detonazione fece annegare o esplodere ben 400 persone.

Per ovvie ragioni, la sede ufficiale per lo storico incontro tra i sovietici e gli americani fu spostata 45 chilometri più a valle, nella città di Torgau, dove le due armate si riunirono in quello stesso pomeriggio. La fotografia ufficiale sul ponte semidistrutto di Torgau fu scattata il giorno successivo. Per quanto preordinata, la stretta di mano fu altamente significativa. Situata lungo il corso dell'Elba, Torgau si trovava a metà strada tra lo splendore barocco di Dresda, semidistrutta dai bombardamenti, e Wittenberg, la culla dell'Europa luterana. Poche miglia più a nord c'era Dessau, che oltre a ospitare le fabbriche dei bombardieri Junkers era anche il centro del modernismo di inizio secolo della Bauhaus. In Germania non c'era luogo più simbolico in cui situare lo spostamento epocale nell'equilibrio globale di potere dalla vecchia Europa alle nuove potenze degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica.

Dal punto di vista economico, l'incontro di Torgau era la conseguenza logica di due sviluppi fondamentali che definirono l'inizio del XX secolo. Il primo e più evidente era l'affermazione degli Stati Uniti come forza dominante dell'economia mondiale. Il secondo, che non apparve in tutta la sua evidenza fino agli anni Trenta, era la stupefacente trasformazione dell'impero russo attuata dalla dittatura bolscevica. Come confermava lo storico incontro tra fanti americani e sovietici nel cuore dell'Europa centrale, la storia del continente nella prima metà del XX secolo, la storia della Germania e la storia del regime hitleriano non si possono comprendere se non in relazione a questi sviluppi in atto negli Stati Uniti e nell'Unione Sovietica. È certamente questo lo sfondo su cui poggia il nostro particolare resoconto dell'ascesa e della caduta dell'economia nazista.

Hitler non cessò mai di fare riferimento alle rivoluzioni che agitarono l'Europa nel 1917-1918. L'anticomunismo era un elemento costante della sua politica, strettamente legato con una forma particolarmente velenosa di antisemitismo cospiratorio. Ma l'anticomunismo era ampiamente diffuso nella destra tedesca, come i progetti di espansionismo nei territori orientali. Inoltre, pur restando una presenza incombente sulle vicende europee, a partire dagli anni Venti l'Unione Sovietica si concentrò sulle sue vicende interne e negli anni Trenta perse rilevanza nello scenario politico europeo. Per identificare la peculiarità e la dinamica motivazionale del regime hitleriano, mi è sembrato perciò più utile focalizzarmi nei capitoli iniziali di questo libro sulle relazioni tra il Terzo Reich e le potenze occidentali.

L'ascesa degli Stati Uniti mise la Germania, al pari della Gran Bretagna e della Francia, di fronte a una scelta. Con Stresemann nel ruolo di ministro degli Esteri, la repubblica di Weimar reagì con straordinaria flessibilità e con grande realismo alla nuova situazione. Come abbiamo dimostrato, la repubblica di Weimar fondava la sua intera strategia di sicurezza sulla potenza economica degli Stati Uniti, sia come fattore di protezione, sia come leva attraverso cui spingere la Gran Bretagna e la Francia a rivedere il trattato di Versailles. E come abbiamo visto, questa scelta strategica continuo a definire la politica dell'ultimo rispettabile governo della repubblica di Weimar fino all'estate del 1932. Solo con l'ultimo sussulto della grande depressione, nel 1932-1933, e con il crollo dell'egemonia americana in Europa, si aprì la strada al nazionalismo aggressivamente unilateralista di Hitler.

In una delle sue ultime conversazioni con Martin Bormann, nel febbraio 1945, Hitler osservò: «Uno sfortunato accidente storico ha fatto sì che la mia ascesa al potere coincidesse con il momento in cui il beniamino dell'ebraismo mondiale, Roosevelt, prendeva il timone della Casa Bianca [...]. Tutto è rovinato dall'ebreo, che ha fatto degli Stati Uniti il suo bastione più potente». Ciò che opprimeva la mente di Hitler, negli ultimi mesi della guerra, era il ruolo decisivo esercitato da Roosevelt nel vanificare il suo progetto di conquista continentale. Ma nel 1933 il ruolo degli Stati Uniti era esattamente l'opposto. Quando Hitler salì al potere e Roosevelt conquistò la presidenza, l'economia americana era in preda a un'ultima e devastante crisi del settore bancario. La decisione di Washington di svincolare il dollaro dall'oro, presa senza preoccuparsi delle sue implicazioni internazionali, fece svanire ogni minima possibilità di mettere insieme un fronte internazionale in grado di contenere il regime hitleriano prima che consolidasse la sua presa sulla Germania. La coincidenza tra l'ascesa al potere di Hitler e il temporaneo isolazionismo americano – un isolazionismo che lasciò orfana l'Europa come non accadeva dalla prima guerra mondiale – fu d'importanza incalcolabile.

Pur dissentendo profondamente dalla strategia adottata da Stresemann nei confronti degli Stati Uniti, Hitler non era assolutamente ignaro del cambiamento intervenuto nello scacchiere mondiale negli anni Venti. Nel suo «secondo libro», scritto nel 1928, egli si poneva gli interrogativi strategici fondamentali con straordinaria chiarezza: come poteva la Germania, in quanto stato europeo, reagire alla «minacciata egemonia globale del Nordamerica»? Come poteva prevenire il predominio economico e militare, apparentemente inevitabile, dell'America? Come poteva la dirigenza politica tedesca soddisfare le aspirazioni materiali suscitate nella sua popolazione dall'esempio dell'affluenza americana? Sono domande innegabilmente moderne. In effetti, ce le poniamo tuttora. Le risposte di Hitler, tuttavia, furono esplosive. La soluzione non era alleare la Germania agli Stati Uniti, o adottare modelli americani di vita e di produzione. Qualunque tentativo di «americanizzazione» era destinato a sfociare nella frustrazione e nel disastro. Dietro l'America, dopotutto, stavano le forze malvagie del giudaismo mondiale, ammantato sotto le spoglie del liberalismo, del capitalismo e della democrazia. L'unica risposta adeguata alla sfida americana era creare un Lebensraum per il popolo tedesco, in grado di eguagliare quello costituito dal continente americano. Uno spazio tanto vasto era disponibile solo nei territori orientali e si poteva ottenere solo attraverso la conquista militare. Non vi sono ragioni per dubitare che questa missione di conquista fosse l'ambizione fondamentale del regime hitleriano. Per Hitler, una guerra di conquista non era solo una delle tante opzioni politiche a disposizione. O la razza tedesca combatteva per il Lebensraum, oppure i suoi nemici l'avrebbero condannata all'estinzione.

Proporre una sfida di questo genere richiedeva una strategia diplomatica e un gigantesco sforzo militare, fondati entrambi sull'economia. L'enorme sforzo di mobilitazione nazionale dev'essere l'elemento centrale di qualunque studio sulla storia economica del regime di Hitler. A confronto con l'entità del complesso militare-industriale, le varie misure di sviluppo dell'occupazione civile attivate tra giugno e dicembre del 1933, le iniziative interne di politica sociale e i falliti progetti di sviluppo di consumi di massa che ne seguirono, non furono altro che provvedimenti temporanei, che potevano acquisire una significatività reale solo dopo una riuscita campagna di conquista. In ogni caso, sarebbe un errore assumere che la rimilitarizzazione della società tedesca fosse imposta dall'alto, mentre la stragrande maggioranza dei tedeschi preferivano il burro ai cannoni. Per molti milioni di persone, la ricostruzione della Wehrmacht fu chiaramente l'aspetto più efficace della politica interna del regime, e il consumo collettivo di armi era un sostituto più che sufficiente del benessere privato.

Come dovrebbe risultare evidente dalla prima metà di questo libro, il riarmo fu la forza predominante e determinante che condizionò la politica economica fin dalle primissime fasi. Tutto il resto venne sacrificato in suo nome. Nei sei anni tra il gennaio 1933 e l'autunno della crisi di Monaco, il regime hitleriano aumentò la quota del prodotto nazionale destinata alle forze armate da meno dell'1 per cento a quasi il 20 per cento. Mai prima di allora la produzione nazionale era stata ridistribuita in tale misura o in tempi così brevi da uno stato capitalista in tempo di pace. Quello straordinario sforzo di ridistribuzione fu certamente agevolato dalla simultanea crescita intervenuta nella produzione tedesca. L'utilizzo di 6 milioni di disoccupati rispondeva alle esigenze della Wehrmacht, oltre a consentire l'incremento dei consumi e degli investimenti privati. Ma di fronte alla ricchezza di cui gode oggi, è facile dimenticare che negli anni Trenta la Germania era ben lontana dal benessere, e che la maggior parte della sua popolazione aveva un tenore di vita assai modesto. Il riarmo ebbe un costo elevato, che fu ulteriormente appesantito dai vincoli spesso drammatici imposti dalla bilancia dei pagamenti tedesca. Già nel 1934 gli interessi dei produttori di beni di consumo e degli agricoltori furono sacrificati al riarmo. Dal 1935, in molte grandi città tedesche, il burro e la carne vennero surrettiziamente razionati. A partire dal 1938, mentre la spesa militare raggiungeva livelli da pieno conflitto, il trade-off tra consumi e armamenti si fece particolarmente severo. Il fatto che il regime di Hitler riuscisse a imporre questa ridistribuzione delle risorse non indica inefficienza e disorganizzazione, ma la presenza di un sistema estremamente efficace nel perseguimento dei suoi obiettivi principali. Inoltre, ci dovrebbe indurre a mettere in dubbio qualunque interpretazione del regime nazista basata sull'assunto che mancasse di solide basi interne. Lo ripeto, il Terzo Reich trasferì più risorse alle forze armate di quanto abbia mai fatto nessun altro regime capitalista in tempo di pace. E questo vantaggio in termini di mobilitazione delle risorse interne continuò a persistere per tutta la durata della seconda guerra mondiale.

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Questo pessimismo, tuttavia, dovrebbe fare pienamente luce sul gruppo di individui che gestì lo sforzo bellico tedesco all'indomani della crisi di Mosca. Non si sono mai messe in discussione le motivazioni di uomini come Herbert Backe, l'orchestratore del piano di affamamento, o del Gauleiter Fritz Sauckel, con le sue squadre di arruolamento forzato. Né ci dovrebbero essere ulteriori discussioni su Albert Speer. Questi uomini non erano agenti apolitici di efficienza tecnocratica. Erano i fedelissimi di Hitler, desiderosi di dare fino alla fine il loro contributo al Terzo Reich. Erano gli uomini su cui Hitler poté fare affidamento anche negli ultimi mesi della guerra. E non si sarebbero fermati letteralmente davanti a nulla pur di continuare la guerra. Il «miracolo degli armamenti» di Speer si basava su risorse mobilitate da tutte le componenti dello stato nazista. La Reichsbank, il ministero degli Affari economici e il ministero delle Finanze ebbero un ruolo importante, ma largamente misconosciuto, nel preservare la stabilità della moneta tedesca, almeno fino all'inizio del 1943. L'industria tedesca mise in campo tutte le sue energie nel disperato tentativo di prevalere sull'Unione Sovietica. Ma queste componenti apparentemente innocue dello sforzo bellico tedesco erano variamente interconnesse con il sinistro sistema di potere organizzato intorno alle questioni della manodopera e del cibo dal Gauleiter Sauckel, dal segretario di Stato Herbert Backe, da Hermann Göring e da Henrich Himmler. Attraverso i loro sforzi congiunti, nel 1942 milioni di operai aggiuntivi furono mobilitati per l'industria tedesca, e l'equilibrio alimentare europeo fu drasticamente ridistribuito per assicurare le calorie e le proteine necessarie a nutrire il miracolo degli armamenti di Albert Speer. Come abbiamo dimostrato nel capitolo 16, nell'estate del 1942 anche la gassazione generalizzata degli ebrei polacchi doveva assolvere una funzione ben precisa in questa forma radicalizzata di guerra totale. E a partire dall'estate del 1943, Speer decise di fare ancora più affidamento su una partnership coercitiva con Heinrich Himmler e le SS.

L'enfasi sulla razionalizzazione nella gestione dello sforzo bellico tedesco che emerse dalla crisi del 1941 era certamente nuova. E dopo la nomina di Speer, la produzione tedesca di armamenti aumentò effettivamente. Ma considerare questo incremento di produzione come l'espressione apolitica delle capacità tecnocratiche di Speer è fuorviante. L'intera finalità del «miracolo degli armamenti» era politica. Ampiamente sottolineato dalla nuova linea di «propaganda sugli armamenti», il miracolo di Speer doveva rispondere al dubbio fondamentale che assediava sempre più lo sforzo bellico tedesco. Il messaggio fondamentale della campagna di razionalizzazione era che l'evidente inferiorità materiale della Germania non doveva essere fatale. Con la giusta applicazione di volontà e di energica improvvisazione giovanile, si poteva produrre di più con meno risorse. E come aveva dimostrato tanto spesso la Wehrmacht, non c'erano limiti a ciò che potevano ottenere i soldati tedeschi, alla sola condizione di avere le armi necessarie.

Il punto non è naturalmente screditare del tutto l'incremento nella produzione di armamenti realizzato da Speer e da Milch. Era certamente reale. Ma non meno reale era il suo fallimento strategico. L'essenza della scommessa che fece Hitler nel dicembre 1941 era la tempistica. Dopo la dichiarazione di guerra agli Stati Uniti, l'esigenza di ottenere un successo decisivo contro l'Armata rossa era più pressante che mai. Da questo fondamentale punto di vista, il ministero degli Armamenti di Speer fallì. Nel 1942, nella prima fase del «miracolo degli armamenti», la produzione tedesca fu nettamente superata dalla straordinaria mobilitazione dell'economia sovietica. Questo sforzo dei sovietici era insostenibile. Nel 1944 la Germania aveva raggiunto e superato l'Unione Sovietica. Ma come sapevano sia i sovietici, sia i tedeschi, le battaglie estive, autunnali e invernali del 1942-1943 erano fondamentali per decidere la guerra sul fronte orientale. E in questo periodo così cruciale furono i sovietici a prevalere. Tale finestra di opportunità fu così importante perché per quasi tutto il 1942 le operazioni offensive condotte dalla Gran Bretagna e dall'America contro il Terzo Reich ebbero un impatto marginale. Dall'autunno la situazione cambiò. Il peso delle risorse britanniche e americane si fece sentire prima in Nordafrica e nel Mediterraneo, poi nella sconfitta degli U-Boot tedeschi e, dalla primavera del 1943, nei prolungati bombardamenti aerei. Insieme alla deposizione di Mussolini nel luglio 1943, l'apertura di un «secondo fronte» significativo ebbe un effetto realmente drammatico. Per sei mesi del 1943 lo sconvolgimento causato dai bombardamenti inglesi e americani bloccò il miracolo degli armamenti di Speer. Il fronte interno tedesco fu colpito da un grave abbattimento del morale. Nel luglio 1943 la guerra era ormai evidentemente persa.

L'ultima e famosa accelerazione della produzione tedesca di armamenti registratasi nel 1944, su cui si fonda in larga misura la reputazione del ministero degli Armamenti di Speer, avvenne in un turbine di violenza apocalittica che costò la vita a milioni di persone e devastò una parte sostanziale del continente europeo. Prima nel Mittelbau e poi nelle pratiche brutali dello Jägerstab (l'ufficio responsabile per l'aviazione da caccia), la violenza politica dello stato di polizia gestito dalle SS fu importata direttamente nell'economia di guerra. Decine di migliaia di caccia obsoleti furono prodotti dalle fabbriche tedesche nella prima metà del 1944 attraverso la mobilitazione di tutta la manodopera e di tutte le materie prime disponibili, con l'applicazione di poteri di repressione praticamente illimitati e con lo sfruttamento di tutte le possibili economie di scala. Nell'estate del 1944, Speer e lo Jägerstab si tennero costantemente in collegamento telefonico con Auschwitz, dove le guardie delle SS liquidavano gli ebrei ungheresi, l'ultima grande popolazione che finì nelle camere a gas. Fu nella malsana e mortale oscurità delle fabbriche sotterranee di Hans Kammler che il Terzo Reich fece il suo ultimo e inutile tentativo di uguagliare gli americani nella produzione di massa.

Hitler aveva profetizzato che se non avesse prevalso sui suoi nemici, la Germania sarebbe andata incontro a una catastrofe nazionale che non aveva eguali nella storia moderna. Dal 1942 in poi, insieme ai suoi collaboratori, primo tra tutti Albert Speer, Hitler guidò la Germania verso questo traguardo. Ancora oggi, i danni inferti dal suo regime e dalla sua inutile guerra sono quasi inconcepibili. A decenni di distanza dai fatti, la memoria dei danni provocati – alla popolazione dell'Europa, al tessuto fisico della vita quotidiana, alla stessa idea di civiltà europea – è ancora tale da suscitare sentimenti di disperazione, rabbia e risentimento, e non solo da parte delle vittime tedesche. Non è questa la sede per tentare una sintesi di questo orrore. Ma poiché gli storici dell'economia hanno la possibilità di far sparire i disastri, come quello che la Germania attirò su di sé nel 1945, dalla traiettoria di lungo termine della crescita economica, vale la pena di indugiare un po' su questa scena.

La distruzione e la miseria che regnavano in Germania nel 1945 sono difficilmente descrivibili. Quando crollò il Terzo Reich, a parte gli eccidi che la Germania aveva commesso in tutta Europa, più di un terzo dei bambini nati nelle famiglie tedesche tra il 1915 e il 1924 erano morti o dispersi. Tra coloro che erano nati tra il 1920 e il 1925, le perdite ammontavano al 40 per cento. Il resto della popolazione tedesca fu assoggettato a uno sradicamento e a una migrazione interna di dimensioni veramente epiche. Mentre gli 11 milioni di soldati della Wehrmacht che erano sopravvissuti alla guerra furono internati in campi di prigionia gestiti dalle forze occupanti, 9 o 10 milioni di non tedeschi sperimentarono una libertà mai vista mentre attendevano di essere rimpatriati nei loro paesi d'origine dell'Europa orientale e occidentale. Nello stesso tempo, 9 milioni di evacuati tedeschi tornavano alle loro devastate città. Intanto, nei territori orientali si formava una gigantesca valanga umana, poiché 14,16 milioni di tedeschi venivano sistematicamente allontanati dalle loro case nell'Europa orientale e centrale dall'inferocita popolazione slava. Nel corso di questo spettacolare esodo morirono 1,7 milioni di persone. Il paese in cui «fecero ritorno» presentava uno scenario di devastazione e di miseria che non si può descrivere. Grandi zone della Germania erano state ridotte a «un deserto coperto di macerie in cui i vivi invidiavano spesso i morti». Almeno 3,8 milioni di appartamenti su 19 erano stati distrutti. Nelle città più colpite dai bombardamenti, le case inagibili arrivavano al 50 per cento. Compressi in appartamenti sovraffollati e semidistrutti, i tedeschi, che fino all'autunno del 1944 erano stati ragionevolmente ben nutriti, soffrivano ora la fame e il freddo.

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