Copertina
Autore Maria Chiara Tosi
CoautoreP. Avarello, A. Barbanente, A. Belli, A. Clementi, P.L. Crosta, G. Ernesti, P. Gabellini, K. Kupka, D. Mangin, L. Mazza, P.C. Palermo, J. Parcerisa, B. Secchi, G. Zucconi
Titolo Di cosa parliamo quando parliamo di urbanistica?
EdizioneMeltemi, Roma, 2005, Babele 39 , pag. 264, ill., cop.fle., dim. 120x190x12 mm , Isbn 978-88-8353-453-9
CuratoreMaria Chiara Tosi
LettoreLuca Vita, 2006
Classe urbanistica
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Indice

  7 Premessa

 11 Alcuni perché oggi è utile (e forse necessario)
    tornare a chiedersi di cosa parliamo quando
    parliamo di urbanistica
    Maria Chiara Tosi

 41 Di cosa parliamo quando parliamo di urbanistica?
    Paolo Avarello

 51 L'urbanistica come campo di pratiche aperto e
    mutevole
    Angela Barbanente

 63 "Di che cosa parliamo quando parliamo di
    urbanistica? Di comunità che vivono il territorio"
    Attilio Belli

 77 Verso nuovi profili dell'urbanistica italiana
    Alberto Clementi

 91 Di cosa parliamo quando parliamo di urbanistica
    Pier Luigi Crosta

 99 Di cosa si potrebbe parlare quando si parla di
    urbanistica
    Giulio Ernesti

135 Di cosa parliamo quando parliamo di urbanistica?
    Tre modi per rispondere: con una definizione,
    con un libro, con un caso
    Patrizia Gabellini

143 Di cosa parliamo quando parliamo di urbanistica
    in Olanda?
    Karl Kupka

161 Urbanistica del reale, dell'illusione, del possibile
    David Mangin

167 Di cosa parliamo quando parliamo di urbanistica
    "Appunti per le lezioni"
    Luigi Mazza

187 Un campo di pratiche, una varietà di profili:
    tendenze evolutive dell'urbanistica italiana
    Pier Carlo Palermo

209 Progetto urbano e urbanistica delle città
    Josep Parcerisa

235 Di cosa parliamo quando parliamo di urbanistica
    Bernardo Secchi

247 Proper o unproper planning: due prospettive a
    confronto
    Guido Zucconi

259 Gli autori

 

 

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Pagina 11

Alcuni perché oggi è utile
(e forse necessario)
tornare a chiedersi di cosa parliamo
quando parliamo di urbanistica
Maria Chiara Tosi



Di cosa parliamo quando parliamo di urbanistica fa il verso al titolo di una collezione di racconti di Raymond Carver (1981).

Al libro di Carver sono arrivata dopo avere pensato di organizzare un ciclo di conferenze sull'urbanistica, invitando studiosi e professionisti che di questo campo di saperi e pratiche coltivano idee differenti. Incuriosita dal titolo, mi sono addentrata nella lettura e ho scoperto che nel racconto che dà il titolo all'intera raccolta Carver compie un'operazione interessante; fa parlare i suoi personaggi, talvolta in modi assolutamente estremi, dell'amore, di cosa essi ritengano sia l'amore; spesso, però, queste descrizioni non riguardano direttamente ed esplicitamente l'amore, ma ciò che non lo è. Non sono solamente affermazioni quelle proposte, ma anche negazioni, ed è da questa successione e confronto di descrizioni e contro-descrizioni che si delinea una possibile definizione dell'amore.

Non penso che l'insieme delle conferenze, del seminario e dei testi che ne sono seguiti riescano nello stesso intento, tuttavia ciò che mi piacerebbe è che dopo avere letto le riflessioni sull'urbanistica proposte in questo libro, un ipotetico lettore si sia quantomeno persuaso della necessità oggi di tornare a porsi il medesimo interrogativo, dell'opportunità di ri-definire questo campo di saperi e pratiche posto di continuo in discussione. Mi ostino a pensare che nel raccontare il processo di costruzione di un'idea sia fruttuoso dire la verità, chiarire come, quando e perché abbiamo pensato di fare qualche cosa.

[...]

Quindi perché occuparsi di questo tema e perché farlo oggi?

Perché ogni definizione è sempre un costrutto strategico. Nonostante urbanistica, urbanisme, urbanismo, urbanism siano parole d'uso comune, assimilate nel linguaggio quotidiano, periodicamente viene evidenziata l'urgenza di tornare a chiarirne e ridefinirne il significato.

Alcuni urbanisti, non tutti, nei loro interventi hanno ritenuto importante fornire una definizione di urbanistica.

"Sapere pratico" applicato al "progetto di trasformazione" di uno specifico "territorio urbanizzato": Patrizia Gabellini con questa definizione mette in evidenza la dimensione applicata, finalizzata all'agire dell'urbanistica, un'attività debitrice di un'esperienza che si avvale del riuso di procedimenti e strumenti già collaudati e che riesce ad apprendere dal nuovo. Un'attività caratterizzata da una dimensione proiettiva, da un rapporto critico con il passato e con il presente, e da una tensione verso il cambiamento di un territorio urbanizzato considerato nella sua dimensione fisica e dei soggetti in esso insediati. Ciò allude a una dimensione non solitaria e non elitaria, bensì concertata e consensuale dell'urbanistica che in questo modo riesce ad agganciare la dimensione contestuale dei problemi e del progetto.

Pier Carlo Palermo non fornisce una definizione di urbanistica, ma suggerisce l'ipotesi che essa sia caratterizzata da un nocciolo indiscutibile e da una estensione possibile e opportuna, con un punto fermo: "che gli urbanisti evitino ogni deriva eroico-tragica, ogni utopia consolatoria e in fondo autoreferenziale".

Anche Luigi Mazza non fornisce una definizione, ma preferisce illustrare il proprio sguardo sull'urbanistica attraverso la precisazione di alcuni termini: dividere, differenziare, distribuire come attività istituzionali che si realizzano attraverso il disegno di confini.

Per Bernardo Secchi, invece, parlare di urbanistica oggi significa occuparsi di alcune cose: elaborare progetti puntuali da inserire entro una visione di lungo periodo che sia possibile controllare continuamente con scenari.

Altri urbanisti, in passato, cercando di condensare e sedimentare anche solo in parte il proprio sapere e pratica, hanno provato a depositare in alcune voci enciclopediche la propria idea di urbanistica.

Ad esempio, Giovanni Astengo (I 966) ha definito l'urbanistica come "la scienza che studia i fenomeni urbani in tutti i loro aspetti avendo come proprio fine la pianificazione del loro sviluppo storico, sia attraverso l'interpretazione, il riordinamento, il risanamento, l'adattamento funzionale di aggregati urbani già esistenti e la disciplina della loro crescita, sia attraverso l'eventuale progettazione di nuovi aggregati, sia infine attraverso la riforma e l'organizzazione ex novo dei sistemi di raccordo degli aggregati tra loro e con l'ambiente naturale".

Negli stessi anni Ludovico Quaroni (1969) affermava che l'urbanistica è: "Disciplina che studia il fenomeno urbano nella sua complessa interezza, onde fornire su di esso dati conoscitivi interessanti, i singoli suoi aspetti e le reciproche loro interrelazioni, perché possano eventualmente venire utilizzati per meglio orientare le molte azioni di carattere politico, legislativo, amministrativo e tecnico che continuamente vengono a modificare la realtà di un territorio".

Nel loro insieme queste definizioni, pur stabilendo differenze importanti, mi sembra condividano due temi non facilmente separabili tra loro: l'urbanistica come insieme complesso e articolato di azioni e di soggetti che le compiono; il fenomeno urbano come campo con cui l'urbanistica lavora, suo principale oggetto di interesse. L'urbanistica, cioè, ci viene presentata come un sapere e una pratica articolati, non un sapere chiaramente delimitato, ma una forma di conoscenza e azione che organizza e mette in relazione differenti informazioni, frammenti di saperi diversi e dispersi, azioni e soggetti plurali perché plurale e articolato è l'oggetto di cui si occupa.

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Pagina 135

Di cosa parliamo
quando parliamo di urbanistica?
Tre modi per rispondere:
con una definizione,
con un libro, con un caso
Patrizia Gabellini



Cercherò di rispondere direttamente alla domanda, con una presa di posizione e un abbozzo di definizione di quel che intendo per urbanistica. Poi vorrei cercare di rispondere indirettamente, in maniera ostensiva ("dimmi cosa fai e ti dirò chi sei", recita il noto motivo). Per questo:

a) richiamerò i contenuti di un libro che ho scritto qualche anno fa, dal titolo .cor Tecniche urbanistiche, perché esito del tentativo di proporre agli studenti un quadro dei "modi di fare" ricorrenti e ineludibili quando ci si occupi di urbanistica,

b) indicherò alcuni caratteri dell'esperienza di progettazione di un piano urbanistico, nella quale sono attualmente impegnata.

Con queste tre differenti mosse penso di potermi meglio disimpegnare e, soprattutto, di articolare il discorso.


1. Una definizione

La domanda formulata, "Di cosa parliamo quando parliamo di urbanistica?", sottende l'idea di una disciplina dai confini "permeabili—porosi", con interpretazioni differenti, oggi come ieri (in questi termini si esprime Chiara Tosi).

Sono molto d'accordo con questa idea, perciò ascolto con un po' di noia il riproporsi, ancora una volta e in diversi ambienti (non sempre esterni), della questione: "non si sa più che cosa sia l'urbanistica, meglio cambiare anche il nome e/o parlare d'altro". La prima reazione è quella di rispondere che incertezze analoghe investono oggi gran parte del sapere, dunque la questione in termini così aggregati risulta intrattabile. L'obiezione sul nome è invece trascurabile perché la ridenominazione è un prodotto sociale che si afferma con l'uso. Tuttavia, per l'urbanistica l'incertezza è ricorrente. Quando intervengono cambiamenti importanti nei processi insediativi e diventano necessarie ristrutturazioni del sapere e delle pratiche, entra nel mirino la sua stessa legittimazione e si perdono interessanti occasioni per osservare come il nuovo si innesti e interferisca con quanto già acquisito, per sperimentare mettendo in tensione quanto noto e collaudato, per interpretare i cambiamenti in una prospettiva cumulativa e non dissipativa. È dissipativo considerare le differenze espressione di una babele inconcludente; è cumulativo considerarle un normale modo di essere di un campo disciplinare che si struttura a ridosso delle pratiche e dei contesti.

Con questa rapida premessa ho inteso posizionarmi e ho parzialmente anticipato un modo di intendere l'urbanistica maturato progressivamente, anche osservando da vicino il lavoro, molto diverso, di alcuni urbanisti importanti: "sapere pratico" applicato al "progetto di trasformazione" di uno specifico "territorio urbanizzato".

Cercherò, in maniera altrettanto sincopata, di spiegare che significato attribuisco a: Sapere pratico, Progetto di trasformazione, Territorio urbanizzato.


Sapere pratico

Aggettivare il sapere come pratico ne sottolinea la dimensione finalizzata all'agire, debitrice di un'esperienza che si avvale del riuso di procedimenti e strumenti già collaudati e che riesce ad apprendere dal nuovo. La pratica ha la sua dignità e i suoi eroi, può anche portare alla saggezza, ma più facilmente può difettare di sapienza per un affollamento eccessivo di incognite. È questo un fattore di debolezza congenita sottolineato da molti critici dell'urbanistica.


Progetto di trasformazione

Parlare di urbanistica come progetto di trasformazione rinvia al punto precedente, al suo carattere operativo, ma aggiunge una dimensione proiettiva, un rapporto critico con il passato e con il presente, una tensione verso il cambiamento.


Territorio urbanizzato

Riferirsi al territorio urbanizzato e non al territorio tout court (che può essere astratto) introduce una dimensione fisica, porta l'attenzione sui soggetti della trasformazione (la società insediata), quindi allude anche alla dimensione non solitaria e non elitaria, bensì concertata e consensuale dell'urbanistica, aggancia la dimensione contestuale dei roblemi e del progetto.


Mi sembra che i diversi aspetti sottolineati mettano in luce una tale densità di implicazioni da giustificare le difficoltà, il disorientamento, la relativa "confusione" di questo campo disciplinare, la "naturale" compresenza di diverse posizioni. Anche questa mia individuazione del campo è tendenziosa.


2. Un tentativo di sistemazione: Tecniche urbanistiche

Con riferimento alla constatazione-convinzione che l'urbanistica si avvalga, in maniera discontinua e variamente combinata (a seconda del contesto), di strumenti e procedimenti collaudati e che dal continuo proporsi di nuovi problemi e situazioni inedite tragga motivo di adeguamento-innovazione degli stessi, ho tentato di ricostruire l'insieme di questi caratteristici "modi di fare", del savoir faire che interviene nella progettazione del piano urbanistico (tipicamente quello comunale: il più diffuso, antico e stratificato: la matrice). Mi è dunque sembrato di riconoscere un substrato che, alla luce della domanda posta, potrebbe configurarsi come risposta:

quando parlo di urbanistica intendo attivazione di Tecniche di composizione, Tecniche di progettazione dei materiali urbani, Tecniche di confezionamento del documento di piano in un tipico lavoro che presuppone una peculiare "tecnica di connessione".


Tecniche di composizione

Attraverso la composizione (messa insieme delle parti costitutive del progetto, in condizioni di crescita e/o di trasformazione) e i suoi strumenti (dimensionamento quindi prestazioni, indici e standard; partizione in zone per fini normativi) avviene la configurazione fisica del territorio alle diverse scale. Le tecniche di composizione costituiscono il cuore antico e più stabile dell'urbanistica, lascito dell'esplosione di quei particolari condensati che in origine si sono proposti come modelli (città lineare, città giardino, città compatta, città estesa, città verticale, città funzionale...). Riferimenti formali, ordini di grandezza, ripartizione del territorio in ambiti per altrettante regole sono gli elementi costitutivi e distintivi della composizione urbanistica.


Tecniche di progettazione dei materiali urbani

Nell'individuazione delle prestazioni dei singoli materiali urbani, delle caratteristiche storicamente irrinunciabili di qualità, si esprime l'interpretazione della domanda di una società insediata e si stabilisce il raccordo con il processo costruttivo. Il progetto urbanistico apre questo processo quasi sempre quando ancora sono sfocati destinatari e soggetti attuatori e lo fa attraverso la definizione delle condizioni al contorno e limitando le possibilità con layout che giocano sul delicato confine della prefigurazione.


Tecniche di confezionamento del documento di piano

Nella confezione del documento di piano, che traduce il progetto urbanistico in atto con valore sociale, politico e giuridico, si stabilisce il rapporto con le leggi e si affronta il tema della comunicazione, confrontandosi con la natura consensuale dell'urbanistica. La costruzione dei disegni e delle norme richiede conoscenze e applicazione specifica, modi di fare caratteristici, precisi profili tecnici.

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Pagina 235

Di cosa parliamo
quando parliamo di urbanistica
Bernardo Secchi



Quando parlo di urbanistica mi riferisco inevitabilmente a ciò che faccio da circa quarant'anni. Sono ovviamente convinto che se ne possa parlare anche in modi diversi; soprattutto da quando, nei decenni recenti, idee tra loro diverse si confrontano come ipotesi che cercano reciprocamente di falsificarsi o di portare prove che valgano come verifiche forti. Un titolo come quello dato a questo ciclo di interventi da Chiara Tosi sarebbe stato impensabile qualche decennio orsono.

Alcuni anni fa, in un libretto dal titolo, spesso frainteso, Prima lezione di urbanistica, ho cercato di dire cosa penso che l'urbanistica sia oggi alla luce di alcune riflessioni sulla sua storia lunga. Questo libretto, non semplice, è stato visto da alcuni miei colleghi come un libro di divulgazione, ma non lo è. Qualche anno dopo ho scritto un altro libro, altrettanto piccolo e altrettanto denso, dal titolo apparentemente banale La città del ventesimo secolo; ancora una volta non si tratta di un piccolo riassunto di testi nei quali la storia della città nel ventesimo secolo è trattata in extenso. I due testi dovrebbero riuscire a spiegare perché l'urbanistica, nella sua lunga storia, abbia più volte cambiato i propri impegni nei confronti della società e, di conseguenza, anche i propri enunciati fondativi, le proprie tecniche di osservazione e la natura dei propri progetti.

1. A me sembra infatti che negli ultimi decenni, in ogni modo dopo gli anni Ottanta, l'urbanistica sia cambiata e ovunque, non solo in Italia, sia cambiata radicalmente; che sia cambiata sia in quanto pratica professionale, sia come riflessione teorica. Naturalmente non c'è da stupirsi: tutte le discipline, tutte le aree di studio e di riflessione periodicamente cambiano, incontrando spesso forti resistenze da parte di chi, per diverse ragioni, rimane legato ai modi precedenti. Vorrei partire di qui.

Ogni cambiamento costringe infatti a cambiare i propri quadri concettuali, a cambiare la routine delle proprie pratiche, dei propri modi di fare e questo spiega forse perché spesso cerchiamo di non vederlo, di rimuoverlo, di opporvicisi anche: non c'è alcunché di drammatico in tutto questo. I cambiamenti per di più avvengono di solito molto lentamente; è raro che vi sia un giorno nel quale tutto cambia all'improvviso e quando si vive il cambiamento giorno per giorno, spesso non se ne colgono i caratteri e l'importanza. Dopo tre decenni, però, di convergenza di tutta la pratica progettuale della città e del territorio verso un'ipotesi sostanzialmente analoga in tutto il continente europeo a me sembra valga la pena di riflettere pianamente, con l'occhio al tempo lungo e fuori da ogni polemica, sul suo senso e sulla sua direzione del cambiamento. Prenderò la questione da una certa distanza.


2. A partire dalla metà del XVIII secolo, la città europea diviene, come noto, meta di imponenti flussi migratori: quantità enormi e crescenti di popolazione si trasferiscono dalla campagna alla città, dall'agricoltura all'industria, dal Sud al Nord del continente e di ciascun paese, dal mondo e dalla cultura rurale al mondo e alla cultura urbana. Nelle parole di Werner Sombart (1912) è stato questo uno dei fenomeni che più fortemente hanno inciso sulla nostra "cultura". Sollevo questo punto per dire che per un lunghissimo periodo, circa due secoli, fino cioè alla metà del secolo XX, il tema principale del progetto della città è stato l'organizzazione della sua espansione. Non a caso i piani urbanistici si chiamavano piani di espansione o piani di ampliamento. Le parti che si venivano ad aggiungere alla città esistente erano di gran lunga più grandi ed estese della città che fino ad allora era giunta a noi attraversando l'antichità, il Medioevo, e la prima parte della modernità, cioè il Rinascimento. Se si osservano le carte di Milano, Torino, Parigi, Londra, Berlino, ma anche di Mestre si può osservare che la parte di città che si è aggiunta è enormemente più estesa di quella esistente alla fine del XVIII secolo. Il vero periodo nel quale si sono costruite "città nuove" è stato, in Europa, quello racchiuso tra l'inizio e la fine, poco oltre la metà del XX secolo, dei grandi flussi migratori verso le maggiori città.

Sino alla metà del XX secolo il tema è stato dunque quello di riconfigurare la città, non solo in senso formale, nel senso di darle una nuova forma, ma nel senso anche di riconfigurarne l'economia, la società e le principali istituzioni, dando alle domande che emergevano da nuovi soggetti sociali una risposta adeguata alle tecniche disponibili. Detto in altri termini, il tema era quello di sospingere le tecniche di costruzione fisica, economica, sociale e istituzionale della città in modo da poter essere in grado di dare una risposta alle domande di nuovi soggetti sociali.

In tutti i paesi europei il modo è stato quello di affidarsi a una serie di prescrizioni che dicessero come espansione e riconfigurazione dovessero avvenire e questo modo si è chiamato piano regolatore in Italia, con altri nomi nei vari paesi europei. Ciò che è però importante è che tra i disegni o gli scritti che illustrano questi piani è possibile facilmente riconoscere un'aria di famiglia, somiglianze come intercorrono tra persone appartenenti a una stessa famiglia.

Naturalmente durante questo lungo periodo possiamo trovare numerosi e importanti slittamenti: dapprima, nella prima parte del XIX secolo, l'attenzione è concentrata sulla città come grande infrastruttura che consente la riproduzione di un processo sociale che ha la fabbrica al proprio centro: la città è il luogo dell'industria, il luogo ove deve essere organizzato il rapporto tra fabbrica e classe operaia, tra industria, residenza e consumo, tra i diversi gruppi sociali e le diverse attività. Le politiche adottate in maniera sostanzialmente analoga in tutti i paesi europei consistono nel mettere ogni cosa al proprio posto: nominare, classificare, separare e allontanare o avvicinare. Le industrie da una parte, le residenze da un'altra, eventualmente separate tra loro da fasce verdi più o meno consistenti. Le principali attrezzature urbane, i teatri, gli ospedali, le carceri, le scuole, i mercati ecc. ubicate avendo riguardo alla popolazione e alla produzione.

Tutto ciò è stato fatto utilizzando strumenti innovativi rispetto al passato, rispetto cioè ai secoli precedenti. Regolamenti e disegni nei quali il progetto dell'architettura della città era tutt'altro che assente anche se espresso in forma implicita; detto non disegnando l'architettura della città, ma fornendo una serie di indicazioni di diversa natura, dalle più cogenti a quelle che non potevano essere interpretate altro che come suggerimenti. Un lungo lavoro sulle dimensioni tecniche e igieniche dello spazio urbano, ma anche sui suoi caratteri estetici. Disegnando, ad esempio, dapprima una maglia stradale con determinate geometrie e gerarchie, definendo le dimensioni degli isolati, disegnando, nelle diverse parti della città, spazi edificati e spazi verdi in diversa proporzione, stabilendo le giuste distanze tra gli edifici, indicando diverse densità per le parti edificate e suggerendo per le stesse differenti tipi edilizi, dicendo chi ha diritto di edificare e chi no.


3. Quella della quale sto parlando è la città del XVIII e del XIX secolo: ciò che fanno Haussmann a Parigi nella seconda metà del XIX, Beruto a Milano (quasi contemporaneamente) e Berlage ad Amsterdam. Vi è in questi progetti, non a caso oggi tanto amati, una sottile riflessione sui vari materiali che costituiscono, ad esempio, la rete viaria; un uso di materiali differenti per indicare i luoghi più importanti e quelli meno rilevanti, luoghi dove si dà spazio alla ripetizione di edifici tra loro analoghi oppure luoghi dove si dà spazio all'eccezione, alla singolarità. Tutto ciò non viene proclamato, ma detto in modo implicito: vi offro questa maglia stradale, lavorateci.

Allo stesso tempo però sto indicando un passaggio importante: prescrizioni che si configurano come regolamenti edilizi e norme urbanistiche, sono tipiche del periodo del pieno liberalismo e cercano di contenere gli effetti negativi del mercato e, più in particolare, del mercato dei beni urbani, tra i quali principalmente la terra, sulla distribuzione della ricchezza, delle condizioni di vita e dei livelli di benessere individuale e collettivo. Questo tipo di piani riconosce che la città non solo è un grande capitale sociale, una grande infrastruttura, non solo è luogo ove diviene necessario introdurre regole che garantiscano le prestazioni delle varie parti della città e dei diversi materiali che le compongono, ma è anche il luogo deputato ove diviene necessario e possibile costruire un benessere generalizzato. È questo l'ultimo periodo di questo tipo di piani: il periodo del welfare state, di un insieme cioè di politiche che, a partire dall'inizio del XX secolo, ricevono il loro massimo impulso nell'immediato secondo dopoguerra, quando si riconosce che vi sono diritti, che molti chiamano diritti di cittadinanza, quali l'accesso aperto a una serie di beni e servizi che sono tipicamente beni pubblici, che non possono cioè essere offerti in misura adeguata dal mercato, che debbono essere garantiti a tutti i cittadini. Una riflessione che inizia in Inghilterra, in piena epoca liberale, a opera di Pigou, e che fa della città e del progetto della città il luogo deputato della costruzione del welfare. Il progetto della città diventa allora ricerca paziente delle dimensioni concrete, fisiche, del benessere individuale e collettivo, una ricerca attenta all'ubicazione, alla quantità di servizi, alla loro distribuzione spaziale e ai loro caratteri: scuole, asili, ospedali, attrezzature sportive e annonarie, chiese e locali dello spettacolo, parchi e giardini.


4. A partire però dalla fine degli anni Sessanta del XX secolo il tema cambia. Con anticipi e ritardi nei vari paesi europei, i flussi migratori verso le città si arrestano, quelli da altri continenti, dal punto di vista degli ordini di grandezza coinvolti, non hanno nulla a che fare con quelli dei periodi precedenti. La crescita della città si arresta, in tutta Europa, ma non in tutto il mondo, e ciò coincide nel vecchio continente e senza che si stabiliscano nessi causali troppo stretti entro un insieme di fenomeni "sovradeterminati", che possono cioè essere la conseguenza di una molteplicità di cause tra loro intersecate e in numero superiore a quanto necessario, con un periodo di fortissima ristrutturazione di ogni processo produttivo e in particolare dell'industria: la grande industria perde di peso, decresce e si scompone, cresce la piccola industria diffusa nella campagna e, contemporaneamente, larghe parti del welfare state vengono smantellate.

Il modo migliore per dire cosa intendo per fenomeni sovradeterminati è forse quello che rimanda a un grandissimo libro, L'uomo senza qualità. Musil aveva studiato fisica, era stato allievo di Mach; il suo problema era cercare di indagare le cause della prima guerra mondiale. Nel suo romanzo cerca di mostrare che moltissime ragioni potevano portare alla prima guerra mondiale, molte di più di quante fossero necessarie per scatenare un conflitto.

Quanto è successo tra la fine degli anni Sessanta e inizio anni Ottanta in Europa, in un decennio di forte conflitto sociale, di evidente ristrutturazione dell'economia, delle istituzioni e della società, appare a me come un fenomeno del quale si possono dire alcune cause, ma del quale diviene difficile fornire una spiegazione complessiva, totale e univoca, che non sia riduttiva. Ciò non di meno possiamo dire con certezza che, dopo di allora, il tema non è più quello dell'espansione della città: ciò che oggi aggiungiamo alla città, contrariamente a quanto avveniva precedentemente, è di un ordine di grandezza che è un infinitesimo di ordine superiore rispetto alla città esistente. Il periodo precedente ci ha invece lasciato in eredità una quantità enorme di aree e di infrastrutture dismesse e un'enorme estensione di campagna urbanizzata.


5. La città diffusa corrisponde forse alla ricerca da parte di una percentuale consistente della popolazione europea di quello che Antony Giddens chiama welfare positivo: se le istituzioni non mi danno alcuni servizi me li procuro in modo diverso. Per esempio mi compro una casa con un giardino che mi garantisca qualche sicurezza nei confronti dell'esposizione al mercato, vado ad abitare in un piccolo centro dove conosco il direttore della banca, ho rapporti amicali con la maestra, con il negoziante, ecc. In questa nuova situazione il tema diviene piuttosto quello di una ristrutturazione della città, di una riconfigurazione della città e del territorio che dia una risposta alle domande che emergono dalla società nella nuova condizione, con le tecniche a disposizione, ma senza far conto sull'espansione. E in quasi tutta Europa, questo è il cambiamento cui all'inizio ho fatto riferimento, questa politica si è configurata come politica di Renovatio Urbis.

Renovatio Urbis è un termine cinquecentesco rimesso in auge da Manfredo Tafuri negli anni Ottanta, ma ci si riferiscono anche altri studiosi: Poleggi studiando Genova, Tenenti Roma, Giedion la Roma di Sisto V e di Giulio II, Napoli, Messina. Tra le città europee, la prima ad adottare una simile politica è stata forse Anversa.

Una politica di renovatio urbis si affida a pochi interventi puntuali e limitati che si propongono di modificare, dandole un nuovo senso e ruolo, una parte di città o anche un luogo, con ciò cercando di modificare il modo di funzionare dell'intera compagine urbana. Non più disegni complessivi della città, ma una serie di interventi strategicamente disposti al suo interno: limitati non solo nello spazio, ma anche tematicamente: una chiesa, un museo, un aeroporto; limitati perché muovono un numero ristretto e identificabile ex ante di operatori e perchè mobilitano risorse limitate (il che non vuol dire esigue).

Questa politica ha una lunga tradizione: la storia lunga della città, dall'antichità a oggi, consente di cogliere periodi nei quali il tema diventa quello dell'espansione e periodi durante i quali il tema è quello della renovatio urbis ogni volta declinata in modo diverso.

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